Rotta Editoriale
ROTTA EDITORIALE dell'Equipaggio de “Le Traiettorie Blu dell'ArcoAcrobata”. Anno 2014
LE MEMORIE GIROVAGHE. Anno 2015
FINO AL CHIARORE… di Valeria Amato. Anno 2018
NEL LATENTE...
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...prossimamente
WORK IN PROGRESS della Red-azione de La Bottega dell'ArcoAcrobata. Anno 2010
IL LATENTE DEL MANIFESTO di Concetta Turchi. Anno 2010
LA BOTTEGA DEL CONOSCIBILE di Filippo Paoli. Anno 2010
Roma, marzo 2010
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Presentazione dell'ArcoAcrobata. IL MANIFESTO DEL LATENTE di Concetta Turchi. Anno 2002
LA MER, a cura di Marco Mortillaro. Anno 2002
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LE MEMORIE GIROVAGHE. Anno 2015
FINO AL CHIARORE… di Valeria Amato. Anno 2018
NEL LATENTE...
MEMORIE GIROVAGHE
Film dell'Equipaggio
1 Agosto 2015
Film dell'Equipaggio
1 Agosto 2015
FINO AL CHIARORE…
Valeria Amato
Fino al chiarore di Valeria Amato
Avere udito delle avventure del più famoso dei cavalieri erranti, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, mi ha permesso di fare un percorso a ritroso, a monte del sommo vate, lungo la scia di quella civiltà che sapeva ascoltare i poeti. Ho scoperto così che era tutto vivo: la grazia delle donne cretesi tra le cui dita scorrevano tratti di sanguigna; gli armonici delle loro voci a battere sulla lingua della prima parola, la parola del corpo. Viveva nel ritmo delle lance dei guerrieri non più utilizzate come armi di difesa od offesa, ma per affermare l’esattezza del loro nome… e della loro fierezza… “…degli aedi e degli eroi…”. Nel portare alla luce tali storie vissute, posso mettere in soffitta ciò che ormai è divenuto polveroso ed ingombrante e lanciarmi nel racconto di ciò che è, sapendo che esso deriva da ciò che di straordinario è stato.
Oh, se solo si riuscisse ad andare oltre l’immagine! Forse potrebbe intravedersi la traiettoria della nostra storia editoriale, “una nuova direzione né voluta né cercata, che proprio per questo parla di verità e bellezza: di bellezza nella verità e di verità nella bellezza ”. Solo così la poesia non sarebbe più soltanto idea, ma potrebbe essere sempre e ovunque, canto, verso, accesso immediato ai confini, perché “ogni uomo d’azione è un poeta, se la poesia dà un senso alla sua azione”.
I ricordi, un tempo soltanto sterili andirivieni di date e “azioni scellerate”, esigono ora di essere rivisitati fino al chiarore di un giorno che si fa memoria.
Tutto iniziò nel buiore di una notte. Clandestino, leggevo tra le pieghe di una punteggiatura assai complessa: “Svegliarsi al chiaro di luna per sorprendersi di come sia facile trovare i suoni e le linee tra le pieghe del legno”. Quando l’antica e nota solitudine dei miei innumerevoli “Io” fu avvolta dalla polifonia di quella storia che raccontava di rapporti vissuti, comparve con un filo di voce il pensiero: “Dura da sostenere questa Storia!”. Quella notte entrarono come lampi due parole nuove: ‘resistenza’ e ‘tenuta’. Il volto quasi si increspò come sale sulle rughe di un pescatore e riconobbi in lui le mie stesse rugosità: forse per questo che le mie osservazioni erano spesso così terribilmente vicine a quelle di codesta Storia! Tuttavia, a quel tempo pensavo che nulla facesse inaridire il rapporto quanto l’approvazione incondizionata.
All’inizio di quella esperienza editoriale, come ladro gentiluomo, rubavo tra sguardi, sorrisi e musica: a volte in qualità di invitato che ascolta, altre di partecipante educato. Molto più avanti nel tempo divenni un uomo messo di fronte ad una scelta: obbedire all’onnipotente bisogno di controllare tutto quello che di umano andava emergendo, per poterlo negare e viversi la depressione che si ferma sempre a riflettere su ciò che manca; l’alternativa era di restare in ascolto di un ritmo interno, femminile per definizione, che per la sua natura biologica propone sempre uno scenario umano. “Trovare nelle parole il senso di un suono nuovo”. Mi sono così cari tali vissuti, perché lasciano ogni volta la libertà di salvaguardare l’emozione da qualsivoglia buona maniera parassita.
Ed ecco giungere le note irriverenti di un corno francese. Per alcuni suscitò “Impressioni”; per me quei suoni erano preludi, forme deliziose e generose che cercano nella musica, tanto quanto nella poesia, un passo in grado di scuotere la colonna vertebrale come il pensiero. Quella freccia virile emerge da un tempo che fu assetato di coltura. Dalla pena di rocce dure e amare procede adesso verso la cultura dei tronchi nodosi e delle chiome aperte alla storia. Al pensiero taciuto di un uomo, “Mi sottraggo o rischio?”, giunge puntuale la pretesa di Donna…
Oh, se solo si riuscisse ad andare oltre l’immagine! Forse potrebbe intravedersi la traiettoria della nostra storia editoriale, “una nuova direzione né voluta né cercata, che proprio per questo parla di verità e bellezza: di bellezza nella verità e di verità nella bellezza ”. Solo così la poesia non sarebbe più soltanto idea, ma potrebbe essere sempre e ovunque, canto, verso, accesso immediato ai confini, perché “ogni uomo d’azione è un poeta, se la poesia dà un senso alla sua azione”.
I ricordi, un tempo soltanto sterili andirivieni di date e “azioni scellerate”, esigono ora di essere rivisitati fino al chiarore di un giorno che si fa memoria.
Tutto iniziò nel buiore di una notte. Clandestino, leggevo tra le pieghe di una punteggiatura assai complessa: “Svegliarsi al chiaro di luna per sorprendersi di come sia facile trovare i suoni e le linee tra le pieghe del legno”. Quando l’antica e nota solitudine dei miei innumerevoli “Io” fu avvolta dalla polifonia di quella storia che raccontava di rapporti vissuti, comparve con un filo di voce il pensiero: “Dura da sostenere questa Storia!”. Quella notte entrarono come lampi due parole nuove: ‘resistenza’ e ‘tenuta’. Il volto quasi si increspò come sale sulle rughe di un pescatore e riconobbi in lui le mie stesse rugosità: forse per questo che le mie osservazioni erano spesso così terribilmente vicine a quelle di codesta Storia! Tuttavia, a quel tempo pensavo che nulla facesse inaridire il rapporto quanto l’approvazione incondizionata.
All’inizio di quella esperienza editoriale, come ladro gentiluomo, rubavo tra sguardi, sorrisi e musica: a volte in qualità di invitato che ascolta, altre di partecipante educato. Molto più avanti nel tempo divenni un uomo messo di fronte ad una scelta: obbedire all’onnipotente bisogno di controllare tutto quello che di umano andava emergendo, per poterlo negare e viversi la depressione che si ferma sempre a riflettere su ciò che manca; l’alternativa era di restare in ascolto di un ritmo interno, femminile per definizione, che per la sua natura biologica propone sempre uno scenario umano. “Trovare nelle parole il senso di un suono nuovo”. Mi sono così cari tali vissuti, perché lasciano ogni volta la libertà di salvaguardare l’emozione da qualsivoglia buona maniera parassita.
Ed ecco giungere le note irriverenti di un corno francese. Per alcuni suscitò “Impressioni”; per me quei suoni erano preludi, forme deliziose e generose che cercano nella musica, tanto quanto nella poesia, un passo in grado di scuotere la colonna vertebrale come il pensiero. Quella freccia virile emerge da un tempo che fu assetato di coltura. Dalla pena di rocce dure e amare procede adesso verso la cultura dei tronchi nodosi e delle chiome aperte alla storia. Al pensiero taciuto di un uomo, “Mi sottraggo o rischio?”, giunge puntuale la pretesa di Donna…
“Dimmi il mio nome!”.
Nella mia terra da generazioni i contadini con pazienza e stizza rastrellano quei sassi maledetti ordinandoli uno ad uno a formare una rete di cortili per gli alberi, per necessità, a volte per fantasia. E le strade maestre, anch’esse intrise di confidenza agreste, se una volta erano bianche di polvere e irregolari di brecciame, oggi dal Tavoliere corrono verso il mare come i fiordi che galleggiano sotto il sole: il loro fondo sa ancora di mare recente, una conca di fossili che ai miei tempi scolari a zonzo facilmente modellavano col temperino.
E il dialetto? Un tempo era una lingua, il griko, parlata in tutto lu Salentu per esprimere concetti semplici con parole semplici. Poi, col passaggio al dialetto salentino sono arrivati i facili connubi, quelli che scambiano l’intuizione per superstizione e questa per cultura e sapienza. Sapienza che soltanto ora che si ha a che fare con Donna, apre agli aromi di caffè fatto in casa suggerendo il ritorno nell’entroterra. Temibile sconosciuta, sei entrata dentro di me aspra e nodosa! Era un giorno di ottobre e l’aria aveva appena preso il giallo tostato delle spighe quando hai tirato su la carrucola da un antico pozzo: “Il futuro, se è dentro di te, lo puoi ascoltare nei petali di un fiore”, mi scrivesti. Nei cocci vidi le sfumature, i cerchi nell’acqua e i suoni che vengono da lontano a rammentare i colori dell’infanzia, di quelli che possono dipingere il passato diversamente da come l’abbiamo abitato la prima volta… e attraverso i simboli, le immagini e i riti, arrivare a tentare una prosa in grado di trasformare l’ordinario in emozione e incanto.
È così che ho scoperto il mare, un mare pigro nel giocare con gli arenili dello Jonio, casalingo nel mordicchiare le scogliere dell’otrantino, intimo e orlato verso il Capo di Leuca. Quello stesso giorno, in mezzo ad un coro di cicale, ho trovato l’essenza della terra rossa, feconda e deliziosa come la terra di Creta. Vedevo i frutti di queste mie scoperte ovunque accorgendomi che non tutti i mari sono uguali: alcuni si manifestano nel momento dell’approdo e altri a quello del congedo. Dimmi Donna, può forse ora il pensier mio delineare i confini che motivano scoperta e sapere? Perché è proprio qui che intendo metter radici, quì dentro di Te dove la storia di quel che è stato riprende forma, stupita che ogni frammento temporale può tornare dalle sue ceneri attraverso il canto delle gesta dell’Eroe. Confrontandomi con lui ho sentito che tipo d’uomo io fossi: a volte incosciente e pasticcione, altre violento di fronte all’impossibilità di vivere pienamente, più volte misero nell’avvicinarti… ma pur sempre un uomo. Certe volte, quando esageravo, mi sembrava che le parole si staccassero dalla carta e, come ragni, si appiccicassero al volto; da lì l’anima si scuriva a delineare l’ombra di mio padre, lui che a stento era capace di leggere e scrivere il suo nome. Odiava i libri, diceva che in loro c’era qualcosa di offensivo e così mi insegnò che in guerra devi uccidere per primo.
Prima di incontrarti, Donna, nel mio mondo le grandi speranze vivevano soltanto fra le pagine di un diario. Le notti appartenevano al gas delle cucine utilizzato per scaldarsi, alle penombre dei vicoli spezzate dagli spari, alle processioni e alle sfilate di santi e generali che puzzavano di morte e inganni. Giusto il tempo di accorgermene e l’infanzia si era già sbriciolata lasciandomi uno sguardo da vecchio dove “ammirevole” era la bramosia per le cose d’importanza trascurabile, così come l’ottusità con la quale mi lasciavo passare per le mani quelle veramente importanti. Dopo averti incontrata ho dovuto fare i conti con questo mondo di miserie. Anche io, come mio padre, odiavo le donne per la loro sapienza! E infatti ti ho odiata subito, a prima vista. L’odio diventò lancinante quando, tornato a casa, con gli occhi chiusi quel che arrivò fu una carezza. Tra lo sconcerto presi il diario di sempre e, non contraendo più alcun debito con l’usuraio di turno, mi sfiorò il pensiero che, forse, di tanto in tanto, potevo un poco arrendermi a te… e magari leggerti.
Così i giorni hanno iniziato a trascorrere fra letture, intoppi e scontri a lungo raggio. Abituato da anni a vivere da solo in quello stato di metodica anarchia tipica del maschio, la costante presenza di Donna nella mia casa ha cominciato a minare le mie abitudini: io giudicavo, lei no; io buttavo una pianta malata nel cassonetto e lei la andava a riprendere per curarla; io m’inchinavo a solitudine e abbandono, lei entrava e usciva liberamente dalla mia casa a ritmo di tamburo. A quei tempi, come oggi, è grazie a lei se ho scoperto cosa voglia dire avere una vivacità intellettuale che arde ogni secondo della propria vita. È grazie a lei se da caparbio contadino, sempre chino sulla terra con falce e martello, mi sono riscoperto semplice e onesto pescatore.
Oh Donna, da questa immagine di me ti rimiro e il sapore del tempo in cui mi ritrovo si fa dolce. Questo è il porto dal quale son partito ed è oggi il mio luogo più prezioso. La vita qui incoraggia discussioni d’arte che esortano sempre a partire per tracciare nuove rotte, ed è incanto tanto quanto fantasia.
Lo sai, sono nato e cresciuto in un tacco di terra e mare. Quando nella pianura si cerca la lontananza, questa si offre proponendo la linea marcata del mare, il suo bagliore azzurro, quello ocra delle cale sabbiose e delle insenature. Il promontorio da cui si scorge lo spartiacque tra l’Adriatico e lo Jonio è, nella memoria popolare, il lembo estremo della terra: Finibusterrae. Le distanze, nelle isole e nelle penisole, hanno profili tremolanti e possono qualche volta prender forma di sirene o confondersi con le nuvole… ma c’è un’altra direzione, nella pianura da cui vengo, che voglio ora seguire e dove intendo portarti: quella che ha un solo mare, col suo celeste diurno e con le lampare notturne che occhieggiano. E ti chiedo di parlarmi, Donna!
E il dialetto? Un tempo era una lingua, il griko, parlata in tutto lu Salentu per esprimere concetti semplici con parole semplici. Poi, col passaggio al dialetto salentino sono arrivati i facili connubi, quelli che scambiano l’intuizione per superstizione e questa per cultura e sapienza. Sapienza che soltanto ora che si ha a che fare con Donna, apre agli aromi di caffè fatto in casa suggerendo il ritorno nell’entroterra. Temibile sconosciuta, sei entrata dentro di me aspra e nodosa! Era un giorno di ottobre e l’aria aveva appena preso il giallo tostato delle spighe quando hai tirato su la carrucola da un antico pozzo: “Il futuro, se è dentro di te, lo puoi ascoltare nei petali di un fiore”, mi scrivesti. Nei cocci vidi le sfumature, i cerchi nell’acqua e i suoni che vengono da lontano a rammentare i colori dell’infanzia, di quelli che possono dipingere il passato diversamente da come l’abbiamo abitato la prima volta… e attraverso i simboli, le immagini e i riti, arrivare a tentare una prosa in grado di trasformare l’ordinario in emozione e incanto.
È così che ho scoperto il mare, un mare pigro nel giocare con gli arenili dello Jonio, casalingo nel mordicchiare le scogliere dell’otrantino, intimo e orlato verso il Capo di Leuca. Quello stesso giorno, in mezzo ad un coro di cicale, ho trovato l’essenza della terra rossa, feconda e deliziosa come la terra di Creta. Vedevo i frutti di queste mie scoperte ovunque accorgendomi che non tutti i mari sono uguali: alcuni si manifestano nel momento dell’approdo e altri a quello del congedo. Dimmi Donna, può forse ora il pensier mio delineare i confini che motivano scoperta e sapere? Perché è proprio qui che intendo metter radici, quì dentro di Te dove la storia di quel che è stato riprende forma, stupita che ogni frammento temporale può tornare dalle sue ceneri attraverso il canto delle gesta dell’Eroe. Confrontandomi con lui ho sentito che tipo d’uomo io fossi: a volte incosciente e pasticcione, altre violento di fronte all’impossibilità di vivere pienamente, più volte misero nell’avvicinarti… ma pur sempre un uomo. Certe volte, quando esageravo, mi sembrava che le parole si staccassero dalla carta e, come ragni, si appiccicassero al volto; da lì l’anima si scuriva a delineare l’ombra di mio padre, lui che a stento era capace di leggere e scrivere il suo nome. Odiava i libri, diceva che in loro c’era qualcosa di offensivo e così mi insegnò che in guerra devi uccidere per primo.
Prima di incontrarti, Donna, nel mio mondo le grandi speranze vivevano soltanto fra le pagine di un diario. Le notti appartenevano al gas delle cucine utilizzato per scaldarsi, alle penombre dei vicoli spezzate dagli spari, alle processioni e alle sfilate di santi e generali che puzzavano di morte e inganni. Giusto il tempo di accorgermene e l’infanzia si era già sbriciolata lasciandomi uno sguardo da vecchio dove “ammirevole” era la bramosia per le cose d’importanza trascurabile, così come l’ottusità con la quale mi lasciavo passare per le mani quelle veramente importanti. Dopo averti incontrata ho dovuto fare i conti con questo mondo di miserie. Anche io, come mio padre, odiavo le donne per la loro sapienza! E infatti ti ho odiata subito, a prima vista. L’odio diventò lancinante quando, tornato a casa, con gli occhi chiusi quel che arrivò fu una carezza. Tra lo sconcerto presi il diario di sempre e, non contraendo più alcun debito con l’usuraio di turno, mi sfiorò il pensiero che, forse, di tanto in tanto, potevo un poco arrendermi a te… e magari leggerti.
Così i giorni hanno iniziato a trascorrere fra letture, intoppi e scontri a lungo raggio. Abituato da anni a vivere da solo in quello stato di metodica anarchia tipica del maschio, la costante presenza di Donna nella mia casa ha cominciato a minare le mie abitudini: io giudicavo, lei no; io buttavo una pianta malata nel cassonetto e lei la andava a riprendere per curarla; io m’inchinavo a solitudine e abbandono, lei entrava e usciva liberamente dalla mia casa a ritmo di tamburo. A quei tempi, come oggi, è grazie a lei se ho scoperto cosa voglia dire avere una vivacità intellettuale che arde ogni secondo della propria vita. È grazie a lei se da caparbio contadino, sempre chino sulla terra con falce e martello, mi sono riscoperto semplice e onesto pescatore.
Oh Donna, da questa immagine di me ti rimiro e il sapore del tempo in cui mi ritrovo si fa dolce. Questo è il porto dal quale son partito ed è oggi il mio luogo più prezioso. La vita qui incoraggia discussioni d’arte che esortano sempre a partire per tracciare nuove rotte, ed è incanto tanto quanto fantasia.
Lo sai, sono nato e cresciuto in un tacco di terra e mare. Quando nella pianura si cerca la lontananza, questa si offre proponendo la linea marcata del mare, il suo bagliore azzurro, quello ocra delle cale sabbiose e delle insenature. Il promontorio da cui si scorge lo spartiacque tra l’Adriatico e lo Jonio è, nella memoria popolare, il lembo estremo della terra: Finibusterrae. Le distanze, nelle isole e nelle penisole, hanno profili tremolanti e possono qualche volta prender forma di sirene o confondersi con le nuvole… ma c’è un’altra direzione, nella pianura da cui vengo, che voglio ora seguire e dove intendo portarti: quella che ha un solo mare, col suo celeste diurno e con le lampare notturne che occhieggiano. E ti chiedo di parlarmi, Donna!
“Il mio nome!”.
Donna, quella tua pelle del color dell’ambra, il ventre generoso, le labbra tinte di vermiglio, questo io vedo quando tra lenzuola e cuscini ci dimeniamo. Io ti temo. Il tuo nome? Sudore che tenta di farsi inchiostro sulla tua schiena tra le maree dei suoni e dei movimenti. Il tuo nome? Lo vedo danzare mentre la Rosa dei Venti indica ‘Maestrale’. Finalmente conosco la forza e la carica vitale di un corpo femminile! E penso: “Apparteniamo alla storia che ci ha posseduti?”. Mi rispondi: “Apparteniamo a noi stessi, riconsegnati diversi dal corpo della Storia con cui abbiamo bruciato!”. Penso: “Quanto è distante la luna”. Mi rispondi: “La Luna è un chicco di sale che zampilla dalle righe di un libro”. Penso: “Il mio esilio è terminato?”. Mi rispondi…
“Il tuo nome!”.
Ho sempre odiato i soprannomi e ora so perché: battere in ritirata a capo chino dopo aver tradito ciò che più ami. Poi sei arrivata Tu a dirmi con coraggio che l’Arte non ha madri o padri di cui i figli si pretende ne siano gli eredi, che una donna può ardere nel fuoco sacro della ricerca e far sì che la sua vita sia espressione di questo. Tu, che hai acceso in me il diritto di sognare, il desiderio di parlare!
Sì, la verità non ha strade precostituite, “la verità al pari della bellezza si fa strada da sola e non certo per opposizione, ma semplicemente per il rifiuto che diversifica. È la libertà del desiderio a tracciare, senza pensiero alcuno, le traiettorie del rifiuto”. Ognuno asciughi le proprie lacrime e accetti di non avere più alcunché ad esigere, ché tutti i debiti sono stati pagati. Oggi non c’è più tempo né spazio per chi ha l’affezione a contrarre ‘debito’, a giocare d’azzardo sul filo dell’essere o non essere: guardare senza vedere, udire senza ascoltare, dire senza sapere.
Sì, perché questo sia possibile si deve riconoscere alla Storia, e a noi stessi in Lei, che saremmo parte di un mondo perduto se non fosse per quelle righe preziose che invitano continuamente a riflettere le ginestre sulle vetrate delle finestre. E se è vero che non basta una vita per dire di come sia stare in mare, è altrettanto vero che possiamo rischiare l’unica che abbiamo per dire di quell’incanto di quando si scrive in quanto parte di una Storia comune.
E oggi voglio dire addio a quella fredda e soffocante astuzia. Linea di una promessa…, chiarore di una presenza di cui vive ogni forma d’arte: dentro ogni separazione c’è il limite dell’impossibile e, dentro quel limite, il passaggio del ‘possibile’, segreto per il quale la terra ha respiro e vive.
NdA. Mi rendo conto che questo scritto a tratti può apparire incomprensibile, tuttavia se ascoltate il suono del vento e seguite il filo delle immagini, potreste scoprire la narrazione di un divenire interno (il mio) dal sapore universale perché può riguardare ciascuno di voi che legge… e immagina.
Ringrazio l’Equipaggio per avere permesso in tutti questi anni l’aprirsi di questa prospettiva.
Sì, la verità non ha strade precostituite, “la verità al pari della bellezza si fa strada da sola e non certo per opposizione, ma semplicemente per il rifiuto che diversifica. È la libertà del desiderio a tracciare, senza pensiero alcuno, le traiettorie del rifiuto”. Ognuno asciughi le proprie lacrime e accetti di non avere più alcunché ad esigere, ché tutti i debiti sono stati pagati. Oggi non c’è più tempo né spazio per chi ha l’affezione a contrarre ‘debito’, a giocare d’azzardo sul filo dell’essere o non essere: guardare senza vedere, udire senza ascoltare, dire senza sapere.
Sì, perché questo sia possibile si deve riconoscere alla Storia, e a noi stessi in Lei, che saremmo parte di un mondo perduto se non fosse per quelle righe preziose che invitano continuamente a riflettere le ginestre sulle vetrate delle finestre. E se è vero che non basta una vita per dire di come sia stare in mare, è altrettanto vero che possiamo rischiare l’unica che abbiamo per dire di quell’incanto di quando si scrive in quanto parte di una Storia comune.
E oggi voglio dire addio a quella fredda e soffocante astuzia. Linea di una promessa…, chiarore di una presenza di cui vive ogni forma d’arte: dentro ogni separazione c’è il limite dell’impossibile e, dentro quel limite, il passaggio del ‘possibile’, segreto per il quale la terra ha respiro e vive.
NdA. Mi rendo conto che questo scritto a tratti può apparire incomprensibile, tuttavia se ascoltate il suono del vento e seguite il filo delle immagini, potreste scoprire la narrazione di un divenire interno (il mio) dal sapore universale perché può riguardare ciascuno di voi che legge… e immagina.
Ringrazio l’Equipaggio per avere permesso in tutti questi anni l’aprirsi di questa prospettiva.
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NEL LATENTE...
Concetta Turchi
...prossimamente
WORK IN PROGRESS della Red-azione de La Bottega dell'ArcoAcrobata. Anno 2010
IL LATENTE DEL MANIFESTO di Concetta Turchi. Anno 2010
LA BOTTEGA DEL CONOSCIBILE di Filippo Paoli. Anno 2010
WORK IN PROGRESS
Presentazione
Questa storia comincia da lontano, forse da un primo fine novembre e in quel caso era Torino: una città dai colori dell’inverno, riscaldata dai mattutini ‘bicerin’ con panna e dalle proiezioni, a tutte le ore, del Torino Film Festival.
Correva l’anno 2007. Per la prima volta l’Italia si apriva ad una retrospettiva sui film di John Cassavetes, lui che ha fatto del work in progress il suo stile di vita professionale oltre che personale. È vero, l’incontro avvenne proprio lì, tra le luminarie natalizie e i ragazzi accovacciati nelle sale o in fila lungo le scale. Eppure l’incontro fu tutt’altro che casuale: quello che univa le due storie era una porta aperta per lasciare entrare chiunque volesse entrare. Storie di uomini si presentavano all’appuntamento con il Tempo grazie alla pretesa delle donne.
L’incontro ci aveva lasciato il desiderio di una liquidità capace di scorrere nei pensieri, nei movimenti e nelle parole… alla ricerca di un nuovo silenzio. Quella lava silenziosa si faceva strada tra le solide certezze della prima storia, frantumandola, e rendendo assordanti i suoni sguaiati in una città stuprata che ostinatamente rimane in ascolto della sua storia. Forse per questo Berlino è così amata dai giovani e dagli artisti… e da noi. Berlino, donna in continuo divenire, faceva riemergere esattamente un anno dopo, quel desiderio prepotente di liquidità… e di silenzio. Tutto questo sancì, dopo sette anni, la chiusura de L’ArcoAcrobata, rivista cartacea semestrale di Scienze Umane e Arte.
Ancora un anno e poi… La Bottega dell’ArcoAcrobata, con la scelta audace di voler essere multimediale. Era nuovamente la fine di novembre e la città, questa volta, era Roma… un’altra donna, decisa a lasciare aperte le porte a chiunque desiderasse fare una improvvisazione a tutto campo, autentica e vera. L’uomo, per seguirla non può che scegliere di accompagnarla per il mondo così da esperire, attraverso il work in progress, uno spazio di confronto aperto alla costruzione di un umanesimo nuovo artisticamente laico. Da qui l’invito a scrivere e a partecipare rivolto a coloro che vogliono tentare l’arte che viene dalla strada per comporre, in progressione con la nostra rivista, il qui ed ora della nostra esistenza. E tutto questo lo vogliamo fare senza perdere la leggerezza… e la poesia.
Correva l’anno 2007. Per la prima volta l’Italia si apriva ad una retrospettiva sui film di John Cassavetes, lui che ha fatto del work in progress il suo stile di vita professionale oltre che personale. È vero, l’incontro avvenne proprio lì, tra le luminarie natalizie e i ragazzi accovacciati nelle sale o in fila lungo le scale. Eppure l’incontro fu tutt’altro che casuale: quello che univa le due storie era una porta aperta per lasciare entrare chiunque volesse entrare. Storie di uomini si presentavano all’appuntamento con il Tempo grazie alla pretesa delle donne.
L’incontro ci aveva lasciato il desiderio di una liquidità capace di scorrere nei pensieri, nei movimenti e nelle parole… alla ricerca di un nuovo silenzio. Quella lava silenziosa si faceva strada tra le solide certezze della prima storia, frantumandola, e rendendo assordanti i suoni sguaiati in una città stuprata che ostinatamente rimane in ascolto della sua storia. Forse per questo Berlino è così amata dai giovani e dagli artisti… e da noi. Berlino, donna in continuo divenire, faceva riemergere esattamente un anno dopo, quel desiderio prepotente di liquidità… e di silenzio. Tutto questo sancì, dopo sette anni, la chiusura de L’ArcoAcrobata, rivista cartacea semestrale di Scienze Umane e Arte.
Ancora un anno e poi… La Bottega dell’ArcoAcrobata, con la scelta audace di voler essere multimediale. Era nuovamente la fine di novembre e la città, questa volta, era Roma… un’altra donna, decisa a lasciare aperte le porte a chiunque desiderasse fare una improvvisazione a tutto campo, autentica e vera. L’uomo, per seguirla non può che scegliere di accompagnarla per il mondo così da esperire, attraverso il work in progress, uno spazio di confronto aperto alla costruzione di un umanesimo nuovo artisticamente laico. Da qui l’invito a scrivere e a partecipare rivolto a coloro che vogliono tentare l’arte che viene dalla strada per comporre, in progressione con la nostra rivista, il qui ed ora della nostra esistenza. E tutto questo lo vogliamo fare senza perdere la leggerezza… e la poesia.
Roma, marzo 2010
La Red-azione... del momento
Valeria Amato, Massimiliano Giammasi, Filippo Paoli, Concetta Turchi
IL LATENTE DEL MANIFESTO
Concetta Turchi
“Occorre rischiare di divenire una preda,
perché solo un terremoto può distruggere
quello che impedisce di reimparare
ad ascoltare, a vedere, a parlare…”
perché solo un terremoto può distruggere
quello che impedisce di reimparare
ad ascoltare, a vedere, a parlare…”
La perla e la luna di Concetta Turchi
Un tempo nell’isola di Creta in mezzo al già cantato “popolo di artigiani, pirati e… belle donne” crescevano ed operavano gli iatromanti, medici e profeti - che nulla avevano di sacerdotale - la cui sapienza era fatta di conoscenze segrete in grado di penetrare in modo singolare la realtà che cadeva sotto gli occhi di tutti per entrare in contatto con quel mondo sconosciuto eppure conoscibile, invisibile ai più. L’alterazione dello stato di coscienza era lo strumento d’elezione di questa particolare forma conoscitiva associata al culto di Apollo in cui l’alienazione estatica agiva sotto forma di una meditazione profonda che portava gli iatromanti ad uscire fuori da sé stessi per poi rientrarvi e ritornare nella collettività con una visione più allargata ed un bagaglio di conoscenze profonde ed irrazionali da restituire. Attraverso questa loro “follia di breve durata” essi penetravano il mondo irrazionale per poi uscirne esausti e vittoriosi portando la memoria di quel passaggio: era il ritorno con la memoria e la parola di ciò che era stato vissuto a fare di loro dei veri sapienti.
Questo viaggio ai confini della realtà, pur essendo una esperienza visionaria vissuta in solitudine al limite con le percezioni francamente deliranti, non diventava mai malattia nella misura in cui non veniva persa la relazione con l’altro il quale diveniva oggetto privilegiato di questo dono. Dono per la collettività e per l’umanità intera questa sapienza nomade, che aveva come obiettivo la guarigione e la riflessione messa al servizio della società del tempo. Essa veniva praticata per lo più da uomini e raggiunse il suo apice con Epimenide di Creta il quale operava nel II secolo d.C. insieme ad altri illustri scienziati come Pitagora, Zoroastro, Empedocle di Agrigento e tanti altri ancora.
Lo iatromante raccoglieva così quelle sfide “lanciate ad una pensabilità lineare che accetta passivamente la inesorabile legge della caduta dei gravi”, offrendo sé stesso quale strumento terapeutico al servizio dell’altro. La sua catalessi immobile e mutacica, priva delle manifestazioni esagitate di un posseduto, somigliava a taluni stati crepuscolari della mente presenti in certe forme di isteria, dove i deficit sensoriali e motori davano luogo a quella sorta di morte apparente in cui il polso si faceva raro e il respiro lentissimo e sospiroso. Questo fenomeno a prima vista sembrava molto diverso dagli esiti della possessione, altra alterazione dello stato di coscienza assai frequente, vissuta per lo più dalle donne nel nome di Dioniso.
In mezzo ad una collettività in preda al tumulto orgiastico, la divinità prendeva possesso della donna, facendole dono di una straordinaria quanto misteriosa forza irrazionale che potenziava le energie di entrambi: l'enthousiasmòs. E mentre la musica indemoniata agitava quelle membra e, contraendo i muscoli, ne scolpiva ad arco la colonna vertebrale, le donne perdevano sé stesse per trovare nel corpo e col corpo quell’“entusiasmo” che è radice di una felicità contagiosa fonte di profonda e radicale trasformazione. Tale via conoscitiva era la sola consentita alle donne: una via “orgasmica” fatta di conoscenza del corpo ma chiusa nel corpo stesso, perché senza una memoria verbalizzabile che potesse trasmutarla in sapienza.
Apollo e Dioniso, operando in comune accordo sul maschile e sul femminile della realtà psichica, erano quindi i dispensatori di queste due forme di “divina” follia che arricchiva estasiati e posseduti di quella inusitata meraviglia in grado di condurre il pensiero oltre i limiti dettati dalla ragione. Lo sconvolgimento dei sensi, più strutturato secondo un sistema simbolico sistematico nella prima, più liquida e inafferrabile nella seconda, costituiva la base di un vivere irrazionale collegato alla conoscenza come forma d’arte. Solo “… quando il controllo viene meno la conoscenza può farsi strada in quell’intervallo tra terra e mare che è ponte silenzioso teso tra le diversità”.
Sappiamo come, con la stagione razionalista aperta dai sofisti, a partire dal V secolo a.C. una seconda forma di follia fosse entrata ufficialmente nei primi manuali di Medicina: la pazzia, in questo caso intesa come forma irrazionale distruttiva e accecante, per la prima volta non aveva più una causa divina. E benché quella visione naturalistica avesse posto le basi per una possibile conoscenza della realtà umana, a causa delle nefaste speculazioni filosofiche dei grandi Maestri dell’epoca - Platone e Aristotele in primis -, le strade della ricerca medica e di quella filosofica furono divaricate in modo violento, in linea con quella scissione tra corpo e psiche che sarà successivamente “santificata” dal Cristianesimo con la ratifica di quel veto che si opporrà nei secoli a venire alla sola possibilità di una comprensione circa la natura umana.
E mentre prima di allora questi due livelli di follia avevano trovato una coesistenza temporale allo stesso modo in cui coesistevano nei miti razionalità e irrazionalità, con la scissione operata dai filosofi cambiò radicalmente la prospettiva: razionale e irrazionale continuarono a coesistere, sì, ma in tempi diversi e quindi alternativi. In questa visione divisa e contrapposta Apollo diventò sempre più razionale e Dioniso sempre più catastrofico nella sua inconoscibile irrazionalità. Il corpo divenne luogo estraniato dal suo Tempo (e quindi dalla sua psiche), felicità e conoscenza si appiattirono nelle forme istituzionalizzate della società e della cultura, la donna e l’uomo furono allontanati per secoli l’uno dall’altro in una lotta di potere senza quartiere che è arrivata pressoché intatta fino ai nostri giorni.
Eppure la storia instancabilmente si ripete per offrire una nuova occasione. E se qualcuno collega questa ripetizione al “ritorno del rimorso”(!) e quindi al vissuto di colpa, il nesso io lo colgo con il senso di vergogna che nasce dal mancato ascolto della esigenza umana di andare oltre la paura per offrire a sé stessi una presenza “eroica” in quanto etica. Accade così che gli eroi affollino i nostri sogni, come un tempo affollavano i miti, per reclamare senza sosta qualcosa che poteva essere e che non è stato… che può essere e che non è. E solo quando l’eroe ci guarda dritto negli occhi sentiamo qualcosa… forse quel perturbante che ci potrebbe illuminare sui modi in cui si lasciano cadere le cose e i tempi delle cose. E lì si può realizzare che il senso etico dell’eroe è altra cosa e trova un suo nesso con l’arte della conoscenza.
Quando nove anni fa scrissi “Il Manifesto del Latente” per presentare L’ArcoAcrobata, tentai di raccontare di un intento: porre al centro della nostra ricerca, qualsiasi fosse l’argomento di partenza, le dinamiche inconsce che muovono gli umani molto più della coscienza. Errando tra quei lembi di terra ai confini del mondo, con la semplice potenza della nostra nascita interiore, siamo arrivati a discriminare la vita dalla morte psichica, la sanità dalla pazzia. E nel mentre questo accadeva i tuffi nel mare diventavano sempre più fragorosi alla ricerca di quel linguaggio sonoro che potesse mettere in risonanza i corpi vertebrali impilati gli uni sugli altri, come in una collana di perle. Non è poco, voi direte. Oggettivamente è molto, ma la soggettività eticamente intesa reclama sempre un di più che è la luna dei Poeti, il sogno delle Donne, la filastrocca dei Bambini.
Un giorno, narra il Poeta, Don Chisciotte partì a cavallo del suo Ronzinante per conquistare il Bello, il Vero, il Giusto: inscindibili l’uno dall’altro, essi propongono una prospettiva radicalmente laica per il rifiuto irrazionalmente dato nei confronti di ogni forma di dogma. E sebbene quello fosse il Tempo per comporre interiormente questo trittico, evidentemente la visione del mondo e il rapporto con esso si disperdeva nei rivoli dei tempi parziali, spezzando il filo della collana di perle. Ma il rumore delicato e ritmato delle singole perle sul pavimento sembrava reclamare “un di più”, un nuovo modo di essere e di rapportarsi ancora al di là dal giungere. Ascoltai quei balbettii isolati eppure contemporanei che chiedevano, come pioggia battente, quel “di più” che non trovava l’esattezza della parola. E arrivò la scelta: chiudere quella bellissima Rivista di Scienze Umane ed Arte che tanto lontano ci aveva portato, si rendeva necessario per uscire dentro la nuova realtà della storia, allo stesso modo di un neonato che esce fuori dal corpo della madre per entrare nel mondo. Con la certezza che solo con l’immagine di una donna e di un bambino, della Bellezza e della Verità, la Giustizia non si fa vendetta e l’uomo può arrivare finalmente ad una po-etica della conoscenza che lo renderà sapiente.
E ora, nella nuova realtà, una voce rauca si fa largo a spintoni all’interno di una vivace riunione di redazione, aperta a tutti per scelta, affilando le sue lame: “È che voi donne non avete più tempo e quando andate a fare la spesa comprate i surgelati!”. La questione era la difficoltà che hanno i ragazzi di oggi a distinguere i sapori.
Riconosco fin troppo bene il sapore metallico che si fa strada da un passato ritenuto, per un eccesso di fiducia, erroneamente remoto, per sancire il NO fermo ed indignato di chi non vuole più sentire i discorsi della discriminazione dettati dalla ignoranza di turno. “Mi rifiuto di ascoltare questi discorsi in un luogo come questo che vuole essere di ricerca e libertà” - intervengo. Toccato. L’uomo abbassa la testa, anche se le gambe rimangono sfacciatamente ed esageratamente larghe, come quelle dei gerarchi fascisti costretti da un vuoto di immagine interiore a lasciare le tracce della loro animalità.
“Ricerca e libertà?” - mi chiedo, e sorrido mentre ripercorro i vari passaggi della nostra riunione che era stata fino a quel momento ricca e appassionata grazie soprattutto agli interventi di donne belle e intelligenti che avevano parlato a lungo con sapienza. Donne belle e intelligenti che osavano addirittura essere sapienti!? Troppo, decisamente troppo. Forse da qui il tentativo osceno di rimetterle al “loro” posto silenzioso, all’accudimento materno di sempre.
Il mio sorrisetto, inizialmente non meno affilato della frase ascoltata, si distende ora verso una nuova traiettoria di riflessione: chi ha parlato è un uomo di mezza età, una sorta di giovane cinquantenne assai frequente nella odierna società, storicamente di sinistra, generalmente capace di esprimere sensibilità e intelligenza. Eppure, in un attimo, nel confronto con quelle immagini di donna, sembrava essersi cancellata qualsiasi aderenza con la storia, sia personale che politica. E infatti quel mio prurito inconscio era il segnale di una lettura, decisamente fascista, che avevo dato a quella affermazione.
In realtà quella frase avrebbe potuto dirla indifferentemente un uomo di destra come uno di sinistra, con una differenza sostanziale che era solo dentro di me: da un uomo di destra me lo potevo aspettare, da uno di sinistra un po’ meno. Ah, l’eccesso di fiducia… che fa ritenere già progrediti i “progressisti”!! Eppure ho sempre davanti agli occhi lo stupro mediatico operato costantemente sulle donne: non esiste talk-show o tribuna politica in cui le donne non vengano interrotte sottilmente o in modo apertamente violento nel loro eloquio, fin dalle prime battute. E più sono sapienti e più vengono zittite.
E scorrono le immagini del tempo a raccogliere e rimettere insieme quanto era stato fatto a pezzi, nel tentativo di cancellare l’immagine di una donna scienziata e filosofa che aveva osato sfidare con la sua sapienza il mondo degli uomini, quello del vecchio impero romano ormai in decadenza, e il nascente, rampante, impero cristiano. E non vi deve fuorviare il fatto che il suo corpo fosse stato dilaniato e gettato nel fuoco perché di lei non rimanesse traccia alcuna nella Storia. Il corpo delle donne è solo una parte del… “corpo del reato”: quello che può vivere la conoscenza attraverso la conoscenza del corpo. Oltre vi è un veto ancora più definitivo: deve sparire, con il corpo delle donne, quel desiderio che, a partire dal corpo, lo trascende rivolgendosi alle qualità umane di una donna, prima fra tutte la capacità di divenire sapiente attraverso la possibilità di rappresentare e verbalizzare una conoscenza com-presa, cioè presa e restituita con tutto il corpo, attraverso la parola.
Adesso non mi sembra più così strano che la destra e la sinistra si incontrino spesso nel tentativo di sbarrare il cammino della donna. È l’unico modo a disposizione per fermare anche il percorso dell’uomo, attraverso il controllo su quanto non deve accadere: una riunificazione interiore del femminile e del maschile che, attraverso il naufragio reciproco nella diversità dell’altro, fa emergere il libero canto del pensiero. “Non esiste una contrapposizione degli opposti, esiste una co-appartenenza degli opposti”.
Per questo occorre diventare dei ricercatori che cavalcano la luna, e non sognatori un po’ eccentrici e stralunati che rimangono chiusi nel loro piccolo laboratorio di ricerca: sarebbe come rimanere per sempre nell’Isola-che-non-c’è. Noi vogliamo entrare fuori nel mondo per proporre un “Umanesimo nuovo artisticamente laico” ci piace nominarlo, dove la reciproca conoscenza dei diversi, espressa attraverso una pluralità di immagini, tenta un ricongiungimento con una vecchia storia ferma da millenni: quella della Grecia del III secolo a.C., la cui civiltà vide la libertà e se la lasciò sfuggire. Quell’epoca, così densa sul piano del pensiero scientifico come di quello filosofico e creativo, si apriva ad una profonda trasformazione sociale dopo la dilatazione dei confini geografici tracciata dalle conquiste di Alessandro Magno: l’Uomo, nel tentativo di padroneggiare le tradizioni, acquisiva una progressiva e nuova presa di coscienza proprio nell’avere presente la propria storia passata. Era pronto l’Uomo per il tuffo acrobatico nel mare quando scattò la paura…
… E l’uomo di scienza, il medico, che stava acquisendo nuove e impensate certezze, lasciò quella psiche fragile e tremolante alla ragione dei filosofi. Questi ultimi, dopo avere abbandonato la via della ricerca per la conoscenza, divennero i novelli dispensatori di salvezza spirituale - è facile quando c’è la paura -, così che quando poi venne il Cristianesimo, la strada era ormai inesorabilmente tracciata e i vescovi presero semplicemente il posto dei filosofi, allo stesso modo in cui il concetto di Male prese il posto della appena riconosciuta malattia psichica. La parte più preziosa e più segreta della nostra realtà umana rimase sotto lo scacco della presunta inconoscibilità.
Ma la Storia si ripete, ancora… e ancora… per ricercare una nuova possibilità. Il conquistatore di turno questa volta è Cristoforo Colombo. Navigatore visionario e sognatore, con la scoperta del Nuovo Continente egli dilata nuovamente i confini geografici… e mentali dell’Uomo. Si ripete, con l’Illuminismo, l’ottimismo razionalista come pure (sic!) la scissione tra corpo e psiche. A quell’irrazionale abbiamo dato un nome, inconscio, ma non ne abbiamo ancora riconosciuto le qualità intrinseche: l’inconscio è rimasto un luogo dissociato dal suo Tempo, dove continua a trascinarsi senza sosta l’animalità presunta dell’Uomo, e dove la parola è ancora verso… di animale e non verso del Poeta.
Ora che navighiamo forse fin troppo facilmente su Internet dove tutto sembra essere a portata di mano, siamo nuovamente immobili, uomini e donne davanti al mare, a mirare la linea dell’orizzonte. Da qualche parte sappiamo che il coraggio di tuffarci in quelle acque è legato alla “divina follia” di sempre, che sempre cerca nuove terre. Ma sappiamo ancora così poco di quel mare interno, che è la liquidità delle immagini come la Terra corpo-delle-donne, l’azione limpida dell’eroe come le parole cantate dai Poeti. O come l’azione potente del sapiente che, attraverso la presenza po-etica della Parola, è in grado di segnare per sempre la differenza tra follia e pazzia. E con essa disegnare una nuova forma di presenza.
Perché quando le parole si limitano a definire una differenza senza viverla, esse si svuotano di senso e i quanti sonori fuggono via dalla vergogna lasciando ai gesti la verità di una menzogna.
Il rosso fuoco della linea traccia la demarcazione tra ciò che sembrava e ciò che già era secondo una visione “altra” dell’immagine. Le corna del toro scatenato su cui si teneva in equilibrio l’acrobata è sempre stata verità perché era già perla nera che rotolava… sulla luna dei Poeti.
Questo viaggio ai confini della realtà, pur essendo una esperienza visionaria vissuta in solitudine al limite con le percezioni francamente deliranti, non diventava mai malattia nella misura in cui non veniva persa la relazione con l’altro il quale diveniva oggetto privilegiato di questo dono. Dono per la collettività e per l’umanità intera questa sapienza nomade, che aveva come obiettivo la guarigione e la riflessione messa al servizio della società del tempo. Essa veniva praticata per lo più da uomini e raggiunse il suo apice con Epimenide di Creta il quale operava nel II secolo d.C. insieme ad altri illustri scienziati come Pitagora, Zoroastro, Empedocle di Agrigento e tanti altri ancora.
Lo iatromante raccoglieva così quelle sfide “lanciate ad una pensabilità lineare che accetta passivamente la inesorabile legge della caduta dei gravi”, offrendo sé stesso quale strumento terapeutico al servizio dell’altro. La sua catalessi immobile e mutacica, priva delle manifestazioni esagitate di un posseduto, somigliava a taluni stati crepuscolari della mente presenti in certe forme di isteria, dove i deficit sensoriali e motori davano luogo a quella sorta di morte apparente in cui il polso si faceva raro e il respiro lentissimo e sospiroso. Questo fenomeno a prima vista sembrava molto diverso dagli esiti della possessione, altra alterazione dello stato di coscienza assai frequente, vissuta per lo più dalle donne nel nome di Dioniso.
In mezzo ad una collettività in preda al tumulto orgiastico, la divinità prendeva possesso della donna, facendole dono di una straordinaria quanto misteriosa forza irrazionale che potenziava le energie di entrambi: l'enthousiasmòs. E mentre la musica indemoniata agitava quelle membra e, contraendo i muscoli, ne scolpiva ad arco la colonna vertebrale, le donne perdevano sé stesse per trovare nel corpo e col corpo quell’“entusiasmo” che è radice di una felicità contagiosa fonte di profonda e radicale trasformazione. Tale via conoscitiva era la sola consentita alle donne: una via “orgasmica” fatta di conoscenza del corpo ma chiusa nel corpo stesso, perché senza una memoria verbalizzabile che potesse trasmutarla in sapienza.
Apollo e Dioniso, operando in comune accordo sul maschile e sul femminile della realtà psichica, erano quindi i dispensatori di queste due forme di “divina” follia che arricchiva estasiati e posseduti di quella inusitata meraviglia in grado di condurre il pensiero oltre i limiti dettati dalla ragione. Lo sconvolgimento dei sensi, più strutturato secondo un sistema simbolico sistematico nella prima, più liquida e inafferrabile nella seconda, costituiva la base di un vivere irrazionale collegato alla conoscenza come forma d’arte. Solo “… quando il controllo viene meno la conoscenza può farsi strada in quell’intervallo tra terra e mare che è ponte silenzioso teso tra le diversità”.
Sappiamo come, con la stagione razionalista aperta dai sofisti, a partire dal V secolo a.C. una seconda forma di follia fosse entrata ufficialmente nei primi manuali di Medicina: la pazzia, in questo caso intesa come forma irrazionale distruttiva e accecante, per la prima volta non aveva più una causa divina. E benché quella visione naturalistica avesse posto le basi per una possibile conoscenza della realtà umana, a causa delle nefaste speculazioni filosofiche dei grandi Maestri dell’epoca - Platone e Aristotele in primis -, le strade della ricerca medica e di quella filosofica furono divaricate in modo violento, in linea con quella scissione tra corpo e psiche che sarà successivamente “santificata” dal Cristianesimo con la ratifica di quel veto che si opporrà nei secoli a venire alla sola possibilità di una comprensione circa la natura umana.
E mentre prima di allora questi due livelli di follia avevano trovato una coesistenza temporale allo stesso modo in cui coesistevano nei miti razionalità e irrazionalità, con la scissione operata dai filosofi cambiò radicalmente la prospettiva: razionale e irrazionale continuarono a coesistere, sì, ma in tempi diversi e quindi alternativi. In questa visione divisa e contrapposta Apollo diventò sempre più razionale e Dioniso sempre più catastrofico nella sua inconoscibile irrazionalità. Il corpo divenne luogo estraniato dal suo Tempo (e quindi dalla sua psiche), felicità e conoscenza si appiattirono nelle forme istituzionalizzate della società e della cultura, la donna e l’uomo furono allontanati per secoli l’uno dall’altro in una lotta di potere senza quartiere che è arrivata pressoché intatta fino ai nostri giorni.
Eppure la storia instancabilmente si ripete per offrire una nuova occasione. E se qualcuno collega questa ripetizione al “ritorno del rimorso”(!) e quindi al vissuto di colpa, il nesso io lo colgo con il senso di vergogna che nasce dal mancato ascolto della esigenza umana di andare oltre la paura per offrire a sé stessi una presenza “eroica” in quanto etica. Accade così che gli eroi affollino i nostri sogni, come un tempo affollavano i miti, per reclamare senza sosta qualcosa che poteva essere e che non è stato… che può essere e che non è. E solo quando l’eroe ci guarda dritto negli occhi sentiamo qualcosa… forse quel perturbante che ci potrebbe illuminare sui modi in cui si lasciano cadere le cose e i tempi delle cose. E lì si può realizzare che il senso etico dell’eroe è altra cosa e trova un suo nesso con l’arte della conoscenza.
Quando nove anni fa scrissi “Il Manifesto del Latente” per presentare L’ArcoAcrobata, tentai di raccontare di un intento: porre al centro della nostra ricerca, qualsiasi fosse l’argomento di partenza, le dinamiche inconsce che muovono gli umani molto più della coscienza. Errando tra quei lembi di terra ai confini del mondo, con la semplice potenza della nostra nascita interiore, siamo arrivati a discriminare la vita dalla morte psichica, la sanità dalla pazzia. E nel mentre questo accadeva i tuffi nel mare diventavano sempre più fragorosi alla ricerca di quel linguaggio sonoro che potesse mettere in risonanza i corpi vertebrali impilati gli uni sugli altri, come in una collana di perle. Non è poco, voi direte. Oggettivamente è molto, ma la soggettività eticamente intesa reclama sempre un di più che è la luna dei Poeti, il sogno delle Donne, la filastrocca dei Bambini.
Un giorno, narra il Poeta, Don Chisciotte partì a cavallo del suo Ronzinante per conquistare il Bello, il Vero, il Giusto: inscindibili l’uno dall’altro, essi propongono una prospettiva radicalmente laica per il rifiuto irrazionalmente dato nei confronti di ogni forma di dogma. E sebbene quello fosse il Tempo per comporre interiormente questo trittico, evidentemente la visione del mondo e il rapporto con esso si disperdeva nei rivoli dei tempi parziali, spezzando il filo della collana di perle. Ma il rumore delicato e ritmato delle singole perle sul pavimento sembrava reclamare “un di più”, un nuovo modo di essere e di rapportarsi ancora al di là dal giungere. Ascoltai quei balbettii isolati eppure contemporanei che chiedevano, come pioggia battente, quel “di più” che non trovava l’esattezza della parola. E arrivò la scelta: chiudere quella bellissima Rivista di Scienze Umane ed Arte che tanto lontano ci aveva portato, si rendeva necessario per uscire dentro la nuova realtà della storia, allo stesso modo di un neonato che esce fuori dal corpo della madre per entrare nel mondo. Con la certezza che solo con l’immagine di una donna e di un bambino, della Bellezza e della Verità, la Giustizia non si fa vendetta e l’uomo può arrivare finalmente ad una po-etica della conoscenza che lo renderà sapiente.
E ora, nella nuova realtà, una voce rauca si fa largo a spintoni all’interno di una vivace riunione di redazione, aperta a tutti per scelta, affilando le sue lame: “È che voi donne non avete più tempo e quando andate a fare la spesa comprate i surgelati!”. La questione era la difficoltà che hanno i ragazzi di oggi a distinguere i sapori.
Riconosco fin troppo bene il sapore metallico che si fa strada da un passato ritenuto, per un eccesso di fiducia, erroneamente remoto, per sancire il NO fermo ed indignato di chi non vuole più sentire i discorsi della discriminazione dettati dalla ignoranza di turno. “Mi rifiuto di ascoltare questi discorsi in un luogo come questo che vuole essere di ricerca e libertà” - intervengo. Toccato. L’uomo abbassa la testa, anche se le gambe rimangono sfacciatamente ed esageratamente larghe, come quelle dei gerarchi fascisti costretti da un vuoto di immagine interiore a lasciare le tracce della loro animalità.
“Ricerca e libertà?” - mi chiedo, e sorrido mentre ripercorro i vari passaggi della nostra riunione che era stata fino a quel momento ricca e appassionata grazie soprattutto agli interventi di donne belle e intelligenti che avevano parlato a lungo con sapienza. Donne belle e intelligenti che osavano addirittura essere sapienti!? Troppo, decisamente troppo. Forse da qui il tentativo osceno di rimetterle al “loro” posto silenzioso, all’accudimento materno di sempre.
Il mio sorrisetto, inizialmente non meno affilato della frase ascoltata, si distende ora verso una nuova traiettoria di riflessione: chi ha parlato è un uomo di mezza età, una sorta di giovane cinquantenne assai frequente nella odierna società, storicamente di sinistra, generalmente capace di esprimere sensibilità e intelligenza. Eppure, in un attimo, nel confronto con quelle immagini di donna, sembrava essersi cancellata qualsiasi aderenza con la storia, sia personale che politica. E infatti quel mio prurito inconscio era il segnale di una lettura, decisamente fascista, che avevo dato a quella affermazione.
In realtà quella frase avrebbe potuto dirla indifferentemente un uomo di destra come uno di sinistra, con una differenza sostanziale che era solo dentro di me: da un uomo di destra me lo potevo aspettare, da uno di sinistra un po’ meno. Ah, l’eccesso di fiducia… che fa ritenere già progrediti i “progressisti”!! Eppure ho sempre davanti agli occhi lo stupro mediatico operato costantemente sulle donne: non esiste talk-show o tribuna politica in cui le donne non vengano interrotte sottilmente o in modo apertamente violento nel loro eloquio, fin dalle prime battute. E più sono sapienti e più vengono zittite.
E scorrono le immagini del tempo a raccogliere e rimettere insieme quanto era stato fatto a pezzi, nel tentativo di cancellare l’immagine di una donna scienziata e filosofa che aveva osato sfidare con la sua sapienza il mondo degli uomini, quello del vecchio impero romano ormai in decadenza, e il nascente, rampante, impero cristiano. E non vi deve fuorviare il fatto che il suo corpo fosse stato dilaniato e gettato nel fuoco perché di lei non rimanesse traccia alcuna nella Storia. Il corpo delle donne è solo una parte del… “corpo del reato”: quello che può vivere la conoscenza attraverso la conoscenza del corpo. Oltre vi è un veto ancora più definitivo: deve sparire, con il corpo delle donne, quel desiderio che, a partire dal corpo, lo trascende rivolgendosi alle qualità umane di una donna, prima fra tutte la capacità di divenire sapiente attraverso la possibilità di rappresentare e verbalizzare una conoscenza com-presa, cioè presa e restituita con tutto il corpo, attraverso la parola.
Adesso non mi sembra più così strano che la destra e la sinistra si incontrino spesso nel tentativo di sbarrare il cammino della donna. È l’unico modo a disposizione per fermare anche il percorso dell’uomo, attraverso il controllo su quanto non deve accadere: una riunificazione interiore del femminile e del maschile che, attraverso il naufragio reciproco nella diversità dell’altro, fa emergere il libero canto del pensiero. “Non esiste una contrapposizione degli opposti, esiste una co-appartenenza degli opposti”.
Per questo occorre diventare dei ricercatori che cavalcano la luna, e non sognatori un po’ eccentrici e stralunati che rimangono chiusi nel loro piccolo laboratorio di ricerca: sarebbe come rimanere per sempre nell’Isola-che-non-c’è. Noi vogliamo entrare fuori nel mondo per proporre un “Umanesimo nuovo artisticamente laico” ci piace nominarlo, dove la reciproca conoscenza dei diversi, espressa attraverso una pluralità di immagini, tenta un ricongiungimento con una vecchia storia ferma da millenni: quella della Grecia del III secolo a.C., la cui civiltà vide la libertà e se la lasciò sfuggire. Quell’epoca, così densa sul piano del pensiero scientifico come di quello filosofico e creativo, si apriva ad una profonda trasformazione sociale dopo la dilatazione dei confini geografici tracciata dalle conquiste di Alessandro Magno: l’Uomo, nel tentativo di padroneggiare le tradizioni, acquisiva una progressiva e nuova presa di coscienza proprio nell’avere presente la propria storia passata. Era pronto l’Uomo per il tuffo acrobatico nel mare quando scattò la paura…
… E l’uomo di scienza, il medico, che stava acquisendo nuove e impensate certezze, lasciò quella psiche fragile e tremolante alla ragione dei filosofi. Questi ultimi, dopo avere abbandonato la via della ricerca per la conoscenza, divennero i novelli dispensatori di salvezza spirituale - è facile quando c’è la paura -, così che quando poi venne il Cristianesimo, la strada era ormai inesorabilmente tracciata e i vescovi presero semplicemente il posto dei filosofi, allo stesso modo in cui il concetto di Male prese il posto della appena riconosciuta malattia psichica. La parte più preziosa e più segreta della nostra realtà umana rimase sotto lo scacco della presunta inconoscibilità.
Ma la Storia si ripete, ancora… e ancora… per ricercare una nuova possibilità. Il conquistatore di turno questa volta è Cristoforo Colombo. Navigatore visionario e sognatore, con la scoperta del Nuovo Continente egli dilata nuovamente i confini geografici… e mentali dell’Uomo. Si ripete, con l’Illuminismo, l’ottimismo razionalista come pure (sic!) la scissione tra corpo e psiche. A quell’irrazionale abbiamo dato un nome, inconscio, ma non ne abbiamo ancora riconosciuto le qualità intrinseche: l’inconscio è rimasto un luogo dissociato dal suo Tempo, dove continua a trascinarsi senza sosta l’animalità presunta dell’Uomo, e dove la parola è ancora verso… di animale e non verso del Poeta.
Ora che navighiamo forse fin troppo facilmente su Internet dove tutto sembra essere a portata di mano, siamo nuovamente immobili, uomini e donne davanti al mare, a mirare la linea dell’orizzonte. Da qualche parte sappiamo che il coraggio di tuffarci in quelle acque è legato alla “divina follia” di sempre, che sempre cerca nuove terre. Ma sappiamo ancora così poco di quel mare interno, che è la liquidità delle immagini come la Terra corpo-delle-donne, l’azione limpida dell’eroe come le parole cantate dai Poeti. O come l’azione potente del sapiente che, attraverso la presenza po-etica della Parola, è in grado di segnare per sempre la differenza tra follia e pazzia. E con essa disegnare una nuova forma di presenza.
Perché quando le parole si limitano a definire una differenza senza viverla, esse si svuotano di senso e i quanti sonori fuggono via dalla vergogna lasciando ai gesti la verità di una menzogna.
Il rosso fuoco della linea traccia la demarcazione tra ciò che sembrava e ciò che già era secondo una visione “altra” dell’immagine. Le corna del toro scatenato su cui si teneva in equilibrio l’acrobata è sempre stata verità perché era già perla nera che rotolava… sulla luna dei Poeti.
Marzo 2010
BIBLIOGRAFIA
E.R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, Rizzoli Editore (BUR), Milano 2009.
G. GUIDORIZZI, Ai confini dell’anima. I Greci e la follia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.
E.R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, Rizzoli Editore (BUR), Milano 2009.
G. GUIDORIZZI, Ai confini dell’anima. I Greci e la follia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.
Per la stesura di questo articolo vorrei inoltre citare la memoria storica della nostra Rivista di Scienze Umane ed Arte, L’ArcoAcrobata. Per questo mi sento di ringraziare tutti gli Autori che, con i loro scritti e la loro coraggiosa intraprendenza, hanno dato vita a quella stagione irripetibile. Grazie e ancora grazie… anche per essere stati gli ispiratori di questo mio scritto con cui voglio aprire questa nuova avventura.
LA BOTTEGA DEL CONOSCIBILE
L’Editoriale del Direttore Filippo Paoli
Disco di Festos, lato B. Museo Archeologico di Heraklion, Creta
Dare nuova forma a quella che è stata la storia de L’ArcoAcrobata per iniziare una nuova avventura aperta a chi vuole stare nell’improvvisazione del qui e ora. Percorrere un filo teso tra due punti, senza recitare un copione predefinito, rivolto a chi è interessato a porre quelle domande che cercano una risposta.
Ecco, allora, La Bottega dell’ArcoAcrobata, una bottega itinerante che sosta nelle piazze con le sue rotative per la stampa; nelle piazze che da sempre sono luogo di incontro e, perciò, di confronto e conoscenza. Così come accadeva nell’Agorà, la piazza principale della Polis greca, nella quale avevano luogo le feste, i giochi e gli spettacoli teatrali. In quella piazza, che era anche il centro economico poiché ospitava il mercato, si incontravano i cittadini per discutere delle vicende che riguardavano la Polis; e così facevano Politica. Che la realizzazione dell’Agorà sia stata conseguente all’intuizione del rapporto che esiste tra architettura e democrazia? Dunque, l’Agorà come spazio di partecipazione? Anche La Bottega dell’ArcoAcrobata, nel passaggio dalla edizione cartacea alla pubblicazione on-line, si propone di attivare il desiderio di partecipazione: è questo che fa di uno spazio virtuale uno spazio reale.
Di quanto ci succede intorno, a noi non interessa cosa è accaduto, il quando e il dove. O meglio: non ci interessa solo questo. A noi appassiona chi c’è dietro a ciò che accade, il come e il perché. E ci interessa talmente tutto questo che ne vogliamo scrivere con passione, e per passione; per il piacere di farlo, di cercare. Per godere del nascere di una intuizione.
Vogliamo che questa bottega sia un cantiere di intuizioni, uno spazio di confronto aperto a tutti. Gli artisti, non solo durante il Rinascimento, tramandavano i mestieri e il sapere nelle loro botteghe, lasciando la porta aperta sulla strada. Così facendo, trasmettevano cultura a quanti sceglievano di varcare quella soglia e di cimentarsi nel confronto con l’arte. Anche una persona entrata per la prima volta aveva qualcosa da insegnare: la cultura non è istruzione così come la sapienza non è potere.
Quanto andrà prendendo forma con questo metodo di lavoro potrebbe risultare incomprensibile, ma anche i movimenti dei pianeti sono stati incomprensibili per secoli. Poi gli studi, le intuizioni e le scoperte di ricercatori, da Ipazia a Galileo, hanno permesso di scoprire la verità sul movimento degli astri, sulla loro forma. Scoperte che andavano a cozzare con le credenze spacciate come verità, ma confermate successivamente quando si è potuto disporre di strumenti scientifici più precisi. Anche i 241 segni sul disco ritrovato vicino alla città di Festos, nell’isola di Creta, sono a tutt’oggi incomprensibili; ma sono tanti i ricercatori che negli anni hanno confrontato le proprie ipotesi circa il significato di quei segni sconosciuti, ma ritenuti conoscibili; e continuano a farlo.
Ciò che muove l’essere umano è la possibilità della conoscenza che attiva quel desiderio che costruisce la Storia. Noi intendiamo tenere conto di chi c’è dietro a quanto è manifesto per tutti.
E la porta è aperta…
Marzo 2010
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Presentazione dell'ArcoAcrobata. IL MANIFESTO DEL LATENTE di Concetta Turchi. Anno 2002
LA MER, a cura di Marco Mortillaro. Anno 2002
IL MANIFESTO DEL LATENTE
Lineacrobatica di Concetta Turchi
Un tempo nell’isola di Creta, culla della civiltà mediterranea, prima ancora che i Micenei imponessero il loro fallo violento per estendere quel potere che avrebbe dato origine alla cultura greca, esisteva un popolo di artigiani, pirati e… belle donne.
Il popolo minoico, così si chiamava, non era di stirpe guerriera e dimostrazione lo erano i bei palazzi di Cnossos e Festos, di Malia e Zakros, aperti a gradoni verso il mare, senza quel muro di cinta innalzato sempre da chi deve difendere ciò che ha usurpato. Erano i luoghi della loro vita quotidiana e della loro espressione artistica, tempestati di affreschi multicolori che rimandavano di volta in volta all’immagine di purezza e dignità del Principe dei Gigli o alla misteriosa sensualità della Parigina. Immagini che comparivano sullo sfondo di un rapporto dialettico con quel mare che sembrava contenerli, come i delfini che dilatano i confini della stanza di Pasifae. Quei palazzi somigliavano alle donne che vi abitavano: recettive e sensuali ci piace immaginarle, con le loro vesti morbide e morbidamente colorate che lasciavano scoperti i seni per poi riannodarsi alla vita e cadere languidamente verso i piedi.
In quella civiltà, le cui tracce si possono ritrovare e ripercorrere nel Museo di Iraklion, una immagine si stagliava nell’aria e ne muoveva le linee: la tauromachia. L’acrobata che riesce a stare in equilibrio su di un toro scatenato che la leggenda greca ha poi trasformato in un mitico mostro rinchiuso nel buio del palazzo di Cnossos, da rabbonire ciclicamente con le frementi carni di giovinetti e giovinette. Nelle piccole sculture e negli affreschi, quell’acrobata viene rappresentato in un temerario equilibrio sull’arco di una colonna vertebrale tesa e deforme per lo scalpitio rabbioso, oppure in bilico su quelle corna pronte ad infilzarlo alla prima disattenzione.
L’Uomo che raccoglie la sfida contenuta in quella forma, ha la possibilità di trasformarsi in un acrobata, in colui che costruisce con l’arco un movimento per delinearne un significato diverso. Arrogante e gioiosa quell’immagine maschile, nel creare una nuova rappresentazione di sé e dell’altro, di sé con l’altro.
E che l’arco da sempre vada a rappresentare una sfida potente e misteriosa per l’intelligenza umana, è un fatto evidente, anche se poco considerato, come accade per molte evidenze. È lo stupore provato alla vista della prima volta in pietra, della prima freccia scagliata, del primo arcobaleno; è la paura e l’incredulità provata di fronte a quella colonna vertebrale che si tendeva all’indietro in quelle donne il cui utero si metteva a viaggiare per il corpo, così si diceva, senza trovare pace.
Sfide lanciate ad architetti, medici e quant’altro. Sfide lanciate ad una pensabilità lineare che accetta passivamente la inesorabile legge della caduta dei gravi; sfide fatte per costruire una storia che, andando a scoprire e a realizzare la linea dinamica del tempo, solleva la figura dalla propria staticità per regalarle un movimento che è richiesta di un rapporto a chi abbia sufficiente recettività per rimanere stupito, incredulo o intimorito.
La grande intuizione dell’isterica che, nella impossibilità di trovare una espressione creativa, riusciva a rappresentare in quel movimento del corpo, quella sfida e la propria impossibilità a credere in una risposta possibile. Sfida portata ai loro medici nel tentativo di infilzarli, ma allo stesso tempo con la inesplorata e muta speranza di essere cavalcate, di essere curate. Nascosto e senza parole quel desiderio di rapporto ritenuto vergognoso dai più.
E quando il giudizio dei più incalza, accade che i tori, le isteriche e… perfino gli arcobaleni, diventino mostruosità o simulazioni su cui si deve costruire l’ideologia di una natura umana originariamente perversa: da controllare e rabbonire questa dimensione inconscia, questo Minotauro, in un buio labirinto. Da distruggere con lo stesso arco, sottomesso a strumento di guerra.
Noi siamo qui per dire no a questa ideologia di un mostro che alberga nell’inconscio, alibi dietro cui si nasconde la follia del controllo onnipotente di tutto ciò che non è razionale, di tutto ciò che non è previsto e prevedibile, di tutto ciò che è umano.
Noi siamo qui a raccogliere il filo invisibile di una storia che ci permette di comprendere come in quella posizione assunta dall’isterica non ci sia soltanto la volgare imitazione dell’attacco di grande male epilettico, ma c’è l’immagine di quella contrazione del corpo raggiunta nell’orgasmo che nel profondo di lei va continuamente ricercando, per averla un tempo lontano vissuta e poi perduta per chissà quale tradimento.
Siamo qui per parlare, e non solo con le parole, di una sanità psichica presente alla nascita di ogni essere umano; nascita che seppure perduta successivamente in rapporti malati e violenti, può essere ritrovata all’interno di un processo, terapeutico e culturale, che racconti di una cura e di una guarigione possibile. Allora lo studio e la ricerca sulla cura della malattia mentale, anche di quella nascosta dentro i ghiacci di una terrificante normalità, può rappresentare l’occasione per una ricerca del proprio suono perduto, della propria immagine, il proprio coraggio perduto. Grande occasione che i “normali” non hanno perché non si sono neppure accorti di avere sacrificato il proprio suono, la propria immagine, il proprio coraggio al Minotauro. Ad una ideologia governata dalla ragione che divora e uccide le immagini della nostra adolescenza.
Siamo qui non per raddrizzare l’arco, ma per tendere tra le due estremità quel filo invisibile che lo trasforma in uno strumento musicale: una lira o un’arpa che, se toccata o pizzicata, emette quel suono che l’isterica non ha, perché l’isterica è muta nella sua rappresentazione; perché nell’isteria, come in ogni altra malattia mentale, non c’è suono. Soltanto con questa trasformazione l’arco non sarà più soltanto una immagine che sollecita lo sguardo, ma diventerà una colonna vertebrale tenuta dal filo invisibile della sanità: uno strumento musicale fatto per suonare la nostra colonna sonora, la nostra voce. La voce sarà allora in grado di costruire il linguaggio allo stesso modo di come un compositore può inventare la sua sinfonia. È quando la parola vive e dà vita; è quando i giovinetti e le giovinette liberano il loro labirinto, il loro orecchio, dal controllo onnipotente del Minotauro, per potere ascoltare eretti ed eretti finalmente potere parlare.
E allora diventa necessario quello stesso terremoto o maremoto che per ben due volte mise in ginocchio il popolo minoico rendendolo facile terra di conquista. Occorre rischiare di diventare una preda, perché solo un terremoto può distruggere quello che impedisce di reimparare ad ascoltare, a vedere, a parlare; per non giacere con un toro, come fece Pasifae, per poi generare il Minotauro. Ecco, non basta più essere onesti artigiani, seri professionisti… belle donne. Occorrono coraggio e creatività per mettere in crisi quell’Uomo dimezzato divenuto simbolo normalizzante della nostra cultura.
L’ARCOACROBATA, rivista di scienze umane ed arte, vuole raccontare di questa ricerca, di questo passaggio che l’uomo tenta da millenni verso la realizzazione della propria Umanità. E se tutto questo riusciremo ad esprimerlo in un linguaggio nuovo, allora avremo trovato quella chiave di violino che fa la realizzazione dell’uomo acrobata, perché un acrobata che sta in equilibrio su di un arco non può che essere per prima cosa una forma musicale. Riconoscibile solo a tratti, come la felicità che ci prende quando troviamo qualcosa di prezioso che non sapevamo neppure di cercare.
In quella sapienza dell’inconscio che diventa sapienza del corpo quando l’inconscio è libero di vagare in esso per costruire una azione senza ragione. Una azione che non si spiega, come non è spiegabile che una nota possa cadere su una pausa musicale senza interrompere il suono, nella misura in cui quella pausa temporale non è vuoto, ma è respiro silenzioso che lega le parole e sostiene le azioni. È quando la caduta si trasforma in un tuffo dentro un mare sconosciuto per trovare quella nascita che non è mai esistita prima: quella che sta sulle corna di un toro scatenato.
Il popolo minoico, così si chiamava, non era di stirpe guerriera e dimostrazione lo erano i bei palazzi di Cnossos e Festos, di Malia e Zakros, aperti a gradoni verso il mare, senza quel muro di cinta innalzato sempre da chi deve difendere ciò che ha usurpato. Erano i luoghi della loro vita quotidiana e della loro espressione artistica, tempestati di affreschi multicolori che rimandavano di volta in volta all’immagine di purezza e dignità del Principe dei Gigli o alla misteriosa sensualità della Parigina. Immagini che comparivano sullo sfondo di un rapporto dialettico con quel mare che sembrava contenerli, come i delfini che dilatano i confini della stanza di Pasifae. Quei palazzi somigliavano alle donne che vi abitavano: recettive e sensuali ci piace immaginarle, con le loro vesti morbide e morbidamente colorate che lasciavano scoperti i seni per poi riannodarsi alla vita e cadere languidamente verso i piedi.
In quella civiltà, le cui tracce si possono ritrovare e ripercorrere nel Museo di Iraklion, una immagine si stagliava nell’aria e ne muoveva le linee: la tauromachia. L’acrobata che riesce a stare in equilibrio su di un toro scatenato che la leggenda greca ha poi trasformato in un mitico mostro rinchiuso nel buio del palazzo di Cnossos, da rabbonire ciclicamente con le frementi carni di giovinetti e giovinette. Nelle piccole sculture e negli affreschi, quell’acrobata viene rappresentato in un temerario equilibrio sull’arco di una colonna vertebrale tesa e deforme per lo scalpitio rabbioso, oppure in bilico su quelle corna pronte ad infilzarlo alla prima disattenzione.
L’Uomo che raccoglie la sfida contenuta in quella forma, ha la possibilità di trasformarsi in un acrobata, in colui che costruisce con l’arco un movimento per delinearne un significato diverso. Arrogante e gioiosa quell’immagine maschile, nel creare una nuova rappresentazione di sé e dell’altro, di sé con l’altro.
E che l’arco da sempre vada a rappresentare una sfida potente e misteriosa per l’intelligenza umana, è un fatto evidente, anche se poco considerato, come accade per molte evidenze. È lo stupore provato alla vista della prima volta in pietra, della prima freccia scagliata, del primo arcobaleno; è la paura e l’incredulità provata di fronte a quella colonna vertebrale che si tendeva all’indietro in quelle donne il cui utero si metteva a viaggiare per il corpo, così si diceva, senza trovare pace.
Sfide lanciate ad architetti, medici e quant’altro. Sfide lanciate ad una pensabilità lineare che accetta passivamente la inesorabile legge della caduta dei gravi; sfide fatte per costruire una storia che, andando a scoprire e a realizzare la linea dinamica del tempo, solleva la figura dalla propria staticità per regalarle un movimento che è richiesta di un rapporto a chi abbia sufficiente recettività per rimanere stupito, incredulo o intimorito.
La grande intuizione dell’isterica che, nella impossibilità di trovare una espressione creativa, riusciva a rappresentare in quel movimento del corpo, quella sfida e la propria impossibilità a credere in una risposta possibile. Sfida portata ai loro medici nel tentativo di infilzarli, ma allo stesso tempo con la inesplorata e muta speranza di essere cavalcate, di essere curate. Nascosto e senza parole quel desiderio di rapporto ritenuto vergognoso dai più.
E quando il giudizio dei più incalza, accade che i tori, le isteriche e… perfino gli arcobaleni, diventino mostruosità o simulazioni su cui si deve costruire l’ideologia di una natura umana originariamente perversa: da controllare e rabbonire questa dimensione inconscia, questo Minotauro, in un buio labirinto. Da distruggere con lo stesso arco, sottomesso a strumento di guerra.
Noi siamo qui per dire no a questa ideologia di un mostro che alberga nell’inconscio, alibi dietro cui si nasconde la follia del controllo onnipotente di tutto ciò che non è razionale, di tutto ciò che non è previsto e prevedibile, di tutto ciò che è umano.
Noi siamo qui a raccogliere il filo invisibile di una storia che ci permette di comprendere come in quella posizione assunta dall’isterica non ci sia soltanto la volgare imitazione dell’attacco di grande male epilettico, ma c’è l’immagine di quella contrazione del corpo raggiunta nell’orgasmo che nel profondo di lei va continuamente ricercando, per averla un tempo lontano vissuta e poi perduta per chissà quale tradimento.
Siamo qui per parlare, e non solo con le parole, di una sanità psichica presente alla nascita di ogni essere umano; nascita che seppure perduta successivamente in rapporti malati e violenti, può essere ritrovata all’interno di un processo, terapeutico e culturale, che racconti di una cura e di una guarigione possibile. Allora lo studio e la ricerca sulla cura della malattia mentale, anche di quella nascosta dentro i ghiacci di una terrificante normalità, può rappresentare l’occasione per una ricerca del proprio suono perduto, della propria immagine, il proprio coraggio perduto. Grande occasione che i “normali” non hanno perché non si sono neppure accorti di avere sacrificato il proprio suono, la propria immagine, il proprio coraggio al Minotauro. Ad una ideologia governata dalla ragione che divora e uccide le immagini della nostra adolescenza.
Siamo qui non per raddrizzare l’arco, ma per tendere tra le due estremità quel filo invisibile che lo trasforma in uno strumento musicale: una lira o un’arpa che, se toccata o pizzicata, emette quel suono che l’isterica non ha, perché l’isterica è muta nella sua rappresentazione; perché nell’isteria, come in ogni altra malattia mentale, non c’è suono. Soltanto con questa trasformazione l’arco non sarà più soltanto una immagine che sollecita lo sguardo, ma diventerà una colonna vertebrale tenuta dal filo invisibile della sanità: uno strumento musicale fatto per suonare la nostra colonna sonora, la nostra voce. La voce sarà allora in grado di costruire il linguaggio allo stesso modo di come un compositore può inventare la sua sinfonia. È quando la parola vive e dà vita; è quando i giovinetti e le giovinette liberano il loro labirinto, il loro orecchio, dal controllo onnipotente del Minotauro, per potere ascoltare eretti ed eretti finalmente potere parlare.
E allora diventa necessario quello stesso terremoto o maremoto che per ben due volte mise in ginocchio il popolo minoico rendendolo facile terra di conquista. Occorre rischiare di diventare una preda, perché solo un terremoto può distruggere quello che impedisce di reimparare ad ascoltare, a vedere, a parlare; per non giacere con un toro, come fece Pasifae, per poi generare il Minotauro. Ecco, non basta più essere onesti artigiani, seri professionisti… belle donne. Occorrono coraggio e creatività per mettere in crisi quell’Uomo dimezzato divenuto simbolo normalizzante della nostra cultura.
L’ARCOACROBATA, rivista di scienze umane ed arte, vuole raccontare di questa ricerca, di questo passaggio che l’uomo tenta da millenni verso la realizzazione della propria Umanità. E se tutto questo riusciremo ad esprimerlo in un linguaggio nuovo, allora avremo trovato quella chiave di violino che fa la realizzazione dell’uomo acrobata, perché un acrobata che sta in equilibrio su di un arco non può che essere per prima cosa una forma musicale. Riconoscibile solo a tratti, come la felicità che ci prende quando troviamo qualcosa di prezioso che non sapevamo neppure di cercare.
In quella sapienza dell’inconscio che diventa sapienza del corpo quando l’inconscio è libero di vagare in esso per costruire una azione senza ragione. Una azione che non si spiega, come non è spiegabile che una nota possa cadere su una pausa musicale senza interrompere il suono, nella misura in cui quella pausa temporale non è vuoto, ma è respiro silenzioso che lega le parole e sostiene le azioni. È quando la caduta si trasforma in un tuffo dentro un mare sconosciuto per trovare quella nascita che non è mai esistita prima: quella che sta sulle corna di un toro scatenato.
Marzo 2002
Concetta Turchi
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