ArteScienza
DEMETRIO STRATOS. “ESSERE VOCE”, di Shelly Bisirri. Anno 2021
DEMETRIO STRATOS. “ESSERE VOCE”
Shelly Bisirri
Foto di Roberto Masotti
Demetrio Stratos, pseudonimo di Efstràtios Dimitrìu, nacque da genitori greci il 22 Aprile 1945 ad Alessandria d'Egitto, dove trascorse i primi tredici anni di vita studiando pianoforte e fisarmonica presso il prestigioso Conservatoire National d’Athènes. Essendo di famiglia cristiano-ortodossa, fin da piccolo poté assistere alle cerimonie accompagnate da musica religiosa bizantina, oltre ad ascoltare la musica araba tradizionale.
Da adulto riconobbe che l'infanzia vissuta ad Alessandria d’Egitto, gli aveva permesso di arricchirsi di esperienze sonore, al pari di un viaggiatore che si lascia attraversare dal traffico di culture in quel Mediterraneo ricco di diverse etnie e crocevia di intense pratiche musicali. Subito dopo la crisi di Suez, nel 1957, la famiglia lo mandò a studiare presso il Collegio di Terra Santa a Nicosia, Cipro, dove Efstràtios ottenne anche il passaporto cipriota.
Nel 1962 si trasferì a Milano dove si iscrisse alla Facoltà di Architettura del Politecnico. In Italia assunse definitivamente il nome di Demetrio Stratos, scambiando il cognome (Dimitrìou) con il nome di battesimo (Efstràtios). Nel 1963 costituì a Milano un gruppo musicale studentesco di soul, blues e rhythm and blues e sempre a Milano fece le sue prime esperienze musicali come turnista in diversi studi di registrazione. Nel 1966, con lo pseudonimo The Clockwork Oranges, debuttò come cantante con il brano: Ready Steady/After Tonight. Nello stesso anno si unì come pianista e voce solista al gruppo musicale I Ribelli con i quali rimase fino al 1970 incidendo vari 45 giri, tra cui il celebre successo Pugni chiusi e l'album che porta il loro nome: I Ribelli.
Nel 1972, insieme al batterista Giulio Capiozzo, fondò gli Area, gruppo in cui rimase fino al 1978, affermandosi in Italia e all'estero seguendo la scia della fusion e del rock progressivo.
Nel 1973, Stratos partecipò alla 8° Biennale di Parigi con gli Area in rappresentanza dell’Italia, portando il loro primo album, Arbeit macht frei ("Work Brings Freedom”- “Il lavoro porta libertà”), frase ripresa da un’iscrizione su di un cancello nel campo di concentramento di Auschwitz.
Nel 1974, con gli Area, prese parte a diverse tournée e festival in diverse parti d’Europa come Francia, Portogallo, Svizzera e del mondo arrivando fino a Cuba. Durante la tournée ricevette l'invito dal Ministero della Cultura ad incontrarsi con la Delegazione di musicisti della Mongolia per partecipare a un dibattito sulla vocalità dell'Estremo oriente. Demetrio Stratos si era progressivamente inoltrato nell'affascinante mondo dei suoni riprendendo e ampliando un vasto discorso sul significato della voce nelle diverse civiltà orientali e mediorientali. Egli diceva che le triplofonie e quadrifonie usate nella cultura dei monaci tibetani era un modo di usare la voce come rito e mise questo concetto alla base della sua ricerca sonora. Sempre facendo riferimento alla cultura tibetana sosteneva che la ripetizione era la strada per allontanarsi dall’usuale, per distaccarsi dal proprio ego ed entrare in una visione sociale della voce.
Sempre nel 1974 a Milano lavorò con Gianni Emilio Simonetti, Juan Hidalgo e Walter Marchetti, fondatori del gruppo Zaj sin dal 1959 e basato sulla sperimentazione musicale e performativa, all’interno dell’esperienza Fluxus. Questa era uno strumento di collegamento internazionale fra artisti di origine culturali e discipline completamente diverse: dalla danza alla pittura, al design. Fu in questa circostanza che Demetrio si avvicina al pensiero e all’opera del compositore statunitense John Cage che lo invitò a tenere una serie di concerti al Roundabout Theatre di New York. Nello stesso periodo collaborò con la Merce Cunningham Dance Company, sotto la direzione artistica di Jasper Johns, quella musicale di Cage e la collaborazione di Andy Warhol per i costumi. Inoltre Interpreta i Sixty-Two Mesostics Re Merce Cunningham per voce non accompagnata e microfono, di John Cage, che inaugura la collana “Nova Musicha”. Alla Festa del Proletariato Giovanile al Parco Lambro di Milano, Stratos presenta i Mesostics di Cage davanti a oltre 15.000 spettatori. Nello stesso periodo con gli Area realizza il secondo album Caution Radiation Area.
Demetrio Stratos coltivò un'importante esperienza solista incentrata su sperimentazioni e ricerche vocali. Egli si interessa di musicologia comparata e studia i problemi della vocalità etnica rendendo questi approfondimenti il fulcro della sua vita di musicista. Il suo studio sulla voce come strumento, lo portò nel corso degli anni settanta a raggiungere risultati al limite delle capacità umane. È in questo frangente che pubblicò il suo primo disco da solista Metrodora. Questo disco è basato esclusivamente sulle sue sperimentazioni vocali. Tutte le sue teorizzazioni e la rilevanza dei contributi dati nell’ambito del rock, della fonologia, della linguistica, della psicanalisi, dell’antropologia e della musica sperimentale ebbero come laboratorio il suo stesso corpo.
Demetrio Stratos si interessò di psicanalisi e svolse una ricerca sul rapporto tra linguaggio e psiche. Tenne corsi e seminari nelle scuole, formulando una vera e propria pedagogia della voce. Introdusse il concetto di voce-musica, dove la voce è considerata nella sua individualità e non vincolata unicamente ed esclusivamente alla parola e al suo discorso di significato verbale. Si ribellava alla “voce bella e pronta” dei giorni nostri, combattendola con una strategia ed una pratica liberatoria. Affermava con decisione che si stesse vivendo un periodo di appiattimento, di distanziamento e indifferenza rispetto al senso della voce umana: la voce come veicolo del significato della parola rubava spazio alla voce-musica, quindi al significante, privandola delle sue sfumature istintive, grezze, rumorose, man mano che ci si avvicinava all’età adulta e ad una vocalità dominata dai meccanismi culturali di controllo e dagli imperativi della società di mercato. La voce era, d’altronde da secoli subordinata agli imperativi della ‘buona tecnica’ considerata come uno strumento, una macchina perfettamente addomesticabile al servizio di un’estetica armoniosa e in nessun momento anarchica. Il rumore e la stonatura dovevano essere banditi da un mondo che aveva stabilito una particolare ‘morale’ della voce. Demetrio Strato arrivò a scardinare questi meccanismi con la sua voce pronta ad essere emessa nella sua materialità, nella sua esecrabile sgradevolezza e rivoluzionaria indecorosi, portando avanti una sua personale critica, in un contesto rivoluzionario come quello di allora in cui la vocalità assumeva un profondo ruolo contestatore. La voce soffocata rappresentava per lui il proletariato sfruttato che cercava la sua forza liberatrice; con la voce egli sapeva fare cose inimmaginabili al punto che giustamente è stato definito: artista/strumento umano irripetibile.
Liberare la naturalità nascosta della propria voce, per Demetrio significava elaborare ed esprimere pensieri contro il potere, deridendo e intrattenendo, insegnando ed imparando sempre dalle emozioni del pubblico. Si dice che il termine esatto delle situazioni di avanguardia presentate da Demetrio Stratos fosse ‘performance’, perché con questo termine si intendeva dare una corporeità plurale alle arti che innescava nei suoi spettacoli: fusione di mimo e voce, canto e recitazione, recitazione di un corpo in grado di dare dimensioni difficilmente collocabili nelle normali geografie artistiche.
Ad un certo punto ella sua ricerca decise di scoprire anche la condizioni meccaniche per mezzo delle quali si realizza un suono, fece delle ricerche di etnomusicologia e sulla estensione vocale, in collaborazione con il CNR di Padova tra il 1976 e il 1978, in particolare studiò le modalità canore dei popoli asiatici. Il prof. Franco Ferrero, che presso il Centro Studi per le ricerche di Fonetica del CNR dell'Università di Padova, analizzò gli effetti che Stratos riusciva a produrre, dice: “Stando a quanto ho riscontrato durante l'emissione, le sue corde vocali non vibravano”. La scienza medica ufficiale non è in grado di spiegare e comprendere le abilità di Demetrio Stratos, mentre l’Audiopsicofonologia di Alfred Tomatis ci dà la possibilità di comprendere come Demetrio abbia sviluppato le sue abilità sonore attraverso la funzione dell’ascolto.
Proprio come scrivono entrambi (Demetrio nel suo libro “Essere Voce” e Tomatis ne “L’orecchio e la voce”) per cantare non bisogna fare niente. Alfred Tomatis sostiene che il corpo accoglie i suoni dell’Universo per entrarvi in risonanza e la voce stessa diventa espressione di questa capacità. Infatti il raggiungere frequenze impensabili è dovuto ad una grande rilassatezza e disponibilità di tutto il corpo all’unisono di entrare in risonanza con i suoni dell’Universo.
È per questo che poi il prof. Franco Ferrero non sapeva spiegarsi come mai le corde vocali di Demetrio non vibrassero durante l’emissione vocale, la voce non è data solo dalla vibrazione delle corde vocali, ma dalla ricettività del corpo di accogliere e risuonare.
Demetrio Stratos afferma che “La voce è oggi nella musica un canale di trasmissione che non trasmette più nulla” e ancora: “L'ipertrofia vocale occidentale ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche”.
All’inizio del 1979 Demetrio Stratos tenne un corso di semiologia della musica contemporanea sulla voce presso il Conservatorio “G. Verdi” di Milano e il 30 marzo fece il suo ultimo concerto presso il Teatrino della Villa Reale di Monza. Colpito da una forma di anemia aplastica, dapprima fu ricoverato a Milano poi trasferito presso il Memorial Hospital di New York.
Mi viene da pensare che Demetrio non sia riuscito a proteggere il suo laboratorio di ricerca: il corpo. Lui che aveva lottato contro i dogmi della ‘buona tecnica’: forse si è lasciato trascinare dall’idea di voler capire e studiare le condizioni meccaniche e tecniche del funzionamento della voce? Da qui la scelta di collaborare con il CNR di Padova? La voce comunque ha un suo sviluppo anche quando si rema contro, come so per esperienza diretta. Demetrio con queste scelte sembra che avesse perso la centralità della sua espressione prettamente artistica e a volte quando ci si disperde rispetto alla dimensione artistica capita che ci si possa ammalare.
La notizia della sua malattia si diffuse in breve tempo nell'ambiente musicale italiano e Gianni Sassi, fondatore della Cramps e già paroliere degli Area, organizzò un concerto allo scopo di raccogliere i fondi per garantire al cantante la costosa degenza, in attesa del necessario trapianto di midollo osseo. Furono molti gli artisti che aderirono all’iniziativa, a conferma di quanto Demetrio Stratos fosse amato. Ma le condizioni tuttavia si aggravarono più rapidamente del previsto ed egli morì all'età di 34 anni il 13 giugno 1979, il giorno prima della data fissata per l'evento benefico, che divenne così un tributo alla sua memoria, il primo di una lunga serie.
Dalle registrazioni del concerto di Milano, al quale intervennero circa sessantamila spettatori, la Cramps trasse il doppio album 1979 Il concerto - Omaggio a Demetrio Stratos; lo speciale televisivo dedicato all'evento, a cura di Renato Marengo e, in occasione del trentennale (2009), uscì su un DVD prodotto dalla Cramps assieme a Rai Trade, allegato a La Repubblica e L'Espresso.
Demetrio Stratos fu tumulato nel cimitero del borgo di Scipione Castello, frazione del comune di Salsomaggiore Terme che, dal 2000, organizza tutti gli anni una manifestazione musicale a lui dedicata.
Da adulto riconobbe che l'infanzia vissuta ad Alessandria d’Egitto, gli aveva permesso di arricchirsi di esperienze sonore, al pari di un viaggiatore che si lascia attraversare dal traffico di culture in quel Mediterraneo ricco di diverse etnie e crocevia di intense pratiche musicali. Subito dopo la crisi di Suez, nel 1957, la famiglia lo mandò a studiare presso il Collegio di Terra Santa a Nicosia, Cipro, dove Efstràtios ottenne anche il passaporto cipriota.
Nel 1962 si trasferì a Milano dove si iscrisse alla Facoltà di Architettura del Politecnico. In Italia assunse definitivamente il nome di Demetrio Stratos, scambiando il cognome (Dimitrìou) con il nome di battesimo (Efstràtios). Nel 1963 costituì a Milano un gruppo musicale studentesco di soul, blues e rhythm and blues e sempre a Milano fece le sue prime esperienze musicali come turnista in diversi studi di registrazione. Nel 1966, con lo pseudonimo The Clockwork Oranges, debuttò come cantante con il brano: Ready Steady/After Tonight. Nello stesso anno si unì come pianista e voce solista al gruppo musicale I Ribelli con i quali rimase fino al 1970 incidendo vari 45 giri, tra cui il celebre successo Pugni chiusi e l'album che porta il loro nome: I Ribelli.
Nel 1972, insieme al batterista Giulio Capiozzo, fondò gli Area, gruppo in cui rimase fino al 1978, affermandosi in Italia e all'estero seguendo la scia della fusion e del rock progressivo.
Nel 1973, Stratos partecipò alla 8° Biennale di Parigi con gli Area in rappresentanza dell’Italia, portando il loro primo album, Arbeit macht frei ("Work Brings Freedom”- “Il lavoro porta libertà”), frase ripresa da un’iscrizione su di un cancello nel campo di concentramento di Auschwitz.
Nel 1974, con gli Area, prese parte a diverse tournée e festival in diverse parti d’Europa come Francia, Portogallo, Svizzera e del mondo arrivando fino a Cuba. Durante la tournée ricevette l'invito dal Ministero della Cultura ad incontrarsi con la Delegazione di musicisti della Mongolia per partecipare a un dibattito sulla vocalità dell'Estremo oriente. Demetrio Stratos si era progressivamente inoltrato nell'affascinante mondo dei suoni riprendendo e ampliando un vasto discorso sul significato della voce nelle diverse civiltà orientali e mediorientali. Egli diceva che le triplofonie e quadrifonie usate nella cultura dei monaci tibetani era un modo di usare la voce come rito e mise questo concetto alla base della sua ricerca sonora. Sempre facendo riferimento alla cultura tibetana sosteneva che la ripetizione era la strada per allontanarsi dall’usuale, per distaccarsi dal proprio ego ed entrare in una visione sociale della voce.
Sempre nel 1974 a Milano lavorò con Gianni Emilio Simonetti, Juan Hidalgo e Walter Marchetti, fondatori del gruppo Zaj sin dal 1959 e basato sulla sperimentazione musicale e performativa, all’interno dell’esperienza Fluxus. Questa era uno strumento di collegamento internazionale fra artisti di origine culturali e discipline completamente diverse: dalla danza alla pittura, al design. Fu in questa circostanza che Demetrio si avvicina al pensiero e all’opera del compositore statunitense John Cage che lo invitò a tenere una serie di concerti al Roundabout Theatre di New York. Nello stesso periodo collaborò con la Merce Cunningham Dance Company, sotto la direzione artistica di Jasper Johns, quella musicale di Cage e la collaborazione di Andy Warhol per i costumi. Inoltre Interpreta i Sixty-Two Mesostics Re Merce Cunningham per voce non accompagnata e microfono, di John Cage, che inaugura la collana “Nova Musicha”. Alla Festa del Proletariato Giovanile al Parco Lambro di Milano, Stratos presenta i Mesostics di Cage davanti a oltre 15.000 spettatori. Nello stesso periodo con gli Area realizza il secondo album Caution Radiation Area.
Foto di Silvia Lelli / Lelli e Masotti Archivio
Demetrio Stratos coltivò un'importante esperienza solista incentrata su sperimentazioni e ricerche vocali. Egli si interessa di musicologia comparata e studia i problemi della vocalità etnica rendendo questi approfondimenti il fulcro della sua vita di musicista. Il suo studio sulla voce come strumento, lo portò nel corso degli anni settanta a raggiungere risultati al limite delle capacità umane. È in questo frangente che pubblicò il suo primo disco da solista Metrodora. Questo disco è basato esclusivamente sulle sue sperimentazioni vocali. Tutte le sue teorizzazioni e la rilevanza dei contributi dati nell’ambito del rock, della fonologia, della linguistica, della psicanalisi, dell’antropologia e della musica sperimentale ebbero come laboratorio il suo stesso corpo.
Demetrio Stratos si interessò di psicanalisi e svolse una ricerca sul rapporto tra linguaggio e psiche. Tenne corsi e seminari nelle scuole, formulando una vera e propria pedagogia della voce. Introdusse il concetto di voce-musica, dove la voce è considerata nella sua individualità e non vincolata unicamente ed esclusivamente alla parola e al suo discorso di significato verbale. Si ribellava alla “voce bella e pronta” dei giorni nostri, combattendola con una strategia ed una pratica liberatoria. Affermava con decisione che si stesse vivendo un periodo di appiattimento, di distanziamento e indifferenza rispetto al senso della voce umana: la voce come veicolo del significato della parola rubava spazio alla voce-musica, quindi al significante, privandola delle sue sfumature istintive, grezze, rumorose, man mano che ci si avvicinava all’età adulta e ad una vocalità dominata dai meccanismi culturali di controllo e dagli imperativi della società di mercato. La voce era, d’altronde da secoli subordinata agli imperativi della ‘buona tecnica’ considerata come uno strumento, una macchina perfettamente addomesticabile al servizio di un’estetica armoniosa e in nessun momento anarchica. Il rumore e la stonatura dovevano essere banditi da un mondo che aveva stabilito una particolare ‘morale’ della voce. Demetrio Strato arrivò a scardinare questi meccanismi con la sua voce pronta ad essere emessa nella sua materialità, nella sua esecrabile sgradevolezza e rivoluzionaria indecorosi, portando avanti una sua personale critica, in un contesto rivoluzionario come quello di allora in cui la vocalità assumeva un profondo ruolo contestatore. La voce soffocata rappresentava per lui il proletariato sfruttato che cercava la sua forza liberatrice; con la voce egli sapeva fare cose inimmaginabili al punto che giustamente è stato definito: artista/strumento umano irripetibile.
Liberare la naturalità nascosta della propria voce, per Demetrio significava elaborare ed esprimere pensieri contro il potere, deridendo e intrattenendo, insegnando ed imparando sempre dalle emozioni del pubblico. Si dice che il termine esatto delle situazioni di avanguardia presentate da Demetrio Stratos fosse ‘performance’, perché con questo termine si intendeva dare una corporeità plurale alle arti che innescava nei suoi spettacoli: fusione di mimo e voce, canto e recitazione, recitazione di un corpo in grado di dare dimensioni difficilmente collocabili nelle normali geografie artistiche.
Ad un certo punto ella sua ricerca decise di scoprire anche la condizioni meccaniche per mezzo delle quali si realizza un suono, fece delle ricerche di etnomusicologia e sulla estensione vocale, in collaborazione con il CNR di Padova tra il 1976 e il 1978, in particolare studiò le modalità canore dei popoli asiatici. Il prof. Franco Ferrero, che presso il Centro Studi per le ricerche di Fonetica del CNR dell'Università di Padova, analizzò gli effetti che Stratos riusciva a produrre, dice: “Stando a quanto ho riscontrato durante l'emissione, le sue corde vocali non vibravano”. La scienza medica ufficiale non è in grado di spiegare e comprendere le abilità di Demetrio Stratos, mentre l’Audiopsicofonologia di Alfred Tomatis ci dà la possibilità di comprendere come Demetrio abbia sviluppato le sue abilità sonore attraverso la funzione dell’ascolto.
Proprio come scrivono entrambi (Demetrio nel suo libro “Essere Voce” e Tomatis ne “L’orecchio e la voce”) per cantare non bisogna fare niente. Alfred Tomatis sostiene che il corpo accoglie i suoni dell’Universo per entrarvi in risonanza e la voce stessa diventa espressione di questa capacità. Infatti il raggiungere frequenze impensabili è dovuto ad una grande rilassatezza e disponibilità di tutto il corpo all’unisono di entrare in risonanza con i suoni dell’Universo.
È per questo che poi il prof. Franco Ferrero non sapeva spiegarsi come mai le corde vocali di Demetrio non vibrassero durante l’emissione vocale, la voce non è data solo dalla vibrazione delle corde vocali, ma dalla ricettività del corpo di accogliere e risuonare.
Demetrio Stratos afferma che “La voce è oggi nella musica un canale di trasmissione che non trasmette più nulla” e ancora: “L'ipertrofia vocale occidentale ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche”.
All’inizio del 1979 Demetrio Stratos tenne un corso di semiologia della musica contemporanea sulla voce presso il Conservatorio “G. Verdi” di Milano e il 30 marzo fece il suo ultimo concerto presso il Teatrino della Villa Reale di Monza. Colpito da una forma di anemia aplastica, dapprima fu ricoverato a Milano poi trasferito presso il Memorial Hospital di New York.
Mi viene da pensare che Demetrio non sia riuscito a proteggere il suo laboratorio di ricerca: il corpo. Lui che aveva lottato contro i dogmi della ‘buona tecnica’: forse si è lasciato trascinare dall’idea di voler capire e studiare le condizioni meccaniche e tecniche del funzionamento della voce? Da qui la scelta di collaborare con il CNR di Padova? La voce comunque ha un suo sviluppo anche quando si rema contro, come so per esperienza diretta. Demetrio con queste scelte sembra che avesse perso la centralità della sua espressione prettamente artistica e a volte quando ci si disperde rispetto alla dimensione artistica capita che ci si possa ammalare.
La notizia della sua malattia si diffuse in breve tempo nell'ambiente musicale italiano e Gianni Sassi, fondatore della Cramps e già paroliere degli Area, organizzò un concerto allo scopo di raccogliere i fondi per garantire al cantante la costosa degenza, in attesa del necessario trapianto di midollo osseo. Furono molti gli artisti che aderirono all’iniziativa, a conferma di quanto Demetrio Stratos fosse amato. Ma le condizioni tuttavia si aggravarono più rapidamente del previsto ed egli morì all'età di 34 anni il 13 giugno 1979, il giorno prima della data fissata per l'evento benefico, che divenne così un tributo alla sua memoria, il primo di una lunga serie.
Dalle registrazioni del concerto di Milano, al quale intervennero circa sessantamila spettatori, la Cramps trasse il doppio album 1979 Il concerto - Omaggio a Demetrio Stratos; lo speciale televisivo dedicato all'evento, a cura di Renato Marengo e, in occasione del trentennale (2009), uscì su un DVD prodotto dalla Cramps assieme a Rai Trade, allegato a La Repubblica e L'Espresso.
Demetrio Stratos fu tumulato nel cimitero del borgo di Scipione Castello, frazione del comune di Salsomaggiore Terme che, dal 2000, organizza tutti gli anni una manifestazione musicale a lui dedicata.
SITOGRAFIA
Le informazioni biografiche su Demetrio Stratos sono tratte dai seguenti siti internet:
https://en.wikipedia.org/wiki/Demetrio_Stratos
http://www.demetriostratos.org/cronologia
http://www.progarchives.com/artist.asp?id=3046#videos
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IL CORPO DELLA VOCE: C'È DICOTOMIA TRA SCIENZA E ARTE. L’Equipaggio. Anno 2019
IL CORPO DELLA VOCE: C'È DICOTOMIA TRA SCIENZA E ARTE
L’Equipaggio – Filippo Paoli, Cinzia Sersante, Concetta Turchi
In questa mostra gli scienziati si occupano del corpo della voce,
per fortuna gli artisti si occupano del corpo nella voce.
Una domanda sorge spontanea: può esserci il corpo della voce quando a mancare è il corpo nella voce?
per fortuna gli artisti si occupano del corpo nella voce.
Una domanda sorge spontanea: può esserci il corpo della voce quando a mancare è il corpo nella voce?
La scala vocale di Concetta Turchi
In una piovosa domenica di maggio tra pozzanghere umane e cittadine, abbiamo raggiunto il Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale a Roma dove si teneva la mostra “Il corpo della voce” (a cura di Anna Cestelli Guidi e Francesca Rachele Oppedisano con i contributi scientifici di Franco Fussi e Graziano Tisato). La ricerca sul corpo e sulla voce che portiamo avanti da decenni al Musicalificio Grande Blu ci ha condotti lì con il desiderio di incontrare dei grandi artisti di cui da sempre conosciamo lo spessore.
Nella prima parte della mostra vengono presi in considerazione i presupposti anatomici che rendono possibile l’emissione della voce e con nostra grande meraviglia scopriamo che il corpo non ha piedi, né gambe, né pavimento pelvico: c’è una focalizzazione degna del mondo lillipuziano degli otorinolaringoiatri di come funzionano le corde vocali, le cavità di risonanza, la glottide e la laringe. In qualche cartello esplicativo di approfondimento (sic!) si accenna a come deve essere tenuto il diaframma per sostenere il suono.
Nella prima parte della mostra vengono presi in considerazione i presupposti anatomici che rendono possibile l’emissione della voce e con nostra grande meraviglia scopriamo che il corpo non ha piedi, né gambe, né pavimento pelvico: c’è una focalizzazione degna del mondo lillipuziano degli otorinolaringoiatri di come funzionano le corde vocali, le cavità di risonanza, la glottide e la laringe. In qualche cartello esplicativo di approfondimento (sic!) si accenna a come deve essere tenuto il diaframma per sostenere il suono.
Questi aspetti vengono sintetizzati in due brevi video.
• “Not I” di Samuel Beckett con Billy Weithlaw nella parte di “Bocca” (1973) dove la bocca è prigioniera nella “ripetizione ossessivamente rapida di frasi apparentemente prive di senso”: scopriamo che c’è qualcuno dentro quella bocca che cerca di uscire fuori e la voce viene intesa come frutto di questo movimento verso l’esterno. Dov’è la messa in vibrazione della nostra struttura ossea? Passa così il messaggio di una voce intesa “come pura sonorità” con un corpo che non è nel corpo. In questo senso ci piace rileggere quanto riportato in una didascalia che accompagna il video “Not I” di Matthieu Galey: “Della Voce morta della nostra Bocca d’ombra”. Ci rendiamo conto che la nostra lettura è un po’ diversa dalla intenzione di chi ha redatto il testo, ma non possiamo fare altrimenti per restituire corpo alla voce: quando la voce viene spinta all’esterno, mancando la risonanza corporea, la bocca diventa l’ombra del corpo che può produrre solo voce morta.
Sehnsucht nach dem Frühlinge (W. A. Mozart) - Video di Anna-Maria Hefele
• Nel video si dà rilievo all’apparato fonatorio e alle strutture muscolari che lo sostengono senza alcun commento sulla postura assolutamente perfetta di quello che possiamo vedere della cantante. Finiamo di registrare con una crescente indignazione l’assenza del corpo e l’assenza della relazione, scientificamente accertata da oltre 60 anni, tra ascolto e voce. Ma questo non ci sorprende! Perché davvero il piccolo mondo della otorinolaringoiatria ritiene che l’ascolto abbia a che fare solo con l’orecchio (confondendolo con l’udito). Noi sappiamo invece che, proprio come la voce, l’ascolto riguarda tutto il corpo. Ascoltiamo con il corpo e parliamo e cantiamo con il corpo.
Sehnsucht nach dem Frühlinge (W. A. Mozart) - Video di Anna-Maria Hefele
• Nel video si dà rilievo all’apparato fonatorio e alle strutture muscolari che lo sostengono senza alcun commento sulla postura assolutamente perfetta di quello che possiamo vedere della cantante. Finiamo di registrare con una crescente indignazione l’assenza del corpo e l’assenza della relazione, scientificamente accertata da oltre 60 anni, tra ascolto e voce. Ma questo non ci sorprende! Perché davvero il piccolo mondo della otorinolaringoiatria ritiene che l’ascolto abbia a che fare solo con l’orecchio (confondendolo con l’udito). Noi sappiamo invece che, proprio come la voce, l’ascolto riguarda tutto il corpo. Ascoltiamo con il corpo e parliamo e cantiamo con il corpo.
Per fortuna questa pochezza scientifica ce la scrolliamo di dosso facilmente quando ci addentriamo nella ricerca meravigliosa dei magnifici tre: Demetrio Stratos (Efstratios Demetriou), Cathy Berberian, Carmelo Bene.
“Nel greco antico il termine phoné indica la voce in quanto suono, prima di articolarsi nel linguaggio. Indica un luogo originario che precede qualsiasi intenzione di voler dire, di significare. Sulla scia delle sperimentazioni linguistiche delle avanguardie del ‘900 la voce intesa come phoné infrange nel secondo dopo guerra il legame indissolubile, radicato nella cultura occidentale, tra il significato delle parole e la sua dimensione sonora. I tre grandi artisti al centro di questa mostra si sono serviti dell’avvento delle allora nuove tecniche elettroniche di registrazione, manipolazione e montaggio del suono, per restituirlo alla sua entità di fatto sonoro. Non è un caso se la cantante mezzo soprano americano di origini armene Cathy Berberian e l’attore regista Carmelo Bene, muovendo da una ricerca sulla musicalità della parola, si siano riferiti all’Ulisse di James Joyce, rivoluzionaria opera letteraria in cui l’elemento linguistico-fonico prevale prepotentemente sul semantico, e se per ragioni analoghe, Demetrio Stratos, musicista e cantante di origine greca, non è rimasto insensibile alle ricerche sul linguaggio del poeta e drammaturgo Antonin Artaud e del drammaturgo irlandese Samuel Beckett. (…) Nonostante ambiti del tutto diversi, della performance e della poesia sonora per Stratos, della sperimentazione musicale e dell’opera classica per Berberian, del teatro per Bene, le ricerche dei tre artisti muovono nella stessa direzione, verso la messa in opera di una nuova vocalità pensata oltre i limiti dell’impossibile”. (Tratto da una didascalia della mostra).
Demetrio Stratos soffia in una bambolina di porcellana
durante la registrazione di Metrodora
durante la registrazione di Metrodora
La ricerca polifonica di Stratos nasce dalla osservazione della figlia Anastasia: nel passaggio dalla lallazione all’acquisizione del linguaggio venivano perse delle qualità sonore in favore dell’articolazione della parola. Quindi c’è uno scarto tra suono e linguaggio, e questo spazio che precede la grammatica nasce con l’avventura squisitamente umana di ergersi sulle due gambe. La comunicazione attraverso il suono arriva prima della comunicazione codificata ed è così che lo spazio sonoro dimenticato dai più diventa per l’artista greco oggetto di quella ricerca che chiama “vocalità sperimentale”.
O TZITZERAS O MITZERAS - live 1978
Video Demetrio Stratos
Video Demetrio Stratos
“Se, come affermano gli antropologi, è l’atto di lasciare e non quello di afferrare che ci distingue dai nostri amici animali, questo lasciare il sentiero della parola per tornare indietro là dove la sua mancanza continua a testimoniare l’amore per Euterpe, segna un punto a favore dell’intelligenza dell’uomo nel reclamare un mondo a sua immagine” (G. E. Simonetti).
Demetrio risponde: “Sono d’accordo ‘in ogni caso, amorevolmente progredire, amorevolmente regredendo’”.
Demetrio risponde: “Sono d’accordo ‘in ogni caso, amorevolmente progredire, amorevolmente regredendo’”.
Per Demetrio la musica e il suono sono una cosa seria che ai suoi tempi (anni ’70) in Italia veniva offerta ai giovani come forma di intrattenimento e non per comunicare. A tal proposito Gianni Emilio Simonetti, docente di Sociologia della comunicazione, dice: “In Demetrio Stratos dietro i giochi ‘fonematici’ fa breccia la tragedia di una generazione che cantò per non capire. (…) Un canto quindi che ha paura della voce perché intravede in questa le macerie di quell’ordine di cui è una immagine deformata o, più precisamente, l’illusione di quello spirito borghese di cui è un riflesso pedante”.
Il corpo si fa laboratorio scientifico e politico dove si scoprono diplofonie e triplofonie, rumori e silenzi e dove la voce umana può diventare musica.
Il corpo si fa laboratorio scientifico e politico dove si scoprono diplofonie e triplofonie, rumori e silenzi e dove la voce umana può diventare musica.
DIPLOFONIA, TRIPLOFONIA, INVESTIGAZIONI - live 1978
Video Demetrio Stratos
Video Demetrio Stratos
La ricerca di Stratos, che raccoglie l’eco delle sonorità dei popoli erranti del Mediterraneo per sviluppare una vocalità sperimentale, si avvale di tre tipi di approccio:
Per Demetrio il suono avvicina le genti di tutti i popoli ed è qualcosa che apre e unisce diventando così atto artistico e politico al contempo. Ciò che unisce tutti i popoli, noi lo sappiamo bene, è la ricerca dell’altro che si avvia fin dai primi mesi di vita attraverso le sperimentazioni sonore: consideriamo il neonato il primo ricercatore che fa della voce il suo strumento privilegiato.
E non possiamo inoltre dimenticare che il mito della voce è inscritto nella cultura del Mediterraneo attraverso il canto delle Sirene, canto emergente da un silenzio assordante.
• scientifico, per conoscere lo strumento che si suona e come funziona;
• psicoanalitico-filosofico-antropologico per il lavoro sulla voce e sulla linguistica che è fondamentalmente un lavoro di pensiero;
• etnomusicologico, per sapere come cantano gli altri popoli, che tipo di linguaggio utilizzano, come utilizzano la voce e il proprio corpo.
• psicoanalitico-filosofico-antropologico per il lavoro sulla voce e sulla linguistica che è fondamentalmente un lavoro di pensiero;
• etnomusicologico, per sapere come cantano gli altri popoli, che tipo di linguaggio utilizzano, come utilizzano la voce e il proprio corpo.
Per Demetrio il suono avvicina le genti di tutti i popoli ed è qualcosa che apre e unisce diventando così atto artistico e politico al contempo. Ciò che unisce tutti i popoli, noi lo sappiamo bene, è la ricerca dell’altro che si avvia fin dai primi mesi di vita attraverso le sperimentazioni sonore: consideriamo il neonato il primo ricercatore che fa della voce il suo strumento privilegiato.
E non possiamo inoltre dimenticare che il mito della voce è inscritto nella cultura del Mediterraneo attraverso il canto delle Sirene, canto emergente da un silenzio assordante.
CANTO DEI PASTORI - live 1978
Video Demetrio Stratos
Video Demetrio Stratos
Ed è proprio questa la ricerca etnologica di Demetrio: partire dal silenzio per abitare il suono. A questo proposito, nel 1978 partecipa a Bologna al “Il treno di John Cage – Alla ricerca del silenzio perduto”.
Cathy Berberian posa con il vestito di scena di Stripsody (ca. 1966)
E Cathy Berberian raccoglie il testimone di Demetrio ovvero Il canto delle sirene.
OMAGGIO A JOYCE 1958
Video Luciano Berio
Video Luciano Berio
Non è un caso che l’altra grande ricercatrice sonora proposta da questa mostra, Cathy Berberian, interpreta nel 1958 “Thema” (Omaggio a Joyce di Luciano Berio) che guarda caso è la lettura della overture dell’XI capitolo dell’Ulisse di Joyce intitolato “Le Sirene” in cui la sua voce viene strattonata di continuo dalle manipolazioni elettroacustiche. Anche lei come Demetrio interpreta pezzi scritti da John Cage dove sperimenta le forme espressive e gestuali della vocalità pura. Spartiti audaci, il gusto giocoso della presenza scenica, il suo senso dell’umorismo hanno fatto coincidere voce e gesto, suono e recitazione.
Specchio della sua personalità è Stripsody (1966) dove Cathy si diverte nell’interpretare sé stessa, elevando l’ironia e l’umorismo a principio compositivo. In questo brano “si giustappongono onomatopee e interiezioni provenienti in modo esplicito ed implicito dal mondo dei fumetti” mentre compaiono sulla scena delle serigrafie che corrispondono allo spartito.
Specchio della sua personalità è Stripsody (1966) dove Cathy si diverte nell’interpretare sé stessa, elevando l’ironia e l’umorismo a principio compositivo. In questo brano “si giustappongono onomatopee e interiezioni provenienti in modo esplicito ed implicito dal mondo dei fumetti” mentre compaiono sulla scena delle serigrafie che corrispondono allo spartito.
STIPSODY
Cathy Berberian - Solo voce
Cathy Berberian - Solo voce
La sua voce raccontava non solo di questa integrazione ma anche del divertimento nel disegnare i suoi spartiti animandoli di una vita propria che poi trovavano nella sua voce una espressione unica e irripetibile. Il sodalizio personale e artistico con Berio alimenta la loro ricerca che continua anche quando il rapporto entra in crisi. Il punto di approdo di questo periodo critico, Sequenza tre, “è composta da Berio a due anni dalla separazione ufficiale, nel 1965-1966, brano che costituisce uno dei vertici insuperati della musica vocale del XX secolo”, come riportato dal catalogo della mostra.
SEQUENZA III
Luciano Berio, per voce femminile
Luciano Berio, per voce femminile
Berberian era una mezzo soprano ma non rimaneva legata ai pezzi classici, in realtà le sue mille voci si espandevano nel tempo proprio come le voci di Demetrio si espandevano nello spazio. Memorabile il concerto a Milano nel 1981, uno degli ultimi, intitolato “Da Monteverdi ai Beatles”.
DA MONTEVERDI AI BEATLES
Concerto di Cathy Berberian
Teatro Elfo, Milano 24 Gennaio 1981
Concerto di Cathy Berberian
Teatro Elfo, Milano 24 Gennaio 1981
Contrariamente agli altri due artisti lei ha sempre spiegato poco, ma ha sperimentato molto in una libertà totale e totalizzante: in questo è donna fino al midollo.
Carmelo Bene, Teatro delle Arti, locandina, 1992.Carmelo Bene, l'Adelchi, 1983
Anche per Carmelo Bene, come per Demetrio Stratos e Cathy Berberian, l’Ulisse di James Joyce segna un incontro fondamentale. Letto per la prima volta a 22 anni, il romanzo, a suo dire, gli ha modificato le emozioni musicali e il concetto di timbrica, sconvolgendogli il linguaggio e trasformandogli la vita. Ne l’Ulisse scopre il senso di “un pensiero dell’immediato: un immediato pensiero che non pare scritto ma sottratto alla scrittura stessa”, dice Bene in una intervista di Antonio di Benedetti del 1988.
Le sperimentazioni linguistiche e soniche di Joyce lo folgorano e da quel momento avvia la sua ricerca per “scampare alla propria giovinezza” perché “per tornare ad essere bambini è necessario anche vincere la giovinezza dentro di noi”.
Le sperimentazioni linguistiche e soniche di Joyce lo folgorano e da quel momento avvia la sua ricerca per “scampare alla propria giovinezza” perché “per tornare ad essere bambini è necessario anche vincere la giovinezza dentro di noi”.
PINOCCHIO
Video, Carmelo Bene - 1981
Video, Carmelo Bene - 1981
La sua drammaturgia rompe con la tradizione borghese e c’è il disvelamento di un teatro che non si basa più sulla immedesimazione dell’attore in un personaggio, ma sulla creazione di un soggetto-attore libero di esprimere il suo estro. È proprio grazie alla conoscenza della frammentazione dell’io Joyciano da cui irrompe il flusso di coscienza, che Carmelo Bene identifica la chiave di lettura della realtà dell’arte come della vita. “Lo spettatore non dovrebbe essere in grado di parlare di ciò che ha udito, di ciò da cui è stato posseduto nel suo abbandono a teatro” perché il teatro è fondamentalmente decostruzione, incertezza e frammentazione. In questo teatro viene spodestato il testo e viene dato valore alle musiche, alle quinte, alle luci; è lì che l’attore si spoglia della parola recitante per trovare quella ‘macchina attoriale’ che esprime attraverso la voce non della parola ma del suo suono: “La voce comincia dall’addio alla parola. La parola è sempre significato, mentre una voce è la parola disfatta, la fine di ogni significato”. È in questo modo che l’artista salentino diventa regista di sé stesso e si fa capolavoro. Il suo massacro dei classici (Pinocchio 1961, Amleto 1961, Salomè 1964) viene osteggiato dai più e amato dalla intelligentia dell’epoca (Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Ennio Flaiano) che vedono nella sua scrittura di scena la realtà della sua creazione: non è citazione a memoria di parole scritte altrove ma diventa teatro del dire e del non detto perché per Carmelo Bene “il teatro del già detto non dice”.
“Là dov’era in quell’istante, là dov’era per un poco, fra quell’estinzione che ancora brilla e questo schiudersi che s’arresta, io posso venire all’essere con lo sparire del mio detto”. J. Lacan
Impregnato della ideologia del tempo, Carmelo Bene arriva a dire che la voce cerca un ascolto e lo trova in un androide, in un soggetto inanimato. Noi sappiamo, invece, che è vero il contrario, che è l’ascolto a cercare la voce e questa posizione aderente profondamente al corpo ci permette di cogliere le dissonanze della macchina attoriale di cui ci piace sottolineare con ammirazione l’aspetto destrutturante.
“I significati li lascio ai significati; io mi occupo dei significanti”.
“Il grande teatro è quanto non è comprensibile”.
“Il linguaggio crea dei guasti, anzi è fatto solo di buchi neri”.
“Non posso dare appuntamenti con l’ovvio, con il reale, con il logico, con il razionale”.
A una quindicenne napoletana che gli chiede cosa deve fare per non esistere risponde: “Deporre in primo luogo la volontà, che ha a che fare con la coscienza, non con la coscienza in sé, il sé non ha coscienza. Lei non ha che da essere incosciente, cerchi l’abbandono ma non si può nemmen trovarlo perché quando noi siamo nell’abbandono non ce ne avvediamo: noi siamo l’abbandono ma essendo noi l’abbandono non siamo più noi”.
“Mi interessa il linguaggio patologico”.
“Il grande teatro è quanto non è comprensibile”.
“Il linguaggio crea dei guasti, anzi è fatto solo di buchi neri”.
“Non posso dare appuntamenti con l’ovvio, con il reale, con il logico, con il razionale”.
A una quindicenne napoletana che gli chiede cosa deve fare per non esistere risponde: “Deporre in primo luogo la volontà, che ha a che fare con la coscienza, non con la coscienza in sé, il sé non ha coscienza. Lei non ha che da essere incosciente, cerchi l’abbandono ma non si può nemmen trovarlo perché quando noi siamo nell’abbandono non ce ne avvediamo: noi siamo l’abbandono ma essendo noi l’abbandono non siamo più noi”.
“Mi interessa il linguaggio patologico”.
MACBETH HORROR SUITE
Video Carmelo Bene
Video Carmelo Bene
La nascita della ‘macchina attoriale’
“In soccorso giunge, dunque, la musica, non per riavvalorare il potere musicale della parola quanto piuttosto per evocare l’alone poetico della Voce, accogliendo il senso conferito da Heidegger alla poesia, intesa come “la parola pura del parlare mortale”, laddove il parlare quotidiano sarebbe una poesia “dimenticata e come logorata, nella quale a stento è dato ancora percepire il ‘suono di un autentico chiamare’”. Al suono di questo “autentico chiamare” si potrebbero riferire le origini di una vocalità che si forma attraverso l’ascolto di quei richiami, per l’appunto, che abitavano il proprio territorio di origine, il Salento, che ne stabilivano le coordinate spaziali in termini economici quando, in tempi non così remoti, attraverso il canto ci si annunciava da lontano per farsi riconoscere o quando si usava il cantare per farsi intendere tutte le volte in cui le parole del racconto non erano più sufficienti a farsi comprendere. Il canto così inteso fa prendere forma agli affetti, si fa epos, e “quello che canta nell’Epos” afferma Bene con Pierre Klossowski, è la risonanza, cioè l’Eco dei fatti: “Sono le parole che lacrimano, non i sentimenti, non i fatti”. Questo concetto fondamentale Bene lo trasferisce nel suo teatro producendo sulla scena una Eco che precede la Voce, la qual cosa avviene quando tecnicamente nella registrazione della voce sul nastro magnetico si “destampa” sulle frequenze alte. Così viene espropriato l’io-parlo, il Sé-dicente, dal corpo dell’attore e così affrancata dalla mediazione linguistica “la Voce cerca il suo ascolto” e lo trova, senza pericoli di rimando a un codice comune, in un androide, inanimato, oltreumano, sordomuto”. (Tratto dall’articolo Carmelo Bene: Ah soltanto esser solo una voce! di Francesca Rachele Oppedisano, pubblicato sul catalogo della mostra).
“In soccorso giunge, dunque, la musica, non per riavvalorare il potere musicale della parola quanto piuttosto per evocare l’alone poetico della Voce, accogliendo il senso conferito da Heidegger alla poesia, intesa come “la parola pura del parlare mortale”, laddove il parlare quotidiano sarebbe una poesia “dimenticata e come logorata, nella quale a stento è dato ancora percepire il ‘suono di un autentico chiamare’”. Al suono di questo “autentico chiamare” si potrebbero riferire le origini di una vocalità che si forma attraverso l’ascolto di quei richiami, per l’appunto, che abitavano il proprio territorio di origine, il Salento, che ne stabilivano le coordinate spaziali in termini economici quando, in tempi non così remoti, attraverso il canto ci si annunciava da lontano per farsi riconoscere o quando si usava il cantare per farsi intendere tutte le volte in cui le parole del racconto non erano più sufficienti a farsi comprendere. Il canto così inteso fa prendere forma agli affetti, si fa epos, e “quello che canta nell’Epos” afferma Bene con Pierre Klossowski, è la risonanza, cioè l’Eco dei fatti: “Sono le parole che lacrimano, non i sentimenti, non i fatti”. Questo concetto fondamentale Bene lo trasferisce nel suo teatro producendo sulla scena una Eco che precede la Voce, la qual cosa avviene quando tecnicamente nella registrazione della voce sul nastro magnetico si “destampa” sulle frequenze alte. Così viene espropriato l’io-parlo, il Sé-dicente, dal corpo dell’attore e così affrancata dalla mediazione linguistica “la Voce cerca il suo ascolto” e lo trova, senza pericoli di rimando a un codice comune, in un androide, inanimato, oltreumano, sordomuto”. (Tratto dall’articolo Carmelo Bene: Ah soltanto esser solo una voce! di Francesca Rachele Oppedisano, pubblicato sul catalogo della mostra).
Tutto l’impianto teatrale e teorico che caratterizza l’incarico di Carmelo Bene a direttore artistico della Biennale teatro negli anni 1988-1991 è incentrato programmaticamente sul “linguaggio come sottrazione di senso ovvero la scena restituita al gioco”. Quei laboratori della Biennale di teatro considerati dall’artista come un work in progress, anche se originariamente pensati come momenti preparatori per una compiuta messa in scena del dramma di Marlowe Tamerlano il grande, sono rimasti congelati nella loro forma nascente: quel loro sorgere vivo di cui oggi a distanza di 30 anni possiamo accoglierne pienamente la portata artistica. Doveva essere una Biennale che avrebbe trasformato l’idea stessa del teatro, ma l’Italia di quel periodo era troppo piccola e gretta per una idea così grande e bella. Carmelo Bene nel 1990 recide il contratto con la Biennale e per oltre cinque anni sospende ogni rapporto diretto con il teatro.
“…dimentichiamo tutto quello che siamo venuti dicendo. Ascoltiamo la poesia. La ascolteremo ora con più pensosa attenzione, perché consci del pericolo di tanto più facilmente fraintendere nell’ascolto, quanto più pianamente la poesia canta nel modo del canto”.
Demetrio Stratos sottolineava l’essere voce; Cathy Berberian ci ha fatto sperimentare la gioia multicolore dell’essere voce; Carmelo Bene auspicava: “Ah, soltanto esser solo una voce!”. Tre antenne meravigliose in ascolto dell’Universo, di cui tra non molto avremo il piacere di scrivere.
“…dimentichiamo tutto quello che siamo venuti dicendo. Ascoltiamo la poesia. La ascolteremo ora con più pensosa attenzione, perché consci del pericolo di tanto più facilmente fraintendere nell’ascolto, quanto più pianamente la poesia canta nel modo del canto”.
Demetrio Stratos sottolineava l’essere voce; Cathy Berberian ci ha fatto sperimentare la gioia multicolore dell’essere voce; Carmelo Bene auspicava: “Ah, soltanto esser solo una voce!”. Tre antenne meravigliose in ascolto dell’Universo, di cui tra non molto avremo il piacere di scrivere.
Testamento vocale
Mi sento cadere
nella profonda tana del coniglio
dentro la terra meravigliosa della musica
da quando ho sette anni.
Mi imbattei in una pila di 78 giri
accanto ad un Victrola inutilizzato (come accade per le parole datate?)
e per prima cosa ricordo fra tutte la voce di Tito Schipa
cantare la Cavatina de "Il barbiere di Siviglia",
e fui rapita! Da allora la musica volle dire principalmente canto, e all’inizio prevalentemente Opera.
Più o meno nello stesso momento ho promesso a me stessa di essere una cantante.
La musica era l'unico modo per potere sfuggire alla banalità di una esistenza medio-borghese di bassa lega.
Nel privato della mia stanza potevo essere una principessa africana,
o una fiera gitana, o una cortigiana con un cuore d'oro (non ditelo a mia madre!).
Più tardi, quando iniziai a cantare insieme con le stelle dell'Opera, era la mia occasione per esprimere quei sentimenti sfumati, ma primordiali che avevo represso in un corpo sottile e indefinito.
Poco a poco, la musica mi ha dato un'identità - tutta mia - non come figlia di qualcuno, sorella o nipote. La musica mi ha dato una professione. Mi ha portato al grande amore e quando è finito, ha riempito il vuoto con una spinta a vivere più pienamente come persona, e non come un'appendice. Mi ha liberato come donna, ha forgiato la mia indipendenza di mente e spirito. La musica ha stimolato la mia creatività e mi ha dato un senso di fiducia e serenità interiore.
La musica è l'aria che respiro e il pianeta che abito. Il solo modo
in cui posso pagare il mio debito con la musica è portarla agli altri,
con tutto il mio amore.
Cathy Berberian
(Febbraio 1983)
Mi sento cadere
nella profonda tana del coniglio
dentro la terra meravigliosa della musica
da quando ho sette anni.
Mi imbattei in una pila di 78 giri
accanto ad un Victrola inutilizzato (come accade per le parole datate?)
e per prima cosa ricordo fra tutte la voce di Tito Schipa
cantare la Cavatina de "Il barbiere di Siviglia",
e fui rapita! Da allora la musica volle dire principalmente canto, e all’inizio prevalentemente Opera.
Più o meno nello stesso momento ho promesso a me stessa di essere una cantante.
La musica era l'unico modo per potere sfuggire alla banalità di una esistenza medio-borghese di bassa lega.
Nel privato della mia stanza potevo essere una principessa africana,
o una fiera gitana, o una cortigiana con un cuore d'oro (non ditelo a mia madre!).
Più tardi, quando iniziai a cantare insieme con le stelle dell'Opera, era la mia occasione per esprimere quei sentimenti sfumati, ma primordiali che avevo represso in un corpo sottile e indefinito.
Poco a poco, la musica mi ha dato un'identità - tutta mia - non come figlia di qualcuno, sorella o nipote. La musica mi ha dato una professione. Mi ha portato al grande amore e quando è finito, ha riempito il vuoto con una spinta a vivere più pienamente come persona, e non come un'appendice. Mi ha liberato come donna, ha forgiato la mia indipendenza di mente e spirito. La musica ha stimolato la mia creatività e mi ha dato un senso di fiducia e serenità interiore.
La musica è l'aria che respiro e il pianeta che abito. Il solo modo
in cui posso pagare il mio debito con la musica è portarla agli altri,
con tutto il mio amore.
Cathy Berberian
(Febbraio 1983)
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LA BELLEZZA DELLA STORIA DI TERRAMARE. RAPITA DALL’INDICIBILE BELLEZZA di Concetta Turchi. Anno 2008
LA BELLEZZA DELLA STORIA DI TERRAMARE
RAPITA DALL’INDICIBILE BELLEZZA
Concetta Turchi
“La mia felicità non ha bisogno
di uno scopo più elevato che la giustifichi.
La mia felicità non è il mezzo per alcun fine.
È essa stessa il fine”.
Ayn Rand
di uno scopo più elevato che la giustifichi.
La mia felicità non è il mezzo per alcun fine.
È essa stessa il fine”.
Ayn Rand
Possessione di Concetta Turchi
“Fanciulla novella!”, chiamò, rivolgendosi a me con un sorriso.
“Mi sono sentita rapita”, risposi con il cuore in gola.
“Capita?”, chiese Lui, come se avesse inteso male.
“No, rapita... rapita...”, scandii.
Ridemmo insieme felici.
“Mi sono sentita rapita”, risposi con il cuore in gola.
“Capita?”, chiese Lui, come se avesse inteso male.
“No, rapita... rapita...”, scandii.
Ridemmo insieme felici.
E mi parve di stare di fronte a un dio greco, fiero e audace nella sua bellezza. Non avevo scampo... non volevo scampo... accettare quello stato delle cose comportava lo scardinare dall’interno ogni ordine esistito fino a quel momento. Rapita, catturata, posseduta: questo vissuto mi riportava ad un sentire antico che sapeva di felicità e di una strana forma di conoscenza. Mi chiesi in quell’attimo di rapimento, se anch’io fossi altrettanto fiera e audace nella mia bellezza.
Ora mi chiedo quale sia il contenuto dello stupore che coglie innanzi al bello: forse la possibilità che il fuori, visibile nell’altro, possa essere dentro di noi?
In realtà, ogni spazio umano rimanda a un dentro e ad un fuori, tanto da poter dire che in questo risieda la sua specificità, umana appunto. Il dentro... luogo intimo del sentire e del forgiare immagini, trova il suo completamento nel fuori... luogo vagabondo dove mettere in comune i giochi della nostra fantasia; luogo dove nulla può essere trattenuto, pena il difetto di conoscenza.
E se Estia - divinità arcaica del focolare - chiude le porte per proteggere ciò che è dentro, Ermes - principe dei ladri e messaggero divino - è sempre pronto ad abbatterle, quelle porte. Saltellando impudente lungo le linee di confine, conduce gli uomini lungo le strade sterrate, per farne dei viandanti alla costante ricerca di qualcosa: girovago, vagabondo, mai barbone, nella misura in cui Lei è sempre pronta ad accoglierlo, a rifocillarlo e scaldarlo durante le sue peregrinazioni.
L’uno immagine dell’altra, essi fanno della ricerca il senso del loro vivere grazie alla presenza di una donna, mai divenuta moglie, in grado di tenere il rapporto con l’uomo, senza legarlo a sé in un eterno ritorno. Una donna la cui bella pretesa è che Lui esca dentro, nell’interiorità di Lei, nello stesso istante in cui Lei può entrare fuori nel movimento audace di Lui. È quanto va accadendo nelle loro realtà psichiche, durante la materialità dell’amplesso, allorquando i loro incontri diventano possibilità di trasformazione.
Se invece si custodisce per trattenere, per legare a sé, come nel caso di Penelope e Ulisse, accade che si entri dentro e si esca fuori, scindendo le esperienze del dentro e del fuori, del femminile e del maschile: l’interiorità si deteriora a luogo di conflitto, supervisionato dal pensiero furbo e razionale; la conoscenza come sapere, esclusivo fatto mentale.
Noi sappiamo però che la conoscenza è prima di tutto fatto psichico - la psiche è nel corpo - e sappiamo inoltre che, quando il femminile e il maschile si ritrovano all’incrocio di traiettorie, in questo luogo temporalmente dato dove l’uscire dentro di Lui s’incontra con l’entrare fuori di Lei, le ricchezze dell’uno diventano ricchezza dell’altro nel momento in cui il primo può avere tutto ciò che al secondo manca. Ricchezza dunque da mettere fuori perché anche l’altro possa sentirsi ricco; ricchezza da riportare dentro affinché Estia la possa custodire e restituire... in un altro tempo e in un nuovo spazio.
Tuttavia, è cosa difficile il movimento di Ermes: uscire da sé, lasciare Estia e ridiventare il dio dei ladri, rischiare ogni volta di perderla per accettare la scommessa di ritrovarla in un nuovo tempo, in un nuovo volto... e ancora rischiare di innamorarsi ancora, di innamorarsi sempre, senza cedere all’immobilismo dell’amore che condanna la donna ad essere una moglie che intreccia le sue tele imprigionando gli uomini tra le maglie del falso movimento. Degna compagna di Ulisse, insieme vanno a negare la dialettica tra un uomo e una donna, possibili compagni di un viaggio che solo a tratti si fa comune. Dialettica dei confini, ai confini del mondo, che fa la bellezza della conoscenza.
Ermes, nato dall’amore di Zeus con una Ninfa, dona ricchezza nel momento in cui ci fa uscire da noi stessi e, nel fare questo, costringe a lasciare le certezze e le comodità del focolare, del pensiero conosciuto. In questo spazio vagabondo di ricerca e di trasformazioni, dove Eros e Psiche vivono da sempre il loro desiderio, si va scoprendo che più l’azione è intensa e carica di conseguenze, più si diventa parte dell’azione stessa; vale a dire che per realizzare le trasformazioni occorre essere partecipi in prima persona della trasformazione. È la possessione.
Con Ermes, musico e cantore dal piede leggero, la realtà psichica arriva ad esprimere una particolare continuità del sé legata alla discontinuità che si apre in quel suo divenire luogo aperto soggetto ad incursioni, ad invasioni; ed è proprio l’essere rapiti, “invasati”, il segnale della metamorfosi.
L’essere “presi” o “colpiti” da un dio equivale a essere portati nel gioco erotico del rapporto uomo-donna. Zeus prende le sembianze degli animali più strani per possedere le donne che desidera, come a dire che la conoscenza è legata alla necessità - desiderio o esigenza che sia - di trovare un modo, per entrare in relazione, che passi direttamente per il corpo saltando ogni livello di razionalità.
Cercare questo modo e... trovarlo: in questo la possessione diventa la suprema forma di conoscenza; una conoscenza che rimanda immediatamente alla felicità dell’Essere.
I cultori del pensiero contemporaneo hanno perduto il senso profondo di quello che la possessione mette in gioco per la conoscenza e continuano scandalizzati a urlare “Al plagio!” ogni volta che hanno il vago sentore di questa dinamica conoscitiva di rapporto; loro che, per ignoranza o delinquenza, neppure fanno la distinzione tra seduzione e plagio! Vittime e carnefici a un tempo di una conoscenza apollinea chiara e netta, come sono i confini privi di ombre dettate dal suo metro, hanno paura di vivere la felicità della conoscenza.
Tuttavia c’era un tempo in cui la possessione, o incantamento che dir si voglia, era la forma primaria della conoscenza: oracolare, la chiamavano, e depositarie ne erano le Ninfe. Questo accadeva prima che Apollo scendesse sulla terra per stabilire le nuove coordinate del sapere.
Abitatrici dei luoghi umidi, le fonti “dalle belle acque”, le Ninfe agivano la loro potenza improvvisamente, catturando e trasformando la loro preda. Nella loro duplice funzione possibile, salvifica e distruttiva, esse andavano a segnare la linea di confine tra l’età fanciulla e il divenire donna: è la “fanciulla pronta alle nozze”, materia fluida che fa agire ed è agita, sorgente attraverso cui la potenza di chi possiede si esprime.
Se la Ninfa, infatti, è colei che subisce l’incantamento in quanto corpo emergente dall’acqua, come neo-nato o una immagine che sgorga dall’inconscio, l’incantatore è colui che rimane a sua volta incantato: possedere la Ninfa equivale ad essere posseduti da Lei, proprio come il cacciatore è posseduto dalla sua preda. Questo il senso del partecipare in prima persona al processo trasformativo.
Conoscenza liquida, quella oracolare, così intimamente legata alla scoperta della sessualità, in più di una occasione l’opportunista Apollo tenterà di usurpare per apporvi il metro, ciò che scandisce e separa. Controllo sulla Ninfa, che è sì fonte di vita, ma anche sorgente di un possibile pericolo perché nel provocare l’agitazione dei sensi, può fare emergere un’oscuro delirio, fino a far precipitare nella mania erotica. Ma... “... colui che ha ferito guarirà”, questo l’oracolo di Apollo, quando si appropria del sapere fluido delle Ninfe. A ribadire che la possessione, come trasformazione che genera la conoscenza, può essere al servizio della cura psichica. Prepotente si affaccia l’immagine dei tarantolati che escono dal loro stato di invasamento guidati dal ritmo indiavolato imposto dai musici: la musica, che esce dentro ed entra fuori, riporta all’interno il ritmo naturale del tempo allineando gli eventi interni con quelli esterni. Ecco ciò che può accadere quando la conoscenza si riappropria della sapienza del corpo.
Si parla spesso della indicibile bellezza delle incantatrici, ma l’incantamento nei miti, e non solo quelli della Grecia Antica, avviene quasi esclusivamente attraverso il canto... e il suono. Delle sirene omeriche, ad esempio, non si sa bene come siano fatte, si conosce solo la meraviglia del loro canto.
Sulle cime del monte Parnaso, accanto al coro riconosciuto delle Muse, poteva risuonare una voce diversa, seducente ed ipnotica, in grado di abbattere i confini tra uomini e dei. L’effetto inebriante che ne risultava, però, poteva essere fatale agli uni... come agli altri: il canto delle umide Ninfe, al pari di quello delle Sirene, è canto magico che altera la percezione del tempo e fa cadere nell’oblio.
Divenute pericolose per questa facoltà di condurre fuori di sé chi presta loro ascolto, esse furono relegate ai confini del mondo, portate altrove... e quindi rimosse... e nascoste allo sguardo... e quindi negate. Da quei luoghi il loro canto continua ad irradiarsi per incantare quei cercatori d’oro che reclamano la felicità come occasione di conoscenza.
E se fosse questa la vera natura del logos?
Una cosa è certa. Sirene e Ninfe promettono a un tempo felicità e conoscenza, e forse è questo connubio a renderle da sempre così pericolose. Abitatrici delle terre di confine, proprio come il limite psicocorporeo di cui sono espressione, pongono al centro del loro esistere la felicità, quel vissuto prezioso che collega all’unisono l’emozionalità del corpo, l’affettività della psiche e il pensiero della mente. Confinate dall’invidia di Apollo, vivono pericolosamente all’incrocio dei venti, laddove è la sapienza del corpo a fare la felicità della conoscenza.
La Sirena, vergine o prostituta che sia, è fuori dalla regola sociale che la vuole moglie e madre. Lei, portatrice di una sensualità latente anche se irrisolta, rimane una fanciulla interrotta nella misura in cui si lega ad immagini maschili che le negano qualsiasi trasformazione, relegando il rapporto uomo-donna a puro atto sostitutivo, e quindi masturbatorio.
Anche la Ninfa vive ai margini di un passaggio biologico e psichico insieme, l’adolescenza, e in quanto tale incarna la fanciulla indomita. Essa è portatrice non solo di richieste, ma, se validamente nutrita, di fluida conoscenza: può perdere la sua vitalità con invidiosi uomini-vampiro che hanno bisogno di svuotare l’altro per arricchirsi.
Ma se una Sirena e una Ninfa incontrano il vero Eroe, in grado di ascoltarle e trarle fuori dalla seduzione sterile dell’immobilismo, l’Eroe può diventar poeta nell’accettazione di farsi possedere da queste donne ai margini del mondo, trasformandole in donne-ispiratrici. Saranno proprio queste Muse di Terramare ad operare la trasformazione.
La bellezza collegata alla pura esteriorità è negazione del bello.
L’indicibile bellezza, quella che incanta e ci possiede, suona e risuona trascinando immediatamente fuori, oltre la visione parziale, costringendo con la sua semplice potenza ad un ascolto universale che libera riserve di energia. Essa è dono che si offre senza esitazioni, né riserve... e senza aspettative.
Ed è di fronte al dono che può scattare la volontà della bellezza: le possibilità di mutamento che si attivano diventano l’anticamera dell’arte magica delle trasformazioni. La magia è un potere, ma se questo potere viene esercitato per rimanere dentro, diventa mero fatto personale e quindi esercizio di potere. L’etica della bellezza pretende che l’arte magica sia fatta per essere portata fuori, in uno spazio temporale dove il dono attiva quel volere che dà luogo a conseguenze... altre.
Ed è allora che la bellezza può esprimersi attraverso la capacità di dare forma ad una pluralità di immagini, come se fossero capitoli di un unico libro o lembi di terra emersi in un unico grande mare calmo.
E forse non è un caso che il Mediterraneo (letteralmente mare tra due terre) sia stata la culla di civiltà che fecero della bellezza il loro emblema; sufficientemente grande per cogliere la pluralità dei popoli in movimento al suo interno e abbastanza piccolo per sentire questo mare interno un focolare intimo. Il Mediterraneo da sempre va ad incarnare una pluralità che, per sua stessa natura, scuote dalle fondamenta i principi di una mappatura lineare stabilizzata secondo un progresso unilaterale. No. La Storia non è fatta di possedimenti e di conquiste, è fatta di possessioni e trasformazioni, umane e culturali, se solo la si vede dal punto di vista del mare: dagli archivi polverosi della storia nota, ecco spuntare dispettose onde spumose che, con le loro guizzanti scie sonore, spazzano via la presunta stabilità delle ricostruzioni, ridonando fluidità a popoli e confini. Conoscenza.
Il mare, luogo di incontro di correnti e di poliedrica umanità, diventa la sede fluida di un rimescolamento continuo di etnie e linguaggi, vulnerabile come un archivio sonoro; vulnerabile come solo chi è in mare può essere, esposto com’è ad incontri che non ha alcuna possibilità di controllare.
Quando il controllo viene meno, la conoscenza può farsi strada in quell’intervallo tra terra e mare che è ponte silenzioso teso tra le diversità. In questa storia di terramare si può incontrare il silenzio pieno della parola e con esso la musica, fluttuante e in perenne viaggio con il divenire umano, senza alcuna necessità di addomesticamento.
L’indicibile bellezza come sfida polifonica alla conoscenza, con una poetica che corre lungo la linea di terramare, scorre tra le terre calde dei nostri focolari e l’incessante attraversamento delle traiettorie che ci portano altrove. Dall’incontro, e a volte dallo scontro, di questi tempi emergono gli arcipelaghi di memorie sonore che stabiliscono una nuova temporalità in cui la bellezza scandisce il suo ritmo silenzioso e dove si scopre una appartenenza che non può far capo ad uno stato o ad una nazione, può essere solo appartenenza umana.
Colei che è posseduta è responsabile in prima persona di quel che possiede: questo è quello che realizzai in quell’incontro che mi trapassò come un raggio di sole che, attraversando la trasparenza, si scompone nei colori dell’iride.
È passato molto tempo da allora, ma la scoperta che la bellezza, quando non lascia scampo, fonde la poesia con l’etica per realizzare la poetica della conoscenza, ha generato quella prassi che scardina dall’interno ogni ordine precostituito... perché rimanda immediatamente alla felicità dell’Essere quando prescinde da sé stesso per entrare in una dimensione altra che è il luogo delle trasformazioni, in cui le azioni possono assumere un significato universale e quindi porsi oltre le re-azioni individuali. Questo è il luogo della complessità dei miti, realtà inconscia multipla e mutevole in cui si realizza che la nostra vita psichica è in contatto pieno con il mondo e risponde recettivamente ad esso.
La visione pluralistica donata dalla bellezza supera quel dualismo che sempre più si rivela essere difetto del pensiero: difficoltà a com-prendere e a rapportarsi con la complessità del reale senza negarla. Non esiste infatti una contrapposizione degli opposti, esiste una co-appartenenza degli opposti. Questa posizione, propria della iconografia dell’Albero della Vita, è un altro modo per affermare che il conflitto non è insito nella natura dell’uomo, ma in certune forme di pensiero che, nel folle tentativo di scindere il bello dal vero e dal giusto, danno le coordinate “esatte” della bellezza, provando - quale follia! - a renderla “dicibile”.
Io, che ho tentato di scrivere di bellezza, io so della indicibile bellezza... so quanto possano essere povere di suono le parole di fronte alla sua semplice potenza.
Ferita sempre aperta, l’antidemocratica bellezza lascia tracce di sangue nei frammenti di vecchi manoscritti impolverati, nel sorriso enigmatico che ci penetra da un dipinto come in un bacio di passione che vola via da un blocco di marmo, tra le corde insanguinate di una chitarra come in una costruzione chiusa aperta al futuro.
Tracce, a volte evidenze, di una differenza che espone gli uomini alla disperazione nera di non poter com-prendere cotanta diversità.
Mostruosa bellezza, relegata ai margini del mondo, da possedere senza essere posseduti, alienando ogni possibile reale conoscenza.
Indicibile bellezza, insopportabile, in quel silenzio del mare che fa le infinite sonorità delle tante terre.
È passato molto tempo da allora, ma la scoperta che la bellezza, quando non lascia scampo, fonde la poesia con l’etica per realizzare la poetica della conoscenza, ha generato quella prassi che scardina dall’interno ogni ordine precostituito... perché rimanda immediatamente alla felicità dell’Essere quando prescinde da sé stesso per entrare in una dimensione altra che è il luogo delle trasformazioni, in cui le azioni possono assumere un significato universale e quindi porsi oltre le re-azioni individuali. Questo è il luogo della complessità dei miti, realtà inconscia multipla e mutevole in cui si realizza che la nostra vita psichica è in contatto pieno con il mondo e risponde recettivamente ad esso.
La visione pluralistica donata dalla bellezza supera quel dualismo che sempre più si rivela essere difetto del pensiero: difficoltà a com-prendere e a rapportarsi con la complessità del reale senza negarla. Non esiste infatti una contrapposizione degli opposti, esiste una co-appartenenza degli opposti. Questa posizione, propria della iconografia dell’Albero della Vita, è un altro modo per affermare che il conflitto non è insito nella natura dell’uomo, ma in certune forme di pensiero che, nel folle tentativo di scindere il bello dal vero e dal giusto, danno le coordinate “esatte” della bellezza, provando - quale follia! - a renderla “dicibile”.
Io, che ho tentato di scrivere di bellezza, io so della indicibile bellezza... so quanto possano essere povere di suono le parole di fronte alla sua semplice potenza.
Ferita sempre aperta, l’antidemocratica bellezza lascia tracce di sangue nei frammenti di vecchi manoscritti impolverati, nel sorriso enigmatico che ci penetra da un dipinto come in un bacio di passione che vola via da un blocco di marmo, tra le corde insanguinate di una chitarra come in una costruzione chiusa aperta al futuro.
Tracce, a volte evidenze, di una differenza che espone gli uomini alla disperazione nera di non poter com-prendere cotanta diversità.
Mostruosa bellezza, relegata ai margini del mondo, da possedere senza essere posseduti, alienando ogni possibile reale conoscenza.
Indicibile bellezza, insopportabile, in quel silenzio del mare che fa le infinite sonorità delle tante terre.
Terramare di Concetta Turchi
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Kandinsky. LA CORALITA’ DEI COLORI E DELLE FORME di Valeria Amato. Anno 2015
KANDINSKY. LA CORALITA’ DEI COLORI E DELLE FORME
Valeria Amato
“L’arte non è una questione di elementi formali,
ma di un desiderio, un contenuto interiore
che determina prepotentemente la forma”.
ma di un desiderio, un contenuto interiore
che determina prepotentemente la forma”.
Mosca I, 1916
Binari invasi d'erba, locomotive dal lungo collo, decine di contadini dai bottoni d’argento, comignoli, tetti rossi, vicoli, il mormorio profondo degli alberi, come in una sorta di incantesimo che trascina di secolo in secolo, conducono verso la porta del profondo. Uno stato di grazia che, come rosso saturno e lo squillo di una tromba, può spaventare, forse, ma che vissuto come l’accordo iniziale di una sinfonia, che ravviva intensamente ogni colore e ogni emozione, prende vita e trasforma.
Un pittore che trasforma i suoni in colori e fa regredire le strutture nelle linee, per parlare di nuove possibilità, può davvero dirsi ‘astratto’? Un pennello intriso di azzurro, simbolo di un percorso interno, picchietta la superficie di una tela, introducendo quel movimento ondoso che unisce il mondo della musica con quello della pittura. “Il suono musicale giunge direttamente all’anima. E vi trova subito un eco, perché l’uomo ha la musica in sé”. La teoria innovativa secondo cui la pittura può entrare nella sua fase musicale nel momento in cui esiste, indipendentemente dall’oggetto riconoscibile, prende forma verso la fine dell’800 nella mente e nel corpo di Vasily Kandinsky durante l’ascolto del Lohengrin di Wagner, che immediatamente associa ai chiaroscuri delle opere di Rembrandt. Entrambi suscitano in lui un’emozione così potente, da suggerirgli l’idea di raggiungere con i colori e le forme la stessa intensità espressiva di quella musica. “I violini, i bassi gravi e soprattutto gli strumenti a fiato rendevano per me l’incanto luminoso di quell’ora di fine giornata. Mi sembrava di vedere tutti i miei colori, li avevo sotto gli occhi. Linee scompigliate, quasi stravaganti mi si disegnavano davanti. Scoprivo nell’arte in generale una potenza insospettata e mi parve evidente che la pittura possedesse forze espressive e mezzi potenti come la musica”. Ma il lavoro col batticuore non basta. Può salvare l’artista, ma non la sua opera.
Il tentativo di esprimere un primo suono pittorico viene rappresentato ne Il Porto di Odessa, colto in un momento di quiete e di silenzio. La banchina è deserta, in attesa del chiassoso brulicare di marinai e di commercianti che invadono ogni giorno la città mercantile. La luce mattutina ammorbidisce e dissolve i contorni, laddove i raggi del sole scivolano delicatamente sull’acqua del mare creando un gioco di riflessi e vibrazioni luminose. Questo scorcio è una delle prime opere dipinte da Kandinsky che, oramai trentenne, non riesce a resistere al fascino della natura, dei colori, e all’esigenza di trasferire sulla tela le sue emozioni. Fin da ragazzo osserva con instancabile curiosità tutto ciò che lo circonda e instaura un rapporto privilegiato con il paesaggio, di cui ammira la straordinaria bellezza: “Passeggiando ricevevo inconsciamente delle impressioni, a volte così imperiose che sentivo come un’oppressione al petto e faticavo a respirare”. Immediata è l’attrazione nei confronti degli Impressionisti francesi, che ha occasione di vedere a una mostra organizzata a Mosca. Kandinsky è colpito in particolare da Monet, con cui condivide la sensibilità per i colori, la predilezione per una pittura en plein air e per l’osservazione diretta dei mutevoli effetti della luce sull’acqua.
“Quello che ne uscì chiaramente fu la potenza incredibile, per me nuova, di una tavolozza che superava tutti i miei sogni”. Quella tavolozza che, nata dagli elementi che compongono l’opera, è in se stessa l’opera più bella, preziosa, di qualsiasi altra. L’attrazione verso questo nuovo modo di rappresentare la realtà, attraverso pennellate liquide oppure a onde che sembrano amplificare la risonanza emotiva di ogni opera, porta Kandinsky a scelte importanti: lasciare la giurisprudenza per realizzare il suo sogno di essere pittore.
Dopo essersi lasciato alle spalle un lavoro ormai non più congeniale, lascia Mosca per Monaco, città d’arte e meta privilegiata per gli artisti russi, dove avviene quella lenta trasformazione che lo porterà ad essere un artista con il fervore della sua strada. Dai paesaggi fatti di porticcioli e scene cittadine passa dagli acquerelli alle incisioni, dalle xilografie ai colori a olio, nel tentativo ardimentoso di esprimere la tradizione folclorica russo-tedesca. Nei quadri romantici dei primi anni di Monaco richiama la Mosca fiabesca dei suoi ricordi d’infanzia, temi ripresi dal mondo delle saghe e dei cavalieri. Coppia a cavallo si riferisce a una antica fiaba russa in cui il cavaliere riporta a casa la bella Elena, dopo averla liberata dalla prigionia dell’uccello di fuoco. E se Mosca è per lui il simbolo della femminilità, della bellezza, della grazia, della dignità, dell’equilibrio, Monaco rappresenta le contraddizioni stimolanti e il fascino seducente necessari per intingere nella magia, nel sogno, nell’erotismo, nella civetteria, e creare. L’anima russa lo rende consapevole dei molteplici livelli di mistero che sottendono qualsiasi forma di manifesta conoscenza, facendogli preferire l’interiorità all’esteriorità, il simbolico al fattivo, l’essenza alla fenomenologia. E come molti poeti e filosofi tedeschi del tempo, sempre alla ricerca di quel che costituisce ‘l’intima essenza del mondo’, come pittore ricerca quelle immagini che possano esprimere questa sua aspirazione. Tra il 1902 e il 1904 Kandinsky produce più di quaranta xilografie, utilizzando il metodo di stampa giapponese e raggiungendo, presto, una notevole maestria in questa tecnica complessa. In opere come La Cantante, i ritmi creati dalle forme curvilinee dell’abito della donna, insieme con le aeree di chiaroscuro che contrastano con aree dal colore acceso, scandiscono il passare del tempo introducendo la riflessione che gli scopi e i mezzi dell’arte, come quelli della natura, sono organicamente e logicamente diversi, ma ugualmente grandi e forti. Una riflessione che schiude nuovi orizzonti: non soltanto le stelle, la luna, le foreste, il filo di corteccia che la formica trascina verso l’erba, tanto cantati dai poeti, ma anche ogni punto, superficie, linea immota o animata diventano vive, tali da mostrare - per questo – tutte, il volto dell’arte.
I lunghi viaggi attraverso l’Italia, la Svizzera, Parigi e Berlino, alla volta del “forse non c’è niente, sicuro che c’è tutto”, rafforzano inquietudine e ricerca di nuove possibilità pittoriche. Nascono poemi in prosa (Sounds) e composizioni sceniche (Il suono giallo), che rivelano l’intento dell’artista di rinnovarsi attraverso l’arte, riunendo i vari generi dello spettacolo (opera-dramma-balletto) in un’opera d’arte totale, liberando ogni forma dal peso della tradizione e cercando di recuperare la pura voce delle origini, per riconquistare quella corporeità viscerale che i bambini riescono ad offrire spontaneamente. “Creare forme significa vivere. Non sono forse creatori i bambini, che creano direttamente dal mistero della loro percezione, ben più dell’imitatore di forme greche?”.
Nelle composizioni sceniche Kandinsky tenta la realizzazione di un progetto nel quale le molteplici forme artistiche si facciano portatrici di un valore interiore unico. In questa prospettiva, movimento sonoro (musica e voce umana), movimento plastico (danza e scultura in movimento) e movimento cromatico (luce e colore), devono essere trattati secondo un progetto unico, interagendo fra loro, subordinati ad un fine interiore, attraverso la fusione di forme, colori, luci, suoni e movimento. In questo modo egli pensa di creare una forte tensione che possa far vibrare l’anima dello spettatore a tal punto da eccitare la sua fantasia e richiamarlo a creare all’interno di un’opera già esistente. “Per parecchi anni lottai con tutte le mie forze per trovare il modo, la tecnica, per attrarre lo spettatore dentro il quadro stesso, perché vi si mescolasse e ne diventasse parte”. Il tentativo di confrontarsi con la questione della dissoluzione della realtà nel dipinto, e tradurre un’intuizione in opera d’arte, inizia a farsi strada quando Kandinsky si imbatte all’improvviso in un proprio dipinto appoggiato di sghembo nell’atelier in penombra. È quasi il crepuscolo quando, colpito dal mistero di questa illusione ottica, contemporaneamente priva di oggetto, conclude che, per quanto lo riguarda, l’oggetto così com’è riflesso in pittura costituisce un elemento di disturbo nella sua ricerca per Lo spirituale nell’arte. L’indomani, alla luce del giorno, nasce Composizione VII. Ciò che a prima vista sembra essere un accostamento di forme colorate di piccole dimensioni, ravvicinate, distribuite quasi in modo omogeneo sulla tela, si rivela ad una osservazione più attenta come una composizione fortemente dinamica in cui i valori metaforici del “magico superamento della prospettiva attraverso mezzi compositivi assai semplici” orientano l’osservatore.
Senza titolo, 1923
Kandinsky, oramai cittadino tedesco, abbraccia Monaco come una nuova donna a lungo desiderata. Desiderio che lo porta a lasciare i canoni artistici predefiniti che impongono regole precise per la composizione, e intraprendere la strada emotiva dell’azzurro intenso e degli arancioni, l’espressione decisa delle linee, la falcata cruda, alta e densa delle pennellate, così che i dipinti risultino come un fuoco di corde vibranti sotto lo sguardo. Dissonanze, asimmetrie, contrasti di colore vengono impiegati in senso gioioso, creando opere musicali scandite da ritmi festosi, in cui il quotidiano viene rappresentato non più come un segmento ma come un tutt’uno, il luogo della fantasia. I colori della sua tavolozza diventano sempre più stridenti e le linee verticali, che innervano ogni angolo della tela, si fanno sempre più frenetiche e acute, quasi a esprimere l’esigenza di un recupero della sapienza artigianale contro la produzione industriale, meccanica e anonima.
Kandinsky frequenta assiduamente Schwabing, il quartiere preferito dagli artisti di Monaco con i quali condivide idee estetiche che contribuiscono a mettere in fermento l’avanguardia pittorica monacense, meta dei suoi vagabondaggi con la scatola dei colori e con la sensazione nel cuore di essere un cacciatore alla ricerca di scorci paesaggistici, di tinte e sensazioni da trasferire immediatamente sulla tela. Già negli anni della formazione il colore è l’elemento dominante delle sue opere: il verde vivo del prato e l’arancione squillante delle case, eccessivamente carichi rispetto alla realtà, pulsano con forza esplosiva sulla tela e colpiscono con incisività l’immaginazione. Egli non si preoccupa affatto di riprodurre con precisione i particolari, ma traccia sommariamente le forme, stendendo polveri intrise d’acqua con pennellate pastose e cariche di materia, spesso con l’aiuto della spatola e, preso dall’ansia febbrile del lavoro, lascia affiorare qua e là parti di tela non dipinta, quasi a cadere in una sorta di ebbrezza che pare eliminare lo stato di gravità. È per opere come Linee Nere I che i suoi amici lo chiamano ‘il colorista’. È per questo agire interno che lo definiscono il “poeta delle forme musicali”, quel viaggiatore curioso e riservato sempre pronto a partire a cavallo di un pennello. Insegnando pittura conosce Gabriele Münter, che diventa amica, confidente e compagna in una relazione tormentata sin dal principio. L’obiettività e la razionalità della donna entrano subito in conflitto con il desiderio di libertà creativa che Kandinsky sta sperimentando. Sceglie comunque di vivere questo rapporto che si interromperà quando, di fronte all’ostinazione della donna di voler interpretare le sue composizioni come una scuola a cui aggrapparsi e da cui dipendere, codificando in regole e svuotando dell’intenso contenuto emozionale il suo lavoro, lui la lascerà. Riprende la ricerca sul far regredire una forma per portare alla luce un contenuto che parli di nuove possibilità.
Kandinsky, nonostante i primi riconoscimenti importanti, entra nella sua fase più difficile. Durante i viaggi che lo portano ad Odessa, Tunisi, Rapallo, cerca nei colori del deserto, dei boschi e del mare, una forma espressiva in grado di esprimere quella tensione sessuale indispensabile per dare corpo al suo desiderio e non cadere nel vuoto dell’Astrattismo. La luce della Tunisia, che dissolve la consistenza degli oggetti e induce il miraggio, gli resta dentro come un’impronta. In questi anni di ricerca, iniziano a comparire forme che raccontano di come il colore si fa fiaba, di come la pittura possa creare mondi fantastici e pulsanti di vita. Per Kandinsky è prioritaria l’emozione, e la tecnica che sviluppa in questo periodo è quella di associare immagini reali, sempre meno distinguibili, a linee e macchie di colore che nascono di getto dal suo pennello. Sente che l’insieme del velare e rivelare, offrirà nuove possibilità e nuovi temi alla composizione. “Il fatto che l’artista si serva di una forma astratta o di una forma reale non ha alcuna importanza. Le due forme sono intimamente uguali. La scelta deve essere lasciata all’artista che meglio di tutti conosce il mezzo più indicato per materializzare limpidamente l’espressione della sua vita interiore nell’opera”.
È il 1920 quando alcuni motivi come il campanile, la torre, la cupola, la carrozza, la falce si fanno quasi irriconoscibili: sono i colori i protagonisti assoluti della scena. Kandinsky rompe con la tradizione di dipingere oggetti e figure che esistono nella realtà e crea la sua prima composizione di forme e colori totalmente emancipata dal problema della rappresentazione. Dipinto in blu immerge immediatamente in una dimensione onirica in cui domina il silenzio musicale della notte. Nel mentre gli angoli acuti dei triangoli, che per Kandinsky rappresentano le forme voluttuose del corpo giunonico di una donna russa, si irradiano tra le corde di un’arpa, rappresentata dalle linee nere, dal mare sopraggiunge un'onda che risuona come una sinfonia. Parola, immagine e suono si coordinano tra loro, portando lo spettatore a creare all'interno di un'opera dinamica e inquieta, verso un'emozionante sensazione di possibilità imprevedibili, di un potenziale risveglio e di una sospirata nuova nascita.
Il confronto con forme espressive diverse, per arrivare al centro delle proprie emozioni e suscitare l'impulso creativo, portano ad immaginare il pittore russo al centro di un bosco fitto, dove un raggio sottile di luce ed un suono portato dal vento possono essere le uniche indicazioni che un artista coraggioso riconosce per portare alla luce del sole la propria trasformazione. Nasce Senza titolo, uno spazio fluido, tattile, amniotico, di linee improvvise e macchie di colore in movimento, elastiche, galleggianti, un insieme di sensazioni interiori di espansione e contrazione. È il primo spazio interiore della storia della pittura dove, l’immagine del cavaliere e della montagna, lasciano il posto al dolce formarsi dell’acrobata che volteggia tra le luci del sole e il suono dell’azzurro. Trasparente come il cielo e intenso come l’acqua del mare, l’azzurro è il più immateriale dei colori. Nel Blu le forme perdono la loro consistenza visiva: un muro blu cessa di essere un muro, il reale si trasforma in immaginario, segnata di blu è la strada dell’inconscio e dei sogni. Kandinsky dedica al colore pagine affascinanti: il colore non è soltanto una qualità della superficie, ma qualcosa che risplende dall’interno rivelando l’essenza del mondo, nota da ascoltare con la mente e con il corpo, finalmente riconosciuti come un insieme inscindibile che risuona in lui con forza enorme, come creatura dotata di temperamento e di vita propria. “Con i soldi messi pazientemente da parte, mi comperai tra i tredici ed i quattordici anni una scatola di colori a olio. Quella esperienza viva del colore che esce dal tubetto, la provo ancora oggi. Una pressione del dito e quegli esseri straordinari che si chiamano colori compaiono chiassosi, pomposi, pensosi, sognanti, assortiti, maliziosi, con il sospiro della liberazione, con il suono profondo della sofferenza, con una forza fiduciosa e persistente, con caparbio dominio di sé... Mi sembrava che l’anima viva dei colori emettesse un richiamo musicale. Sentivo a volte il chiacchiericcio sommesso dei colori che si mescolavano, era un’esperienza simile a quella che si sarebbe potuta fare nella misteriosa cucina di un alchimista...”.
Il cuore di Kandinsky batte tra pennelli e barattoli che, silenziosi e stupiti, si lasciano muovere dalla mano dell’artista dando vita a tele vivaci e variopinte che introducono a Impressioni e Improvvisazioni che fluttuano in un’atmosfera lattea e imprecisata, e dove costituiscono la prima tappa verso l’evoluzione della forma libera che, attraverso una rielaborazione interiore, porta alla nascita della composizione. “L’arte del dipingere mi appare come l’incontro roboante di mondi diversi che, dopo essersi dati battaglia, arrivano a formare quel mondo nuovo che si chiama opera d’arte. Creare un quadro è come creare un mondo. La parola composizione mi sembrava sempre emozionante, e mi proponevo poi, come scopo della mia vita, di dipingere una composizione. Nelle ore di studio mi lasciavo andare e pensavo poco alle case e agli alberi. Tracciavo con la spatola strisce e macchie sulla tela e le lasciavo cantare più forte che potevo”. Una nuova immagine interna si fa strada: quella di una donna forte, libera, che si lascia fecondare, verso terre lontane in cui si fa portatrice di uno spazio nuovo dove non esiste altro che forma ed energia. Di colpo dei muri spessi crollano e la prima lettera del nuovo alfabeto pittorico non è ‘astratto’, ma la ricerca di una nuova forma espressiva, sia essa nel colore che nelle infinite combinazioni di forme che da questo prendono vita. Una donna che, distesa tra i colori, esprime la sua richiesta di essere trovata, riconosciuta, presa e vissuta nella più completa libertà. “La pittura è un contrasto fragoroso di mondi diversi destinati a creare insieme nella e dalla lotta quel nuovo mondo che si chiama opera. Ogni opera nasce tecnicamente così come è nato il cosmo, attraverso catastrofi che dal ruggito caotico degli strumenti formano, a conclusione, una sinfonia, che è la musica delle sfere”.
Nasce l’avventura de Il Cavaliere Azzurro, un itinerario eroico e romantico, visivo e sonoro che, attraverso testi ed immagini dedicati alla musica e alla pittura, rifonda la possibilità di un’arte indipendente e audace che non vuole significare o ricordare, piuttosto privilegiare, nella diversità delle forme rappresentate, i modi diversi in cui si manifestano le esigenze interiori dell’artista. “Il nome lo abbiamo trovato al tavolino del caffè sotto il pergolato di Sindelsdorf; a tutti e due piaceva l’azzurro, a Marc il cavallo e a me il cavaliere. Così il nome è venuto da sé”. Teoria e prassi procedono, stimolate dal desiderio e dall’energia di una ricerca verso una nuova intensità di rappresentazione capace di creare un ponte tra il passato ed il futuro dove il presente è la sintesi, l’emozione potente che l’opera di un artista può suscitare. Attorno a Il Cavaliere Azzurro si incontrano artisti che vogliono esprimere la voce di una nuova arte, “da cercare e ritrovare nella regione dei miraggi, delle risonanze, dei confini incerti, attraversata dal respiro universale dell’uomo”, ma le difficoltà nel riuscire a mantenere un tale livello di ricerca e la continua richiesta di innovazione, elementi indispensabili alla riuscita di questo tentativo, portano Kandinsky ad intuire il pericolo di una possibile ripetizione dei contenuti. Prima che il progetto deragli verso un Astrattismo di maniera, alla morte in guerra del suo amico e co-fondatore Franz Marc, decide di chiudere questa esperienza, per evitare che si trasformi in un tempio astratto privo di quella connotazione poetica fondamentale di totale libertà, storicità e universalità, dichiarata alla nascita del progetto.
In questi anni Kandinsky oscilla tra le Impressioni legate alla natura, le Improvvisazioni, in cui vengono espressi elementi derivati dall’osservazione che si accordano armonicamente con forme autonome, e infine le Composizioni, in cui gli elementi formali incontrano colori e suoni al limite tra descrizione ed evocazione. Ma il filo del desiderio cerca nuovi stimoli, ed è con la musica che il pittore riprende il suo percorso creativo. Nascono nuovi dipinti immediatamente dopo l’esecuzione del primo concerto di Arnold Schönberg a Monaco. Il musicista, che ha rotto con le convenzioni musicali dagli accordi abusati e razionali, con il suo modo di comporre, atonale e intriso di dissonanze, riflette e porta avanti il discorso iniziato da Kandinsky nella pittura. “La musica come la libertà nasce da esperienze puramente psichiche”, dice Schönberg. L’arte si può esprimere a partire da un albero, da una mela, da un uomo, da una nota; per comporre un’opera, sia essa un quadro o una sinfonia, in cui ogni forma, colore, ritmo, disegnano la sequenza del possibile, occorre tralasciare il prestito offerto dalle seducenti forme esteriori, seppur belle, per un linguaggio universale.
Ampie pennellate gialle, intrise di un desiderio crescente, fanno da sfondo ad un flauto e ad un pianoforte: movimenti che spingono il pittore russo, piuttosto riservato, a scrivere subito una lettera al musicista che ancora non conosce, avviando così la vivace corrispondenza degli anni successivi. Il loro intenso rapporto, fatto di avvicinamenti, scontri, lunghi silenzi ed attese, porta Kandinsky a muoversi in un territorio sconosciuto, in cui l’urto emotivo di questo nuovo modo di fare musica e mettersi in gioco emozionalmente, segnano un passaggio fondamentale verso l’immediatezza del desiderio che ha iniziato ad esprimere con Nudo. Il pittore ed il musicista si riconoscono come interlocutori dello stesso livello spirituale ed artistico; entrambi rompono le convenzioni che inibiscono la libertà creativa, sottraendo l’arte ad ogni possibilità di compromesso, per mettere a nudo gli strati profondi della coscienza e dare forma alle visioni che traggono forza dal mondo interiore. Da questo incontro Kandinsky comprende che tra forma astratta e forma materiale non esiste differenza, poiché entrambe sono l’espressione di un voler confinare dentro schemi prestabiliti la creatività, facendo smarrire la profonda identità all’artista. È il contenuto interno, l’integrazione tra realtà materiale e realtà psichica, a determinare prepotentemente la forma, portando fin dentro l’essenza del proprio desiderio, laddove l’uomo vive lasciandosi trasformare e trasformando. “Non considero la pittura senza oggetto come qualcosa che sopprima tutta quanta l’arte precedente... e mi fanno un gran dispetto quando mi associano all’idea di astrazione in pittura o mi accusano di volerla demolire. Mai nel mio lavoro ho provato l’impressione di distruggere: nel lasciare il piano della riproduzione, riducendo ampiamente le cose definibili, non ci trovo che un impulso intenso, logico, essenzialmente organico e crescente dell’arte. A poco a poco ho preso coscienza della mia libertà, e così sono cadute le esigenze secondarie che imponevo all’arte. Sono cadute a favore di una sola esigenza: l’espressione della vita interiore nell’opera”.
Il trasferimento da Monaco a Mosca incide profondamente su Kandinsky. La Rivoluzione d’ottobre, l’arrivo della Prima Guerra Mondiale ed il silenzio creativo che vive in questa città lo mettono profondamente in crisi. “Si aprono sempre nuove possibilità, in modo discontinuo, frammentario, che solo in rari momenti felici si presentano come un insieme. Forse, di tanto in tanto, bisognerebbe restar seduti in cima ad una torre, essere chiusi a chiave, scrollarsi di dosso ogni preoccupazione. Ma anche la vita si arrampica su per la torre e filtra attraverso il buco della serratura”. Gli anni della guerra sembrano interrompere la ricerca di una dimensione ‘altra’ collegata al mondo interiore: si passa dall’espressione intuitiva alla costruzione ragionata. Mentre i dipinti prebellici rappresentano forme libere dai contorni indistinti (fondendosi l’una nell’altra, con modulazioni lineari che spesso si sovrappongono) che sembrano riflettere la riuscita di un individuo ad estendere la propria inventiva al mondo non materiale, nelle opere postbelliche le forme sono quasi domate e i colori schiariti: la geometria vi entra sotto forma di triangoli, quadrati, cerchi e delle loro combinazioni; i contorni vengono rafforzati e il colore lascia il campo a strutture più esplicite. Arco e freccia permette di uscire da strutture istituzionali e definite, con la rottura dei contorni e la trasformazione in linee fluttuanti nello spazio, al fine di rendere possibile il movimento e la stabilità.
Durante un lungo soggiorno a Stoccolma, Kandinsky conosce la giovane russa Nina Andreevsky. Ascolta la sua voce al telefono e dipinge un quadro dal titolo A una voce sconosciuta, in cui un movimento sinuoso delle linee lascia intravedere i lineamenti di un orecchio. Kandinsky si riconosce nello sguardo di Nina e accanto a lei realizza il sogno abbandonato tanti anni prima alla sua partenza da Mosca: cogliere la luce e l’essenza della città al tramonto. Nasce Nuvola dorata, dove gli amanti posti al lato della tela guardano estasiati l’incanto della città infiammarsi sotto una moltitudine di elementi diversi: cavallo, musico, vie e palazzi si avvicinano tra di loro per ricomporsi con la stessa potenza di un’orchestra che evoca il desiderio degli innamorati. Nina accoglie il pittore con dolcezza e sensualità, offrendogli quello spazio in cui Kandinsky ritrova coraggio e libertà creativa. “Mi sono innamorato di te, e tu hai risvegliato in me il gusto per questo mondo di gioia. Tu sai in che cosa consiste il mio sogno: dipingere un grande quadro che esprima la gioia di vivere e la felicità universale. Sento che il momento è finalmente giunto”. Kandinsky può ora separarsi da Mosca, in polemica con le istituzioni comuniste, per andare ad insegnare in Germania alla Bauhaus di Weimar.
L’ampiezza di orientamenti che caratterizza la Scuola, gli consente di realizzare la fusione tra pittura, architettura e musica. Le opere eseguite nel corso di questi anni riflettono gli studi sulle corrispondenze tra forme, colori e suoni che l’artista aveva intrapreso da tempo, ma che solo ora, parallelamente all’attività didattica, ha modo di compiere in modo sistematico. Secondo la sua teoria, certi colori corrispondono a determinati suoni e forme: il giallo si lega a suoni squillanti e a forme con angoli acuti, il blu ricorda il suono del violoncello e rafforza le sue qualità se rappresentato con figure rotonde. Aprendosi un’infinita serie di possibili accostamenti, armonici e dissonanti, può così giungere a maturazione il percorso di avvicinamento ad una pittura basata su forme geometrizzanti (modelli a scacchiera, strutture a traliccio, forme a cuneo), senza però essere rigida o schematica (curve libere, fasci di linee, bracci paralleli). In questi anni, la nostalgia dell’azzurro ritorna: insieme a Klee, Feininger e Jawlenskij, Kandinsky fonda il gruppo dei Quattro Azzurri nell’intento di andare ancora oltre le suggestioni nebulose della cultura simbolista, per tentare il passaggio definitivo dall’estetica romantica a una teoria della composizione basata sull’analisi delle proprietà degli elementi della pittura e sulle qualità organizzative della percezione.
Nel 1926 pubblica Punto, Linea, Superficie in cui traccia una grammatica della pittura nel tentativo di dare una base scientifica al rapporto tra forma e colore, per costruire una rete armonica tra le diverse espressioni del sentire umano come rivelazione della bellezza cosmica. “Il punto come il legame tra silenzio e parola”, è la partenza per la costruzione di una forma che è l’espressione di un contenuto interno. Senza limiti. Dal 1925 in poi la forma geometrica del cerchio, “elemento primordiale della pittura”, diviene dominante come lo era, un tempo, il cavaliere. E al cerchio, come al cavaliere, appartiene l’azzurro. Con l’avvento al potere di Hitler la situazione diventa sempre più precaria per Kandinsky, che incarna tutto ciò che lo rende persona non gradita nella Germania nazista che definisce “arte degenerata” l’avventura dell’astrattismo (è russo, pittore astratto e insegnante della Bauhaus); Kandinsky si rende conto di non poter restare in Germania e nel 1933 si trasferisce in Francia, a Neuilly-sur-Seine, vicino Parigi. Qui, nonostante l’arte non-oggettiva fatichi ad affermarsi per via di Cubismo e Surrealismo dominanti nelle gallerie, il suo ardore non diminuisce. Stringe intensi rapporti con pittori stranieri quali Piet Mondrian, Marc Chagall, Joan Miró, con i quali condivide la validità dell’arte “sciolta e disinibita”, e il rifiuto dell’irritante definizione di ‘astrazione’ come semplice ombra della realtà. Inoltre, essendo influenzato dalla lettura dei libri di Ernst Haekel e Karl Blossfeld, sulle nuove conquiste della biologia e della citologia, inizia uno studio appassionato sulle forme complesse dei microorganismi monocellulari, l’organizzazione interna delle cellule, i contorni bizzarri degli invertebrati marini e delle forme biologiche più primitive. Nascono dal suo pennello, spontanei ed immediati, insiemi fluttuanti di corpi colorati da cui emergono linee serpentinate, code, nastri variopinti, esseri onirici che nuotano in ribollenti liquidi magmatici, quasi a rappresentare la sintesi di precedenti intuizioni e creazioni. Griglie strutturali e geometriche si liberano e si frantumano in immagini mobili, fluide e allusive, per ricomporsi in forme bizzarre, alfabeti marziani, che richiamano qualcosa di profondamente umano, scrittura emozionale antecedente ad ogni forma di pensiero, come a volersi riallacciare ad un linguaggio primitivo che parla per emozioni. Kandinsky si appassiona allo studio dei microorganismi e dei corpi celesti, di ciò che sta dentro di noi e lontano da noi, portando la tela a fare da testimone di un incontro tra mondi forse distanti, ma incredibilmente simili. I suoni si trasformano ancora una volta in colori, le strutture regrediscono nelle linee, l’emozione si separa dal vocabolario formale e riprende quota in nome di una sapienza spaziale alla continua ricerca di nuove sonorità e nuovi contrappunti ottici. Ogni nuova tela è una nascita. Adesso sono scacchi e arcobaleni, forme biomorfiche, simboli archetipici, colori brillanti e decisi, composizioni a rettangoli regolari ma non simmetrici, simili a tappeti magici, a parlare di come si vive nel mezzo di due mondi che rappresentano rispettivamente la nascita e la realizzazione di un desiderio.
“L’arte astratta è l’arte più difficile in senso assoluto. Essa richiede che l’artista si separi da nodi, trama e ordito, sciocche polemiche, che abbia una fine sensibilità per la composizione e per i colori e che, cosa che è l’essenziale, sia anche un vero poeta”. Nonostante gli ultimi dissapori espressi nella loro corrispondenza, scrive nuovamente a Schönberg che sceglie ancora come destinatario dei suoi pensieri più intimi. “Sì! Sarebbe meraviglioso venire in America ma al momento per me non esiste al mondo città più bella di Parigi. È una città che a ciascuno offre quel che desidera nel fondo del suo cuore. È vulcanica, seducente, affascinante, sensuale, stimolante, avventurosa, variopinta, fantastica, cosmopolita. È una città in cui la cultura è incredibilmente vasta. Parigi è la mia seconda patria, una patria che amo con tutto il cuore”.
I quadri di Kandinsky fino al 1944, anno della sua morte, non rivelano tracce degli avvenimenti esterni, della guerra e dell’occupazione: manca il riscaldamento, il cibo è scarso, i guadagni sono inesistenti, la posta arriva di rado, i giornali non escono più e il materiale pittorico è quasi introvabile. Ciononostante dipinge tutti i giorni e visita le poche mostre parigine che vengono ancora organizzate. Ai quadri di questo periodo appartengono quelli che hanno per tema il volo o l’ascesa su fondo blu notte, in cui forme raffinate e modulate raccontano un’altra qualità specifica dell’arte: “Quella di cogliere un suono nel silenzio come si può cogliere nell’oggi il domani”. La forma diviene ora sensibile come una nuvola di fumo: il più piccolo, impercettibile spostamento di una freccia la modifica in modo sostanziale. “Vi prego di non credere che la mia pittura cerchi di nascondervi dei segreti, che io (come molti credono) abbia inventato un linguaggio speciale, che deve essere appreso e senza il quale la mia pittura non potrebbe venire decifrata. Non si deve rendere la questione più complicata di quanto sia in realtà. Il mio segreto sta esclusivamente nel fatto che da anni ho acquisito la felice capacità (forse lottando inconsciamente) di liberare me stesso (e, con ciò, la mia pittura) da rumori parassiti, cosicché per me ogni forma è divenuta viva, piena di suono e, pertanto di espressione. E a ciò si è aggiunta la felice possibilità di enucleare dall’infinitamente grande patrimonio formale la forma assolutamente libera e senza vincoli che mi occorreva per ogni specifico caso (= opera). Io non devo quindi preoccuparmi del contenuto, ma solo della forma giusta. E la forma giusta enucleata esprime la propria gratitudine provvedendo essa stessa al contenuto. Il contenuto della pittura è la pittura. Qui non c’è niente da decifrare: il contenuto parla pieno di gioia a colui per il quale ogni forma è viva, cioè piena di contenuto”.
Composizione X, 1939
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Un pittore che trasforma i suoni in colori e fa regredire le strutture nelle linee, per parlare di nuove possibilità, può davvero dirsi ‘astratto’? Un pennello intriso di azzurro, simbolo di un percorso interno, picchietta la superficie di una tela, introducendo quel movimento ondoso che unisce il mondo della musica con quello della pittura. “Il suono musicale giunge direttamente all’anima. E vi trova subito un eco, perché l’uomo ha la musica in sé”. La teoria innovativa secondo cui la pittura può entrare nella sua fase musicale nel momento in cui esiste, indipendentemente dall’oggetto riconoscibile, prende forma verso la fine dell’800 nella mente e nel corpo di Vasily Kandinsky durante l’ascolto del Lohengrin di Wagner, che immediatamente associa ai chiaroscuri delle opere di Rembrandt. Entrambi suscitano in lui un’emozione così potente, da suggerirgli l’idea di raggiungere con i colori e le forme la stessa intensità espressiva di quella musica. “I violini, i bassi gravi e soprattutto gli strumenti a fiato rendevano per me l’incanto luminoso di quell’ora di fine giornata. Mi sembrava di vedere tutti i miei colori, li avevo sotto gli occhi. Linee scompigliate, quasi stravaganti mi si disegnavano davanti. Scoprivo nell’arte in generale una potenza insospettata e mi parve evidente che la pittura possedesse forze espressive e mezzi potenti come la musica”. Ma il lavoro col batticuore non basta. Può salvare l’artista, ma non la sua opera.
Il tentativo di esprimere un primo suono pittorico viene rappresentato ne Il Porto di Odessa, colto in un momento di quiete e di silenzio. La banchina è deserta, in attesa del chiassoso brulicare di marinai e di commercianti che invadono ogni giorno la città mercantile. La luce mattutina ammorbidisce e dissolve i contorni, laddove i raggi del sole scivolano delicatamente sull’acqua del mare creando un gioco di riflessi e vibrazioni luminose. Questo scorcio è una delle prime opere dipinte da Kandinsky che, oramai trentenne, non riesce a resistere al fascino della natura, dei colori, e all’esigenza di trasferire sulla tela le sue emozioni. Fin da ragazzo osserva con instancabile curiosità tutto ciò che lo circonda e instaura un rapporto privilegiato con il paesaggio, di cui ammira la straordinaria bellezza: “Passeggiando ricevevo inconsciamente delle impressioni, a volte così imperiose che sentivo come un’oppressione al petto e faticavo a respirare”. Immediata è l’attrazione nei confronti degli Impressionisti francesi, che ha occasione di vedere a una mostra organizzata a Mosca. Kandinsky è colpito in particolare da Monet, con cui condivide la sensibilità per i colori, la predilezione per una pittura en plein air e per l’osservazione diretta dei mutevoli effetti della luce sull’acqua.
“Quello che ne uscì chiaramente fu la potenza incredibile, per me nuova, di una tavolozza che superava tutti i miei sogni”. Quella tavolozza che, nata dagli elementi che compongono l’opera, è in se stessa l’opera più bella, preziosa, di qualsiasi altra. L’attrazione verso questo nuovo modo di rappresentare la realtà, attraverso pennellate liquide oppure a onde che sembrano amplificare la risonanza emotiva di ogni opera, porta Kandinsky a scelte importanti: lasciare la giurisprudenza per realizzare il suo sogno di essere pittore.
Dopo essersi lasciato alle spalle un lavoro ormai non più congeniale, lascia Mosca per Monaco, città d’arte e meta privilegiata per gli artisti russi, dove avviene quella lenta trasformazione che lo porterà ad essere un artista con il fervore della sua strada. Dai paesaggi fatti di porticcioli e scene cittadine passa dagli acquerelli alle incisioni, dalle xilografie ai colori a olio, nel tentativo ardimentoso di esprimere la tradizione folclorica russo-tedesca. Nei quadri romantici dei primi anni di Monaco richiama la Mosca fiabesca dei suoi ricordi d’infanzia, temi ripresi dal mondo delle saghe e dei cavalieri. Coppia a cavallo si riferisce a una antica fiaba russa in cui il cavaliere riporta a casa la bella Elena, dopo averla liberata dalla prigionia dell’uccello di fuoco. E se Mosca è per lui il simbolo della femminilità, della bellezza, della grazia, della dignità, dell’equilibrio, Monaco rappresenta le contraddizioni stimolanti e il fascino seducente necessari per intingere nella magia, nel sogno, nell’erotismo, nella civetteria, e creare. L’anima russa lo rende consapevole dei molteplici livelli di mistero che sottendono qualsiasi forma di manifesta conoscenza, facendogli preferire l’interiorità all’esteriorità, il simbolico al fattivo, l’essenza alla fenomenologia. E come molti poeti e filosofi tedeschi del tempo, sempre alla ricerca di quel che costituisce ‘l’intima essenza del mondo’, come pittore ricerca quelle immagini che possano esprimere questa sua aspirazione. Tra il 1902 e il 1904 Kandinsky produce più di quaranta xilografie, utilizzando il metodo di stampa giapponese e raggiungendo, presto, una notevole maestria in questa tecnica complessa. In opere come La Cantante, i ritmi creati dalle forme curvilinee dell’abito della donna, insieme con le aeree di chiaroscuro che contrastano con aree dal colore acceso, scandiscono il passare del tempo introducendo la riflessione che gli scopi e i mezzi dell’arte, come quelli della natura, sono organicamente e logicamente diversi, ma ugualmente grandi e forti. Una riflessione che schiude nuovi orizzonti: non soltanto le stelle, la luna, le foreste, il filo di corteccia che la formica trascina verso l’erba, tanto cantati dai poeti, ma anche ogni punto, superficie, linea immota o animata diventano vive, tali da mostrare - per questo – tutte, il volto dell’arte.
I lunghi viaggi attraverso l’Italia, la Svizzera, Parigi e Berlino, alla volta del “forse non c’è niente, sicuro che c’è tutto”, rafforzano inquietudine e ricerca di nuove possibilità pittoriche. Nascono poemi in prosa (Sounds) e composizioni sceniche (Il suono giallo), che rivelano l’intento dell’artista di rinnovarsi attraverso l’arte, riunendo i vari generi dello spettacolo (opera-dramma-balletto) in un’opera d’arte totale, liberando ogni forma dal peso della tradizione e cercando di recuperare la pura voce delle origini, per riconquistare quella corporeità viscerale che i bambini riescono ad offrire spontaneamente. “Creare forme significa vivere. Non sono forse creatori i bambini, che creano direttamente dal mistero della loro percezione, ben più dell’imitatore di forme greche?”.
Nelle composizioni sceniche Kandinsky tenta la realizzazione di un progetto nel quale le molteplici forme artistiche si facciano portatrici di un valore interiore unico. In questa prospettiva, movimento sonoro (musica e voce umana), movimento plastico (danza e scultura in movimento) e movimento cromatico (luce e colore), devono essere trattati secondo un progetto unico, interagendo fra loro, subordinati ad un fine interiore, attraverso la fusione di forme, colori, luci, suoni e movimento. In questo modo egli pensa di creare una forte tensione che possa far vibrare l’anima dello spettatore a tal punto da eccitare la sua fantasia e richiamarlo a creare all’interno di un’opera già esistente. “Per parecchi anni lottai con tutte le mie forze per trovare il modo, la tecnica, per attrarre lo spettatore dentro il quadro stesso, perché vi si mescolasse e ne diventasse parte”. Il tentativo di confrontarsi con la questione della dissoluzione della realtà nel dipinto, e tradurre un’intuizione in opera d’arte, inizia a farsi strada quando Kandinsky si imbatte all’improvviso in un proprio dipinto appoggiato di sghembo nell’atelier in penombra. È quasi il crepuscolo quando, colpito dal mistero di questa illusione ottica, contemporaneamente priva di oggetto, conclude che, per quanto lo riguarda, l’oggetto così com’è riflesso in pittura costituisce un elemento di disturbo nella sua ricerca per Lo spirituale nell’arte. L’indomani, alla luce del giorno, nasce Composizione VII. Ciò che a prima vista sembra essere un accostamento di forme colorate di piccole dimensioni, ravvicinate, distribuite quasi in modo omogeneo sulla tela, si rivela ad una osservazione più attenta come una composizione fortemente dinamica in cui i valori metaforici del “magico superamento della prospettiva attraverso mezzi compositivi assai semplici” orientano l’osservatore.
Senza titolo, 1923
Kandinsky, oramai cittadino tedesco, abbraccia Monaco come una nuova donna a lungo desiderata. Desiderio che lo porta a lasciare i canoni artistici predefiniti che impongono regole precise per la composizione, e intraprendere la strada emotiva dell’azzurro intenso e degli arancioni, l’espressione decisa delle linee, la falcata cruda, alta e densa delle pennellate, così che i dipinti risultino come un fuoco di corde vibranti sotto lo sguardo. Dissonanze, asimmetrie, contrasti di colore vengono impiegati in senso gioioso, creando opere musicali scandite da ritmi festosi, in cui il quotidiano viene rappresentato non più come un segmento ma come un tutt’uno, il luogo della fantasia. I colori della sua tavolozza diventano sempre più stridenti e le linee verticali, che innervano ogni angolo della tela, si fanno sempre più frenetiche e acute, quasi a esprimere l’esigenza di un recupero della sapienza artigianale contro la produzione industriale, meccanica e anonima.
Kandinsky frequenta assiduamente Schwabing, il quartiere preferito dagli artisti di Monaco con i quali condivide idee estetiche che contribuiscono a mettere in fermento l’avanguardia pittorica monacense, meta dei suoi vagabondaggi con la scatola dei colori e con la sensazione nel cuore di essere un cacciatore alla ricerca di scorci paesaggistici, di tinte e sensazioni da trasferire immediatamente sulla tela. Già negli anni della formazione il colore è l’elemento dominante delle sue opere: il verde vivo del prato e l’arancione squillante delle case, eccessivamente carichi rispetto alla realtà, pulsano con forza esplosiva sulla tela e colpiscono con incisività l’immaginazione. Egli non si preoccupa affatto di riprodurre con precisione i particolari, ma traccia sommariamente le forme, stendendo polveri intrise d’acqua con pennellate pastose e cariche di materia, spesso con l’aiuto della spatola e, preso dall’ansia febbrile del lavoro, lascia affiorare qua e là parti di tela non dipinta, quasi a cadere in una sorta di ebbrezza che pare eliminare lo stato di gravità. È per opere come Linee Nere I che i suoi amici lo chiamano ‘il colorista’. È per questo agire interno che lo definiscono il “poeta delle forme musicali”, quel viaggiatore curioso e riservato sempre pronto a partire a cavallo di un pennello. Insegnando pittura conosce Gabriele Münter, che diventa amica, confidente e compagna in una relazione tormentata sin dal principio. L’obiettività e la razionalità della donna entrano subito in conflitto con il desiderio di libertà creativa che Kandinsky sta sperimentando. Sceglie comunque di vivere questo rapporto che si interromperà quando, di fronte all’ostinazione della donna di voler interpretare le sue composizioni come una scuola a cui aggrapparsi e da cui dipendere, codificando in regole e svuotando dell’intenso contenuto emozionale il suo lavoro, lui la lascerà. Riprende la ricerca sul far regredire una forma per portare alla luce un contenuto che parli di nuove possibilità.
Kandinsky, nonostante i primi riconoscimenti importanti, entra nella sua fase più difficile. Durante i viaggi che lo portano ad Odessa, Tunisi, Rapallo, cerca nei colori del deserto, dei boschi e del mare, una forma espressiva in grado di esprimere quella tensione sessuale indispensabile per dare corpo al suo desiderio e non cadere nel vuoto dell’Astrattismo. La luce della Tunisia, che dissolve la consistenza degli oggetti e induce il miraggio, gli resta dentro come un’impronta. In questi anni di ricerca, iniziano a comparire forme che raccontano di come il colore si fa fiaba, di come la pittura possa creare mondi fantastici e pulsanti di vita. Per Kandinsky è prioritaria l’emozione, e la tecnica che sviluppa in questo periodo è quella di associare immagini reali, sempre meno distinguibili, a linee e macchie di colore che nascono di getto dal suo pennello. Sente che l’insieme del velare e rivelare, offrirà nuove possibilità e nuovi temi alla composizione. “Il fatto che l’artista si serva di una forma astratta o di una forma reale non ha alcuna importanza. Le due forme sono intimamente uguali. La scelta deve essere lasciata all’artista che meglio di tutti conosce il mezzo più indicato per materializzare limpidamente l’espressione della sua vita interiore nell’opera”.
È il 1920 quando alcuni motivi come il campanile, la torre, la cupola, la carrozza, la falce si fanno quasi irriconoscibili: sono i colori i protagonisti assoluti della scena. Kandinsky rompe con la tradizione di dipingere oggetti e figure che esistono nella realtà e crea la sua prima composizione di forme e colori totalmente emancipata dal problema della rappresentazione. Dipinto in blu immerge immediatamente in una dimensione onirica in cui domina il silenzio musicale della notte. Nel mentre gli angoli acuti dei triangoli, che per Kandinsky rappresentano le forme voluttuose del corpo giunonico di una donna russa, si irradiano tra le corde di un’arpa, rappresentata dalle linee nere, dal mare sopraggiunge un'onda che risuona come una sinfonia. Parola, immagine e suono si coordinano tra loro, portando lo spettatore a creare all'interno di un'opera dinamica e inquieta, verso un'emozionante sensazione di possibilità imprevedibili, di un potenziale risveglio e di una sospirata nuova nascita.
Il confronto con forme espressive diverse, per arrivare al centro delle proprie emozioni e suscitare l'impulso creativo, portano ad immaginare il pittore russo al centro di un bosco fitto, dove un raggio sottile di luce ed un suono portato dal vento possono essere le uniche indicazioni che un artista coraggioso riconosce per portare alla luce del sole la propria trasformazione. Nasce Senza titolo, uno spazio fluido, tattile, amniotico, di linee improvvise e macchie di colore in movimento, elastiche, galleggianti, un insieme di sensazioni interiori di espansione e contrazione. È il primo spazio interiore della storia della pittura dove, l’immagine del cavaliere e della montagna, lasciano il posto al dolce formarsi dell’acrobata che volteggia tra le luci del sole e il suono dell’azzurro. Trasparente come il cielo e intenso come l’acqua del mare, l’azzurro è il più immateriale dei colori. Nel Blu le forme perdono la loro consistenza visiva: un muro blu cessa di essere un muro, il reale si trasforma in immaginario, segnata di blu è la strada dell’inconscio e dei sogni. Kandinsky dedica al colore pagine affascinanti: il colore non è soltanto una qualità della superficie, ma qualcosa che risplende dall’interno rivelando l’essenza del mondo, nota da ascoltare con la mente e con il corpo, finalmente riconosciuti come un insieme inscindibile che risuona in lui con forza enorme, come creatura dotata di temperamento e di vita propria. “Con i soldi messi pazientemente da parte, mi comperai tra i tredici ed i quattordici anni una scatola di colori a olio. Quella esperienza viva del colore che esce dal tubetto, la provo ancora oggi. Una pressione del dito e quegli esseri straordinari che si chiamano colori compaiono chiassosi, pomposi, pensosi, sognanti, assortiti, maliziosi, con il sospiro della liberazione, con il suono profondo della sofferenza, con una forza fiduciosa e persistente, con caparbio dominio di sé... Mi sembrava che l’anima viva dei colori emettesse un richiamo musicale. Sentivo a volte il chiacchiericcio sommesso dei colori che si mescolavano, era un’esperienza simile a quella che si sarebbe potuta fare nella misteriosa cucina di un alchimista...”.
Il cuore di Kandinsky batte tra pennelli e barattoli che, silenziosi e stupiti, si lasciano muovere dalla mano dell’artista dando vita a tele vivaci e variopinte che introducono a Impressioni e Improvvisazioni che fluttuano in un’atmosfera lattea e imprecisata, e dove costituiscono la prima tappa verso l’evoluzione della forma libera che, attraverso una rielaborazione interiore, porta alla nascita della composizione. “L’arte del dipingere mi appare come l’incontro roboante di mondi diversi che, dopo essersi dati battaglia, arrivano a formare quel mondo nuovo che si chiama opera d’arte. Creare un quadro è come creare un mondo. La parola composizione mi sembrava sempre emozionante, e mi proponevo poi, come scopo della mia vita, di dipingere una composizione. Nelle ore di studio mi lasciavo andare e pensavo poco alle case e agli alberi. Tracciavo con la spatola strisce e macchie sulla tela e le lasciavo cantare più forte che potevo”. Una nuova immagine interna si fa strada: quella di una donna forte, libera, che si lascia fecondare, verso terre lontane in cui si fa portatrice di uno spazio nuovo dove non esiste altro che forma ed energia. Di colpo dei muri spessi crollano e la prima lettera del nuovo alfabeto pittorico non è ‘astratto’, ma la ricerca di una nuova forma espressiva, sia essa nel colore che nelle infinite combinazioni di forme che da questo prendono vita. Una donna che, distesa tra i colori, esprime la sua richiesta di essere trovata, riconosciuta, presa e vissuta nella più completa libertà. “La pittura è un contrasto fragoroso di mondi diversi destinati a creare insieme nella e dalla lotta quel nuovo mondo che si chiama opera. Ogni opera nasce tecnicamente così come è nato il cosmo, attraverso catastrofi che dal ruggito caotico degli strumenti formano, a conclusione, una sinfonia, che è la musica delle sfere”.
Nasce l’avventura de Il Cavaliere Azzurro, un itinerario eroico e romantico, visivo e sonoro che, attraverso testi ed immagini dedicati alla musica e alla pittura, rifonda la possibilità di un’arte indipendente e audace che non vuole significare o ricordare, piuttosto privilegiare, nella diversità delle forme rappresentate, i modi diversi in cui si manifestano le esigenze interiori dell’artista. “Il nome lo abbiamo trovato al tavolino del caffè sotto il pergolato di Sindelsdorf; a tutti e due piaceva l’azzurro, a Marc il cavallo e a me il cavaliere. Così il nome è venuto da sé”. Teoria e prassi procedono, stimolate dal desiderio e dall’energia di una ricerca verso una nuova intensità di rappresentazione capace di creare un ponte tra il passato ed il futuro dove il presente è la sintesi, l’emozione potente che l’opera di un artista può suscitare. Attorno a Il Cavaliere Azzurro si incontrano artisti che vogliono esprimere la voce di una nuova arte, “da cercare e ritrovare nella regione dei miraggi, delle risonanze, dei confini incerti, attraversata dal respiro universale dell’uomo”, ma le difficoltà nel riuscire a mantenere un tale livello di ricerca e la continua richiesta di innovazione, elementi indispensabili alla riuscita di questo tentativo, portano Kandinsky ad intuire il pericolo di una possibile ripetizione dei contenuti. Prima che il progetto deragli verso un Astrattismo di maniera, alla morte in guerra del suo amico e co-fondatore Franz Marc, decide di chiudere questa esperienza, per evitare che si trasformi in un tempio astratto privo di quella connotazione poetica fondamentale di totale libertà, storicità e universalità, dichiarata alla nascita del progetto.
In questi anni Kandinsky oscilla tra le Impressioni legate alla natura, le Improvvisazioni, in cui vengono espressi elementi derivati dall’osservazione che si accordano armonicamente con forme autonome, e infine le Composizioni, in cui gli elementi formali incontrano colori e suoni al limite tra descrizione ed evocazione. Ma il filo del desiderio cerca nuovi stimoli, ed è con la musica che il pittore riprende il suo percorso creativo. Nascono nuovi dipinti immediatamente dopo l’esecuzione del primo concerto di Arnold Schönberg a Monaco. Il musicista, che ha rotto con le convenzioni musicali dagli accordi abusati e razionali, con il suo modo di comporre, atonale e intriso di dissonanze, riflette e porta avanti il discorso iniziato da Kandinsky nella pittura. “La musica come la libertà nasce da esperienze puramente psichiche”, dice Schönberg. L’arte si può esprimere a partire da un albero, da una mela, da un uomo, da una nota; per comporre un’opera, sia essa un quadro o una sinfonia, in cui ogni forma, colore, ritmo, disegnano la sequenza del possibile, occorre tralasciare il prestito offerto dalle seducenti forme esteriori, seppur belle, per un linguaggio universale.
Ampie pennellate gialle, intrise di un desiderio crescente, fanno da sfondo ad un flauto e ad un pianoforte: movimenti che spingono il pittore russo, piuttosto riservato, a scrivere subito una lettera al musicista che ancora non conosce, avviando così la vivace corrispondenza degli anni successivi. Il loro intenso rapporto, fatto di avvicinamenti, scontri, lunghi silenzi ed attese, porta Kandinsky a muoversi in un territorio sconosciuto, in cui l’urto emotivo di questo nuovo modo di fare musica e mettersi in gioco emozionalmente, segnano un passaggio fondamentale verso l’immediatezza del desiderio che ha iniziato ad esprimere con Nudo. Il pittore ed il musicista si riconoscono come interlocutori dello stesso livello spirituale ed artistico; entrambi rompono le convenzioni che inibiscono la libertà creativa, sottraendo l’arte ad ogni possibilità di compromesso, per mettere a nudo gli strati profondi della coscienza e dare forma alle visioni che traggono forza dal mondo interiore. Da questo incontro Kandinsky comprende che tra forma astratta e forma materiale non esiste differenza, poiché entrambe sono l’espressione di un voler confinare dentro schemi prestabiliti la creatività, facendo smarrire la profonda identità all’artista. È il contenuto interno, l’integrazione tra realtà materiale e realtà psichica, a determinare prepotentemente la forma, portando fin dentro l’essenza del proprio desiderio, laddove l’uomo vive lasciandosi trasformare e trasformando. “Non considero la pittura senza oggetto come qualcosa che sopprima tutta quanta l’arte precedente... e mi fanno un gran dispetto quando mi associano all’idea di astrazione in pittura o mi accusano di volerla demolire. Mai nel mio lavoro ho provato l’impressione di distruggere: nel lasciare il piano della riproduzione, riducendo ampiamente le cose definibili, non ci trovo che un impulso intenso, logico, essenzialmente organico e crescente dell’arte. A poco a poco ho preso coscienza della mia libertà, e così sono cadute le esigenze secondarie che imponevo all’arte. Sono cadute a favore di una sola esigenza: l’espressione della vita interiore nell’opera”.
Il trasferimento da Monaco a Mosca incide profondamente su Kandinsky. La Rivoluzione d’ottobre, l’arrivo della Prima Guerra Mondiale ed il silenzio creativo che vive in questa città lo mettono profondamente in crisi. “Si aprono sempre nuove possibilità, in modo discontinuo, frammentario, che solo in rari momenti felici si presentano come un insieme. Forse, di tanto in tanto, bisognerebbe restar seduti in cima ad una torre, essere chiusi a chiave, scrollarsi di dosso ogni preoccupazione. Ma anche la vita si arrampica su per la torre e filtra attraverso il buco della serratura”. Gli anni della guerra sembrano interrompere la ricerca di una dimensione ‘altra’ collegata al mondo interiore: si passa dall’espressione intuitiva alla costruzione ragionata. Mentre i dipinti prebellici rappresentano forme libere dai contorni indistinti (fondendosi l’una nell’altra, con modulazioni lineari che spesso si sovrappongono) che sembrano riflettere la riuscita di un individuo ad estendere la propria inventiva al mondo non materiale, nelle opere postbelliche le forme sono quasi domate e i colori schiariti: la geometria vi entra sotto forma di triangoli, quadrati, cerchi e delle loro combinazioni; i contorni vengono rafforzati e il colore lascia il campo a strutture più esplicite. Arco e freccia permette di uscire da strutture istituzionali e definite, con la rottura dei contorni e la trasformazione in linee fluttuanti nello spazio, al fine di rendere possibile il movimento e la stabilità.
Durante un lungo soggiorno a Stoccolma, Kandinsky conosce la giovane russa Nina Andreevsky. Ascolta la sua voce al telefono e dipinge un quadro dal titolo A una voce sconosciuta, in cui un movimento sinuoso delle linee lascia intravedere i lineamenti di un orecchio. Kandinsky si riconosce nello sguardo di Nina e accanto a lei realizza il sogno abbandonato tanti anni prima alla sua partenza da Mosca: cogliere la luce e l’essenza della città al tramonto. Nasce Nuvola dorata, dove gli amanti posti al lato della tela guardano estasiati l’incanto della città infiammarsi sotto una moltitudine di elementi diversi: cavallo, musico, vie e palazzi si avvicinano tra di loro per ricomporsi con la stessa potenza di un’orchestra che evoca il desiderio degli innamorati. Nina accoglie il pittore con dolcezza e sensualità, offrendogli quello spazio in cui Kandinsky ritrova coraggio e libertà creativa. “Mi sono innamorato di te, e tu hai risvegliato in me il gusto per questo mondo di gioia. Tu sai in che cosa consiste il mio sogno: dipingere un grande quadro che esprima la gioia di vivere e la felicità universale. Sento che il momento è finalmente giunto”. Kandinsky può ora separarsi da Mosca, in polemica con le istituzioni comuniste, per andare ad insegnare in Germania alla Bauhaus di Weimar.
L’ampiezza di orientamenti che caratterizza la Scuola, gli consente di realizzare la fusione tra pittura, architettura e musica. Le opere eseguite nel corso di questi anni riflettono gli studi sulle corrispondenze tra forme, colori e suoni che l’artista aveva intrapreso da tempo, ma che solo ora, parallelamente all’attività didattica, ha modo di compiere in modo sistematico. Secondo la sua teoria, certi colori corrispondono a determinati suoni e forme: il giallo si lega a suoni squillanti e a forme con angoli acuti, il blu ricorda il suono del violoncello e rafforza le sue qualità se rappresentato con figure rotonde. Aprendosi un’infinita serie di possibili accostamenti, armonici e dissonanti, può così giungere a maturazione il percorso di avvicinamento ad una pittura basata su forme geometrizzanti (modelli a scacchiera, strutture a traliccio, forme a cuneo), senza però essere rigida o schematica (curve libere, fasci di linee, bracci paralleli). In questi anni, la nostalgia dell’azzurro ritorna: insieme a Klee, Feininger e Jawlenskij, Kandinsky fonda il gruppo dei Quattro Azzurri nell’intento di andare ancora oltre le suggestioni nebulose della cultura simbolista, per tentare il passaggio definitivo dall’estetica romantica a una teoria della composizione basata sull’analisi delle proprietà degli elementi della pittura e sulle qualità organizzative della percezione.
Nel 1926 pubblica Punto, Linea, Superficie in cui traccia una grammatica della pittura nel tentativo di dare una base scientifica al rapporto tra forma e colore, per costruire una rete armonica tra le diverse espressioni del sentire umano come rivelazione della bellezza cosmica. “Il punto come il legame tra silenzio e parola”, è la partenza per la costruzione di una forma che è l’espressione di un contenuto interno. Senza limiti. Dal 1925 in poi la forma geometrica del cerchio, “elemento primordiale della pittura”, diviene dominante come lo era, un tempo, il cavaliere. E al cerchio, come al cavaliere, appartiene l’azzurro. Con l’avvento al potere di Hitler la situazione diventa sempre più precaria per Kandinsky, che incarna tutto ciò che lo rende persona non gradita nella Germania nazista che definisce “arte degenerata” l’avventura dell’astrattismo (è russo, pittore astratto e insegnante della Bauhaus); Kandinsky si rende conto di non poter restare in Germania e nel 1933 si trasferisce in Francia, a Neuilly-sur-Seine, vicino Parigi. Qui, nonostante l’arte non-oggettiva fatichi ad affermarsi per via di Cubismo e Surrealismo dominanti nelle gallerie, il suo ardore non diminuisce. Stringe intensi rapporti con pittori stranieri quali Piet Mondrian, Marc Chagall, Joan Miró, con i quali condivide la validità dell’arte “sciolta e disinibita”, e il rifiuto dell’irritante definizione di ‘astrazione’ come semplice ombra della realtà. Inoltre, essendo influenzato dalla lettura dei libri di Ernst Haekel e Karl Blossfeld, sulle nuove conquiste della biologia e della citologia, inizia uno studio appassionato sulle forme complesse dei microorganismi monocellulari, l’organizzazione interna delle cellule, i contorni bizzarri degli invertebrati marini e delle forme biologiche più primitive. Nascono dal suo pennello, spontanei ed immediati, insiemi fluttuanti di corpi colorati da cui emergono linee serpentinate, code, nastri variopinti, esseri onirici che nuotano in ribollenti liquidi magmatici, quasi a rappresentare la sintesi di precedenti intuizioni e creazioni. Griglie strutturali e geometriche si liberano e si frantumano in immagini mobili, fluide e allusive, per ricomporsi in forme bizzarre, alfabeti marziani, che richiamano qualcosa di profondamente umano, scrittura emozionale antecedente ad ogni forma di pensiero, come a volersi riallacciare ad un linguaggio primitivo che parla per emozioni. Kandinsky si appassiona allo studio dei microorganismi e dei corpi celesti, di ciò che sta dentro di noi e lontano da noi, portando la tela a fare da testimone di un incontro tra mondi forse distanti, ma incredibilmente simili. I suoni si trasformano ancora una volta in colori, le strutture regrediscono nelle linee, l’emozione si separa dal vocabolario formale e riprende quota in nome di una sapienza spaziale alla continua ricerca di nuove sonorità e nuovi contrappunti ottici. Ogni nuova tela è una nascita. Adesso sono scacchi e arcobaleni, forme biomorfiche, simboli archetipici, colori brillanti e decisi, composizioni a rettangoli regolari ma non simmetrici, simili a tappeti magici, a parlare di come si vive nel mezzo di due mondi che rappresentano rispettivamente la nascita e la realizzazione di un desiderio.
“L’arte astratta è l’arte più difficile in senso assoluto. Essa richiede che l’artista si separi da nodi, trama e ordito, sciocche polemiche, che abbia una fine sensibilità per la composizione e per i colori e che, cosa che è l’essenziale, sia anche un vero poeta”. Nonostante gli ultimi dissapori espressi nella loro corrispondenza, scrive nuovamente a Schönberg che sceglie ancora come destinatario dei suoi pensieri più intimi. “Sì! Sarebbe meraviglioso venire in America ma al momento per me non esiste al mondo città più bella di Parigi. È una città che a ciascuno offre quel che desidera nel fondo del suo cuore. È vulcanica, seducente, affascinante, sensuale, stimolante, avventurosa, variopinta, fantastica, cosmopolita. È una città in cui la cultura è incredibilmente vasta. Parigi è la mia seconda patria, una patria che amo con tutto il cuore”.
I quadri di Kandinsky fino al 1944, anno della sua morte, non rivelano tracce degli avvenimenti esterni, della guerra e dell’occupazione: manca il riscaldamento, il cibo è scarso, i guadagni sono inesistenti, la posta arriva di rado, i giornali non escono più e il materiale pittorico è quasi introvabile. Ciononostante dipinge tutti i giorni e visita le poche mostre parigine che vengono ancora organizzate. Ai quadri di questo periodo appartengono quelli che hanno per tema il volo o l’ascesa su fondo blu notte, in cui forme raffinate e modulate raccontano un’altra qualità specifica dell’arte: “Quella di cogliere un suono nel silenzio come si può cogliere nell’oggi il domani”. La forma diviene ora sensibile come una nuvola di fumo: il più piccolo, impercettibile spostamento di una freccia la modifica in modo sostanziale. “Vi prego di non credere che la mia pittura cerchi di nascondervi dei segreti, che io (come molti credono) abbia inventato un linguaggio speciale, che deve essere appreso e senza il quale la mia pittura non potrebbe venire decifrata. Non si deve rendere la questione più complicata di quanto sia in realtà. Il mio segreto sta esclusivamente nel fatto che da anni ho acquisito la felice capacità (forse lottando inconsciamente) di liberare me stesso (e, con ciò, la mia pittura) da rumori parassiti, cosicché per me ogni forma è divenuta viva, piena di suono e, pertanto di espressione. E a ciò si è aggiunta la felice possibilità di enucleare dall’infinitamente grande patrimonio formale la forma assolutamente libera e senza vincoli che mi occorreva per ogni specifico caso (= opera). Io non devo quindi preoccuparmi del contenuto, ma solo della forma giusta. E la forma giusta enucleata esprime la propria gratitudine provvedendo essa stessa al contenuto. Il contenuto della pittura è la pittura. Qui non c’è niente da decifrare: il contenuto parla pieno di gioia a colui per il quale ogni forma è viva, cioè piena di contenuto”.
Composizione X, 1939
BIBLIOGRAFIA
E. DI STEFANO, Kandinsky, Giunti Ed., Firenze 1993.
M. CHINI, Kandisky, Giunti Ed., Firenze 1998.
M. M. MOELLER E T. SPARAGNI, Il Cavaliere Azzurro. Kandinsky, Marc e i loro amici, Mazzotta Ed., Milano 2003.
N. KANDINSKY, Kandinsky e io, Abscondita Ed., Milano 2006.
V. KANDINSKY, Sguardi sul passato, SE Ed., Milano 1999.
V. KANDINSKY, Lo spirituale nell’arte, SE Ed., Milano 1989.
V. KANDINSKY - F. MARC, Il cavaliere azzurro, SE Ed., Milano 1988.
V. KANDINSKY, Il suono giallo e altre composizioni sceniche, Abscondita Ed., Milano 2002.
V. KANDINSKY, Sounds, New Haven and London Yale University Ed., Londra 1981.
V. KANDINSKY, Punto, linea, superficie, Adelphi Ed., Milano 1993.
V. KANDINSKY, Tutti gli scritti, Feltrinelli Ed., Milano 1989.
V. KANDINSKY - A. SCHÖNBERG, Musica e pittura, SE Ed., Milano 2002.
U. BECKS-MALORNY, Kandinsky, Taschen Ready-made Ed., Milano 1993.
S. DAVIDSON (a cura di), Kandinsky e l’avventura astratta, Catalogo della Mostra, Villa Manin Arte Ed., Passariano (UD), dal 29 Marzo al 27 Luglio 2003.
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MATISSE E LO STUPORE DELLA VISIONE INASPETTATA
di Claudia Amato, Shelly Bisirri, Cinzia Sersante, ANNO 2015
MATISSE E LO TUPORE DELLA VISIONE INASPETTATA
Claudia Amato, Shelly Bisirri, Cinzia Sersante
H.É.B. Matisse, Il paravento moresco, 1921.
Henri Émile Benoît Matisse è approdato a Roma, alle Scuderie del Quirinale, con la mostra dal titolo “Matisse. Arabesque”. Le opere esposte provenivano dai principali musei del mondo, iniziando con il Centre Pompidou e la Tate Gallery, passando per l’America con il MoMa, sino a giungere al prezioso contributo dell’Hermitage di San Pietroburgo e del museo Puškin di Mosca. La dimensione che spazia oltre i confini geografici e culturali delle origini dell’artista, è stata il filo conduttore della mostra che ha evidenziato come la sua ricerca curiosa si sia arricchita delle immersioni nelle diverse culture con le quali è entrato in contatto, in particolar modo l’Oriente. L’interessante prospettiva con la quale è stato proposto il lavoro di Matisse ha permesso di cogliere l’originale ricerca che lui ha portato avanti per tutta la vita e ha introdotto noi, in un caldo pomeriggio di primavera, nel linguaggio della grammatica dei colori e delle linee, con la semplicità e la precisione della sensazione. Visitando le diverse sale, ci siamo lasciati guidare dalle oltre novanta opere per cogliere la preziosa occasione di avvicinarci a uno dei più noti artisti del ventesimo secolo.
“La révélation m’est venue d’Orient” scrive Henri Matisse quando, in un crescendo nel tempo, essa prende forma attraverso un interesse verso opere d’arte islamiche in Europa. In occasione di numerose visite a mostre, esposizioni e musei, e nell’incontro con le arti dell’Islam – durante i suoi viaggi in Spagna e Maghreb – cerca l’espressione che si manifesta attraverso un insieme variegato di emozioni, derivanti da una sensibilità che si esprime pienamente in tutta la sua potenza creativa, mediante tecniche unite a mondi ricchi di suggestioni, effetti cromatici e atmosfere variegate. Atmosfere in cui i soggetti dei quadri e i loro sfondi hanno lo stesso valore, dove le linee si esprimono in rapporto le une alle altre creando volume, spazio e contenuto, senza artifici né imitazioni.
“Decisi allora di lasciare da parte qualsiasi preoccupazione di verosimiglianza. Copiare un oggetto non m’interessava. Perché avrei dovuto dipingere l’aspetto esteriore di una mela, sia pur con la maggior precisione possibile? Quale interesse c’era a copiare un oggetto che la natura offriva in quantità illimitate e che si può sempre concepire più bello? Quel che conta è la relazione tra l’oggetto e la personalità dell’artista, la potenza che questo ha di organizzare sensazioni ed emozioni” e il tutto attraverso una sensibilità primordiale con cui l’artista, ispirato dalla Natura e mosso da una corporeità pulsante, esprime la sua emozione in maniera autentica, come nell’arte pagana, perché l’arte moderna è fatta di invenzione e slancio del cuore. Per questo essa è prossima alle arti arcaiche e primitive dove si vede il soggetto nel modo più semplice; per esprimersi con la maggior chiarezza possibile è necessario superare l’abilità tecnica e i virtuosismi in nome di una nuova concezione della superficie che esalta le linee e i colori delle immagini sulle tele: “Mi son servito del colore come mezzo di espressione della mia emozione e non di trascrizione della natura. Uso i colori più semplici, non sono io a trasformarli”. L’artista si impegna a diventare più semplice laddove la semplicità coincide con la massima pienezza. “Il mezzo più semplice libera al massimo della chiarezza lo sguardo per la visione. E alla lunga, solo il mezzo più semplice è convincente. Ma da sempre c’è voluto coraggio per essere semplici. Credo che non ci sia niente al mondo di più difficile. Chi lavora con mezzi semplici non deve aver paura di diventare apparentemente banale”. Matisse affronta questo percorso di trasformazione attraverso un passaggio naturale che partendo da una educazione classica lo conduce, dopo aver studiato e assimilato i Maestri, alla necessità di dimenticarli o piuttosto di comprenderli in un modo personale che lo accompagna verso la conoscenza e l’influenza delle arti orientali.
“La révélation m’est venue d’Orient” scrive Henri Matisse quando, in un crescendo nel tempo, essa prende forma attraverso un interesse verso opere d’arte islamiche in Europa. In occasione di numerose visite a mostre, esposizioni e musei, e nell’incontro con le arti dell’Islam – durante i suoi viaggi in Spagna e Maghreb – cerca l’espressione che si manifesta attraverso un insieme variegato di emozioni, derivanti da una sensibilità che si esprime pienamente in tutta la sua potenza creativa, mediante tecniche unite a mondi ricchi di suggestioni, effetti cromatici e atmosfere variegate. Atmosfere in cui i soggetti dei quadri e i loro sfondi hanno lo stesso valore, dove le linee si esprimono in rapporto le une alle altre creando volume, spazio e contenuto, senza artifici né imitazioni.
“Decisi allora di lasciare da parte qualsiasi preoccupazione di verosimiglianza. Copiare un oggetto non m’interessava. Perché avrei dovuto dipingere l’aspetto esteriore di una mela, sia pur con la maggior precisione possibile? Quale interesse c’era a copiare un oggetto che la natura offriva in quantità illimitate e che si può sempre concepire più bello? Quel che conta è la relazione tra l’oggetto e la personalità dell’artista, la potenza che questo ha di organizzare sensazioni ed emozioni” e il tutto attraverso una sensibilità primordiale con cui l’artista, ispirato dalla Natura e mosso da una corporeità pulsante, esprime la sua emozione in maniera autentica, come nell’arte pagana, perché l’arte moderna è fatta di invenzione e slancio del cuore. Per questo essa è prossima alle arti arcaiche e primitive dove si vede il soggetto nel modo più semplice; per esprimersi con la maggior chiarezza possibile è necessario superare l’abilità tecnica e i virtuosismi in nome di una nuova concezione della superficie che esalta le linee e i colori delle immagini sulle tele: “Mi son servito del colore come mezzo di espressione della mia emozione e non di trascrizione della natura. Uso i colori più semplici, non sono io a trasformarli”. L’artista si impegna a diventare più semplice laddove la semplicità coincide con la massima pienezza. “Il mezzo più semplice libera al massimo della chiarezza lo sguardo per la visione. E alla lunga, solo il mezzo più semplice è convincente. Ma da sempre c’è voluto coraggio per essere semplici. Credo che non ci sia niente al mondo di più difficile. Chi lavora con mezzi semplici non deve aver paura di diventare apparentemente banale”. Matisse affronta questo percorso di trasformazione attraverso un passaggio naturale che partendo da una educazione classica lo conduce, dopo aver studiato e assimilato i Maestri, alla necessità di dimenticarli o piuttosto di comprenderli in un modo personale che lo accompagna verso la conoscenza e l’influenza delle arti orientali.
E così, lentamente, sostenendo il proprio talento con un lavoro assiduo, arriva a meditare in contatto con la Natura per dare espressione a un sogno nuovo, sempre ispirato alla realtà circostante. Esponente della pittura d’avanguardia, egli accusa il disegno imitativo delle accademie di non creare alcuna relazione tra gli oggetti, che vengono posti l’uno accanto all’altro senza alcun legame con l’emozione personale dell’artista: “Gli altri non hanno inventato il loro segno... Riprenderlo è riprendere una cosa morta: il punto d’arrivo della loro emozione personale e lo scarto dell’espressione altrui non possono essere in rapporto col mio sentimento originale”.
Grazie alla ricerca di uno stile personale e alla voglia continua di esplorare nuove forme espressive, passa anche attraverso l’Impressionismo e il Puntinismo, arricchendo quest’ultimo di pennellate più ampie, fino a divenire uno dei principali esponenti del Fauvismo.
Matisse, definito il pittore del colore, si rivolge al lato espressivo delle tinte e racconta come per dipingere una scena autunnale non si affidi al ricordo delle tonalità bensì alla sensazione che esse gli hanno ispirato, quindi l’azzurro pungente di un cielo gelido e limpido potrà rappresentare l’autunno tanto quanto le sfumature del fogliame. La tendenza dominante del colore è di rendersi mezzo per raggiungere l’espressione, e ciò si realizza attraverso l’accordo cromatico, analogo a quello della composizione musicale.
Nel 1906 l’artista comincia a recarsi nei luoghi di provenienza delle opere che lo avevano tanto colpito durante le visite alle diverse esposizioni; dapprima si reca in Algeria, poi in Italia, Spagna, Russia e Marocco. Questi viaggi lo accompagnano nel passaggio attraverso il superamento del periodo dei fauve fino a scoprire la decorazione e gli arabeschi la cui preziosità non sovraccarica mai le sue produzioni, in quanto sono parte integrante dell’orchestrazione dei suoi quadri. Tali arabeschi gli permettono di sperimentare un nuovo spazio vivo in cui prendono forma le immagini attraverso miriadi di segni che si stagliano sulla tavolozza e si riempiono di luci tipiche di luoghi nuovi. Anche il Giappone, con le sue linee ricche di purezza ed armonia, fa parte di questa ricerca.
Grazie alla ricerca di uno stile personale e alla voglia continua di esplorare nuove forme espressive, passa anche attraverso l’Impressionismo e il Puntinismo, arricchendo quest’ultimo di pennellate più ampie, fino a divenire uno dei principali esponenti del Fauvismo.
Matisse, definito il pittore del colore, si rivolge al lato espressivo delle tinte e racconta come per dipingere una scena autunnale non si affidi al ricordo delle tonalità bensì alla sensazione che esse gli hanno ispirato, quindi l’azzurro pungente di un cielo gelido e limpido potrà rappresentare l’autunno tanto quanto le sfumature del fogliame. La tendenza dominante del colore è di rendersi mezzo per raggiungere l’espressione, e ciò si realizza attraverso l’accordo cromatico, analogo a quello della composizione musicale.
Nel 1906 l’artista comincia a recarsi nei luoghi di provenienza delle opere che lo avevano tanto colpito durante le visite alle diverse esposizioni; dapprima si reca in Algeria, poi in Italia, Spagna, Russia e Marocco. Questi viaggi lo accompagnano nel passaggio attraverso il superamento del periodo dei fauve fino a scoprire la decorazione e gli arabeschi la cui preziosità non sovraccarica mai le sue produzioni, in quanto sono parte integrante dell’orchestrazione dei suoi quadri. Tali arabeschi gli permettono di sperimentare un nuovo spazio vivo in cui prendono forma le immagini attraverso miriadi di segni che si stagliano sulla tavolozza e si riempiono di luci tipiche di luoghi nuovi. Anche il Giappone, con le sue linee ricche di purezza ed armonia, fa parte di questa ricerca.
L’allestimento della mostra curato da Ester Coen ci ha permesso di assaporare un’atmosfera simile all’atelier dell’artista - ricco di prodotti artigianali provenienti da terre lontane - con le opere esposte nelle sale accompagnate da manufatti, ceramiche, tessuti e sculture, ispirati da colori, temi e motivi decorativi in sintonia con il nomadismo artistico del pittore.
Il percorso della mostra ha reso evidente come le varie forme espressive sperimentate dall’artista si siano tradotte in uno stile assolutamente originale in continua evoluzione, proponendo in apertura opere caratterizzate da accostamenti di colori vivaci, come Gigli, Iris e Mimose (1913), per poi proseguire con quelle in cui si coglie la ricerca costante della semplicità delle forme che si allontanano sempre più dalla verosimiglianza. Un esempio è L’Italienne (1916), in cui i colori si scuriscono, i contrasti si fanno meno netti e la figura di donna bruna, dai tratti semplificati in poche pennellate, emerge con la sua veste chiara dall’ampio sfondo scuro. Potente è l’incontro con il Ritratto di Yvonne Landsberg (1914) dove i chiaroscuri e le linee geometriche traducono l’impatto delle maschere africane nella pittura.
Il percorso della mostra ha reso evidente come le varie forme espressive sperimentate dall’artista si siano tradotte in uno stile assolutamente originale in continua evoluzione, proponendo in apertura opere caratterizzate da accostamenti di colori vivaci, come Gigli, Iris e Mimose (1913), per poi proseguire con quelle in cui si coglie la ricerca costante della semplicità delle forme che si allontanano sempre più dalla verosimiglianza. Un esempio è L’Italienne (1916), in cui i colori si scuriscono, i contrasti si fanno meno netti e la figura di donna bruna, dai tratti semplificati in poche pennellate, emerge con la sua veste chiara dall’ampio sfondo scuro. Potente è l’incontro con il Ritratto di Yvonne Landsberg (1914) dove i chiaroscuri e le linee geometriche traducono l’impatto delle maschere africane nella pittura.
Matisse subisce fortemente l’influenza dell’arte dei popoli primitivi rimanendo affascinato dalle loro forme espressive incontaminate e semplici, come i motivi della cultura marocchina che si possono riconoscere nei ritratti per i quali Matisse dimostra una forte passione. In particolare non si allontana dalla costituzione anatomica del viso pur facendo nascere la somiglianza dalla particolare asimmetria di un volto, come nel Rifano in piedi (o Marocchino in verde 1912), Zohra in piedi (1912) e Zohra sulla terrazza (1912), dove gli sfondi sono assolutamente uniformi e gli arabeschi si concentrano rispettivamente sugli abiti, sul capo e sulla boule dei pesci, mentre è il colore a definire la forma a scapito della profondità, semplificando ulteriormente l’immagine. L’artista rappresenta anche il paesaggio marocchino, come nella particolare prospettiva de Lo stagno a Trivaux (1916), e contemporaneamente arricchisce gli interni con i motivi decorativi tipici del Nord Africa (sia nelle pareti come nei tappeti e nei tessuti) senza mai appesantire la composizione e in perfetta armonia con le figure umane. Meraviglioso esempio ne è Il paravento moresco (1920).
I quadri di Matisse divengono sempre più ricchi di particolari, che raccontano di una pienezza non ridondante ma collegata alla dimensione armoniosa delle linee e delle prospettive; ne Il paravento moresco infatti, le immagini delle due donne è come se fossero in primo piano rispetto agli altri elementi rappresentati, e questo grazie alla capacità dell’artista di mettere a fuoco ciò che parte dal suo sentire.
Queste vivide atmosfere ci hanno condotto sino alle sensuali odalische, di ispirazione araba, dipinte dopo il trasferimento dell’artista da Parigi a Nizza (1917). Riferendosi alla cospicua produzione a loro dedicata, al centro di una prolifica attività tra il 1919 e il 1929, Matisse le definisce: “I frutti abbondanti di una nostalgia felice, di un bel sogno vivente e, insieme, di un’esperienza vissuta nell’estasi quasi completa dei giorni e delle notti, nell’incanto di quel clima straordinario”.
I quadri di Matisse divengono sempre più ricchi di particolari, che raccontano di una pienezza non ridondante ma collegata alla dimensione armoniosa delle linee e delle prospettive; ne Il paravento moresco infatti, le immagini delle due donne è come se fossero in primo piano rispetto agli altri elementi rappresentati, e questo grazie alla capacità dell’artista di mettere a fuoco ciò che parte dal suo sentire.
Queste vivide atmosfere ci hanno condotto sino alle sensuali odalische, di ispirazione araba, dipinte dopo il trasferimento dell’artista da Parigi a Nizza (1917). Riferendosi alla cospicua produzione a loro dedicata, al centro di una prolifica attività tra il 1919 e il 1929, Matisse le definisce: “I frutti abbondanti di una nostalgia felice, di un bel sogno vivente e, insieme, di un’esperienza vissuta nell’estasi quasi completa dei giorni e delle notti, nell’incanto di quel clima straordinario”.
Particolare risalto è stato dato, nella mostra, ai bozzetti dei costumi e delle scene che Matisse realizza nel 1920 per il Balletto Russo Le Chant du rossignol di Sergej Diaghilev, unitamente ad alcuni costumi portati in scena.
Sul finire del percorso espositivo sono state proposte alcune tele in cui l’ambiente interno è in rapporto diretto col mondo esterno attraverso la raffigurazione di finestre aperte. Matisse non rifiuta la relazione tra interiorità soggettiva ed esteriorità oggettiva ma stabilisce una circolazione ‘interno-esterno’: “Se ho potuto riunire nel mio dipinto quel che è esterno, per esempio il mare, e quel che è interno, è perché l’atmosfera del paesaggio e quella della mia camera formano un tutt’uno... Non ho bisogno di avvicinare interno ed esterno, i due sono riuniti nella mia sensazione. Ho potuto associare la sedia che ho accanto nello studio alla nuvola in cielo, al fremito della palma sul bordo dell’acqua, senza sforzarmi di distinguere i luoghi, senza dissociare i diversi elementi del mio motivo che sono un tutt’uno nella mia mente”. Mediante un attento lavoro cromatico, Matisse attenua l’opporsi di ‘interno-esterno’, facendoci venire incontro il paesaggio che pare espandersi all’interno, attraverso la diffusione della luce, divenendo un tutt’uno con la tela. Bellissimi esempi ne sono Interno a Etretat (1920) con le sue molteplici tonalità di azzurro e Interno con fonografo (1934).
Chiude l’esposizione il famoso quadro I pesci rossi del 1911 (acquistato all’epoca dall’imprenditore russo Sergej Ivanovic Šuskin, che commissionò nel 1909 i celebri pannelli decorativi raffiguranti La danza e La musica) dove il punto di fuoco è sull’immagine centrale dei pesci che non riempiono l’insieme ma rendono la tela ricca di particolari pregnanti.
La mostra non segue un ordine cronologico, ma spazia in modo ‘disordinato’ da opere del 1903 fino al 1954, passando per numerosi studi a matita, carboncino e china, (come quelli dedicati a l’Ulisse di Joyce: Itaca del 1940 e al poema di Mallarmé L’Après-midi d’un faune del 1932) fino a giungere ai lavori in grafite su carta.
Sul finire del percorso espositivo sono state proposte alcune tele in cui l’ambiente interno è in rapporto diretto col mondo esterno attraverso la raffigurazione di finestre aperte. Matisse non rifiuta la relazione tra interiorità soggettiva ed esteriorità oggettiva ma stabilisce una circolazione ‘interno-esterno’: “Se ho potuto riunire nel mio dipinto quel che è esterno, per esempio il mare, e quel che è interno, è perché l’atmosfera del paesaggio e quella della mia camera formano un tutt’uno... Non ho bisogno di avvicinare interno ed esterno, i due sono riuniti nella mia sensazione. Ho potuto associare la sedia che ho accanto nello studio alla nuvola in cielo, al fremito della palma sul bordo dell’acqua, senza sforzarmi di distinguere i luoghi, senza dissociare i diversi elementi del mio motivo che sono un tutt’uno nella mia mente”. Mediante un attento lavoro cromatico, Matisse attenua l’opporsi di ‘interno-esterno’, facendoci venire incontro il paesaggio che pare espandersi all’interno, attraverso la diffusione della luce, divenendo un tutt’uno con la tela. Bellissimi esempi ne sono Interno a Etretat (1920) con le sue molteplici tonalità di azzurro e Interno con fonografo (1934).
Chiude l’esposizione il famoso quadro I pesci rossi del 1911 (acquistato all’epoca dall’imprenditore russo Sergej Ivanovic Šuskin, che commissionò nel 1909 i celebri pannelli decorativi raffiguranti La danza e La musica) dove il punto di fuoco è sull’immagine centrale dei pesci che non riempiono l’insieme ma rendono la tela ricca di particolari pregnanti.
La mostra non segue un ordine cronologico, ma spazia in modo ‘disordinato’ da opere del 1903 fino al 1954, passando per numerosi studi a matita, carboncino e china, (come quelli dedicati a l’Ulisse di Joyce: Itaca del 1940 e al poema di Mallarmé L’Après-midi d’un faune del 1932) fino a giungere ai lavori in grafite su carta.
H.É.B. Matisse, I pesci rossi, 1911.
Del disegno Matisse dice che esso è l’arte di esprimersi con la linea, la traduzione immediata di un’emozione grazie alla semplicità del mezzo. I disegni, attraverso una serie di schizzi generano luce e sono il frutto di studi precedenti eseguiti con il carboncino o lo sfumino che aiuta a cogliere il carattere del modello da rappresentare, la luce che si posa su di esso, l’espressione umana. Grazie allo studio preliminare è possibile assimilare i differenti punti di vista ed esprimerli, come in un’acrobazia, sul foglio bianco. “È per liberare la grazia, la naturalezza, che studio tanto prima di fare un disegno a penna. Non mi faccio mai violenza; al contrario: io sono il ballerino o l’equilibrista che comincia la sua giornata con molte ore di vari esercizi di flessione, in modo che tutte le parti del corpo gli obbediscano quando, davanti al suo pubblico, vuole tradurre le sue emozioni in una successione di movimenti di danza, lenti o vivaci, o in una piroetta elegante. [...] Dipendo in modo assoluto dal modello che osservo in libertà e solo in seguito mi decido a fissargli la posa più rispondente al suo naturale”. Infatti, nel bel filmato della mostra si vede la mano dell’artista all’opera mentre crea, seguita poi - al rallentatore - dai molteplici segmenti che compongono i mille movimenti della mano alla ricerca dapprima della rappresentazione interna dell’immagine e poi della sua impressione sul piano espressivo. A occhio nudo non è possibile cogliere questo ‘cercare’ del gesto in sintonia con un sentire interno sebbene di fronte all’opera finita, l’immagine costruita nella progressione evolutiva sia palpabile. Per Matisse, l’espressione risiede non nella passione che illumina un volto o deriva da un gesto d’impeto, quanto piuttosto dalla intera disposizione del suo quadro, nelle proporzioni e nello spazio occupato dai corpi. “Devo dipingere un corpo di donna: prima gli conferisco grazia, fascino, ma si tratta di dargli qualcosa di più. Provo a condensare il significato, di questo corpo, cercandone le linee essenziali. Il fascino sarà meno visibile al primo sguardo, ma dovrà scaturire col tempo dalla nuova immagine da me ottenuta, che avrà un significato più ampio, più pienamente umano. Il suo fascino sarà meno rilevante, non essendovene tutte le caratteristiche, ma nondimeno continuerà a sussistere, contenuto nella concezione generale della mia figura”.
Nel filmato assistiamo ancora alle molteplici versioni di un soggetto per giungere a quella definitiva: si tratta di versioni a tratti estremamente differenti tra loro, ma che costituiscono i numerosi e necessari passaggi per giungere alla rappresentazione finale, quella di un’architettura corporea fatta di forme che si incastrano e si sostengono l’un l’altra proprio come le componenti di un edificio in cui le parti hanno ciascuna la propria funzione specifica e fondamentale.
È il lavoro di amalgama degli elementi, attraverso un’attenta riflessione, a raggiungere l’effetto ultimo. Il dipingere e il creare sono per Matisse un lungo lavorìo di osservazione iniziale del modello o soggetto, che porta alla decisione dello schema cromatico da seguire. Dopo aver immaginato il quadro, l’artista si mette all’opera tenendo queste caratteristiche, insieme con la messa a fuoco, come tratti predominanti da seguire per indicare nell’immediato ciò che desidera trovare nell’opera compiuta, rappresentando il soggetto e non copiandolo: “Chiudete gli occhi e immaginate il quadro; poi mettetevi al lavoro... Dovete indicare immediatamente quel che vorreste trovare nell’opera compiuta. Durante il lavoro, tutto dev’essere rapportato a questa prima decisione, e nulla può esservi aggiunto”.Tutto colpisce Matisse, e noi con lui: dall’espressione di un volto al movimento delle foglie di un ramo, dal garbo di un gesto al riverbero sonoro delle fronde nella radura: “La natura stimola l’immaginazione alla rappresentazione ma per migliorare la qualità pittorica di questa rappresentazione, occorre aggiungervi l’anima del paesaggio. La vostra composizione deve indicare il carattere più o meno completo di questi alberi, anche se il numero esatto di alberi da voi scelti non risponde precisamente a quello del paesaggio reale”. Il pennello di Matisse segue, per la rappresentazione degli alberi, l’atteggiamento degli orientali ricorrendo alla sensazione di salire con il tronco e i rami a partire dal basso: si coglie allora la bellezza e la ruvidezza del tronco, la potenza dei rami e i movimenti sinuosi delle fronde, tra le quali compaiono dei vuoti, anch’essi disegnati per il loro valore espressivo. Le foglie di uno stesso ramo piuttosto che relazionarsi tra loro, entrano per contrappunto in rapporto stretto con quelle del ramo vicino, creando così la tessitura dell’immagine d’insieme.
Matisse disegna le foglie via via che delinea i rami, facendosi pervadere e guidare dal sentimento (privo di ogni connotazione romantica): in tal modo inventa un proprio linguaggio in cui lo spessore dell’artista si misura con la quantità di nuovi segni plastici inseriti nell’opera. Per l’artista “l’espressione plastica” deve essere il fine della sua pittura, al pari dell’espressione lirica per il poeta: essa gli consente di raggiungere le proprie visioni interiori e dare loro vita con mezzi semplici e diretti. Questa concezione si collega all’estetica di Baudelaire condividendo con quest’ultimo anche la preferenza verso il colore, l’esigenza di rappresentare il reale mediante la memoria, l’importanza attribuita all’arabesco, la predominanza dell’esecuzione dell’insieme e un non-apprezzamento per il ‘finito’, elemento che lo avvicina a Cézanne da lui ammirato per aver aperto la strada verso la modernità “costruendo l’immagine su una materia saporosa di colore e di mestiere”.
Organizzando lo spazio della tela, Matisse dà piena voce all’espressione: “L’espressione secondo me risiede più nell’organizzazione del quadro che nella disposizione del soggetto”, facendola scaturire da un rapporto continuo tra il soggetto, le proporzioni offerte dalla tela e i rapporti cromatici. La sua è un’arte in continuo divenire, una sorta di ‘work-in-progress’. D’altra parte lo stesso artista più volte afferma di non ripudiare nessuno dei suoi quadri anche se sottolinea che, se dovesse rifarli, non seguirebbe mai la strada già percorsa poiché è alla perenne ricerca di quella potenza espressiva, raggiungibile di volta in volta attraverso le vie più disparate.
Ci avviciniamo in tal modo alla sua azione creativa intesa non come un dono innato ma il frutto di un lavoro assiduo per organizzare un insieme di emozioni, gesti, pennellate, suoni e parole da cui risulta l’opera d’arte. L’artista inizia la sua creazione mediante la ‘visione’, atto che richiede un grande impegno alla presenza, accompagnato dal coraggio necessario per liberarsi da quegli orpelli che impediscono di vedere le cose come se fosse la prima volta. Siamo grati a Matisse per averci riportato alla necessità di ‘vedere’ tutta la vita come quando si era bambini e ci si abbandonava alla meraviglia e allo stupore... un po’ come quello che si prova uscendo pregni da un bellissimo palazzo romano per sentire suonare una banda, tricolore, festosa e... appassionata.
Organizzando lo spazio della tela, Matisse dà piena voce all’espressione: “L’espressione secondo me risiede più nell’organizzazione del quadro che nella disposizione del soggetto”, facendola scaturire da un rapporto continuo tra il soggetto, le proporzioni offerte dalla tela e i rapporti cromatici. La sua è un’arte in continuo divenire, una sorta di ‘work-in-progress’. D’altra parte lo stesso artista più volte afferma di non ripudiare nessuno dei suoi quadri anche se sottolinea che, se dovesse rifarli, non seguirebbe mai la strada già percorsa poiché è alla perenne ricerca di quella potenza espressiva, raggiungibile di volta in volta attraverso le vie più disparate.
Ci avviciniamo in tal modo alla sua azione creativa intesa non come un dono innato ma il frutto di un lavoro assiduo per organizzare un insieme di emozioni, gesti, pennellate, suoni e parole da cui risulta l’opera d’arte. L’artista inizia la sua creazione mediante la ‘visione’, atto che richiede un grande impegno alla presenza, accompagnato dal coraggio necessario per liberarsi da quegli orpelli che impediscono di vedere le cose come se fosse la prima volta. Siamo grati a Matisse per averci riportato alla necessità di ‘vedere’ tutta la vita come quando si era bambini e ci si abbandonava alla meraviglia e allo stupore... un po’ come quello che si prova uscendo pregni da un bellissimo palazzo romano per sentire suonare una banda, tricolore, festosa e... appassionata.
H.É.B. Matisse, Interno con fonografo, 1934.
BIBLIOGRAFIA
E. COEN (a cura di), Matisse. Arabesque, Catalogo della Mostra, Roma, Scuderie del Quirinale, 5 marzo al 21 giugno 2015, Skira Ed., Ginevra-Milano 2015.
G. CREPALDI, Matisse. Lo splendore abbagliante del colore dei fauves, Collana: Art Book, Leonardo Arte Elemond Editori Associati, Milano 1998.
D. FOURCADE (a cura di), Henri Matisse. Scritti e Pensieri sull’Arte, Collana: Carte D’artisti, traduzione di M.M. Lamberti, Abscondita Srl Ed., Milano 2003.
E. COEN (a cura di), Matisse. Arabesque, Catalogo della Mostra, Roma, Scuderie del Quirinale, 5 marzo al 21 giugno 2015, Skira Ed., Ginevra-Milano 2015.
G. CREPALDI, Matisse. Lo splendore abbagliante del colore dei fauves, Collana: Art Book, Leonardo Arte Elemond Editori Associati, Milano 1998.
D. FOURCADE (a cura di), Henri Matisse. Scritti e Pensieri sull’Arte, Collana: Carte D’artisti, traduzione di M.M. Lamberti, Abscondita Srl Ed., Milano 2003.
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Ruthy Alon e “L’Intelligenza del Movimento”® L’AMICO RITROVATO... di Concetta Turchi. Anno 2014.
“Ossa per la Vita”®... che passione! LA LINEA NEL MOVIMENTO di Concetta Turchi. Anno 2014
L’AMICO RITROVATO...
... sulla via delle “possibilità delle possibilità”
... sulla via delle “possibilità delle possibilità”
Concetta Turchi
“This is the nature of the organic logic:
if we don’t use our full potential,
even the limited part we do becomes difficult”.
(Ruthy Alon)
if we don’t use our full potential,
even the limited part we do becomes difficult”.
(Ruthy Alon)
Melange di colori e odori da Gerusalemme di Concetta Turchi
Ho sentito parlare per la prima volta di Ruthy Alon e del suo programma Bones for Life nei primi mesi del 2000. A quel tempo avevo già da un paio d’anni aperto a Roma, insieme con mio marito musicista, il Laboratorio di Psicoterapia e AudioPsicoFonologia Musicalificio Grande Blu e, proprio grazie al lavoro con il metodo Tomatis, avevo sperimentato diverse discipline di integrazione corporea come lo Shiatsu e il Rolfing. D’altra parte la mia attenzione nei confronti del corpo si era già sviluppata grazie agli anni di danza fatti in precedenza (tre di Danza Moderna, tre di Flamenco e due di Danza del ventre). Un giorno una collega di lavoro, che in quel momento stava facendo la rieducazione all’ascolto nel mio studio, mi segnalò un corso dal titolo davvero curioso: Bones for Life (Ossa per la Vita). “Credo che questo corso, a te che ti occupi di ascolto, potrebbe interessarti: parla di una postura naturale grazie allo scheletro e al suo rapporto con la gravità. Perché non ci andiamo insieme?”, disse. A dire il vero non avevo capito bene, ma fu proprio la questione dello scheletro e della gravità a farmi scegliere di partire senza saperne esattamente i motivi. Cominciò così la mia avventura sul pianeta di Ruthy Alon e della sua nascente ricerca (seppi in seguito che aveva fatto i primi corsi l’anno precedente). Partimmo per Firenze il 14 Aprile del 2000.
Mi piace scrivere di uno dei tanti aneddoti che la stessa Ruthy ci ha raccontato nei suoi corsi, in cui descrive molto bene la scintilla che ha dato l’avvio a questa sua ricerca. Un suo parente medico un giorno le aveva chiesto se Feldenkrais, con cui lei aveva personalmente studiato e si era formata, aveva qualcosa da suggerire sull’osteoporosi. Di getto Ruthy aveva risposto di no, ma quella domanda aveva continuato a riecheggiare nella sua testa finché, probabilmente senza neppure deciderlo coscientemente, aveva raccolto la sfida. “Se per sviluppare la vista agli occhi occorre la luce, se per sviluppare l’udito alle orecchie occorre il suono, per sviluppare e rafforzare le ossa occorre il confronto dinamico con la forza di gravità”. Mi tornava alla mente un caposaldo della fisiologia: se è vero che ogni struttura è pronta per una determinata funzione, è solo la presenza dello stimolo a determinarne l’attivazione e a configurarla, quindi è la funzione a determinare la struttura.
In quel primo corso Ossa 1 cominciavo a scoprire da quella donna così gentile e vitale i concetti fondamentali del programma Ossa per la Vita:
Ora capivo meglio quello che avevo letto: “Questa particolare forma di ginnastica guidata, individuale o di gruppo, nasce per riscoprire l’intelligenza del movimento secondo un programma finalizzato a stimolare la rigenerazione ossea e il ripristino di una postura eretta capace di sostenere il peso. Poiché alla perdita di densità ossea corrisponde la perdita dell’autonomia del movimento, la scoperta e la utilizzazione della pressione ritmica è la chiave organica per avere ossa forti e sane”.
Mi piace scrivere di uno dei tanti aneddoti che la stessa Ruthy ci ha raccontato nei suoi corsi, in cui descrive molto bene la scintilla che ha dato l’avvio a questa sua ricerca. Un suo parente medico un giorno le aveva chiesto se Feldenkrais, con cui lei aveva personalmente studiato e si era formata, aveva qualcosa da suggerire sull’osteoporosi. Di getto Ruthy aveva risposto di no, ma quella domanda aveva continuato a riecheggiare nella sua testa finché, probabilmente senza neppure deciderlo coscientemente, aveva raccolto la sfida. “Se per sviluppare la vista agli occhi occorre la luce, se per sviluppare l’udito alle orecchie occorre il suono, per sviluppare e rafforzare le ossa occorre il confronto dinamico con la forza di gravità”. Mi tornava alla mente un caposaldo della fisiologia: se è vero che ogni struttura è pronta per una determinata funzione, è solo la presenza dello stimolo a determinarne l’attivazione e a configurarla, quindi è la funzione a determinare la struttura.
In quel primo corso Ossa 1 cominciavo a scoprire da quella donna così gentile e vitale i concetti fondamentali del programma Ossa per la Vita:
1) Il confronto con la forza di gravità (che ci attrae verso il centro della Terra) si riepiloga ad ogni passo: la pressione sul terreno data dal nostro peso corporeo evoca infatti una contropressione che solleva il corpo spingendolo in avanti. Tanto più unifichiamo tutto il corpo secondo una organizzazione che permette l’articolazione progressiva delle varie parti che cooperano tra loro secondo una proporzione armoniosa - cosa che è garantita dallo scheletro - più facile sarà questo movimento che scorrerà agevolmente da una polarità all’altra secondo un effetto domino.
2) Al centro di questo lavoro c’è dunque il concetto di pressione efficace per attivare l’effetto domino. Il linguaggio della pressione, tale da determinare il segnale per il rafforzamento osseo, ha una sua grammatica e sintassi che passa attraverso le caratteristiche quantitative e qualitative della forza: da un punto di vista quantitativo essa deve corrispondere al 20 per cento della capacità soggettiva di produrre pressione; da un punto di vista qualitativo la pressione deve essere data secondo quei criteri di ritmo ed elasticità in grado di riecheggiare il movimento biologico della vita proprio di ogni pulsazione e dettata da una alternanza di contrazione e rilasciamento: “L’alternanza tra il forte e il leggero è la natura del movimento organico”. Il rimbalzo ritmico dei talloni sul pavimento (chiamato affettuosamente PAM-PAM) con una modalità che richiama il battito cardiaco è uno dei processi più semplici ed efficaci per ottenere questo... ed è ogni volta sorprendente nei suoi effetti. “La pressione rafforza ogni contesto nella quale la applichiamo: per questo è importante come organizziamo il nostro allineamento quando riceviamo la pressione”: solo la pressione elastica che si propaga attraverso un corpo ben allineato determina un rinforzo delle ossa perché attraversa tutto lo scheletro coinvolgendo in progressione le varie parti (secondo l’effetto domino, appunto). Riportare questo apprendimento nel nostro modo abituale di camminare fa sì che la spinta del piede che fa il passo venga trasportata fino alla testa in modo uniforme, senza disperdersi in qualche punto non allineato, provocandone l’erosione.
3) Il concetto di pressione rimanda ad un altro cardine del programma Ossa per la Vita: l’attivazione delle strategie di sicurezza, adottate per proteggere le articolazioni più vulnerabili, permette al corpo di sostenere senza alcun pericolo i movimenti dinamici. Ogni movimento, dal più semplice al più complesso, deve essere fatto in totale sicurezza perché solo quando il corpo si sente al sicuro può esplorare, apprendere da questa esplorazione e trarne gioia. L’utilizzo in vari modi di un telo morbido lungo 7 metri e largo 1, è una delle strategie più divertenti, efficaci... e anche suggestive, grazie alle onde di colore che si intersecano nell’aria.
4) Quindi il corpo in totale sicurezza può attivare quelle strategie di apprendimento proprie del metodo Feldenkrais, la base formativa da cui Ruthy è partita. Non a caso i singoli lavori corporei vengono chiamati “processi” e non esercizi: nel “processo” si attiva un apprendimento che fa scoprire l’intelligenza del movimento e la sua innata capacità di trovare le soluzioni più efficienti per affrontare il mondo. Messo di fronte a diverse opzioni il nostro cervello sceglierà sempre la soluzione più efficiente possibile in quel dato momento. Ricordo ancora la meraviglia suscitata in me dalla conoscenza del concetto di “diplomazia neurologica”: con un piccolo stratagemma si mette in crisi il lato del corpo più competente per risvegliare conoscenze impensabili nel lato più problematico; insomma mettere in crisi quel saputello accentratore che è dentro ciascuno di noi per liberare capacità impensabili. Mi ha sempre colpito l’assonanza con il malato di mente come pecora nera (in quanto a competenze) circondato da un contesto familiare e/o sociale ipercompetente fino a diventare noiosamente saccente. O ancora il principio della “inibizione selettiva”, in cui si inibisce il movimento della parte in difficoltà per costringere... “il resto della famiglia” a cooperare.
5) Portare tutti gli aspetti sopramenzionati nella nostra camminata abituale vuol dire inserirli in un movimento naturale, con delle configurazioni che la Natura capisce: questo non solo apporta un valido nutrimento per le nostre ossa ad ogni passo, ma permette di riconoscere i due modi fondamentali che ha il nostro scheletro di organizzarsi ogni qual volta facciamo un passo nel terreno affondando il piede (asse), e nel momento in cui solleviamo il piede da terra per avanzare (onda). L’asse, che rinsalda la colonna vertebrale come una unità, permette tutti i movimenti antigravitazionali che raccolgono le sfide dinamiche sul piano verticale (camminare, saltare, alzarsi da seduti, salire le scale); l’onda garantisce l’effetto domino attraverso l’attivazione proporzionale di tutte le articolazioni. I “processi” delle tre camminate africane sono l’espressione di questa ricerca: non a caso le donne africane non conoscono l’osteoporosi.
2) Al centro di questo lavoro c’è dunque il concetto di pressione efficace per attivare l’effetto domino. Il linguaggio della pressione, tale da determinare il segnale per il rafforzamento osseo, ha una sua grammatica e sintassi che passa attraverso le caratteristiche quantitative e qualitative della forza: da un punto di vista quantitativo essa deve corrispondere al 20 per cento della capacità soggettiva di produrre pressione; da un punto di vista qualitativo la pressione deve essere data secondo quei criteri di ritmo ed elasticità in grado di riecheggiare il movimento biologico della vita proprio di ogni pulsazione e dettata da una alternanza di contrazione e rilasciamento: “L’alternanza tra il forte e il leggero è la natura del movimento organico”. Il rimbalzo ritmico dei talloni sul pavimento (chiamato affettuosamente PAM-PAM) con una modalità che richiama il battito cardiaco è uno dei processi più semplici ed efficaci per ottenere questo... ed è ogni volta sorprendente nei suoi effetti. “La pressione rafforza ogni contesto nella quale la applichiamo: per questo è importante come organizziamo il nostro allineamento quando riceviamo la pressione”: solo la pressione elastica che si propaga attraverso un corpo ben allineato determina un rinforzo delle ossa perché attraversa tutto lo scheletro coinvolgendo in progressione le varie parti (secondo l’effetto domino, appunto). Riportare questo apprendimento nel nostro modo abituale di camminare fa sì che la spinta del piede che fa il passo venga trasportata fino alla testa in modo uniforme, senza disperdersi in qualche punto non allineato, provocandone l’erosione.
3) Il concetto di pressione rimanda ad un altro cardine del programma Ossa per la Vita: l’attivazione delle strategie di sicurezza, adottate per proteggere le articolazioni più vulnerabili, permette al corpo di sostenere senza alcun pericolo i movimenti dinamici. Ogni movimento, dal più semplice al più complesso, deve essere fatto in totale sicurezza perché solo quando il corpo si sente al sicuro può esplorare, apprendere da questa esplorazione e trarne gioia. L’utilizzo in vari modi di un telo morbido lungo 7 metri e largo 1, è una delle strategie più divertenti, efficaci... e anche suggestive, grazie alle onde di colore che si intersecano nell’aria.
4) Quindi il corpo in totale sicurezza può attivare quelle strategie di apprendimento proprie del metodo Feldenkrais, la base formativa da cui Ruthy è partita. Non a caso i singoli lavori corporei vengono chiamati “processi” e non esercizi: nel “processo” si attiva un apprendimento che fa scoprire l’intelligenza del movimento e la sua innata capacità di trovare le soluzioni più efficienti per affrontare il mondo. Messo di fronte a diverse opzioni il nostro cervello sceglierà sempre la soluzione più efficiente possibile in quel dato momento. Ricordo ancora la meraviglia suscitata in me dalla conoscenza del concetto di “diplomazia neurologica”: con un piccolo stratagemma si mette in crisi il lato del corpo più competente per risvegliare conoscenze impensabili nel lato più problematico; insomma mettere in crisi quel saputello accentratore che è dentro ciascuno di noi per liberare capacità impensabili. Mi ha sempre colpito l’assonanza con il malato di mente come pecora nera (in quanto a competenze) circondato da un contesto familiare e/o sociale ipercompetente fino a diventare noiosamente saccente. O ancora il principio della “inibizione selettiva”, in cui si inibisce il movimento della parte in difficoltà per costringere... “il resto della famiglia” a cooperare.
5) Portare tutti gli aspetti sopramenzionati nella nostra camminata abituale vuol dire inserirli in un movimento naturale, con delle configurazioni che la Natura capisce: questo non solo apporta un valido nutrimento per le nostre ossa ad ogni passo, ma permette di riconoscere i due modi fondamentali che ha il nostro scheletro di organizzarsi ogni qual volta facciamo un passo nel terreno affondando il piede (asse), e nel momento in cui solleviamo il piede da terra per avanzare (onda). L’asse, che rinsalda la colonna vertebrale come una unità, permette tutti i movimenti antigravitazionali che raccolgono le sfide dinamiche sul piano verticale (camminare, saltare, alzarsi da seduti, salire le scale); l’onda garantisce l’effetto domino attraverso l’attivazione proporzionale di tutte le articolazioni. I “processi” delle tre camminate africane sono l’espressione di questa ricerca: non a caso le donne africane non conoscono l’osteoporosi.
Ora capivo meglio quello che avevo letto: “Questa particolare forma di ginnastica guidata, individuale o di gruppo, nasce per riscoprire l’intelligenza del movimento secondo un programma finalizzato a stimolare la rigenerazione ossea e il ripristino di una postura eretta capace di sostenere il peso. Poiché alla perdita di densità ossea corrisponde la perdita dell’autonomia del movimento, la scoperta e la utilizzazione della pressione ritmica è la chiave organica per avere ossa forti e sane”.
LA FORMAZIONE
Dopo il corso Ossa 1 fatto nell’aprile del 2000, in quello stesso anno, un mese dopo, a Maggio, feci Ossa 2 e nel Maggio del 2001 Ossa 3. La sensazione fu quella di passare da un apprendimento lineare ad uno tridimensionale: se con Ossa 1 avevo scoperto le linee fondamentali del movimento nell’incontro con la gravità, con Ossa 2 queste linee si erano approfondite e intersecate dando luogo a diagonali e spirali; infine con Ossa 3 le configurazioni erano diventate ancora più complesse all’interno di movimenti più impegnativi che richiedono un particolare ritmo di esecuzione e di coordinazione.
Raccolsi, insieme con la mia collega con cui avevo iniziato questa avventura, l’esortazione di Ruthy a cominciare subito l’insegnamento e lo facemmo insieme a partire dall’Ottobre del 2001 con un piccolo gruppo. Per due anni abbiamo preparato con metodo certosino le trenta lezioni annuali, della durata di due ore ciascuna: per prima cosa rifacevamo tra noi i vari processi scelti per la lezione, in modo da riattivare la nostra memoria corporea e facilitare la verbalizzazione; quindi alternativamente una delle due conduceva i processi e l’altra verificava sugli allievi quanto era stato recepito, correggendo gli errori più grossolani legati ad una difficoltà di comprendere la corretta sequenza dei movimenti. Questo biennio è stato fondamentale per farci spiccare il volo verso un lavoro di insegnamento svolto individualmente, dove diveniva importante sperimentare la velocità nell’integrare progressivamente la memoria corporea del processo con la sua verbalizzazione e la verifica puntuale di quanto veniva recepito dal gruppo di lavoro: diventava sempre più chiara la correlazione tra la comprensione corporea del processo e la reale possibilità di verbalizzazione all’interno della lezione. Negli anni successivi avrei compreso anche il nesso tra memoria corporea di un processo e gli effetti di una corretta verbalizzazione sul proprio corpo: quando si insegna bene un processo, equivale a farlo.
In quegli anni, nel mentre ripetevo per la seconda volta l’intero programma Ossa per la Vita (sempre con Ruthy), avevo anche cominciato un lavoro individuale con una Insegnante Feldenkrais molto brava che mi ha accompagnato per quasi due anni sulle vie di questo metodo, quello da cui Ruthy era partita. Questi due lavori fatti in parallelo hanno permesso al mio corpo non solo di cogliere quanto hanno in comune i due metodi, ma anche le loro differenze: con il metodo Feldenkrais ritrovavo la sorpresa di un apprendimento che si accompagnava per lo più ad un vissuto di leggerezza e di agilità; con il metodo di Ruthy Alon trovavo ogni volta nel mio corpo una determinazione e una forza che mi restituivano ad una gioiosità del vivere. In questo secondo caso il confronto continuo con la forza di gravità, riepilogata in ogni processo dal lavoro fatto in piedi dopo la fase a terra, mi ricollegava al vissuto di realizzazione di quel senso evolutivo proprio degli umani: siamo fatti per raccogliere le sfide ed evolvere e ogni volta che questa esigenza biologica non si realizza ci ammaliamo, nel corpo come nella psiche.
In questi primi anni di insegnamento una delle prime questioni che ho dovuto affrontare è stata la comprensione di cosa potesse essere utile correggere (e cosa no) in un allievo al fine di promuovere un apprendimento: credo che la questione “correzione” sia molto importante in un metodo come questo, infatti se correggi troppo impedisci l’apprendimento e se non correggi affatto non lo inneschi. Ho scoperto così un’altra importante attinenza con il mio lavoro di psicoterapeuta: invitare le persone a sviluppare il proprio campo percettivo e di auto-osservazione per poi rimanere in fiduciosa attesa dei tempi della elaborazione personale. Per esempio, se una persona è abituata a “camminare alla Charlot”, ossia con gli avampiedi rivolti verso l’esterno, non è utile apportare una correzione: oltre al fatto che verrebbe vissuta giustamente come una coercizione, inibirebbe il processo di stimolazione percettiva attivata dalla auto-osservazione non solo di quello che la persona è abituata a fare, ma anche delle varie opzioni alternative di movimento che possiamo offrire attraverso un processo. Generalmente mi sono affidata alla percentuale del 20 per cento, la stessa di una pressione efficace, e i miei allievi si sono sentiti costantemente protagonisti del loro cambiamento e non dei semplici spettatori.
Sempre dietro sollecitazione di Ruthy, cominciai a pensare alla formazione per diventare formalmente Insegnante Bones for Life. Ritenni indispensabile ripetere una terza volta l’intero programma: lo feci in parte con Ruthy e in parte con Isabella Turino, Insegnante Feldenkrais e suo braccio destro in Italia. Fu proprio il bellissimo lavoro con Isabella che mi portò a focalizzare l’importanza della elaborazione personale del metodo a partire da un programma a dir poco sfuggente perché sottoposto ad una continua rielaborazione da parte della sua ideatrice: non è facile confrontarsi con un work-in-progress...! Quando mi sembrava di avere compreso qualcosa le ulteriori modifiche apportate da Ruthy mi facevano intravedere degli aspetti nuovi: “Le possibilità delle possibilità”, le chiama lei. In ogni caso ogni volta che era in Italia io la seguivo: fu per questo motivo che mi trovai a fare la prima parte del Trainer Training ancor prima del Didattico. Presi il diploma di Insegnante nel 2006 e quello di Trainer Training nel 2007. Pensavo di avere finito e invece, ecco un nuovo coniglio uscire dal cappello di questo meraviglioso prestigiatore! Nel mentre la eccitante esperienza come Trainer Training mi chiedeva di approfondire sempre più la visione di Ossa per la vita, mi trovavo contemporaneamente a seguire la nuova spinta evolutiva che Ruthy stava dando al suo lavoro: Bones for Life diventava la parte fondamentale di un lavoro molto più complesso a cui lei ha voluto dare un nome molto significativo, L’Intelligenza del Movimento, a ricordare come il corpo sia in possesso di una sua sapienza che occorre riconquistare. L’esperienza di Chairs-Sedie, fatta nel 2009, mi ha fatto cogliere questa intelligenza da un’altra prospettiva: trasformare un fattore statico e antievolutivo come una sedia in qualcosa di dinamico che attiva la ricerca grazie alla strategia di utilizzare degli schemi evolutivi primordiali (stare seduti su una sedia con le mani e i piedi in appoggio, se ci pensate bene, è come stare in una posizione quadrupedica al contrario). E ancora l’esperienza di Walk for Life (completata un mese fa, nel settembre 2014) che intuisco essere l’apoteosi del metodo perché sottolinea che “apprendere attraverso il movimento” è profondamente legato alla possibilità di trarne piacere e gioia. Infine Mindful Eating e il Senior Trainer Training di Movement Intelligence, completato nel Maggio 2014 a Gerusalemme, proprio nella terra di Ruthy, tra i profumi dei fiori e delle spezie.
LA POSTURA ERETTA E IL CAMMINO VERSO L’ASCOLTO
Tornando un po’ indietro, nel mentre il corpo assimilava i processi di Bones for Life riflettevo su alcune questioni fondamentali per la mia ricerca. Se per generare la stazione eretta era stato necessario il confronto e la sfida con la forza di gravità, di pari passo nella filogenesi c’era stato il passaggio da un apparato acustico deputato ad udire (con scopi fondamentalmente difensivi) ad un sistema più complesso in grado di portare l’Uomo verso l’ascolto e uscire da una posizione rigidamente difensiva (grazie alla strutturazione definitiva della coclea e alla formazione dell’apparato di accomodazione da parte dell’orecchio medio: la catena degli ossicini con i due muscoli della staffa e del martello). La complessità attuale dell’orecchio interno, secondo Alfred Tomatis, è il punto di arrivo di un processo evolutivo che ha condotto l’uomo alla stazione eretta e ad un linguaggio “liberato” dalle necessità biologiche di tipo animale per dare spazio agli aspetti comunicativo-espressivi. Contrariamente all’udito che è un fenomeno sostanzialmente passivo, l’ascolto è atto recettivo - e pertanto attivo - in cui tutto il corpo si fa orecchio nella misura in cui esso diventa una antenna ricettrice che vibra all’unisono con la fonte del suono: in sintesi, si ode con l’orecchio ma si ascolta con tutto il corpo.
La progressiva verticalizzazione assunta dagli umani, seppure innescata probabilmente dalla necessità di acquisire nuove strategie di movimento per trovare il cibo che scarseggiava (periodi di grandi alluvioni si alternavano a periodi di siccità) e/o per sviluppare nuove difese, ha espresso col tempo una intenzionalità cosciente e volontaria, la “messa in ascolto”, in grado di dirigere l’orecchio verso gli altri umani: non è forse in questo modo che si è attivata quella specificità del comportamento umano che è la cooperazione? Così come per sviluppare quella forza e leggerezza che ha permesso all’Uomo di verticalizzarsi è stato necessario adottare un sistema (quello osteoarticolare) in grado di fare cooperare le varie parti del corpo, allo stesso modo per sviluppare l’ascolto è stata necessaria la cooperazione fra gli umani attraverso la costruzione di una rete di rapporti interumani.
Il vestibolo, la parte filogeneticamente più antica dell’orecchio interno, con le sue connessioni centrali forma l’integratore vestibolare: attraverso il controllo automatico (ossia non cosciente) delle funzioni motorie, esso assicura la postura e la cinetica del corpo costruendo un primitivo schema corporeo a livello del cervelletto. Il vestibolo deve essere posizionato perfettamente nello spazio per potere fare funzionare in modo corretto la coclea (e l’integratore cocleare corrispondente). Lo sviluppo dell’integratore cocleare, realizzatosi con i mammiferi, ha portato allo sviluppo delle capacità specificatamente umane: la verticalità con la liberazione della mano, e il linguaggio. La coclea analizza in modo capillare i suoni contribuendo al miglioramento della verticalità attraverso la ricerca di una postura più sensibile per ricevere e decodificare gli stimoli sonori provenienti dall’ambiente circostante: è grazie a lei che si costruisce l’immagine corporea. L’acquisizione evolutiva di livelli sempre meno automatici - e quindi meno animali - ha trasformato l’atto motorio in atto volontario, grazie all’integratore piramidale; da questo momento in poi l’ascolto diviene un atto volontario legato al desiderio di comunicare che coinvolge l’essere umano nella sua interezza. Tutto lo sviluppo filogenetico, passando di specie in specie, sembra avere permesso all’Uomo di arrivare alla scelta del programma motorio da adottare in funzione di quello che vuole ascoltare di sé stesso e del mondo che lo circonda.
Solo con l’acquisizione della verticalità il corpo intero può entrare in risonanza come un oggetto vibrante, proprio grazie agli effetti prodotti dallo scheletro. Lo scheletro fin dai primordi consente la diffusione delle frequenze acute a causa della sua struttura molecolare (come sappiamo dalla fisica nei corpi duri le frequenze alte passano meglio di quelle gravi) e la coclea è l’organo sensoriale deputato a tale selezione. Ricordo che le vie della conduzione sonora nel corpo sono quella aerea e quella ossea: la prima collegata all’ascolto e alla relazione con il mondo umano fuori di sé; la seconda collegata all’ascolto delle risonanze interiori che portano ad un costante dialogo Io-Sé. Alfred Tomatis ha spiegato la relazione tra ascolto e voce attraverso la prima legge della AudioPsicoFonologia: “La voce contiene solo quelle frequenze che l’orecchio è in grado di ascoltare”. Questo significa che più la conduzione ossea accompagnerà in modo corretto la conduzione aerea e maggiore sarà la possibilità di generare la vibrazione nella nostra voce e/o attraverso di essa. I muscoli non sono mai stati grandi amici della voce: quando lo scheletro è dentro una armatura muscolare le risonanze della voce ossea rimangono prigioniere (un esempio è dato dagli atleti che più sono muscolosi e più la loro voce si presenta sforzata, sfilacciata).
Abbiamo visto come uno scheletro armonico sia alla base di una buona postura e come quest’ultima sia fondamentale per avere una buona capacità di ascolto e una buona emissione vocale. È vero, però, anche il processo inverso: una buona voce, dipendente da un buon ascolto, determina un costante riallineamento posturale, sciogliendo le tensioni muscolari e psicologiche. Questo significa che il movimento armonico è il risultato di una interazione dinamica costante tra l’orecchio e l’apparato osteoarticolare e muscolare: la voce esprime quindi sempre molto bene il grado di libertà dello scheletro.
INSEGNARE E FORMARE
Raccolsi, insieme con la mia collega con cui avevo iniziato questa avventura, l’esortazione di Ruthy a cominciare subito l’insegnamento e lo facemmo insieme a partire dall’Ottobre del 2001 con un piccolo gruppo. Per due anni abbiamo preparato con metodo certosino le trenta lezioni annuali, della durata di due ore ciascuna: per prima cosa rifacevamo tra noi i vari processi scelti per la lezione, in modo da riattivare la nostra memoria corporea e facilitare la verbalizzazione; quindi alternativamente una delle due conduceva i processi e l’altra verificava sugli allievi quanto era stato recepito, correggendo gli errori più grossolani legati ad una difficoltà di comprendere la corretta sequenza dei movimenti. Questo biennio è stato fondamentale per farci spiccare il volo verso un lavoro di insegnamento svolto individualmente, dove diveniva importante sperimentare la velocità nell’integrare progressivamente la memoria corporea del processo con la sua verbalizzazione e la verifica puntuale di quanto veniva recepito dal gruppo di lavoro: diventava sempre più chiara la correlazione tra la comprensione corporea del processo e la reale possibilità di verbalizzazione all’interno della lezione. Negli anni successivi avrei compreso anche il nesso tra memoria corporea di un processo e gli effetti di una corretta verbalizzazione sul proprio corpo: quando si insegna bene un processo, equivale a farlo.
In quegli anni, nel mentre ripetevo per la seconda volta l’intero programma Ossa per la Vita (sempre con Ruthy), avevo anche cominciato un lavoro individuale con una Insegnante Feldenkrais molto brava che mi ha accompagnato per quasi due anni sulle vie di questo metodo, quello da cui Ruthy era partita. Questi due lavori fatti in parallelo hanno permesso al mio corpo non solo di cogliere quanto hanno in comune i due metodi, ma anche le loro differenze: con il metodo Feldenkrais ritrovavo la sorpresa di un apprendimento che si accompagnava per lo più ad un vissuto di leggerezza e di agilità; con il metodo di Ruthy Alon trovavo ogni volta nel mio corpo una determinazione e una forza che mi restituivano ad una gioiosità del vivere. In questo secondo caso il confronto continuo con la forza di gravità, riepilogata in ogni processo dal lavoro fatto in piedi dopo la fase a terra, mi ricollegava al vissuto di realizzazione di quel senso evolutivo proprio degli umani: siamo fatti per raccogliere le sfide ed evolvere e ogni volta che questa esigenza biologica non si realizza ci ammaliamo, nel corpo come nella psiche.
In questi primi anni di insegnamento una delle prime questioni che ho dovuto affrontare è stata la comprensione di cosa potesse essere utile correggere (e cosa no) in un allievo al fine di promuovere un apprendimento: credo che la questione “correzione” sia molto importante in un metodo come questo, infatti se correggi troppo impedisci l’apprendimento e se non correggi affatto non lo inneschi. Ho scoperto così un’altra importante attinenza con il mio lavoro di psicoterapeuta: invitare le persone a sviluppare il proprio campo percettivo e di auto-osservazione per poi rimanere in fiduciosa attesa dei tempi della elaborazione personale. Per esempio, se una persona è abituata a “camminare alla Charlot”, ossia con gli avampiedi rivolti verso l’esterno, non è utile apportare una correzione: oltre al fatto che verrebbe vissuta giustamente come una coercizione, inibirebbe il processo di stimolazione percettiva attivata dalla auto-osservazione non solo di quello che la persona è abituata a fare, ma anche delle varie opzioni alternative di movimento che possiamo offrire attraverso un processo. Generalmente mi sono affidata alla percentuale del 20 per cento, la stessa di una pressione efficace, e i miei allievi si sono sentiti costantemente protagonisti del loro cambiamento e non dei semplici spettatori.
Sempre dietro sollecitazione di Ruthy, cominciai a pensare alla formazione per diventare formalmente Insegnante Bones for Life. Ritenni indispensabile ripetere una terza volta l’intero programma: lo feci in parte con Ruthy e in parte con Isabella Turino, Insegnante Feldenkrais e suo braccio destro in Italia. Fu proprio il bellissimo lavoro con Isabella che mi portò a focalizzare l’importanza della elaborazione personale del metodo a partire da un programma a dir poco sfuggente perché sottoposto ad una continua rielaborazione da parte della sua ideatrice: non è facile confrontarsi con un work-in-progress...! Quando mi sembrava di avere compreso qualcosa le ulteriori modifiche apportate da Ruthy mi facevano intravedere degli aspetti nuovi: “Le possibilità delle possibilità”, le chiama lei. In ogni caso ogni volta che era in Italia io la seguivo: fu per questo motivo che mi trovai a fare la prima parte del Trainer Training ancor prima del Didattico. Presi il diploma di Insegnante nel 2006 e quello di Trainer Training nel 2007. Pensavo di avere finito e invece, ecco un nuovo coniglio uscire dal cappello di questo meraviglioso prestigiatore! Nel mentre la eccitante esperienza come Trainer Training mi chiedeva di approfondire sempre più la visione di Ossa per la vita, mi trovavo contemporaneamente a seguire la nuova spinta evolutiva che Ruthy stava dando al suo lavoro: Bones for Life diventava la parte fondamentale di un lavoro molto più complesso a cui lei ha voluto dare un nome molto significativo, L’Intelligenza del Movimento, a ricordare come il corpo sia in possesso di una sua sapienza che occorre riconquistare. L’esperienza di Chairs-Sedie, fatta nel 2009, mi ha fatto cogliere questa intelligenza da un’altra prospettiva: trasformare un fattore statico e antievolutivo come una sedia in qualcosa di dinamico che attiva la ricerca grazie alla strategia di utilizzare degli schemi evolutivi primordiali (stare seduti su una sedia con le mani e i piedi in appoggio, se ci pensate bene, è come stare in una posizione quadrupedica al contrario). E ancora l’esperienza di Walk for Life (completata un mese fa, nel settembre 2014) che intuisco essere l’apoteosi del metodo perché sottolinea che “apprendere attraverso il movimento” è profondamente legato alla possibilità di trarne piacere e gioia. Infine Mindful Eating e il Senior Trainer Training di Movement Intelligence, completato nel Maggio 2014 a Gerusalemme, proprio nella terra di Ruthy, tra i profumi dei fiori e delle spezie.
Vista di Gerusalemme dal Monte degli Ulivi di Concetta Turchi
LA POSTURA ERETTA E IL CAMMINO VERSO L’ASCOLTO
Tornando un po’ indietro, nel mentre il corpo assimilava i processi di Bones for Life riflettevo su alcune questioni fondamentali per la mia ricerca. Se per generare la stazione eretta era stato necessario il confronto e la sfida con la forza di gravità, di pari passo nella filogenesi c’era stato il passaggio da un apparato acustico deputato ad udire (con scopi fondamentalmente difensivi) ad un sistema più complesso in grado di portare l’Uomo verso l’ascolto e uscire da una posizione rigidamente difensiva (grazie alla strutturazione definitiva della coclea e alla formazione dell’apparato di accomodazione da parte dell’orecchio medio: la catena degli ossicini con i due muscoli della staffa e del martello). La complessità attuale dell’orecchio interno, secondo Alfred Tomatis, è il punto di arrivo di un processo evolutivo che ha condotto l’uomo alla stazione eretta e ad un linguaggio “liberato” dalle necessità biologiche di tipo animale per dare spazio agli aspetti comunicativo-espressivi. Contrariamente all’udito che è un fenomeno sostanzialmente passivo, l’ascolto è atto recettivo - e pertanto attivo - in cui tutto il corpo si fa orecchio nella misura in cui esso diventa una antenna ricettrice che vibra all’unisono con la fonte del suono: in sintesi, si ode con l’orecchio ma si ascolta con tutto il corpo.
La progressiva verticalizzazione assunta dagli umani, seppure innescata probabilmente dalla necessità di acquisire nuove strategie di movimento per trovare il cibo che scarseggiava (periodi di grandi alluvioni si alternavano a periodi di siccità) e/o per sviluppare nuove difese, ha espresso col tempo una intenzionalità cosciente e volontaria, la “messa in ascolto”, in grado di dirigere l’orecchio verso gli altri umani: non è forse in questo modo che si è attivata quella specificità del comportamento umano che è la cooperazione? Così come per sviluppare quella forza e leggerezza che ha permesso all’Uomo di verticalizzarsi è stato necessario adottare un sistema (quello osteoarticolare) in grado di fare cooperare le varie parti del corpo, allo stesso modo per sviluppare l’ascolto è stata necessaria la cooperazione fra gli umani attraverso la costruzione di una rete di rapporti interumani.
Il vestibolo, la parte filogeneticamente più antica dell’orecchio interno, con le sue connessioni centrali forma l’integratore vestibolare: attraverso il controllo automatico (ossia non cosciente) delle funzioni motorie, esso assicura la postura e la cinetica del corpo costruendo un primitivo schema corporeo a livello del cervelletto. Il vestibolo deve essere posizionato perfettamente nello spazio per potere fare funzionare in modo corretto la coclea (e l’integratore cocleare corrispondente). Lo sviluppo dell’integratore cocleare, realizzatosi con i mammiferi, ha portato allo sviluppo delle capacità specificatamente umane: la verticalità con la liberazione della mano, e il linguaggio. La coclea analizza in modo capillare i suoni contribuendo al miglioramento della verticalità attraverso la ricerca di una postura più sensibile per ricevere e decodificare gli stimoli sonori provenienti dall’ambiente circostante: è grazie a lei che si costruisce l’immagine corporea. L’acquisizione evolutiva di livelli sempre meno automatici - e quindi meno animali - ha trasformato l’atto motorio in atto volontario, grazie all’integratore piramidale; da questo momento in poi l’ascolto diviene un atto volontario legato al desiderio di comunicare che coinvolge l’essere umano nella sua interezza. Tutto lo sviluppo filogenetico, passando di specie in specie, sembra avere permesso all’Uomo di arrivare alla scelta del programma motorio da adottare in funzione di quello che vuole ascoltare di sé stesso e del mondo che lo circonda.
Solo con l’acquisizione della verticalità il corpo intero può entrare in risonanza come un oggetto vibrante, proprio grazie agli effetti prodotti dallo scheletro. Lo scheletro fin dai primordi consente la diffusione delle frequenze acute a causa della sua struttura molecolare (come sappiamo dalla fisica nei corpi duri le frequenze alte passano meglio di quelle gravi) e la coclea è l’organo sensoriale deputato a tale selezione. Ricordo che le vie della conduzione sonora nel corpo sono quella aerea e quella ossea: la prima collegata all’ascolto e alla relazione con il mondo umano fuori di sé; la seconda collegata all’ascolto delle risonanze interiori che portano ad un costante dialogo Io-Sé. Alfred Tomatis ha spiegato la relazione tra ascolto e voce attraverso la prima legge della AudioPsicoFonologia: “La voce contiene solo quelle frequenze che l’orecchio è in grado di ascoltare”. Questo significa che più la conduzione ossea accompagnerà in modo corretto la conduzione aerea e maggiore sarà la possibilità di generare la vibrazione nella nostra voce e/o attraverso di essa. I muscoli non sono mai stati grandi amici della voce: quando lo scheletro è dentro una armatura muscolare le risonanze della voce ossea rimangono prigioniere (un esempio è dato dagli atleti che più sono muscolosi e più la loro voce si presenta sforzata, sfilacciata).
Abbiamo visto come uno scheletro armonico sia alla base di una buona postura e come quest’ultima sia fondamentale per avere una buona capacità di ascolto e una buona emissione vocale. È vero, però, anche il processo inverso: una buona voce, dipendente da un buon ascolto, determina un costante riallineamento posturale, sciogliendo le tensioni muscolari e psicologiche. Questo significa che il movimento armonico è il risultato di una interazione dinamica costante tra l’orecchio e l’apparato osteoarticolare e muscolare: la voce esprime quindi sempre molto bene il grado di libertà dello scheletro.
INSEGNARE E FORMARE
Insegnare
Come ho già detto, ho cominciato l’insegnamento di Bones for Life nel 2001, ma solo nel 2003, insegnando da sola, ho potuto integrare i vari livelli della mia ricerca. In quei primi anni, in parallelo alla mia formazione personale, ho allevato un gruppo di lavoro che mi ha seguito nel tempo e ho potuto verificare l’importanza di una alfabetizzazione psicocorporea attraverso la quale il corpo scopre la possibilità di un apprendimento naturale legato alla intelligenza del nostro Sistema Nervoso che semplicemente, messo di fronte a più opzioni, sceglie quella più funzionale, naturalmente collegata a quel principio evolutivo insito nella vita stessa: tuttavia ho anche avuto modo di verificare più e più volte che l’accettazione psicologica di tale semplicità è tutta un’altra storia.
Andavo scoprendo come le caratteristiche fondamentali di questo metodo si accordassero perfettamente con la mia ricerca sulla integrazione psicocorporea, concretizzatasi con il metodo Tomatis ma iniziata anni prima quando avevo scoperto che all’interno del lavoro psicoterapeutico era più importante come dicevo le cose (con che voce) piuttosto che quello che dicevo. Negli anni ho collegato il lavoro di Bones for Life con il lavoro dell’AudioPsicoFonologia ed è nato il corso annuale “Ossa per Cantare”: alla fine di ogni processo c’era non solo il momento di ascolto sul modo di stare in piedi e/o camminare, ma di come questo modo potesse riverberare sulla voce. A volte la continuità dell’emissione vocale poneva l’accento sulla raggiunta continuità di un movimento e la facilitava: straordinario a questo proposito la ricerca della continuità del filo sonoro nel venire in piedi da sdraiati. Quando cominciai nel 2005 il corso Ossa per Cantare, la locandina di presentazione del Corso così recitava:
“Il corso Ossa per Cantare nato dall'incontro del metodo Tomatis con quello di Ruthy Alon Ossa per la Vita, si sviluppa dall'assunto che lo scheletro è uno strumento di armonia e la voce ne è l'espressione. Attraverso il miglioramento della postura e della capacità di ascolto è possibile ritrovare una voce che danza all'interno di un armonioso e potente gesto globale: quando il movimento e il suono creano l'immagine, il camminare diventa un incedere e il parlare può diventare canto”.
Ovviamente non apportavo alcuna modifica ai “processi”, ma mi limitavo ad inserire qui e là delle emissioni vocali a bocca chiusa per rinforzare il lavoro fatto e poi dei vocalizzi alla fine di ogni sessione: ascoltare il cambiamento delle sonorità con lo scheletro liberato era davvero peculiare. Il rimbalzo sui talloni (PAM-PAM) accompagnato dalla emissione sonora secondo le scale armoniche è una fonte di grande vitalità: mentre la pressione dei piedi contro la terra al ritmo del battito cardiaco genera una contropressione che cerca l’allineamento, il suono fa i suoi giri ampliando il senso di questo allineamento e potenziando quanto raggiunto attraverso i processi. È questo doppio movimento, ritmico e sonico al contempo, a determinare a mio parere quello che Ruthy chiama “ottimismo biologico”: quella risposta cellulare attiva sempre pronta a rispondere alla vita.
I risultati sono stati sempre significativi sia a livello individuale che di gruppo. Sul piano individuale mi piace per prima cosa parlare di una donna e un uomo, entrambi sulla cinquantina. Patrizia, donna assai affermata nel suo lavoro di archeologa, era costantemente divisa tra una efficiente cerebralità e una emozionalità scomoda; qualche anno prima aveva avuto una brutta caduta da cavallo che aveva comportato la frattura composta di una vertebra dorsale. Dopo soli due anni di lavoro con Bones, quando aveva portato all’ortopedico il nuovo esame radiologico, questi non aveva creduto ai suoi occhi: “Non è possibile! Sembra lo scheletro di una ventenne”, aveva detto. Non solo erano scomparse le tracce della lesione, ma anche i segni di osteoporosi presenti nelle radiografie precedenti. Patrizia aveva raccontato all’ortopedico del lavoro corporeo fatto con me, ma lui si era chiuso all’ascolto: accade sovente che i medici si chiudano nell’empireo dei loro studi accademici. La cosa più bella per me è stata la scelta successiva di Patrizia di dare spazio ad un desiderio che aveva inseguito da molti anni: fare un corso non professionale di danza classica. Ebbene, trovò una insegnante che non si spaventava di fronte ad allieve non proprio di primo pelo e la gioia di quella possibilità rimase impressa nel suo corpo. Patrizia ha continuato a frequentare i miei corsi per diversi anni. Francesco era venuto per la prima volta con una grave compromissione del tratto cervicale della colonna legata ad una “ernia del disco” che gli provocava una evidente limitazione della escursione dei movimenti cui si aggiungeva un grande dolore. Uomo estremamente razionale, portava dentro di sé un sentimento profondo di ineluttabilità di fronte agli eventi. Quando lavorava a terra era costretto a mettere numerosi cuscini sotto la testa e procedeva con grande cautela anche perché un ortopedico lo aveva spaventato intimandogli la eventualità di un intervento chirurgico. Dopo appena un anno di lavoro era riuscito a poggiare la testa a terra senza alcun cuscino, i movimenti erano diventati più ampi e sicuri e aveva ripreso addirittura ad andare in moto; anche il suo tono dell’umore era decisamente migliorato. Non l’ho più rivisto dopo quell’anno, ma questa scelta non mi ha sorpreso affatto: nella sua vita era stato costretto a scegliere numerose volte (e tra l’altro, come attivista politico, di questa costrizione aveva fatto un baluardo), ma in fondo non era mai stato abituato a scegliere con il corpo per il corpo. A volte non si è pronti per essere liberi. Sia con Patrizia che con Francesco l’utilizzo attento delle strategie di sicurezza e la estrema accortezza nella proposizione di tutte le sequenze dei processi proposti, hanno permesso di tracciare le vie dell’apprendimento.
Altri aspetti più particolari per le loro connessioni psicosomatiche, e ancora in corso di elaborazione, si sono presentati alla mia attenzione: come quello di una giovane donna balbuziente, Debora, che riusciva a migliorare sensibilmente la balbuzie ogni volta che, grazie al rimbalzo sui talloni, riprendeva il contatto con la terra; oppure quello di una ragazza, Valeria, che aveva sempre crisi di asma quando faceva “processi che attivavano l’onda” e scoprire che era necessario riportarla all’asse per permettere al suo corpo di trovare da solo una via di uscita da quella costrizione. O ancora il caso di Shelly, colpita da un improvviso calo dell’udito all’orecchio sinistro, probabilmente su eziologia virale, con la comparsa di un certo numero di acufeni particolarmente assordanti che suonavano a frequenze differenti. Abbiamo scoperto come in particolare il lavoro sulle anche e il loro riallineamento determinasse una riduzione drastica degli acufeni: già dopo pochi mesi di lavoro si erano ridotti stabilmente sia di numero che di intensità e questo ha comportato di riflesso anche un certo recupero della funzione uditiva. Sarà stato per questa ricerca condotta insieme, o per i suoi trascorsi di sportiva estremamente vivace e curiosa (ha fatto per anni ciclismo a livello agonistico), ha poi scelto di diventare una Insegnante Ossa per la Vita (come Valeria e molti altri, del resto).
Per non parlare poi dei cambiamenti profondi dell’intero gruppo nel modo di camminare, di correre, di stare in piedi, dei livelli di energia ritrovati: anno dopo anno il movimento dei loro corpi diventava più libero e proprio tale liberazione sembrava reclamare costantemente qualcosa di nuovo che mi costringeva a cercare nel mio lavoro di insegnante prospettive continuamente diverse.
È solo da un anno che ho cominciato l’insegnamento di Chairs-Sedie, ma già ne sto vedendo gli effetti sia sul piano individuale che di gruppo. La possibilità di navigare nella trasmissione della forza anche da seduti, data dall’impatto dei piedi in continuo contatto con il pavimento, conferisce una potenza difficile da dimenticare. Grazie ai piedi lo scheletro si trova in una costante traiettoria dinamica che permette di far passare le linee di forza, cariche di potere dinamico, in modo tale da evitare il collassamento dei corpi vertebrali in punti nevralgici e da promuovere l’allineamento dell’asse rafforzandolo: è in questo modo che la passività del sedere su una sedia si trasforma in una incredibile opportunità di restaurare l’armoniosa coordinazione del movimento.
Formare
Nel momento in cui, nel 2007, divenni Trainer Training di Bones for Life, decisi da una parte di continuare ad insegnare nel mio corso annuale Ossa per Cantare (diviso in tre step di venti ore di insegnamento ciascuno); dall’altra di fare una volta all’anno i Corsi di Formazione intensivi Bones for Life (organizzati in tre giorni consecutivi oppure in due week-end) aperti a coloro che volevano diventare insegnanti del metodo. Un piccolo plotone di persone che mi aveva seguito in quegli anni, con mia grande gioia, decise di fare la formazione. Negli anni sono venute persone con formazioni assai diverse (laureati in Scienze Motorie e in Psicologia, sportivi, Insegnanti Feldenkrais, ecc.) e fino a questo momento ho formato una ventina di Insegnanti. Ho potuto verificare come alcuni aspiranti, pur venendo da esperienze formative importanti ed affini (Feldenkrais), non avessero ancora integrato bene nel camminare la coordinazione gambe-braccia, o muovessero assai poco il loro torace che continuava ad essere per lo più una gabbia che chiudeva il loro respiro e i loro pensieri. È stato davvero interessante lavorare con loro perché mi ha consentito di mettere ancora più a fuoco l’importanza di quella parte del lavoro di Bones for Life che si fa in piedi: portare il lavoro fatto a terra (nel laboratorio di apprendimento) alla stazione eretta e nei movimenti naturali, ha una funzione, per la sua dinamicità, fortemente integrativa... talmente integrativa che in poco più di un anno soprattutto una di loro, Luisa, ha trovato naturalmente la tanto agognata camminata controlaterale, cosa mai raggiunta nei lunghi anni di formazione Feldenkrais. Grazie a questi corsi di formazione ho scoperto come l’insegnamento abbia una funzione fortemente attivante per il corpo, e quindi la psiche, di chi insegna: costruire la intelligibilità del processo attraverso il piano verbale equivale a fare quel processo... e a gustarne sottilmente gli effetti!
In questa ottica è stato davvero molto importante decidere di fare il mio primo Didattico come Trainer Training nel 2012. Quando ho scritto a Ruthy per annunciarle questa decisione lei mi ha incoraggiato in modo semplice ed efficace: “This is an exciting part for the creativity of the trainers...” (“Questa è una parte davvero eccitante per la creatività dei Trainers”). Aveva ragione. Ho dovuto pensare ad un modo intrigante per mettere insieme l’insegnamento, la formazione, la serietà e il divertimento legato all’apprendimento e nel mentre facevo questo scorgevo nuovi livelli e nuove modalità di sintesi. E in quel momento ho compreso una volta di più perché Movement Intelligence non poteva che essere un lavoro in continuo rimaneggiamento, come la architettura organica di Wright: la creatività del Maestro si sviluppa grazie alla continua interazione con gli allievi.
Alcuni degli Insegnanti che si sono formati con me hanno cominciato a lavorare nel mio studio (Musicalificio Grande Blu) con l’idea comune di costituire un gruppo attivo di ricerca sui possibili campi di applicazione di questo metodo. Abbiamo avuto così la possibilità di riflettere insieme su come seguire situazioni molto complesse. Un esempio fra tutti è quello di una donna colpita da metastasi ossee: Maria si muoveva inizialmente solo grazie all’aiuto di un tutore e non riusciva, seduta su una sedia, neppure a poggiare il piede a terra dal lato colpito. Dopo tre anni di lavoro corporeo integrato con l’alimentazione, Maria cammina senza alcun tutore e, soprattutto non è più claudicante; le ultime risonanze hanno rilevato che le metastasi sono state circoscritte. Ha iniziato anche un percorso psicoterapeutico.
Non è stato facile costruire un gruppo di lavoro omogeneo che considerasse l’umiltà dell’insegnamento come un valore, ma ora questi Insegnanti stanno iniziando a portare avanti le loro ricerche in modo più autonomo: l’approfondimento sui metodi di valutazione degli effetti di Ossa, l’apertura di gruppi di lavoro specifici (per il momento con le donne in gravidanza e con i preadolescenti) ...e chissà quant’altro ancora sarà realizzato in un prossimo futuro. Si sta anche aprendo la possibilità di far conoscere questo metodo alla Facoltà di Scienze Motorie dell’Università dell’Aquila... Proprio in questi giorni si parla di costituire una associazione nazionale nell’ottica di dare spazio ad una formazione continua... Staremo a vedere dove l’intelligenza del movimento ci porterà!
Come ho già detto, ho cominciato l’insegnamento di Bones for Life nel 2001, ma solo nel 2003, insegnando da sola, ho potuto integrare i vari livelli della mia ricerca. In quei primi anni, in parallelo alla mia formazione personale, ho allevato un gruppo di lavoro che mi ha seguito nel tempo e ho potuto verificare l’importanza di una alfabetizzazione psicocorporea attraverso la quale il corpo scopre la possibilità di un apprendimento naturale legato alla intelligenza del nostro Sistema Nervoso che semplicemente, messo di fronte a più opzioni, sceglie quella più funzionale, naturalmente collegata a quel principio evolutivo insito nella vita stessa: tuttavia ho anche avuto modo di verificare più e più volte che l’accettazione psicologica di tale semplicità è tutta un’altra storia.
Andavo scoprendo come le caratteristiche fondamentali di questo metodo si accordassero perfettamente con la mia ricerca sulla integrazione psicocorporea, concretizzatasi con il metodo Tomatis ma iniziata anni prima quando avevo scoperto che all’interno del lavoro psicoterapeutico era più importante come dicevo le cose (con che voce) piuttosto che quello che dicevo. Negli anni ho collegato il lavoro di Bones for Life con il lavoro dell’AudioPsicoFonologia ed è nato il corso annuale “Ossa per Cantare”: alla fine di ogni processo c’era non solo il momento di ascolto sul modo di stare in piedi e/o camminare, ma di come questo modo potesse riverberare sulla voce. A volte la continuità dell’emissione vocale poneva l’accento sulla raggiunta continuità di un movimento e la facilitava: straordinario a questo proposito la ricerca della continuità del filo sonoro nel venire in piedi da sdraiati. Quando cominciai nel 2005 il corso Ossa per Cantare, la locandina di presentazione del Corso così recitava:
“Il corso Ossa per Cantare nato dall'incontro del metodo Tomatis con quello di Ruthy Alon Ossa per la Vita, si sviluppa dall'assunto che lo scheletro è uno strumento di armonia e la voce ne è l'espressione. Attraverso il miglioramento della postura e della capacità di ascolto è possibile ritrovare una voce che danza all'interno di un armonioso e potente gesto globale: quando il movimento e il suono creano l'immagine, il camminare diventa un incedere e il parlare può diventare canto”.
Ovviamente non apportavo alcuna modifica ai “processi”, ma mi limitavo ad inserire qui e là delle emissioni vocali a bocca chiusa per rinforzare il lavoro fatto e poi dei vocalizzi alla fine di ogni sessione: ascoltare il cambiamento delle sonorità con lo scheletro liberato era davvero peculiare. Il rimbalzo sui talloni (PAM-PAM) accompagnato dalla emissione sonora secondo le scale armoniche è una fonte di grande vitalità: mentre la pressione dei piedi contro la terra al ritmo del battito cardiaco genera una contropressione che cerca l’allineamento, il suono fa i suoi giri ampliando il senso di questo allineamento e potenziando quanto raggiunto attraverso i processi. È questo doppio movimento, ritmico e sonico al contempo, a determinare a mio parere quello che Ruthy chiama “ottimismo biologico”: quella risposta cellulare attiva sempre pronta a rispondere alla vita.
I risultati sono stati sempre significativi sia a livello individuale che di gruppo. Sul piano individuale mi piace per prima cosa parlare di una donna e un uomo, entrambi sulla cinquantina. Patrizia, donna assai affermata nel suo lavoro di archeologa, era costantemente divisa tra una efficiente cerebralità e una emozionalità scomoda; qualche anno prima aveva avuto una brutta caduta da cavallo che aveva comportato la frattura composta di una vertebra dorsale. Dopo soli due anni di lavoro con Bones, quando aveva portato all’ortopedico il nuovo esame radiologico, questi non aveva creduto ai suoi occhi: “Non è possibile! Sembra lo scheletro di una ventenne”, aveva detto. Non solo erano scomparse le tracce della lesione, ma anche i segni di osteoporosi presenti nelle radiografie precedenti. Patrizia aveva raccontato all’ortopedico del lavoro corporeo fatto con me, ma lui si era chiuso all’ascolto: accade sovente che i medici si chiudano nell’empireo dei loro studi accademici. La cosa più bella per me è stata la scelta successiva di Patrizia di dare spazio ad un desiderio che aveva inseguito da molti anni: fare un corso non professionale di danza classica. Ebbene, trovò una insegnante che non si spaventava di fronte ad allieve non proprio di primo pelo e la gioia di quella possibilità rimase impressa nel suo corpo. Patrizia ha continuato a frequentare i miei corsi per diversi anni. Francesco era venuto per la prima volta con una grave compromissione del tratto cervicale della colonna legata ad una “ernia del disco” che gli provocava una evidente limitazione della escursione dei movimenti cui si aggiungeva un grande dolore. Uomo estremamente razionale, portava dentro di sé un sentimento profondo di ineluttabilità di fronte agli eventi. Quando lavorava a terra era costretto a mettere numerosi cuscini sotto la testa e procedeva con grande cautela anche perché un ortopedico lo aveva spaventato intimandogli la eventualità di un intervento chirurgico. Dopo appena un anno di lavoro era riuscito a poggiare la testa a terra senza alcun cuscino, i movimenti erano diventati più ampi e sicuri e aveva ripreso addirittura ad andare in moto; anche il suo tono dell’umore era decisamente migliorato. Non l’ho più rivisto dopo quell’anno, ma questa scelta non mi ha sorpreso affatto: nella sua vita era stato costretto a scegliere numerose volte (e tra l’altro, come attivista politico, di questa costrizione aveva fatto un baluardo), ma in fondo non era mai stato abituato a scegliere con il corpo per il corpo. A volte non si è pronti per essere liberi. Sia con Patrizia che con Francesco l’utilizzo attento delle strategie di sicurezza e la estrema accortezza nella proposizione di tutte le sequenze dei processi proposti, hanno permesso di tracciare le vie dell’apprendimento.
Altri aspetti più particolari per le loro connessioni psicosomatiche, e ancora in corso di elaborazione, si sono presentati alla mia attenzione: come quello di una giovane donna balbuziente, Debora, che riusciva a migliorare sensibilmente la balbuzie ogni volta che, grazie al rimbalzo sui talloni, riprendeva il contatto con la terra; oppure quello di una ragazza, Valeria, che aveva sempre crisi di asma quando faceva “processi che attivavano l’onda” e scoprire che era necessario riportarla all’asse per permettere al suo corpo di trovare da solo una via di uscita da quella costrizione. O ancora il caso di Shelly, colpita da un improvviso calo dell’udito all’orecchio sinistro, probabilmente su eziologia virale, con la comparsa di un certo numero di acufeni particolarmente assordanti che suonavano a frequenze differenti. Abbiamo scoperto come in particolare il lavoro sulle anche e il loro riallineamento determinasse una riduzione drastica degli acufeni: già dopo pochi mesi di lavoro si erano ridotti stabilmente sia di numero che di intensità e questo ha comportato di riflesso anche un certo recupero della funzione uditiva. Sarà stato per questa ricerca condotta insieme, o per i suoi trascorsi di sportiva estremamente vivace e curiosa (ha fatto per anni ciclismo a livello agonistico), ha poi scelto di diventare una Insegnante Ossa per la Vita (come Valeria e molti altri, del resto).
Per non parlare poi dei cambiamenti profondi dell’intero gruppo nel modo di camminare, di correre, di stare in piedi, dei livelli di energia ritrovati: anno dopo anno il movimento dei loro corpi diventava più libero e proprio tale liberazione sembrava reclamare costantemente qualcosa di nuovo che mi costringeva a cercare nel mio lavoro di insegnante prospettive continuamente diverse.
È solo da un anno che ho cominciato l’insegnamento di Chairs-Sedie, ma già ne sto vedendo gli effetti sia sul piano individuale che di gruppo. La possibilità di navigare nella trasmissione della forza anche da seduti, data dall’impatto dei piedi in continuo contatto con il pavimento, conferisce una potenza difficile da dimenticare. Grazie ai piedi lo scheletro si trova in una costante traiettoria dinamica che permette di far passare le linee di forza, cariche di potere dinamico, in modo tale da evitare il collassamento dei corpi vertebrali in punti nevralgici e da promuovere l’allineamento dell’asse rafforzandolo: è in questo modo che la passività del sedere su una sedia si trasforma in una incredibile opportunità di restaurare l’armoniosa coordinazione del movimento.
Formare
Nel momento in cui, nel 2007, divenni Trainer Training di Bones for Life, decisi da una parte di continuare ad insegnare nel mio corso annuale Ossa per Cantare (diviso in tre step di venti ore di insegnamento ciascuno); dall’altra di fare una volta all’anno i Corsi di Formazione intensivi Bones for Life (organizzati in tre giorni consecutivi oppure in due week-end) aperti a coloro che volevano diventare insegnanti del metodo. Un piccolo plotone di persone che mi aveva seguito in quegli anni, con mia grande gioia, decise di fare la formazione. Negli anni sono venute persone con formazioni assai diverse (laureati in Scienze Motorie e in Psicologia, sportivi, Insegnanti Feldenkrais, ecc.) e fino a questo momento ho formato una ventina di Insegnanti. Ho potuto verificare come alcuni aspiranti, pur venendo da esperienze formative importanti ed affini (Feldenkrais), non avessero ancora integrato bene nel camminare la coordinazione gambe-braccia, o muovessero assai poco il loro torace che continuava ad essere per lo più una gabbia che chiudeva il loro respiro e i loro pensieri. È stato davvero interessante lavorare con loro perché mi ha consentito di mettere ancora più a fuoco l’importanza di quella parte del lavoro di Bones for Life che si fa in piedi: portare il lavoro fatto a terra (nel laboratorio di apprendimento) alla stazione eretta e nei movimenti naturali, ha una funzione, per la sua dinamicità, fortemente integrativa... talmente integrativa che in poco più di un anno soprattutto una di loro, Luisa, ha trovato naturalmente la tanto agognata camminata controlaterale, cosa mai raggiunta nei lunghi anni di formazione Feldenkrais. Grazie a questi corsi di formazione ho scoperto come l’insegnamento abbia una funzione fortemente attivante per il corpo, e quindi la psiche, di chi insegna: costruire la intelligibilità del processo attraverso il piano verbale equivale a fare quel processo... e a gustarne sottilmente gli effetti!
In questa ottica è stato davvero molto importante decidere di fare il mio primo Didattico come Trainer Training nel 2012. Quando ho scritto a Ruthy per annunciarle questa decisione lei mi ha incoraggiato in modo semplice ed efficace: “This is an exciting part for the creativity of the trainers...” (“Questa è una parte davvero eccitante per la creatività dei Trainers”). Aveva ragione. Ho dovuto pensare ad un modo intrigante per mettere insieme l’insegnamento, la formazione, la serietà e il divertimento legato all’apprendimento e nel mentre facevo questo scorgevo nuovi livelli e nuove modalità di sintesi. E in quel momento ho compreso una volta di più perché Movement Intelligence non poteva che essere un lavoro in continuo rimaneggiamento, come la architettura organica di Wright: la creatività del Maestro si sviluppa grazie alla continua interazione con gli allievi.
Alcuni degli Insegnanti che si sono formati con me hanno cominciato a lavorare nel mio studio (Musicalificio Grande Blu) con l’idea comune di costituire un gruppo attivo di ricerca sui possibili campi di applicazione di questo metodo. Abbiamo avuto così la possibilità di riflettere insieme su come seguire situazioni molto complesse. Un esempio fra tutti è quello di una donna colpita da metastasi ossee: Maria si muoveva inizialmente solo grazie all’aiuto di un tutore e non riusciva, seduta su una sedia, neppure a poggiare il piede a terra dal lato colpito. Dopo tre anni di lavoro corporeo integrato con l’alimentazione, Maria cammina senza alcun tutore e, soprattutto non è più claudicante; le ultime risonanze hanno rilevato che le metastasi sono state circoscritte. Ha iniziato anche un percorso psicoterapeutico.
Non è stato facile costruire un gruppo di lavoro omogeneo che considerasse l’umiltà dell’insegnamento come un valore, ma ora questi Insegnanti stanno iniziando a portare avanti le loro ricerche in modo più autonomo: l’approfondimento sui metodi di valutazione degli effetti di Ossa, l’apertura di gruppi di lavoro specifici (per il momento con le donne in gravidanza e con i preadolescenti) ...e chissà quant’altro ancora sarà realizzato in un prossimo futuro. Si sta anche aprendo la possibilità di far conoscere questo metodo alla Facoltà di Scienze Motorie dell’Università dell’Aquila... Proprio in questi giorni si parla di costituire una associazione nazionale nell’ottica di dare spazio ad una formazione continua... Staremo a vedere dove l’intelligenza del movimento ci porterà!
E LA RICERCA CONTINUA......
Gli studi di Medicina mi hanno sempre dato una idea sbagliata della struttura scheletrica: da una parte, pur conoscendo la fisiologia, mi sfuggiva la grande vitalità del tessuto osseo che è il frutto di un continuo rimodellamento (grazie all’azione combinata degli osteoblasti, degli osteociti e degli osteoclasti) dipendente a sua volta da una serie di equilibri corporei, in primis l’equilibrio acido-base; dall’altra accostavo la leggerezza dello scheletro alla fragilità e non alla elasticità. Solo con il percorso Bones for Life ho potuto sentire quella coerente ricerca dello scheletro che, nel confronto con la forza di gravità, può mettere a repentaglio ogni volta l’equilibrio trovato con la certezza che sarà possibile trovarne uno migliore. Così ho imparato nuovamente a contare su di lui e a porlo al centro della armonia e della eleganza del movimento: per questo motivo, quando Ruthy alla fine del primo ciclo di Ossa ci aveva chiesto una piccola frase che raccontasse cosa avesse significato quel lavoro fatto con lei, io avevo risposto con il titolo di un bellissimo libro di Fred Uhlman, L’amico ritrovato. Ebbene sì, avevo ritrovato un amico, forse smarrito anni addietro tra i meandri della forza muscolare.
Bones for Life mi ha dato le regole grammaticali del movimento corporeo facile e spontaneo: impilare le ossa una dopo l’altra, come le parole di un discorso, per far “filare” una azione in grado di rappresentare in modo spontaneo la propria immagine interiore. Con gli altri programmi che completano la formazione de L’Intelligenza del Movimento ho avuto l’accesso a quella sintassi del movimento che nasce dal fornire al corpo tutte le informazioni necessarie per dare spazio al suo più grande talento: creare coordinazione, armonia e bellezza. D’altra parte cosa è l’integrazione psicocorporea se non sapere fin nelle viscere che, poiché tutto in ogni istante è in connessione di rete, si può rendere disponibile tutte queste opzioni di scelta per portare la qualità del movimento nella vita di ogni giorno? “Il corpo umano, a differenza delle macchine costruite dall’uomo, non si logora, a patto che venga usato nella sua pienezza”, se cioè gli viene permesso di esplorare ed evolvere per potere esprimere in modo facile e spontaneo la gioiosa consapevolezza di Sé e del proprio movimento creativo.
Il corso Cantare le Ossa per la Vita è diventato un programma a sé stante di mia invenzione che ha preso il posto ormai da qualche anno di Ossa per Cantare. Un nuovo processo integrativo ha tracciato la sua strada originale nata dall’incontro tra il metodo Tomatis (AudioPsicoFonologia) e quello di Ruthy Alon (Movement Intelligence), e arricchito dagli spunti provenienti dalla Antiginnastica (di Thérèse Bertherat) e dalla Psicofonia (di Marie-Louise Aucher): ora il lavoro con la struttura ossea e muscolare ha come obiettivo specifico quello di formare quello strumento corporeo in grado non solo di suonare la musica della propria voce, ma di avviare un gioco di risonanze ricco di vita e di slancio dinamico che alimenta quell’ottimismo biologico in grado di risvegliare la prospettiva evolutiva alla base dei processi umani di autoguarigione. In questa ottica vado scoprendo sempre di più che il vero Trainer è colui che mette in condizione l’allievo di lasciare andare le sovrastrutture assimilate nel corso degli anni per fargli riscoprire i meccanismi fisiologici, innati, della evoluzione.
Questo lavoro ha arricchito di prospettive anche la mia ricerca in ambito psichiatrico e psicoterapeutico. Alcune prescrizioni paradossali suggerite all’interno della relazione terapeutica, come ad esempio dare libero spazio ai vissuti depressivi quando si presentano, mi ricordano la strategia neuromotoria di esagerare la tendenza controproducente dell’organismo (come avviene ad esempio nel “processo dell’arco e della freccia”); oppure l’attivazione della “terapia familiare” in cui ognuno è chiamato a fare la sua parte per evitare la sindrome del capro espiatorio, o ancora ripristinare l’equilibrio funzionale attivando “il danno” sul lato più funzionale (“diplomazia neurologica”). Soprattutto mi sono soffermata sulla esperienza della regressione. Sappiamo come la funzione meno evoluta lasci il passo ad una funzione più evoluta, ma questo non vuol dire perderla: essa rimane in memoria e può essere riattivata secondo l’antico schema, portando alla sperimentazione di una nuova-vecchia opzione di movimento che ha avuto un preciso significato funzionale nello sviluppo filogenetico (“la nuotata primaria” ne è un esempio). La stessa cosa accade in termini psichici all’interno di un percorso psicoterapeutico: regredire vuol dire andare a riprendere quel rapporto con le immagini, tipico dei primi mesi di vita, che consente di riattivare quella via evolutiva inconscia che è rimasta bloccata. In questo modo si apre la via della guarigione lungo la strada delle “possibilità delle possibilità”.
Il lavoro sui due versanti, psichico e corporeo, mi ha permesso di comprendere quando il lavoro psicologico va integrato con quello corporeo e viceversa, quando il lavoro corporeo va integrato con quello psichico. Non sono possibili scorciatoie, né sul piano psicologico e neppure sul piano corporeo: la psiche non può sfuggire al corpo e viceversa perché, essendo parte integrante di esso, può offrire la chiave affinché l’Uomo possa abitare il corpo con il suo respiro, con il suo pensiero, con la sua voce.
Bones for Life mi ha dato le regole grammaticali del movimento corporeo facile e spontaneo: impilare le ossa una dopo l’altra, come le parole di un discorso, per far “filare” una azione in grado di rappresentare in modo spontaneo la propria immagine interiore. Con gli altri programmi che completano la formazione de L’Intelligenza del Movimento ho avuto l’accesso a quella sintassi del movimento che nasce dal fornire al corpo tutte le informazioni necessarie per dare spazio al suo più grande talento: creare coordinazione, armonia e bellezza. D’altra parte cosa è l’integrazione psicocorporea se non sapere fin nelle viscere che, poiché tutto in ogni istante è in connessione di rete, si può rendere disponibile tutte queste opzioni di scelta per portare la qualità del movimento nella vita di ogni giorno? “Il corpo umano, a differenza delle macchine costruite dall’uomo, non si logora, a patto che venga usato nella sua pienezza”, se cioè gli viene permesso di esplorare ed evolvere per potere esprimere in modo facile e spontaneo la gioiosa consapevolezza di Sé e del proprio movimento creativo.
Il corso Cantare le Ossa per la Vita è diventato un programma a sé stante di mia invenzione che ha preso il posto ormai da qualche anno di Ossa per Cantare. Un nuovo processo integrativo ha tracciato la sua strada originale nata dall’incontro tra il metodo Tomatis (AudioPsicoFonologia) e quello di Ruthy Alon (Movement Intelligence), e arricchito dagli spunti provenienti dalla Antiginnastica (di Thérèse Bertherat) e dalla Psicofonia (di Marie-Louise Aucher): ora il lavoro con la struttura ossea e muscolare ha come obiettivo specifico quello di formare quello strumento corporeo in grado non solo di suonare la musica della propria voce, ma di avviare un gioco di risonanze ricco di vita e di slancio dinamico che alimenta quell’ottimismo biologico in grado di risvegliare la prospettiva evolutiva alla base dei processi umani di autoguarigione. In questa ottica vado scoprendo sempre di più che il vero Trainer è colui che mette in condizione l’allievo di lasciare andare le sovrastrutture assimilate nel corso degli anni per fargli riscoprire i meccanismi fisiologici, innati, della evoluzione.
Questo lavoro ha arricchito di prospettive anche la mia ricerca in ambito psichiatrico e psicoterapeutico. Alcune prescrizioni paradossali suggerite all’interno della relazione terapeutica, come ad esempio dare libero spazio ai vissuti depressivi quando si presentano, mi ricordano la strategia neuromotoria di esagerare la tendenza controproducente dell’organismo (come avviene ad esempio nel “processo dell’arco e della freccia”); oppure l’attivazione della “terapia familiare” in cui ognuno è chiamato a fare la sua parte per evitare la sindrome del capro espiatorio, o ancora ripristinare l’equilibrio funzionale attivando “il danno” sul lato più funzionale (“diplomazia neurologica”). Soprattutto mi sono soffermata sulla esperienza della regressione. Sappiamo come la funzione meno evoluta lasci il passo ad una funzione più evoluta, ma questo non vuol dire perderla: essa rimane in memoria e può essere riattivata secondo l’antico schema, portando alla sperimentazione di una nuova-vecchia opzione di movimento che ha avuto un preciso significato funzionale nello sviluppo filogenetico (“la nuotata primaria” ne è un esempio). La stessa cosa accade in termini psichici all’interno di un percorso psicoterapeutico: regredire vuol dire andare a riprendere quel rapporto con le immagini, tipico dei primi mesi di vita, che consente di riattivare quella via evolutiva inconscia che è rimasta bloccata. In questo modo si apre la via della guarigione lungo la strada delle “possibilità delle possibilità”.
Il lavoro sui due versanti, psichico e corporeo, mi ha permesso di comprendere quando il lavoro psicologico va integrato con quello corporeo e viceversa, quando il lavoro corporeo va integrato con quello psichico. Non sono possibili scorciatoie, né sul piano psicologico e neppure sul piano corporeo: la psiche non può sfuggire al corpo e viceversa perché, essendo parte integrante di esso, può offrire la chiave affinché l’Uomo possa abitare il corpo con il suo respiro, con il suo pensiero, con la sua voce.
LA LINEA NEL MOVIMENTO
Concetta Turchi
“Dimmi, disegnatore del deserto, geometra delle sabbie mobili,
possibile che l’impeto delle linee sia più forte del soffiare del vento?
Nel balbettio scalpella l’esperienza, dall’esperienza succhia il balbettio”.
(Mandel’ stam, 1933)
possibile che l’impeto delle linee sia più forte del soffiare del vento?
Nel balbettio scalpella l’esperienza, dall’esperienza succhia il balbettio”.
(Mandel’ stam, 1933)
Verso... di Concetta Turchi
“Nel visitare un grande museo di Roma, Norbert Hanold aveva scoperto un bassorilievo che l’aveva particolarmente attratto, talché, rientrato in Germania, fu assai lieto di potersene procurare un perfetto calco in gesso. (...) L’immagine rappresentava, a circa un terzo della grandezza naturale, una figura femminile nell’atto del camminare: una giovane non più bambina né tuttavia ancora donna, una ‘virgo’ poco più che ventenne. Essa non rimandava in alcun modo ai molti bassorilievi pervenuti fino a noi che raffigurano una qualche Venere o Diana o altra divinità dell’Olimpo e tantomeno somigliava a una Psiche o a una ninfa. Vi era in essa un che di umano, di comune ma non in senso spregiativo, un tocco in certo qual modo moderno nel riprodurne le fattezze, quasi che l’artista, vedendola passare, ne avesse trattenuto l’immagine vivente plasmandola all’istante nella creta anziché, come farebbe oggi, tracciando uno schizzo su un foglio.
Alta e slanciata, i capelli lievemente ondulati quasi tutti raccolti nelle pieghe di un velo, dal volto piuttosto sottile non promanava un fascino smagliante; né tantomeno vi si leggeva l’intenzione di esercitarlo. Nei tratti raffinati si esprimeva una serena indifferenza per quanto accadeva intorno, lo sguardo dritto e imperturbabile parlava di un’intatta facoltà visiva e di pensieri pacatamente racchiusi in se stessi. La giovane non colpiva tanto per bellezza plastica, quanto perché aveva in sé qualcosa che raramente affiora nelle antiche sculture in pietra: una grazia naturale, semplice, virginea che pareva infondere vita alla materia. A produrre quest’effetto era essenzialmente il movimento in cui ella era raffigurata. Il capo lievemente chino, con la mano sinistra teneva leggermente sollevata la veste che le ricadeva in ampi drappeggi dalle spalle alle caviglie, sicché sotto si scorgevano i piedi calzati di sandali. Il piede sinistro era appoggiato a terra, davanti, e il destro, nell’atto di seguirlo, sfiorava appena il terreno con la punta delle dita mentre la pianta e il calcagno salivano pressoché verticali. Quel movimento risvegliava una duplice impressione di leggerezza e agilità del passo e al tempo stesso di salda fermezza. Quel suo librarsi quasi in volo unito all’incedere sicuro conferiva alla giovane donna una grazia tutta particolare. Da dove proveniva e dove era diretta? (...) Volendo attribuire un nome a quell’immagine, scelse di chiamarla Gradiva, ‘colei che incede’ ...” (W. JENSEN, Gradiva, SugarCo Ed., Milano 1990).
Alta e slanciata, i capelli lievemente ondulati quasi tutti raccolti nelle pieghe di un velo, dal volto piuttosto sottile non promanava un fascino smagliante; né tantomeno vi si leggeva l’intenzione di esercitarlo. Nei tratti raffinati si esprimeva una serena indifferenza per quanto accadeva intorno, lo sguardo dritto e imperturbabile parlava di un’intatta facoltà visiva e di pensieri pacatamente racchiusi in se stessi. La giovane non colpiva tanto per bellezza plastica, quanto perché aveva in sé qualcosa che raramente affiora nelle antiche sculture in pietra: una grazia naturale, semplice, virginea che pareva infondere vita alla materia. A produrre quest’effetto era essenzialmente il movimento in cui ella era raffigurata. Il capo lievemente chino, con la mano sinistra teneva leggermente sollevata la veste che le ricadeva in ampi drappeggi dalle spalle alle caviglie, sicché sotto si scorgevano i piedi calzati di sandali. Il piede sinistro era appoggiato a terra, davanti, e il destro, nell’atto di seguirlo, sfiorava appena il terreno con la punta delle dita mentre la pianta e il calcagno salivano pressoché verticali. Quel movimento risvegliava una duplice impressione di leggerezza e agilità del passo e al tempo stesso di salda fermezza. Quel suo librarsi quasi in volo unito all’incedere sicuro conferiva alla giovane donna una grazia tutta particolare. Da dove proveniva e dove era diretta? (...) Volendo attribuire un nome a quell’immagine, scelse di chiamarla Gradiva, ‘colei che incede’ ...” (W. JENSEN, Gradiva, SugarCo Ed., Milano 1990).
Il movimento che sostiene un’azione, sia essa un’azione poetica oppure di forza, dove attinge la sua linea? E quale è il senso di questa linea quando essa colpisce così tanto da rimanere traccia indelebile nell’inconscio, come accade nel giovane archeologo del racconto il quale, partendo dalla linea del movimento di un calco in gesso arriva a recuperare l’immagine di una donna, il suo volto, la sua voce, la sua essenza? Potremmo dire che nei movimenti di forza che sostengono l’impeto di un attimo è l’attività muscolare al centro di quel movimento, con le fibrille che si accorciano disciplinatamente per sostenere quello sforzo... Ma, nel momento in cui l’impeto entra a far parte della nostra vita in modo costante, momento dopo momento, accompagnato da una calma che sembra allo stesso tempo contrastare e sostenere l’azione, non è più possibile fare riferimento alla sola struttura muscolare, la quale comporterebbe un livello di tensione costante che mal si combina con la capacità di tenuta di una emozione intensamente vissuta.
E allora, quando la passione diventa una presenza costante della nostra vita, dobbiamo ricorrere ad una struttura portante che, nella sua essenza, è elastica e leggera; al nostro sistema antigravitario che permette di stare a terra senza alcun peso e attiva i movimenti sostenuti da quella intensità emozionale, fulcro della mia ricerca, con la leggerezza di una farfalla. Questa struttura è lo scheletro.
Tra le tante linee che collegano le varie parti dell’organismo, tre sono le zone importanti di comunicazione psicocorporea: la zona del bacino, sede della sessualità, radicata alla vita e all’istinto di sopravvivenza; la zona del torace collegata agli affetti; la zona della testa, sede dei nostri pensieri e degli intenti umani “più alti”. La interrelazione tra queste aree determina la comparsa di una linea di movimento che sarà più o meno continua e armonica: la capacità di modificare tale linea, di contrarla o di espanderla, di modificarla a seconda delle situazioni, di delineare una immagine corporea che si prende spazio o lo riduce quando occorre, è una caratteristica di plasticità neurologica e psicologica. E la plasticità è alla base della sanità.
La linea della schiena di un essere umano è un segno evidente della sua capacità di stare eretto non solo in termini corporei, ma anche psichici. Quando la linea si altera e la schiena diventa dolorante, è la struttura portante della personalità, la sua immagine, ad essere offesa e spesso accade che la persona dolente non si accorga neppure di quella privazione subita, causa del blocco di una sua qualche evoluzione interiore. E allora le linee del corpo si spezzano, l’affettività si ritrae, i pensieri cortocircuitano.
Considerando la qualità del movimento, la colonna vertebrale è il punto di incontro di interazioni e funzioni tra parti lontane del corpo, e quanto accade nella schiena esprime sempre il livello di integrazione dell’intero organismo. Il modo di camminare, per esempio, è strettamente connesso al respirare: ogni volta che facciamo un passo in avanti con un piede e l’altro rimane come perno che si verticalizza come a prendere l’aria per il passo successivo, il rapporto tra movimento dei piedi e movimento diaframmatico si ripete, come se la libertà del respiro dipendesse da come prendiamo contatto con la terra e, sul piano psichico, è fin troppo evidente il nesso tra questo contatto e il rapporto con la realtà.
“...Per concepire la funzione della schiena nel contesto del resto del corpo, cercate di ricordare come essa si irrigidisca quando i piedi devono affrontare un terreno irregolare. Probabilmente l’esperienza vi ha già fatto conoscere il legame reciproco tra ginocchia e schiena: tutti sanno che se si piega il busto tenendo le ginocchia diritte si riceve un immediato avvertimento dalla schiena. Quello che forse è meno noto è l’intimo nesso tra schiena e caviglie. Indirettamente, se l’articolazione delle caviglie non è sciolta ed elastica, la posizione delle ginocchia non è tale da permettere al bacino di pendere libero e allentare la pressione sulla schiena...” (R. ALON, Guida pratica al metodo Feldenkrais, Red Edizioni, Como 1992).
Occorre ritrovare il volo della farfalla, quel movimento naturale e leggero che implica un equilibrio, o meglio una interazione, tra il peso corporeo e la gravità. Gli organismi senza scheletro sono in grado di muoversi solo reclutando la loro forza muscolare, mentre le creature con lo scheletro hanno il vantaggio di potersi servire della forza di gravità per risparmiare sul lavoro muscolare. Infatti, essendo lo scheletro costituito da ossa che si dispongono una sopra all’altra lungo una linea verticale, servirà un minore sforzo muscolare per stare in piedi in equilibrio: l’organizzazione su questo asse unico e fermo, la pressione antigravitazionale che dalla terra spinge verso l’alto, rendono il corpo capace di effettuare un passo in avanti con un movimento più economico e senz’altro più armonioso. Tale movimento è facilitato dalle articolazioni che permettono la flessione e l’estensione elastica lungo questo asse longitudinale in cui si trasmettono due forze di pressione che agiscono in direzione opposta, dall’alto verso il basso e viceversa: il movimento di conseguenza, attraverso un passo elastico sul terreno, permette al corpo di muoversi facilmente in avanti attraverso il proprio peso corporeo.
Lo scheletro consente quindi un movimento dolce nell’ambito della gravità: il piede che poggia a terra alternativamente diventa forte come un’asse, mentre l’altro, privo di pressione, è libero di fare il passo successivo in avanti, scambiando i ruoli. Questa alternanza di flessione e stabilità, di ancoraggio e separazione, di pressione e leggerezza, si svolge con efficacia in una maniera del tutto automatica, come derivato di un sistema ancestrale del nostro cervello. In questa dinamica la pressione e la contropressione agiscono con pulsazioni ritmiche ad ogni passo. Solo uno scheletro ben allineato sarà in grado di sostenere il peso di questa forza che pulsa dal basso verso l’alto, così necessaria anche per il nutrimento dell’osso: una andatura integrata ed armonica, in grado di esercitare una pressione elastica ritmica a tutto l’apparato scheletrico, aiuterà infatti le sostanze nutritive ad arrivare nelle profondità del tessuto osseo.
Uno scheletro armonico è alla base di una buona postura, quest’ultima fondamentale per avere una buona capacità di ascolto e, conseguentemente, una buona emissione vocale. È vero, però, anche il processo inverso: una buona voce, dipendente da un buon ascolto, determina un costante riallineamento posturale, sciogliendo le tensioni muscolari e psicologiche. Questo significa che il movimento armonico è il risultato di un’interazione dinamica costante tra l’orecchio e l’apparato osteoarticolare e muscolare: la voce, infatti, veicola quanto un individuo (inteso come unità psicocorporea) percepisce.
Visione culturale viziata considerare lo scheletro come una struttura rigida, al limite del vitale, che con il trascorrere degli anni è destinata ad andare incontro ad un progressivo ed irreversibile deterioramento. Lo scheletro è un apparato plastico e vivo, come lo è il tessuto osseo di cui è composto; basti pensare che lo scheletro ha un meccanismo di rinnovamento e ringiovanimento continuo grazie al funzionamento di due meccanismi, quello di distruzione delle vecchie cellule e di ricostruzione delle nuove (Tab.1). L’osso come noi lo vediamo dall’esterno, nella sua apparente staticità, è solo il punto visibile di un equilibrio dinamico tra questi processi di distruzione e di ricostruzione. E questi due processi devono equilibrarsi costantemente per fare in modo che gli osteoclasti non distruggano troppo (causando così demineralizzazione e indebolimento del tessuto osseo) e che gli osteoblasti non producano troppo (causando calcificazioni diffuse, particolarmente pericolose e/o dolorose quando avvengono in prossimità dei capi articolari).
CELLULE DEL TESSUTO OSSEO
1. Le cellule osteoprogenitrici, o preosteoblasti, derivano dalla differenziazione in senso osteogenico, delle cellule mesenchimali pluripotenti del tessuto connettivo;
2. Gli osteoblasti, derivati dalla maturazione delle cellule osteoprogenitrici, sono le cellule giovani primariamente responsabili della sintesi della sostanza intercellulare dell’osso e della sua mineralizzazione;
3. Gli osteociti, derivati dalla maturazione degli osteoblasti, sono le cellule tipiche dell’osso maturo, responsabili del suo mantenimento e anche capaci di avviarne il rimaneggiamento. Rappresentano la parte terminale di un ciclo evolutivo cellulare, la cui autonomia di vita è finemente regolata da meccanismi endocrini;
4. Gli osteoclasti, derivati da precursori immigrati nel tessuto osseo dal sangue, i cosiddetti preosteoclasti che si differenziano a partire da cellule staminali del midollo osseo ematopoietico (linea differenziativa di una categoria di globuli bianchi, i monociti), sono le cellule preposte al riassorbimento del tessuto osseo ormai invecchiato; essi vengono trasportati dal torrente circolatorio fino alle sedi del tessuto osseo dove devono avvenire i processi di riassorbimento osseo, dove si fondono insieme a formare gli osteoclasti attivi, vale a dire elementi sinciziali capaci di disciogliere la componente minerale e di digerire le componenti organiche del tessuto osseo grazie a degli enzimi specifici.
2. Gli osteoblasti, derivati dalla maturazione delle cellule osteoprogenitrici, sono le cellule giovani primariamente responsabili della sintesi della sostanza intercellulare dell’osso e della sua mineralizzazione;
3. Gli osteociti, derivati dalla maturazione degli osteoblasti, sono le cellule tipiche dell’osso maturo, responsabili del suo mantenimento e anche capaci di avviarne il rimaneggiamento. Rappresentano la parte terminale di un ciclo evolutivo cellulare, la cui autonomia di vita è finemente regolata da meccanismi endocrini;
4. Gli osteoclasti, derivati da precursori immigrati nel tessuto osseo dal sangue, i cosiddetti preosteoclasti che si differenziano a partire da cellule staminali del midollo osseo ematopoietico (linea differenziativa di una categoria di globuli bianchi, i monociti), sono le cellule preposte al riassorbimento del tessuto osseo ormai invecchiato; essi vengono trasportati dal torrente circolatorio fino alle sedi del tessuto osseo dove devono avvenire i processi di riassorbimento osseo, dove si fondono insieme a formare gli osteoclasti attivi, vale a dire elementi sinciziali capaci di disciogliere la componente minerale e di digerire le componenti organiche del tessuto osseo grazie a degli enzimi specifici.
Tab.1
In questo lavoro di équipe sono implicati fattori di natura endocrina e metabolica che agiscono sulla concentrazione del calcio nel sangue (Tab. 2). Per tenere il calcio in soluzione, pronto per essere utilizzato dal tessuto osseo (o come sostanza tampone per mantenere costante il valore del pH ematico), occorrono due solventi: il movimento e il magnesio (il calcio può essere introdotto con l’alimentazione, come il magnesio, oppure può essere prodotto dall’organismo a partire dal silicio e dal potassio).
Si sa da tempo che fattori nutrizionali e ormonali possono interferire sul metabolismo osseo, come pure quelli legati alle abitudini di vita e allo stato psichico. Una alimentazione troppo ricca in carboidrati, la menopausa nelle donne, la vita sedentaria causa di una inefficace utilizzazione del calcio (quindi abitudini culturalmente apprese) possono incidere sul deterioramento osseo considerato “fisiologico”. I vizi posturali d’altra parte sono sempre interdipendenti alle condizioni psicologiche: l’integrazione dell’esperienza, attraverso la corporeità, è un elemento strutturante dello sviluppo del Sé.
Si sa da tempo che fattori nutrizionali e ormonali possono interferire sul metabolismo osseo, come pure quelli legati alle abitudini di vita e allo stato psichico. Una alimentazione troppo ricca in carboidrati, la menopausa nelle donne, la vita sedentaria causa di una inefficace utilizzazione del calcio (quindi abitudini culturalmente apprese) possono incidere sul deterioramento osseo considerato “fisiologico”. I vizi posturali d’altra parte sono sempre interdipendenti alle condizioni psicologiche: l’integrazione dell’esperienza, attraverso la corporeità, è un elemento strutturante dello sviluppo del Sé.
FATTORI ENDOCRINI E METABOLICI CHE AGISCONO SUL CALCIO EMATICO
Fattori ormonali
- Il paratormone (PTH), prodotto dalle paratiroidi, promuove la differenziazione e la proliferazione degli osteoblasti; stimola inoltre il riassorbimento dello ione calcio a livello renale contribuendo all’effetto ipercalcemizzante. Attraverso gli OAF (Osteoclast Activating Factors) osteoblastici stimola anche l’attivazione degli osteoclasti per promuovere l’innalzamento della calcemia;
- La calcitonina, prodotta dalle cellule C, o parafollicolari, della tiroide, ha una azione ipocalcemizzante poiché agisce sugli osteoclasti inibendone la funzione;
- L’ormone della crescita (Growth Hormone o GH), prodotto dall’ipofisi, agisce sul fegato inducendo la produzione di somatomedine le quali stimolano la crescita e il metabolismo della cartilagine proliferante, promuovendo l’accrescimento osseo nel periodo dello sviluppo corporeo. Questo ormone ha una azione ipercalcemizzante poiché stimola il riassorbimento di calcio a livello renale;
- Gli ormoni tiroidei (T3 e T4), prodotti dalle cellule follicolari della tiroide, promuovono il metabolismo cellulare e pertanto giocano un ruolo importante per stimolare la maturazione dell’osso. Hanno un effetto ipocalcemizzante;
- Gli ormoni sessuali (estrogeni, testosterone) prodotti dalle gonadi al momento della pubertà svolgono una funzione di attivazione sugli osteoblasti come pure sugli osteoclasti; al termine dell’accrescimento esercitano un’azione inibitoria sulla crescita dei condrociti della cartilagine proliferante, promuovendo la saldatura delle epifisi e l’arresto dell’accrescimento scheletrico. Nell’adulto controllano a livello renale l’enzima che attiva la vitamina D.
Fattori vitaminici
- La vitamina D è una vitamina liposolubile che viene in parte assunta con la dieta (D2) e in parte sintetizzata per via endogena con l’ausilio dei raggi ultravioletti. Essa promuove la differenziazione degli osteoblasti in osteociti e ha una azione ipercalcemizzante perché a livello intestinale stimola l’assorbimento di calcio e a livello renale ne inibisce la escrezione.
- La vitamina C, idrosolubile, è un coenzima per la sintesi del collagene, precursore del tessuto osseo.
- La vitamina A, liposolubile, è capace di sviluppare la differenziazione degli osteoblasti in osteociti.
Fattori metabolici
L’ossigeno molecolare è indispensabile come fattore di stimolo sulle cellule ossee infatti, in ogni tipo di ossificazione, la differenziazione delle cellule progenitrici in osteoblasti avviene in stretta concomitanza con la genesi di nuovi vasi sanguigni che possono assicurare una elevata pressione parziale di ossigeno nelle sedi in cui avviene la formazione di tessuto osseo. Per questo si prescrive la ossigenoterapia iperbarica nei ritardi di consolidamento delle fratture e nell’osteoporosi grave.
- Il paratormone (PTH), prodotto dalle paratiroidi, promuove la differenziazione e la proliferazione degli osteoblasti; stimola inoltre il riassorbimento dello ione calcio a livello renale contribuendo all’effetto ipercalcemizzante. Attraverso gli OAF (Osteoclast Activating Factors) osteoblastici stimola anche l’attivazione degli osteoclasti per promuovere l’innalzamento della calcemia;
- La calcitonina, prodotta dalle cellule C, o parafollicolari, della tiroide, ha una azione ipocalcemizzante poiché agisce sugli osteoclasti inibendone la funzione;
- L’ormone della crescita (Growth Hormone o GH), prodotto dall’ipofisi, agisce sul fegato inducendo la produzione di somatomedine le quali stimolano la crescita e il metabolismo della cartilagine proliferante, promuovendo l’accrescimento osseo nel periodo dello sviluppo corporeo. Questo ormone ha una azione ipercalcemizzante poiché stimola il riassorbimento di calcio a livello renale;
- Gli ormoni tiroidei (T3 e T4), prodotti dalle cellule follicolari della tiroide, promuovono il metabolismo cellulare e pertanto giocano un ruolo importante per stimolare la maturazione dell’osso. Hanno un effetto ipocalcemizzante;
- Gli ormoni sessuali (estrogeni, testosterone) prodotti dalle gonadi al momento della pubertà svolgono una funzione di attivazione sugli osteoblasti come pure sugli osteoclasti; al termine dell’accrescimento esercitano un’azione inibitoria sulla crescita dei condrociti della cartilagine proliferante, promuovendo la saldatura delle epifisi e l’arresto dell’accrescimento scheletrico. Nell’adulto controllano a livello renale l’enzima che attiva la vitamina D.
Fattori vitaminici
- La vitamina D è una vitamina liposolubile che viene in parte assunta con la dieta (D2) e in parte sintetizzata per via endogena con l’ausilio dei raggi ultravioletti. Essa promuove la differenziazione degli osteoblasti in osteociti e ha una azione ipercalcemizzante perché a livello intestinale stimola l’assorbimento di calcio e a livello renale ne inibisce la escrezione.
- La vitamina C, idrosolubile, è un coenzima per la sintesi del collagene, precursore del tessuto osseo.
- La vitamina A, liposolubile, è capace di sviluppare la differenziazione degli osteoblasti in osteociti.
Fattori metabolici
L’ossigeno molecolare è indispensabile come fattore di stimolo sulle cellule ossee infatti, in ogni tipo di ossificazione, la differenziazione delle cellule progenitrici in osteoblasti avviene in stretta concomitanza con la genesi di nuovi vasi sanguigni che possono assicurare una elevata pressione parziale di ossigeno nelle sedi in cui avviene la formazione di tessuto osseo. Per questo si prescrive la ossigenoterapia iperbarica nei ritardi di consolidamento delle fratture e nell’osteoporosi grave.
Tab.2
Ricerche fatte dalla NASA hanno portato all’attenzione in modo nuovo il problema della degenerazione ossea: giovani astronauti, ritenuti degli autentici modelli di benessere psicofisico, dopo aver trascorso un lungo periodo di tempo in assenza di gravità, presentano delle gravi lesioni osteoporotiche. Quegli stessi astronauti recuperano la normale densità del tessuto osseo una volta ritornati dallo spazio, ma soltanto se la permanenza non è stata tale da provocare delle lesioni irreversibili (entro quattro mesi di assenza di gravità i danni sono reversibili). Quindi l’organismo è in grado di rispondere alla ritrovata gravità ambientale attivando dei movimenti che producono delle stimolazioni ritmiche e questo conferma che il deterioramento del tessuto osseo non è una questione collegata all’età, come la nostra “cultura” vorrebbe darci a intendere, quanto piuttosto una reazione dell’organismo alle condizioni ambientali.
Le ossa hanno bisogno di ricevere un segnale vitale in base al quale il rafforzamento si rende necessario: se il cervello non riceve questo messaggio, la funzione si deteriora e le ossa si indeboliscono. Quando il movimento è dinamico ed elastico (corriamo, saltiamo, ci arrampichiamo, portiamo dei pesi) il cervello sente ciò di cui hanno bisogno le ossa per esercitare la loro funzione; al contrario, quando i movimenti sono parziali, molto lenti o limitati, il nostro organismo non riceve questo segnale e, anche se nel sangue c’è tutto il calcio necessario, comunque non andrà nelle ossa che cominceranno a perdere di densità.
Insomma, ogni volta che non diamo una sollecitazione adeguata all’apparato scheletrico, oppure quando vizi posturali bloccano l’interezza di un movimento armonico, il tessuto osseo inizia a degenerare inibendo ulteriormente il movimento e innescando così un circolo vizioso patologico e, oltre un certo limite, anche irreversibile.
Il linguaggio a cui le ossa rispondono è la pressione ritmica che, se effettuata con progressione bene organizzata e vivace (stimolo necessario affinché si attivi il processo biochimico dell’assorbimento del calcio), diventa la chiave organica per un rinforzo osseo costante nel tempo che rigenera il tessuto e ostacola i processi di osteoporosi e di demineralizzazione. L’aspetto meccanico di una deambulazione coordinata, armoniosa, ritmica e con uno scheletro ben allineato, è capace di stimolare una pressione efficace che verrà percepita dall’organismo come un segnale per rinforzare le ossa e anche gli altri tessuti (“Tutto ciò che non utilizziamo viene perduto”, dice Ruthy Alon nei suoi corsi Ossa per la vita), mentre una attività motoria priva di energia sarà interpretata dal cervello come una minore esigenza a muoversi e a rinforzarsi. Il fatto che qualsiasi stimolazione scarsa diventi dinamicamente inefficace come stimolo da inviare al cervello per il mantenimento della funzione, è alla base di un concetto fondamentale per la sopravvivenza dell’uomo immerso in un ambiente che di volta in volta lo sollecita in modo differente: è sempre la funzione a determinare la struttura.
Ruthy Alon pone al centro del suo metodo Bones for life, derivato dagli approfondimenti del metodo Feldenkrais, l’utilizzo della pressione ritmica per la ricostruzione delle condizioni funzionali in grado di stimolare la ricrescita del tessuto osseo anche dopo che ci sia stato un impoverimento. Con il coordinamento respiratorio, questo metodo determina un riallineamento posturale e un rinforzo del tessuto osseo facilmente riscontrabile anche con radiografie e mineralometrie, senza tenere conto dello stimolo a ricercare uno stile personale che aiuterà a ridurre gli sforzi inutili e i loro effetti negativi sul piano psicocorporeo.
La pressione che viene richiesta per stimolare il rinforzo osseo è simile a quella che si determina durante una energica camminata: infatti quando la pressione è troppo forte (come negli atleti) oppure troppo leggera o addirittura assente (come negli astronauti) si avvia il processo di osteoporosi e di demineralizzazione che rende più fragile l’impalcatura ossea. Occorre trovare la pressione giusta per fare in modo che il tessuto osseo continui a percepire lo stimolo adeguato (né troppo forte né troppo debole) a favorirne il funzionamento ottimale: la pressione giusta è pari al 20% della pressione massima che può essere esercitata in un punto.
La pressione deve essere data con delle caratteristiche tali che l’organismo capisca la necessità del rafforzamento: l’elasticità e il ritmo della pressione, all’interno dei movimenti che sono naturali, costituiscono delle configurazioni che il nostro cervello è in grado di capire. Dobbiamo inoltre prendere il concetto di una pressione continua e non di una pressione che si focalizza: la pressione viaggia attraverso l’intera colonna vertebrale, scorrendo da una polarità all’altra, o lungo una linea retta, creando una relazione tra le varie parti del corpo. Occorre imparare, pertanto, a collegare tutto il corpo in funzione della spinta, in modo da andare dalla funzione all’organo e dall’organo alla funzione.
In sintesi, per aver una migliore qualità del movimento è importante l’organizzazione sia della postura che della coordinazione. Attraverso una postura bene organizzata si verranno a creare le condizioni necessarie per far viaggiare correttamente la spinta di pressione attraverso le ossa in modo da rinforzare l’intera struttura.
È possibile, così, risvegliare delle parti del corpo (come le mani e i polsi) che, per motivi evolutivi, non sono più sollecitati. Spingere le mani contro una parete richiede all’articolazione del polso un compito che ha dimenticato: trasmettere la pressione in modo da mobilizzare le spalle, le scapole e tutte le vertebre della colonna. Non è semplice richiedere al polso di rientrare in questo compito, per cui è necessario, attraverso molti passaggi, abituare il polso alla percezione della pressione. Quando l’animale cammina a quattro zampe è il corpo stesso a creare ciò che è necessario per avere una armoniosa cooperazione fra le parti; nell’uomo l’acquisizione della verticalità ha spalancato le porte ad una grande varietà di capacità, ma ha fatto in modo che mani e braccia non servissero più per la deambulazione e quindi perdessero la percezione della pressione. Occorre una regressione filogenetica ed ontogenetica per riprendere il senso profondo di quel movimento naturale. Questo non vuol dire che dobbiamo vivere camminando a quattro zampe, o fare i nostri rifugi sugli alberi; vuol dire semplicemente non perdere la capacità di farlo e c’è differenza tra il fare una cosa e l’esserne capaci.
Quando abbiamo smesso di camminare con le mani, abbiamo anche smesso di creare quel tipo di onda che rende il collo più piatto. Occorre andare a riprendere quel movimento globale armonico che si esprime attraverso il movimento dell’onda, presente in un buon modo di camminare. Basta osservare l’eleganza di una donna africana quando cammina con il suo bambino sulla schiena, per capire come in quell’onda noi nasciamo e cresciamo. Spesso quella donna africana, camminando con grande grazia, oltre ad avere un bambino sulla schiena, porta un grande oggetto sulla testa e, spesso, è anche in dolce attesa! Ora, possiamo immaginare che, quando quel bambino verrà al mondo, avrà già avuto l’esperienza umana di essere nell’onda del buon camminare e, dopo la nascita, stando sulla schiena della madre per uno o due anni, potrà esplorare la vita in uno stato di sicurezza totale, sempre nel contesto dell’onda di un camminare efficiente.
Alla fine di un processo specificatamente ideato allo scopo di rafforzare le ossa, l’organismo da solo sceglierà la postura ideale dove la testa si appoggia semplicemente in cima alla colonna vertebrale ed il movimento fluisce con armonia e vitalità. Dopo questa esperienza qualsiasi movimento quotidiano continuerà ad operare al fine di rafforzare quella memoria e una pressione elastica scorrerà libera attraverso uno scheletro ben allineato, senza essere bloccato da barriere posturali e mentali.
Recuperare l’interezza della linea vertebrale che sostiene l’azione significa andare oltre al compromesso che fa accettare un’esistenza limitata. Vuol dire essere capaci di tornare indietro, forse alla nostra infanzia, là dove siamo rimasti bloccati nelle emozioni, nel corpo e nel pensiero. Vuol dire accettare di rimetterci in una condizione di inferiorità per reimparare, senza parole, come facevamo da bambini giocando instancabili e curiosi con la sensibilità dell’innocenza. Vuol dire accettare il disorientamento per cambiare, perché solo il disorientamento può consentire al sistema di rispondere in modo nuovo, senza le solite restrizioni dovute alle abitudini. Vuol dire non essere più piegati dal peso della storia personale, laddove i movimenti generati dal corpo diventano univoci e ripetitivi, come il pensiero che perde la sua capacità di esplorare.
Questo stretto rapporto tra fasi psicologiche e fasi di movimento è una enorme potenzialità evolutiva: infatti, ogni intervento sul corpo volto a reintegrare le caratteristiche di movimento mancanti comporta una analoga riorganizzazione sul piano psichico, allo stesso modo in cui una evoluzione psichica schiude le porte ad un nuovo modo di muoversi (Tab.3).
Le ossa hanno bisogno di ricevere un segnale vitale in base al quale il rafforzamento si rende necessario: se il cervello non riceve questo messaggio, la funzione si deteriora e le ossa si indeboliscono. Quando il movimento è dinamico ed elastico (corriamo, saltiamo, ci arrampichiamo, portiamo dei pesi) il cervello sente ciò di cui hanno bisogno le ossa per esercitare la loro funzione; al contrario, quando i movimenti sono parziali, molto lenti o limitati, il nostro organismo non riceve questo segnale e, anche se nel sangue c’è tutto il calcio necessario, comunque non andrà nelle ossa che cominceranno a perdere di densità.
Insomma, ogni volta che non diamo una sollecitazione adeguata all’apparato scheletrico, oppure quando vizi posturali bloccano l’interezza di un movimento armonico, il tessuto osseo inizia a degenerare inibendo ulteriormente il movimento e innescando così un circolo vizioso patologico e, oltre un certo limite, anche irreversibile.
Il linguaggio a cui le ossa rispondono è la pressione ritmica che, se effettuata con progressione bene organizzata e vivace (stimolo necessario affinché si attivi il processo biochimico dell’assorbimento del calcio), diventa la chiave organica per un rinforzo osseo costante nel tempo che rigenera il tessuto e ostacola i processi di osteoporosi e di demineralizzazione. L’aspetto meccanico di una deambulazione coordinata, armoniosa, ritmica e con uno scheletro ben allineato, è capace di stimolare una pressione efficace che verrà percepita dall’organismo come un segnale per rinforzare le ossa e anche gli altri tessuti (“Tutto ciò che non utilizziamo viene perduto”, dice Ruthy Alon nei suoi corsi Ossa per la vita), mentre una attività motoria priva di energia sarà interpretata dal cervello come una minore esigenza a muoversi e a rinforzarsi. Il fatto che qualsiasi stimolazione scarsa diventi dinamicamente inefficace come stimolo da inviare al cervello per il mantenimento della funzione, è alla base di un concetto fondamentale per la sopravvivenza dell’uomo immerso in un ambiente che di volta in volta lo sollecita in modo differente: è sempre la funzione a determinare la struttura.
Ruthy Alon pone al centro del suo metodo Bones for life, derivato dagli approfondimenti del metodo Feldenkrais, l’utilizzo della pressione ritmica per la ricostruzione delle condizioni funzionali in grado di stimolare la ricrescita del tessuto osseo anche dopo che ci sia stato un impoverimento. Con il coordinamento respiratorio, questo metodo determina un riallineamento posturale e un rinforzo del tessuto osseo facilmente riscontrabile anche con radiografie e mineralometrie, senza tenere conto dello stimolo a ricercare uno stile personale che aiuterà a ridurre gli sforzi inutili e i loro effetti negativi sul piano psicocorporeo.
La pressione che viene richiesta per stimolare il rinforzo osseo è simile a quella che si determina durante una energica camminata: infatti quando la pressione è troppo forte (come negli atleti) oppure troppo leggera o addirittura assente (come negli astronauti) si avvia il processo di osteoporosi e di demineralizzazione che rende più fragile l’impalcatura ossea. Occorre trovare la pressione giusta per fare in modo che il tessuto osseo continui a percepire lo stimolo adeguato (né troppo forte né troppo debole) a favorirne il funzionamento ottimale: la pressione giusta è pari al 20% della pressione massima che può essere esercitata in un punto.
La pressione deve essere data con delle caratteristiche tali che l’organismo capisca la necessità del rafforzamento: l’elasticità e il ritmo della pressione, all’interno dei movimenti che sono naturali, costituiscono delle configurazioni che il nostro cervello è in grado di capire. Dobbiamo inoltre prendere il concetto di una pressione continua e non di una pressione che si focalizza: la pressione viaggia attraverso l’intera colonna vertebrale, scorrendo da una polarità all’altra, o lungo una linea retta, creando una relazione tra le varie parti del corpo. Occorre imparare, pertanto, a collegare tutto il corpo in funzione della spinta, in modo da andare dalla funzione all’organo e dall’organo alla funzione.
In sintesi, per aver una migliore qualità del movimento è importante l’organizzazione sia della postura che della coordinazione. Attraverso una postura bene organizzata si verranno a creare le condizioni necessarie per far viaggiare correttamente la spinta di pressione attraverso le ossa in modo da rinforzare l’intera struttura.
È possibile, così, risvegliare delle parti del corpo (come le mani e i polsi) che, per motivi evolutivi, non sono più sollecitati. Spingere le mani contro una parete richiede all’articolazione del polso un compito che ha dimenticato: trasmettere la pressione in modo da mobilizzare le spalle, le scapole e tutte le vertebre della colonna. Non è semplice richiedere al polso di rientrare in questo compito, per cui è necessario, attraverso molti passaggi, abituare il polso alla percezione della pressione. Quando l’animale cammina a quattro zampe è il corpo stesso a creare ciò che è necessario per avere una armoniosa cooperazione fra le parti; nell’uomo l’acquisizione della verticalità ha spalancato le porte ad una grande varietà di capacità, ma ha fatto in modo che mani e braccia non servissero più per la deambulazione e quindi perdessero la percezione della pressione. Occorre una regressione filogenetica ed ontogenetica per riprendere il senso profondo di quel movimento naturale. Questo non vuol dire che dobbiamo vivere camminando a quattro zampe, o fare i nostri rifugi sugli alberi; vuol dire semplicemente non perdere la capacità di farlo e c’è differenza tra il fare una cosa e l’esserne capaci.
Quando abbiamo smesso di camminare con le mani, abbiamo anche smesso di creare quel tipo di onda che rende il collo più piatto. Occorre andare a riprendere quel movimento globale armonico che si esprime attraverso il movimento dell’onda, presente in un buon modo di camminare. Basta osservare l’eleganza di una donna africana quando cammina con il suo bambino sulla schiena, per capire come in quell’onda noi nasciamo e cresciamo. Spesso quella donna africana, camminando con grande grazia, oltre ad avere un bambino sulla schiena, porta un grande oggetto sulla testa e, spesso, è anche in dolce attesa! Ora, possiamo immaginare che, quando quel bambino verrà al mondo, avrà già avuto l’esperienza umana di essere nell’onda del buon camminare e, dopo la nascita, stando sulla schiena della madre per uno o due anni, potrà esplorare la vita in uno stato di sicurezza totale, sempre nel contesto dell’onda di un camminare efficiente.
“... Poiché l’onda del movimento primordiale possa fluire liberamente, è indispensabile una chiara connessione reciproca tra bacino, colonna vertebrale, cosce, ginocchia e organizzazione delle caviglie, assetto della mandibola, comportamento delle costole, qualità dello sguardo...” (R. ALON, Guida pratica al metodo Feldenkrais, Red Edizioni, Como 1992).
Alla fine di un processo specificatamente ideato allo scopo di rafforzare le ossa, l’organismo da solo sceglierà la postura ideale dove la testa si appoggia semplicemente in cima alla colonna vertebrale ed il movimento fluisce con armonia e vitalità. Dopo questa esperienza qualsiasi movimento quotidiano continuerà ad operare al fine di rafforzare quella memoria e una pressione elastica scorrerà libera attraverso uno scheletro ben allineato, senza essere bloccato da barriere posturali e mentali.
“All’improvviso... guardava lungo la via con gli occhi bene aperti, eppure gli pareva di essere in sogno; un po’ più in là, sul lato destro, una figura uscì dalla casa di Castore e Polluce e, sopra i conci di lava che traversavano in quel punto la via di Mercurio, svelta e leggera avanzò Gradiva.
Non v’era dubbio che fosse proprio lei; benché il sole coi suoi raggi l’avvolgesse in una lieve trama d’oro, egli distinse nettamente il suo profilo, lo stesso riprodotto nel rilievo. Il capo lievemente chino, avvolto in un velo che le ricadeva sulla nuca, con la mano sinistra ella teneva leggermente sollevata la veste che fluiva in ampi drappeggi lasciando scoperta la caviglia, di modo che egli vide con chiarezza come nell’incedere il piede destro, rimasto indietro, seppure per un solo attimo si sollevasse sulle punte portando il calcagno in posizione quasi perpendicolare rispetto al terreno. In questo caso, tuttavia, l’immagine non aveva l’uniforme assenza di colore della pietra: la veste, visibilmente confezionata con un tessuto di eccezionale morbidezza, aveva perso il freddo aspetto marmoreo e ricadeva in una calda sfumatura tendente al giallo; mentre i capelli leggermente ondulati che spuntavano dal velo sulla fronte e sulle tempie erano di un lucido castano dorato che spiccava sulla carnagione alabastrina”. (W. JENSEN, Gradiva, SugarCo Ed., Milano 1990).
Non v’era dubbio che fosse proprio lei; benché il sole coi suoi raggi l’avvolgesse in una lieve trama d’oro, egli distinse nettamente il suo profilo, lo stesso riprodotto nel rilievo. Il capo lievemente chino, avvolto in un velo che le ricadeva sulla nuca, con la mano sinistra ella teneva leggermente sollevata la veste che fluiva in ampi drappeggi lasciando scoperta la caviglia, di modo che egli vide con chiarezza come nell’incedere il piede destro, rimasto indietro, seppure per un solo attimo si sollevasse sulle punte portando il calcagno in posizione quasi perpendicolare rispetto al terreno. In questo caso, tuttavia, l’immagine non aveva l’uniforme assenza di colore della pietra: la veste, visibilmente confezionata con un tessuto di eccezionale morbidezza, aveva perso il freddo aspetto marmoreo e ricadeva in una calda sfumatura tendente al giallo; mentre i capelli leggermente ondulati che spuntavano dal velo sulla fronte e sulle tempie erano di un lucido castano dorato che spiccava sulla carnagione alabastrina”. (W. JENSEN, Gradiva, SugarCo Ed., Milano 1990).
Recuperare l’interezza della linea vertebrale che sostiene l’azione significa andare oltre al compromesso che fa accettare un’esistenza limitata. Vuol dire essere capaci di tornare indietro, forse alla nostra infanzia, là dove siamo rimasti bloccati nelle emozioni, nel corpo e nel pensiero. Vuol dire accettare di rimetterci in una condizione di inferiorità per reimparare, senza parole, come facevamo da bambini giocando instancabili e curiosi con la sensibilità dell’innocenza. Vuol dire accettare il disorientamento per cambiare, perché solo il disorientamento può consentire al sistema di rispondere in modo nuovo, senza le solite restrizioni dovute alle abitudini. Vuol dire non essere più piegati dal peso della storia personale, laddove i movimenti generati dal corpo diventano univoci e ripetitivi, come il pensiero che perde la sua capacità di esplorare.
Questo stretto rapporto tra fasi psicologiche e fasi di movimento è una enorme potenzialità evolutiva: infatti, ogni intervento sul corpo volto a reintegrare le caratteristiche di movimento mancanti comporta una analoga riorganizzazione sul piano psichico, allo stesso modo in cui una evoluzione psichica schiude le porte ad un nuovo modo di muoversi (Tab.3).
FASI PSICOLOGICHE E ORGANIZZAZIONE DEI MOVIMENTI
Jader Tolja (medico e psicoterapeuta) identifica quattro fasi psicologiche che si riflettono nella organizzazione dei movimenti di un individuo.
1. La Fase della Appartenenza, caratterizzata dalla possibilità di abbandonarsi.
“Così come il neonato sa dare il suo peso, stare sdraiato, abbandonarsi tra le braccia della madre e farsi nutrire, diventando tutt’uno col corpo di chi lo sostiene, anche nell’adulto possiamo far risalire a una modalità di questa fase la capacità di abbandono, la grazia di chi sa sfruttare la gravità per farsi sostenere dalla terra, anche quando sta in piedi. (...) In termini di movimento la fase dell’appartenenza è caratterizzata da una peculiare libertà sul piano orizzontale, ovvero dei movimenti di rotazione, i primi presenti nel neonato, che gira la testa in cerca del seno”.
2. La Fase della Differenziazione, caratterizzata dalla possibilità di dire ‘no’.
“Corrisponde alla fase del movimento caratterizzata dallo spingere, ovvero dalla possibilità di differenziarsi dal piano d’appoggio. Nel bambino piccolo è evidente questo passaggio: basta toccargli il piedino perché subito cominci a spingere con tutta la gamba. È questa spinta a permettergli di cominciare a stare in piedi, di dire ‘no’ all’appoggio totale alla terra, di darsi una spinta che lo condurrà nella posizione verticale. (...) Si osserverà una maggiore libertà sul piano verticale, per esempio nelle flessioni laterali”.
3. La Fase della Affermazione, caratterizzata dalla movimentazione del desiderio.
“Coincide con ‘l’andare verso’ e con una maggiore libertà di movimento sul piano sagittale (ovvero sull’asse antero-posteriore), implicato nelle flessioni in avanti e indietro. L’epoca dell’affermazione corrisponde alla fase del movimento in cui il bambino comincia a raggiungere le cose che vuole, a cercarle con il movimento delle braccia e delle mani”.
4. La Fase della Scelta, caratterizzata dalla realizzazione del desiderio.
“Corrisponde alla fase in cui, una volta raggiunto ciò che interessa, lo si può anche prendere. (...) Rispetto al movimento si osserva una buona integrazione dei movimenti su tutti e tre i piani”.
1. La Fase della Appartenenza, caratterizzata dalla possibilità di abbandonarsi.
“Così come il neonato sa dare il suo peso, stare sdraiato, abbandonarsi tra le braccia della madre e farsi nutrire, diventando tutt’uno col corpo di chi lo sostiene, anche nell’adulto possiamo far risalire a una modalità di questa fase la capacità di abbandono, la grazia di chi sa sfruttare la gravità per farsi sostenere dalla terra, anche quando sta in piedi. (...) In termini di movimento la fase dell’appartenenza è caratterizzata da una peculiare libertà sul piano orizzontale, ovvero dei movimenti di rotazione, i primi presenti nel neonato, che gira la testa in cerca del seno”.
2. La Fase della Differenziazione, caratterizzata dalla possibilità di dire ‘no’.
“Corrisponde alla fase del movimento caratterizzata dallo spingere, ovvero dalla possibilità di differenziarsi dal piano d’appoggio. Nel bambino piccolo è evidente questo passaggio: basta toccargli il piedino perché subito cominci a spingere con tutta la gamba. È questa spinta a permettergli di cominciare a stare in piedi, di dire ‘no’ all’appoggio totale alla terra, di darsi una spinta che lo condurrà nella posizione verticale. (...) Si osserverà una maggiore libertà sul piano verticale, per esempio nelle flessioni laterali”.
3. La Fase della Affermazione, caratterizzata dalla movimentazione del desiderio.
“Coincide con ‘l’andare verso’ e con una maggiore libertà di movimento sul piano sagittale (ovvero sull’asse antero-posteriore), implicato nelle flessioni in avanti e indietro. L’epoca dell’affermazione corrisponde alla fase del movimento in cui il bambino comincia a raggiungere le cose che vuole, a cercarle con il movimento delle braccia e delle mani”.
4. La Fase della Scelta, caratterizzata dalla realizzazione del desiderio.
“Corrisponde alla fase in cui, una volta raggiunto ciò che interessa, lo si può anche prendere. (...) Rispetto al movimento si osserva una buona integrazione dei movimenti su tutti e tre i piani”.
Tab.3
Camminando, allora, il bacino sarà libero di oscillare in senso antero-posteriore con un avanzamento alternato sia sul piano orizzontale che su quello verticale, imprimendo tutti insieme armoniosamente un piacevole movimento a onda sull’intero corpo e a spirale sulla colonna vertebrale. Riprendere questi moti oscillatori permette di associare un’azione motoria con uno stato mentale recettivo, simile forse allo stato di trance degli sciamani. Soltanto allora non si resiste più alla forza di gravità e il corpo recupera, con il peso, la sua possibilità di sprofondare: sensazione magica che riporta la schiena ad un periodo precedente, quando ancora c’era la possibilità di affidarsi alle braccia dell’altro.
In fondo il modo in cui si affronta la gravità è legato alla capacità, o meno, di ricevere un amore incondizionato, allo stesso modo in cui un corpo è pronto a ricevere la propria voce e la voce dell’altro. Ogni vera comunicazione è di ordine vibratorio. La voce parlata, in particolare, mette in vibrazione la fascia corporea sede degli affetti che, come abbiamo già visto, comprende gabbia toracica, spalle, mascella e colonna dorsale. Quando la vibrazione sonora si blocca in una zona qualunque di questa fascia, si fisseranno delle tensioni muscolari che contribuiranno a scolpire la postura e a definire una tipologia psichica. Soltanto quando il suono e il respiro sono ancorati alla parte inferiore del corpo è possibile sciogliere la parte alta dell’immagine corporea: il suono diverrà allora sempre più “impresso” e meno ingannatore perché la vibrazione sonora farà entrare in risonanza la curva vertebrale e lo scheletro nella sua interezza. Il suono sarà in grado di descrivere una linea su cui il corpo costruirà il suo movimento facendo dell’uomo un cantore.
Vibrare è lanciare un suono e si lancia un suono non per parlare, allo stesso modo in cui il tiro con l’arco non viene esercitato solo per colpire il bersaglio, oppure il danzatore non danza soltanto per eseguire certi movimenti ritmici: tutto questo accade perché la coscienza si possa accordare in modo armonioso con l’inconscio. Ogni conoscenza tecnica va sempre superata, in qualsiasi campo, per fare in modo che tutto quanto è stato appreso si trasformi in un’arte che sgorga in modo novello direttamente dall’inconscio. È l’inconscio a modellare la forma attraverso la quale emerge il contenuto: la non azione, il lasciar fare, permette l’emergere naturale del soffio vocale che attraversa il sistema fonatorio e così facendo lascia vibrare la corda dell’arco.
Quella è potenza che esprime una possibilità del proprio essere: quando il movimento e il suono creano l’immagine, il camminare diventa un incedere e il parlare può divenire canto. Quanto siamo in grado di accettare questa possibilità dentro di noi, di accogliere questa immagine che esprime all’unisono potenza e leggerezza? Spesso mettiamo queste nostre possibilità fuori di noi, come se non ci appartenessero: applaudiamo gli acrobati che di questa possibilità ne fanno un’arte, per poi farli sparire nell’oscurità di un mondo che riteniamo così lontano dal nostro. È possibile, invece, per ognuno di noi, diventare acrobata nel gesto, nel suono e, conseguentemente, nell’immagine: è quando il movimento diventa organico, nella misura in cui attinge dal Sé per entrare in sintonia in modo creativo con il mondo circostante.
Il corpo viene modellato dal suono allo stesso modo in cui una costruzione architettonica viene plasmata, attraverso linee intersecate sul piano orizzontale, verticale e longitudinale, dall’immagine interna dell’architetto. L’evoluzione individuale delle architetture gestuali e sonore vanno in parallelo con la nascita dei villaggi rurali (espressione del movimento sul piano orizzontale che fa il neonato nell’esplorazione della madre), dei grattacieli (espressione del tentativo che fa il bambino di puntare i piedi a terra per avviare quella verticalità che sfida la forza di gravità), degli archi e delle costruzioni ellittiche (espressione del movimento umano verso l’oggetto del desiderio). Da qui si può partire per una evoluzione creativa ulteriore, dominata dall’investimento sessuale, espressione della capacità di un essere umano a rispondere al desiderio altrui. Ogni costruzione, sia essa psicocorporea o architettonica o quant’altro, non può prescindere dal rapporto con l’ambiente in cui l’individuo è immerso e il risultato dell’azione creativa deriverà dall’intersecazione di tutte queste linee di movimento, proprie e dell’altro. Il movimento diverrà allora organico, l’architettura potrà esprimersi in modo organico, il collettivo sarà un organismo. L’arte, la vera Arte, è sempre organica.
La creatività è tradizionalmente concepita in senso artistico, come dipingere, comporre una sinfonia, scrivere un libro o costruire un’opera architettonica. Esiste tuttavia una forma di creatività personale che non ha niente a che vedere con l’attività artistica in senso stretto. Si tratta dell’individuo che attraverso l’azione del suo Sé emergente, sempre frutto di una integrazione psicocorporea, riesce a creare una architettura di linee con il mondo esterno assolutamente originale, unico e creativo. Questa concezione è accettata facilmente, ma io intendo sostenere che per tutti esiste la possibilità di andare oltre, di diventare artisti della propria vita se soltanto si accetta la possibilità di rispondere al desiderio dell’altro attraverso la costruzione di nuove linee, sempre più complesse. Può essere il desiderio dell’altro a fare di noi degli artisti.
Il modo in cui riusciamo a recepire e ad accettare fino in fondo l’immagine dell’artista, attraverso un confronto continuo anche difficile, è l’unica via per scoprire e dare spazio all’artista che è in ognuno di noi. A questo proposito è importante chiedersi cosa rimane dentro di noi quando l’artista esce dalla scena... certamente la costruzione... ma quando l’artista non sta più lì al nostro cospetto, solo l’immagine che avremo fatto entrare dentro potrà dire se e quanto noi saremo stati in grado di riconoscerlo e di lasciarci fecondare.
Riconoscere l’artista attraverso la sua opera... diventare capaci di portare e di tenere quella passione nelle ossa che permette le mille acrobazie del volo della farfalla nella vita di ogni giorno... per ritrovare una voce che danza all’interno di un armonioso e potente gesto globale...
In fondo il modo in cui si affronta la gravità è legato alla capacità, o meno, di ricevere un amore incondizionato, allo stesso modo in cui un corpo è pronto a ricevere la propria voce e la voce dell’altro. Ogni vera comunicazione è di ordine vibratorio. La voce parlata, in particolare, mette in vibrazione la fascia corporea sede degli affetti che, come abbiamo già visto, comprende gabbia toracica, spalle, mascella e colonna dorsale. Quando la vibrazione sonora si blocca in una zona qualunque di questa fascia, si fisseranno delle tensioni muscolari che contribuiranno a scolpire la postura e a definire una tipologia psichica. Soltanto quando il suono e il respiro sono ancorati alla parte inferiore del corpo è possibile sciogliere la parte alta dell’immagine corporea: il suono diverrà allora sempre più “impresso” e meno ingannatore perché la vibrazione sonora farà entrare in risonanza la curva vertebrale e lo scheletro nella sua interezza. Il suono sarà in grado di descrivere una linea su cui il corpo costruirà il suo movimento facendo dell’uomo un cantore.
Vibrare è lanciare un suono e si lancia un suono non per parlare, allo stesso modo in cui il tiro con l’arco non viene esercitato solo per colpire il bersaglio, oppure il danzatore non danza soltanto per eseguire certi movimenti ritmici: tutto questo accade perché la coscienza si possa accordare in modo armonioso con l’inconscio. Ogni conoscenza tecnica va sempre superata, in qualsiasi campo, per fare in modo che tutto quanto è stato appreso si trasformi in un’arte che sgorga in modo novello direttamente dall’inconscio. È l’inconscio a modellare la forma attraverso la quale emerge il contenuto: la non azione, il lasciar fare, permette l’emergere naturale del soffio vocale che attraversa il sistema fonatorio e così facendo lascia vibrare la corda dell’arco.
“Una volta vidi la scultura di un antico faraone, era una scultura d’oro in cui il faraone è rappresentato su una barca in una scena di caccia: tiene con una mano una lunga lancia e la sua schiena dal tallone alla testa è un unico arco scorrevole. L’inarcamento di quella schiena esprime forza, ma allo stesso tempo una forza che scorre lungo una linea che non ha interruzioni” (Citazione di Ruthy Alon in uno dei seminari Bones for Life tenuti a Firenze nel 2001).
Quella è potenza che esprime una possibilità del proprio essere: quando il movimento e il suono creano l’immagine, il camminare diventa un incedere e il parlare può divenire canto. Quanto siamo in grado di accettare questa possibilità dentro di noi, di accogliere questa immagine che esprime all’unisono potenza e leggerezza? Spesso mettiamo queste nostre possibilità fuori di noi, come se non ci appartenessero: applaudiamo gli acrobati che di questa possibilità ne fanno un’arte, per poi farli sparire nell’oscurità di un mondo che riteniamo così lontano dal nostro. È possibile, invece, per ognuno di noi, diventare acrobata nel gesto, nel suono e, conseguentemente, nell’immagine: è quando il movimento diventa organico, nella misura in cui attinge dal Sé per entrare in sintonia in modo creativo con il mondo circostante.
Il corpo viene modellato dal suono allo stesso modo in cui una costruzione architettonica viene plasmata, attraverso linee intersecate sul piano orizzontale, verticale e longitudinale, dall’immagine interna dell’architetto. L’evoluzione individuale delle architetture gestuali e sonore vanno in parallelo con la nascita dei villaggi rurali (espressione del movimento sul piano orizzontale che fa il neonato nell’esplorazione della madre), dei grattacieli (espressione del tentativo che fa il bambino di puntare i piedi a terra per avviare quella verticalità che sfida la forza di gravità), degli archi e delle costruzioni ellittiche (espressione del movimento umano verso l’oggetto del desiderio). Da qui si può partire per una evoluzione creativa ulteriore, dominata dall’investimento sessuale, espressione della capacità di un essere umano a rispondere al desiderio altrui. Ogni costruzione, sia essa psicocorporea o architettonica o quant’altro, non può prescindere dal rapporto con l’ambiente in cui l’individuo è immerso e il risultato dell’azione creativa deriverà dall’intersecazione di tutte queste linee di movimento, proprie e dell’altro. Il movimento diverrà allora organico, l’architettura potrà esprimersi in modo organico, il collettivo sarà un organismo. L’arte, la vera Arte, è sempre organica.
La creatività è tradizionalmente concepita in senso artistico, come dipingere, comporre una sinfonia, scrivere un libro o costruire un’opera architettonica. Esiste tuttavia una forma di creatività personale che non ha niente a che vedere con l’attività artistica in senso stretto. Si tratta dell’individuo che attraverso l’azione del suo Sé emergente, sempre frutto di una integrazione psicocorporea, riesce a creare una architettura di linee con il mondo esterno assolutamente originale, unico e creativo. Questa concezione è accettata facilmente, ma io intendo sostenere che per tutti esiste la possibilità di andare oltre, di diventare artisti della propria vita se soltanto si accetta la possibilità di rispondere al desiderio dell’altro attraverso la costruzione di nuove linee, sempre più complesse. Può essere il desiderio dell’altro a fare di noi degli artisti.
Il modo in cui riusciamo a recepire e ad accettare fino in fondo l’immagine dell’artista, attraverso un confronto continuo anche difficile, è l’unica via per scoprire e dare spazio all’artista che è in ognuno di noi. A questo proposito è importante chiedersi cosa rimane dentro di noi quando l’artista esce dalla scena... certamente la costruzione... ma quando l’artista non sta più lì al nostro cospetto, solo l’immagine che avremo fatto entrare dentro potrà dire se e quanto noi saremo stati in grado di riconoscerlo e di lasciarci fecondare.
“Norbert (fu) sommerso da due ondate sovrapposte di emozione: l’una dovuta al fatto che Gradiva parlasse, e l’altra procuratagli dal suono della voce, chiara come lo sguardo degli occhi; smorzato e al tempo stesso vibrante come il rintocco di una campana, quel suono si librò nel silenzio assolato sopra i papaveri in fiore, ed egli seppe all’improvviso di averlo udito già, così, nella fantasia. ‘Sapevo che la tua voce sarebbe stata così’, disse con slancio.
Mentre diceva così era accaduto un fatto singolare. Dalla distesa di papaveri s’era levata una farfalla color oro con una lieve sfumatura rossa lungo il bordo interno delle ali; era volata verso le colonne, aveva volteggiato intorno al capo della Gradiva e le si era infine posata sui capelli, sopra la fronte. In quell’istante la donna si alzò, alta e snella, con gesto pacato e insieme risoluto, rivolse a Norbert Hanold un breve sguardo silenzioso con l’aria di considerarlo un folle e con l’incedere che le era proprio s’avviò lungo il colonnato dell’antico portico. Rimase visibile per qualche istante, quindi fu come se il terreno l’avesse inghiottita” (W. JENSEN, Gradiva, SugarCo Ed., Milano 1990).
Mentre diceva così era accaduto un fatto singolare. Dalla distesa di papaveri s’era levata una farfalla color oro con una lieve sfumatura rossa lungo il bordo interno delle ali; era volata verso le colonne, aveva volteggiato intorno al capo della Gradiva e le si era infine posata sui capelli, sopra la fronte. In quell’istante la donna si alzò, alta e snella, con gesto pacato e insieme risoluto, rivolse a Norbert Hanold un breve sguardo silenzioso con l’aria di considerarlo un folle e con l’incedere che le era proprio s’avviò lungo il colonnato dell’antico portico. Rimase visibile per qualche istante, quindi fu come se il terreno l’avesse inghiottita” (W. JENSEN, Gradiva, SugarCo Ed., Milano 1990).
Riconoscere l’artista attraverso la sua opera... diventare capaci di portare e di tenere quella passione nelle ossa che permette le mille acrobazie del volo della farfalla nella vita di ogni giorno... per ritrovare una voce che danza all’interno di un armonioso e potente gesto globale...
BIBLIOGRAFIA
R. ALON, Guida pratica al metodo Feldenkrais, Red Ed., Como 1992.
L. BERTELÉ, Il tuo corpo ti parla, Baldini & Castoldi, Milano 1995.
F. DOLTO, L’immagine inconscia del corpo, Bompiani Ed., 1998
M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane, Roma 2000.
M. FELDENKRAIS, La base del metodo per la consapevolezza dei processi motori, Astrolabio Ed., 1999.
M. FELDENKRAIS, Il metodo Feledenkrais. Conoscere sé stessi attraverso il movimento, Red Ed., Novara 2003.
J. LE BOULCH, Verso la scienza del movimento umano, Armando Ed., Roma 1978.
W. JENSEN, La casa gotica e Gradiva, SugarCo Ed., Milano 1990.
V. ONORATO, Ossa, Alfa Omega Ed., Roma 2000.
J. TOLIA F. SPEZIANI, Pensare col corpo, Zelig Editore, Milano 2003.
A. TOMATIS, L’orecchio e la voce, Baldini & Castoldi, Milano 2000.
A. TOMATIS, Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red Ed., Como 2001.
A. TOMATIS, Ascoltare l’universo, Baldini & Castoldi, 1998.
S. WILFART, Il canto dell’essere, Servitium Editrice, Bergamo 2000.
Il presente lavoro è nato molti anni fa (nel 2003) dalle prime esperienze dei corsi Bones for Life fatti con Ruthy Alon e dai corsi di integrazione psicocorporea (“Lo scheletro come strumento di armonia”) tenuti dall’autrice. La prima versione è stata pubblicata nella sezione “La Passione nelle Ossa” su L’ArcoAcrobata, Rivista di Scienze Umane ed Arte, Anno II, n. 3, Associazione Musicalificio Grande Blu Ed., Roma 2003.
R. ALON, Guida pratica al metodo Feldenkrais, Red Ed., Como 1992.
L. BERTELÉ, Il tuo corpo ti parla, Baldini & Castoldi, Milano 1995.
F. DOLTO, L’immagine inconscia del corpo, Bompiani Ed., 1998
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A. TOMATIS, L’orecchio e la voce, Baldini & Castoldi, Milano 2000.
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A. TOMATIS, Ascoltare l’universo, Baldini & Castoldi, 1998.
S. WILFART, Il canto dell’essere, Servitium Editrice, Bergamo 2000.
Il presente lavoro è nato molti anni fa (nel 2003) dalle prime esperienze dei corsi Bones for Life fatti con Ruthy Alon e dai corsi di integrazione psicocorporea (“Lo scheletro come strumento di armonia”) tenuti dall’autrice. La prima versione è stata pubblicata nella sezione “La Passione nelle Ossa” su L’ArcoAcrobata, Rivista di Scienze Umane ed Arte, Anno II, n. 3, Associazione Musicalificio Grande Blu Ed., Roma 2003.
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“ALL’INIZIO FU IL SUONO”. Alfred Tomatis e la nascita dell’AudioPsicoFonologia di Concetta Turchi. Anno 2013
FORMARE I RAGAZZI ALL’ASCOLTO di Concetta Turchi. Anno 2013
“ALL’INIZIO FU IL SUONO”
Alfred Tomatis e la nascita dell’AudioPsicoFonologia
Alfred Tomatis e la nascita dell’AudioPsicoFonologia
Concetta Turchi
“L’uomo diventa l’umano quando offre il suo corpo al linguaggio
che vuole penetrarlo per modellarlo sul proprio dire
e scolpirlo neuronicamente”.
(Alfred Tomatis)
che vuole penetrarlo per modellarlo sul proprio dire
e scolpirlo neuronicamente”.
(Alfred Tomatis)
Sentii parlare per la prima volta di Alfred Tomatis nell’autunno del 1990, da un musicista che qualche tempo dopo avrei sposato. In una serata piovosa mi raccontò dell’esistenza di un medico che a Parigi lavorava cambiando i connotati sonori della voce a partire dal recupero della funzione dell’ascolto.
Questa cosa mi colpì molto perché da qualche tempo andavo pensando che quello che funzionava nel mio lavoro di psicoterapeuta, al di là delle cose precise e sensate che potevo dire, era il modo in cui dicevo le suddette cose. Forse che la voce era in grado di esprimere più di quanto io stessa pensassi? A dire il vero da qualche parte io ne ero certa, ma un medico su questo aveva costruito addirittura un metodo.
Quel nome e quel metodo furono sovrastati dalla passione dei baci di commiato per la mia solita partenza notturna per Massa Marittima dove avevo da poco cominciato a lavorare come psichiatra. Durante quelle due ore e mezzo di viaggio in macchina, mentre guidavo sotto la pioggia battente, tra i languori della separazione che sempre arrivano quando una passione è giovane, mi tornavano alla rinfusa le parole: ascolto, terapia, Tomatis, Parigi, musica... E mi veniva da trovare il nesso con la novella esperienza di cura-formazione-ricerca che andavo facendo con Massimo Fagioli e la sua Analisi Collettiva.
Quando quello stesso musicista, divenuto mio compagno, andò al Centro Tomatis di Parigi in Rue de Courselles per tentare di recuperare quel crampo professionale che aveva bloccato la sua carriera, fui contenta nel sentire come il “Professore dell’Ascolto” lo avesse invitato a non arrendersi: “Non c’è più tempo da perdere, lei deve cominciare subito gli ascolti”. E lui aveva deciso di rimanere. In quei primi quindici giorni di rieducazione all’ascolto arrivavano telefonate piene di emozioni e di percezioni in movimento: lui era felice… e io con lui. Mi parlava della musica di Mozart, di quei suoni strani - quasi deformati - che arrivavano in cuffia, di come si sentiva allegro e vitale. Aveva preso a disegnare durante le sedute di ascolto e tra i tanti disegni mi è rimasto nel cuore quello che lui aveva chiamato “La partenza di don Chisciotte”. Tornò carico di sguardi filanti di colore, di sorrisi liquidi... e di libri, tanti libri. Periodicamente ripartiva per completare la sua rieducazione e ogni volta tornava con il suo carico di buonumore.
Il Professore gli aveva parlato anche della Formazione e dei Corsi AudioVocali. “Lo devi fare pure tu questo percorso”, mi esortava. Sapevo che questo sarebbe accaduto, ma per il momento mi limitavo a raccogliere le sensazioni nel mentre mi abbeveravo alla fonte meravigliosa dei suoi libri.
Questa cosa mi colpì molto perché da qualche tempo andavo pensando che quello che funzionava nel mio lavoro di psicoterapeuta, al di là delle cose precise e sensate che potevo dire, era il modo in cui dicevo le suddette cose. Forse che la voce era in grado di esprimere più di quanto io stessa pensassi? A dire il vero da qualche parte io ne ero certa, ma un medico su questo aveva costruito addirittura un metodo.
Quel nome e quel metodo furono sovrastati dalla passione dei baci di commiato per la mia solita partenza notturna per Massa Marittima dove avevo da poco cominciato a lavorare come psichiatra. Durante quelle due ore e mezzo di viaggio in macchina, mentre guidavo sotto la pioggia battente, tra i languori della separazione che sempre arrivano quando una passione è giovane, mi tornavano alla rinfusa le parole: ascolto, terapia, Tomatis, Parigi, musica... E mi veniva da trovare il nesso con la novella esperienza di cura-formazione-ricerca che andavo facendo con Massimo Fagioli e la sua Analisi Collettiva.
Quando quello stesso musicista, divenuto mio compagno, andò al Centro Tomatis di Parigi in Rue de Courselles per tentare di recuperare quel crampo professionale che aveva bloccato la sua carriera, fui contenta nel sentire come il “Professore dell’Ascolto” lo avesse invitato a non arrendersi: “Non c’è più tempo da perdere, lei deve cominciare subito gli ascolti”. E lui aveva deciso di rimanere. In quei primi quindici giorni di rieducazione all’ascolto arrivavano telefonate piene di emozioni e di percezioni in movimento: lui era felice… e io con lui. Mi parlava della musica di Mozart, di quei suoni strani - quasi deformati - che arrivavano in cuffia, di come si sentiva allegro e vitale. Aveva preso a disegnare durante le sedute di ascolto e tra i tanti disegni mi è rimasto nel cuore quello che lui aveva chiamato “La partenza di don Chisciotte”. Tornò carico di sguardi filanti di colore, di sorrisi liquidi... e di libri, tanti libri. Periodicamente ripartiva per completare la sua rieducazione e ogni volta tornava con il suo carico di buonumore.
Il Professore gli aveva parlato anche della Formazione e dei Corsi AudioVocali. “Lo devi fare pure tu questo percorso”, mi esortava. Sapevo che questo sarebbe accaduto, ma per il momento mi limitavo a raccogliere le sensazioni nel mentre mi abbeveravo alla fonte meravigliosa dei suoi libri.
La partenza di don Chisciotte di Marco Mortillaro
Scoprivo così che, studiando lo stretto rapporto esistente tra voce, ascolto ed evoluzione psicologica, il metodo Tomatis si proponeva di far recuperare quel desiderio di ascoltare alla base di quella cosa misteriosa e piena di fascino che si chiama comunicazione umana. Leggendo la sua autobiografia conoscevo sempre meglio la sua storia personale e cosa lo aveva portato a quella inusitata ricerca: alla nascita era stato dato per morto e solo l’attenzione e la caparbietà della nonna paterna lo avevano riportato a quel primo respiro che sancisce l’ingresso ufficiale nella vita. Quella stessa caparbietà che aveva trovato dentro di sé negli anni successivi quando, di fronte ad una sentenza di morte per problemi cardiaci legati alla sua obesità, aveva trovato dentro di sé ancora una volta quel legame profondo con la vita che lo aveva riportato all’amore per la ricerca. Sostenuto da un ambiente familiare “canoro” (il padre era un cantante lirico di buon livello), una volta divenuto medico era stato facile trovare nella otorinolaringoiatria la sua strada, non fosse altro per i tanti cantanti, amici di famiglia, che si disperavano per la perdita della voce che ad un certo punto della loro carriera sovente li colpiva. Fu così che, negli anni ’50 del secolo appena trascorso, Tomatis mise insieme tutte le sue osservazioni, sia quelle fatte sulle sordità professionali degli aviatori che quelle sui disturbi della emissione vocale nei cantanti, e trovò nelle evidenze sperimentali quella ardita relazione tra voce e ascolto precedentemente intuita, fino ad arrivare - come si conviene - a dare il nome a quel neonato: AudioPsicoFonologia. Alla originaria componente audiovocale si era aggiunta col tempo quella psicologica, perché l’osservazione clinica aveva messo in evidenza come l’evoluzione dell’ascolto fosse fondamentale per lo sviluppo psicologico (oltre che corporeo) del bambino. La relazione tra l’orecchio e la voce, infatti, coincideva con quella tra l’ascolto e la comunicazione, davvero centrale nella questione della espressività umana.
Aveva inventato un apparecchio, che la stampa dell’epoca aveva chiamato “Orecchio Elettronico”, in cui con una serie di filtri idraulici era possibile simulare l’ascolto intrauterino della voce umana, con l’idea di riparare un eventuale danno vocale: quando fu presentato ufficialmente alla Fiera Mondiale di Bruxelles nel 1958, gli valse la Medaglia d’Oro per la Ricerca Scientifica. Tra mille sberleffi ed espressioni di sufficienza da parte dei luminari della Medicina del suo tempo, che proprio non ce la facevano ad accedere ad un concetto integrato della Medicina e forse della stessa natura umana, Tomatis arrivò ad enunciare le cinque leggi fondamentali dell’AudioPsicoFonologia e, colmo dei colmi, di nuovo ebbe l’ardire di depositare tali leggi all’Accademia delle Scienze e all’Accademia di Medicina di Parigi, rispettivamente nel 1957 e nel 1960 (Fig.1).
LE LEGGI FONDAMENTALI DELL’AUDIOPSICOFONOLOGIA
1. La voce emessa da una persona contiene solo quelle frequenze che il suo orecchio è in grado di ascoltare;
2. Se si interviene correggendo le frequenze alterate migliora istantaneamente l’emissione vocale;
3. È possibile trasformare la fonazione attraverso una stimolazione uditiva e mantenerla stabile nel tempo. La correzione delle frequenze alterate può avvenire attraverso una stimolazione specifica data da un Orecchio Elettronico (legge di rimanenza);
4. L’orecchio destro e quello sinistro non sono identici: solo l’orecchio destro è direttivo (lateralità) e svolge una azione di controllo dei vari parametri del linguaggio (intensità, timbro, intonazione, inflessione, semantica).
5. Il corollario della quarta legge è che un individuo non necessariamente è in grado di riprodurre tutti i suoni che sente e questo dipende dalla selettività, cioè dalla capacità di analizzare i suoni e differenziarli.
Fig. 1
Da queste leggi emergeva in modo sempre più chiaro che l’orecchio non è fatto solo per udire, cioè per ricevere passivamente i suoni, ma che esiste una intenzionalità, cosciente e volontaria, che si esprime attraverso l’acquisizione di una postura: grazie ad essa si attiva “la messa in ascolto” che dirige l’orecchio proprio là dove vogliamo portarlo. Cominciava a farsi strada l’idea che si ode con l’apparato uditivo, ma si ascolta grazie alla partecipazione di tutto il corpo: quindi mentre l’udito è un fenomeno passivo con una funzione fondamentalmente difensiva, l’ascolto è atto recettivo - e pertanto attivo - in cui tutto il corpo si fa orecchio, diventando una antenna ricettrice che vibra all’unisono con la fonte del suono.
Scoprivo così che per Tomatis l’orecchio ha tre funzioni principali: energetica, uditiva e di equilibrio. La funzione complessa dell’ascolto nasce progressivamente dalla loro integrazione e implica, come dicevo, l’intenzione di accogliere il mondo circostante acquisendo quella postura che consente di entrare in risonanza con il mondo sonoro in cui siamo immersi. L’aspetto recettivo dell’ascolto consente quindi di cogliere e rispondere a ciò che realmente l’altro sta comunicando, non solo riferendosi alle parole, ma al senso che il suono della voce veicola attraverso le sue frequenze. Quanta consapevolezza c’è sul dato di fatto che la nostra voce comunica a prescindere dalla nostra volontà e dai nostri propositi razionali?
Mi interessava in modo particolare quella centralità dell’orecchio che, nel suo compito di raccordo psicosomatico, svolge un ruolo di primo piano nella evoluzione del Sistema Nervoso fin dallo sviluppo embrionale. E immediatamente andavo a cercare le linee di quel piccolo organo sensoriale che si era trasformato in relazione alla evoluzione delle specie (figura accanto): dal primo abbozzo centralizzato dell’orecchio interno (la linea centrale, a contatto direttamente con l’esterno) dei pesci primordiali (il cui movimento sul piano orizzontale era la conseguenza di uno stimolo olfattivo che arrivava direttamente al cervello rudimentale) alla formazione della vescicola otolitica (chiusa) nei pesci più evoluti - e successivamente all’utricolo negli anfibi - dove le vie nervose vestibolari, connesse con il Sistema Nervoso Centrale, erano diventate fondamentali per dirigere l’olfatto in più direzioni nello spazio. Nei rettili, oltre alla produzione di sassolini calcarei disposti sui tre piani (orizzontale, frontale, verticale - proprio come i canali semicircolari dell’orecchio vestibolare umano), era comparsa ad un certo punto della evoluzione una nuova vescicola collegata con l’utricolo, il sacculo, che si era verticalizzata rispetto all’asse del corpo dando la possibilità di un maggiore movimento della testa. Solo con gli uccelli, però, la verticalizzazione del tratto cervicale della colonna si era stabilizzata, e con essa la comparsa di un più ampio movimento dell’asse collo-testa, grazie alla comparsa della laghena, primo abbozzo della coclea: di pari passo un nuovo integratore si era fatto strada nel Sistema Nervoso, collegato questa volta all’area sensoriale della vista (che da monoculare diveniva binoculare). Con l’Uomo si era giunti infine alla strutturazione definitiva della coclea e alla formazione dell’apparato di accomodazione da parte dell’orecchio medio (la catena degli ossicini con i due muscoli della staffa e del martello). In questa acquisizione di livelli sempre meno automatici, e quindi meno animali, l’integratore piramidale (ultima stazione cerebrale a comparire nella evoluzione) aveva trasformato l’atto motorio in atto volontario: sembrava proprio che tutto lo sviluppo filogenetico, passando di specie in specie, avesse permesso all’Uomo di arrivare alla scelta del programma di ascolto da adottare. La complessità attuale dell’orecchio interno, riflettevo, era quindi il punto di arrivo di un processo evolutivo che aveva condotto l’uomo alla stazione eretta e ad un linguaggio “liberato” dalle necessità biologiche di tipo animale.
La “maraviglia” è che quanto era avvenuto nei millenni come sviluppo filogenetico, lo si ritrovava nello sviluppo di ogni individuo: solo di recente strumenti molto sofisticati hanno potuto evidenziare, nel passaggio intrauterino dalla fase embrionale a quella fetale, la similitudine morfologica dell’embrione umano con i pesci prima e del feto con gli uccelli poi. Come a dire che nel riepilogo filogenetico c’è tutto il senso dell’ontogenesi: in nove mesi si sintetizza un percorso biologico durato millenni.
Imparavo che fin dal quarto mese e mezzo di vita intrauterina il feto è in grado di ascoltare i suoni che provengono dal mondo viscerale materno in cui è immerso, fatto di respiri, di battiti cardiaci, di borborigmi. Solo l’azione di filtraggio operata dal liquido amniotico permette di sopportare quei rumori così pieni di basse frequenze (circa 60 decibel di intensità), paragonabili ad un locale affollato abbastanza rumoroso: su questo rumore di fondo della vita, ovattato ma continuo e rassicurante, compariva ad un certo punto la voce della madre. Profondamente diversa dagli altri suoni in quanto ricca di tonalità acute, la voce materna arrivava al feto come elemento nuovo, discontinuo, che lo sapeva mettere in vibrazione in un modo diverso. Dopo il parto il neonato avrebbe riconosciuto quel suono tra mille altri. Come ho avuto modo di scrivere in tempi successivi, questo riconoscimento, prima maglia di raccordo tra una sensazione attuale e una passata, segnava il passaggio dalla sensazione alla percezione e, grazie alla memoria, alla prima possibilità di rappresentazione psichica. “Da quel momento la ricerca, sostenuta dall’ascolto, si struttura come desiderio di ritrovare e come capacità di riconoscere. E l’acquisizione della stazione eretta e del linguaggio non sono che momenti successivi di uno sviluppo volto alla ricerca e all’espressione dell’Umano”.
Per Tomatis quindi, nei nove mesi di gestazione, il feto metteva i primi mattoni della sensazione a partire dagli stimoli uditivi ricevuti filtrati dentro il corpo della madre, e dalla voce materna stessa. Il futuro sviluppo del nascituro sarebbe dipeso dagli accadimenti di questa fase della esistenza: la serenità o la difficoltà vissute in questo periodo avrebbero segnato la sua formazione psichica. La mia ricerca professionale si arricchiva di una chiave teorica che mi permetteva una volta di più di ascoltare e rifiutare gli atteggiamenti fideistici di colleghi e collaboratori. Anche io, come quel neonato, avevo affinato negli anni la mia capacità di riconoscere le similitudini...
Scoprivo così che per Tomatis l’orecchio ha tre funzioni principali: energetica, uditiva e di equilibrio. La funzione complessa dell’ascolto nasce progressivamente dalla loro integrazione e implica, come dicevo, l’intenzione di accogliere il mondo circostante acquisendo quella postura che consente di entrare in risonanza con il mondo sonoro in cui siamo immersi. L’aspetto recettivo dell’ascolto consente quindi di cogliere e rispondere a ciò che realmente l’altro sta comunicando, non solo riferendosi alle parole, ma al senso che il suono della voce veicola attraverso le sue frequenze. Quanta consapevolezza c’è sul dato di fatto che la nostra voce comunica a prescindere dalla nostra volontà e dai nostri propositi razionali?
Albero Primo di Marco Mortillaro
Mi ero messa in ascolto. Inizialmente mi limitai ad accompagnare il mio compagno ad un Corso AudioVocale di cinque giorni tenuto dal Professore. In quella occasione feci il mio primo Bilancio AudioPsicoFonologico, termine molto complesso per dire valutazione della funzione di ascolto. Mi dissero che ascoltavo bene, fin troppo: gli ascolti mi avrebbero potuto aiutare a dare sollievo al mio corpo che raccoglieva tutti i mali del mondo.
Sentivo i racconti a dir poco entusiastici del mio compagno, ma soprattutto avvertivo la sua insolita energia: si alzava alle 6.00 del mattino per cominciare il corso alle 7.00 - il Professore amava molto lavorare la mattina presto - e andava avanti praticamente senza interruzioni fino alle 5.00 del pomeriggio. Da parte mia, me ne andavo a zonzo per le vie di Parigi o in qualche museo. Era primavera e la città diventava particolarmente seducente con la sua luce e i suoi colori. Leggevo i libri di Tomatis che avevo portato con me e anche qualcuno nuovo che avevo comprato al Centro. E poi scrivevo.
La sera andavamo col mio compagno in qualche ristorantino romantico dove lo ascoltavo mentre mi raccontava di tutte quelle meravigliose scoperte che andava facendo ora che cominciava a lavorare attivamente con il corpo e con la voce. Si divertiva in modo particolare a raccontare degli aneddoti su quelle giornate: mi parlava del gentile pragmatismo del Professore con il quale rimetteva a posto chiunque tentasse, per un motivo o per l’altro, di fare svolazzare verso l’astrazione la sua teorizzazione e la sua prassi. Era particolarmente duro sia con quegli ecclesiastici che venivano a fare la formazione sollecitati probabilmente da una ricerca che poneva il Verbo come elemento centrale, sia con i tanti che provenivano dalle discipline orientali. A proposito di questi ultimi, mi raccontò quello che Tomatis aveva risposto ad un maestro Yoga che decantava gli effetti della Meditazione Trascendentale: “Raggiungere la capacità contemplativa per una o due ore al giorno è poca cosa rispetto alla possibilità di ampliare la capacità di ascolto a tal punto da essere pienamente presenti a sé stessi e agli altri 24 ore su 24”. Ridevamo della faccia perplessa e stralunata che si era stampata sulla faccia di quel Maestro.
“Che aspetti? Lo devi fare anche tu”, mi incalzava. “Tempo al tempo”, rispondevo ridendo sorniona nel mentre continuavo a mettere insieme i suoi racconti e la sua voce con quello che andavo leggendo.
Sentivo i racconti a dir poco entusiastici del mio compagno, ma soprattutto avvertivo la sua insolita energia: si alzava alle 6.00 del mattino per cominciare il corso alle 7.00 - il Professore amava molto lavorare la mattina presto - e andava avanti praticamente senza interruzioni fino alle 5.00 del pomeriggio. Da parte mia, me ne andavo a zonzo per le vie di Parigi o in qualche museo. Era primavera e la città diventava particolarmente seducente con la sua luce e i suoi colori. Leggevo i libri di Tomatis che avevo portato con me e anche qualcuno nuovo che avevo comprato al Centro. E poi scrivevo.
La sera andavamo col mio compagno in qualche ristorantino romantico dove lo ascoltavo mentre mi raccontava di tutte quelle meravigliose scoperte che andava facendo ora che cominciava a lavorare attivamente con il corpo e con la voce. Si divertiva in modo particolare a raccontare degli aneddoti su quelle giornate: mi parlava del gentile pragmatismo del Professore con il quale rimetteva a posto chiunque tentasse, per un motivo o per l’altro, di fare svolazzare verso l’astrazione la sua teorizzazione e la sua prassi. Era particolarmente duro sia con quegli ecclesiastici che venivano a fare la formazione sollecitati probabilmente da una ricerca che poneva il Verbo come elemento centrale, sia con i tanti che provenivano dalle discipline orientali. A proposito di questi ultimi, mi raccontò quello che Tomatis aveva risposto ad un maestro Yoga che decantava gli effetti della Meditazione Trascendentale: “Raggiungere la capacità contemplativa per una o due ore al giorno è poca cosa rispetto alla possibilità di ampliare la capacità di ascolto a tal punto da essere pienamente presenti a sé stessi e agli altri 24 ore su 24”. Ridevamo della faccia perplessa e stralunata che si era stampata sulla faccia di quel Maestro.
“Che aspetti? Lo devi fare anche tu”, mi incalzava. “Tempo al tempo”, rispondevo ridendo sorniona nel mentre continuavo a mettere insieme i suoi racconti e la sua voce con quello che andavo leggendo.
Mi interessava in modo particolare quella centralità dell’orecchio che, nel suo compito di raccordo psicosomatico, svolge un ruolo di primo piano nella evoluzione del Sistema Nervoso fin dallo sviluppo embrionale. E immediatamente andavo a cercare le linee di quel piccolo organo sensoriale che si era trasformato in relazione alla evoluzione delle specie (figura accanto): dal primo abbozzo centralizzato dell’orecchio interno (la linea centrale, a contatto direttamente con l’esterno) dei pesci primordiali (il cui movimento sul piano orizzontale era la conseguenza di uno stimolo olfattivo che arrivava direttamente al cervello rudimentale) alla formazione della vescicola otolitica (chiusa) nei pesci più evoluti - e successivamente all’utricolo negli anfibi - dove le vie nervose vestibolari, connesse con il Sistema Nervoso Centrale, erano diventate fondamentali per dirigere l’olfatto in più direzioni nello spazio. Nei rettili, oltre alla produzione di sassolini calcarei disposti sui tre piani (orizzontale, frontale, verticale - proprio come i canali semicircolari dell’orecchio vestibolare umano), era comparsa ad un certo punto della evoluzione una nuova vescicola collegata con l’utricolo, il sacculo, che si era verticalizzata rispetto all’asse del corpo dando la possibilità di un maggiore movimento della testa. Solo con gli uccelli, però, la verticalizzazione del tratto cervicale della colonna si era stabilizzata, e con essa la comparsa di un più ampio movimento dell’asse collo-testa, grazie alla comparsa della laghena, primo abbozzo della coclea: di pari passo un nuovo integratore si era fatto strada nel Sistema Nervoso, collegato questa volta all’area sensoriale della vista (che da monoculare diveniva binoculare). Con l’Uomo si era giunti infine alla strutturazione definitiva della coclea e alla formazione dell’apparato di accomodazione da parte dell’orecchio medio (la catena degli ossicini con i due muscoli della staffa e del martello). In questa acquisizione di livelli sempre meno automatici, e quindi meno animali, l’integratore piramidale (ultima stazione cerebrale a comparire nella evoluzione) aveva trasformato l’atto motorio in atto volontario: sembrava proprio che tutto lo sviluppo filogenetico, passando di specie in specie, avesse permesso all’Uomo di arrivare alla scelta del programma di ascolto da adottare. La complessità attuale dell’orecchio interno, riflettevo, era quindi il punto di arrivo di un processo evolutivo che aveva condotto l’uomo alla stazione eretta e ad un linguaggio “liberato” dalle necessità biologiche di tipo animale.
La “maraviglia” è che quanto era avvenuto nei millenni come sviluppo filogenetico, lo si ritrovava nello sviluppo di ogni individuo: solo di recente strumenti molto sofisticati hanno potuto evidenziare, nel passaggio intrauterino dalla fase embrionale a quella fetale, la similitudine morfologica dell’embrione umano con i pesci prima e del feto con gli uccelli poi. Come a dire che nel riepilogo filogenetico c’è tutto il senso dell’ontogenesi: in nove mesi si sintetizza un percorso biologico durato millenni.
Dulcinea e don Chisciotte cavalcano tra le stelle di Marco Mortillaro
E il tempo venne. Nell’estate del ’95 presi le ferie a luglio con l’idea di andare a Parigi a fare gli ascolti. Nell’Ospedale dove lavoravo, i “cari” colleghi avevano fatto di tutto per farmi prendere le ferie a luglio (e non ad agosto-settembre come facevo sempre) nella convinzione di mettermi i bastoni tra le ruote nel mio lavoro psicoterapeutico. Avevo fatto credere loro fino all’ultimo che quel periodo di ferie non mi andava bene e quando poi i “cari” avevano scoperto che le cose erano andate esattamente come io volevo (per fare gli ascolti a luglio, visto che il Centro Tomatis di Parigi ad agosto chiudeva), sputarono veleno da tutti i pori… ma era ormai decisamente troppo tardi. Andai da sola perché mio marito (nel frattempo quel musicista lo avevo sposato) doveva curare la regia di una trasmissione radiofonica e, a dire il vero, la cosa non mi dispiaceva affatto.
Rimasi a Parigi 20 giorni. La mattina andavo al Centro Tomatis e dopo girovagavo per la città a piedi. Durante gli ascolti disegnavo e dormivo: ricordo ancora l’onda che arrivò al cuore e agli occhi all’ascolto del primo canto gregoriano; la stessa provata qualche anno dopo all’ascolto del meraviglioso canto di un uomo, un barbone mezzo ubriaco, lungo il Ponte Carlo V a Praga. Il Parc Monceau, a pranzo, era una meta fissa: mangiavo la mia baghette mentre, a rotazione, leggevo un libro, o scrivevo, o semplicemente godevo del dolce far niente sotto i tiepidi raggi del sole estivo. Dopodiché girovagavo per la città a piedi: credo di non avere camminato mai così tanto in tutta la mia vita! Camminavo fino a sera per arrivare a Place de l’Italie e da lì era facile orientarmi per il rione Marée dove soggiornavo.
Giorno dopo giorno qualcosa camminava dentro di me - il suono direi oggi - che costruiva una nuova determinazione. Avevo lasciato l’Analisi Collettiva già da quasi un anno, da quando avevo sentito di essere stata chiamata dai pazienti ad assumere in prima persona la responsabilità della mia ricerca e ora mi capitava di comprendere il senso più profondo di quella scelta semplicemente mettendo in fila gli accadimenti dei mesi precedenti: quella estate sarei dovuta partire per Parigi insieme con un collega psichiatra di Grosseto, anche lui come me formatosi con Massimo Fagioli all’interno della Analisi Collettiva; lui, però, aveva deciso alla fine di andare a Cuba per seguire, attraverso le orme del “Che”, le vie del suo passato di uomo di sinistra. Ognuno ha la sua storia: benché si fosse attivato dopo i racconti su Tomatis e sulle implicazioni che quel pensiero poteva avere su una ricerca psicoterapeutica più ampia improntata sull’ascolto e non sulla vista, quello psichiatra si era dimostrato troppo preso dalla ideologia per soffermarsi sulle questioni del corpo. È strano come siano delle scelte apparentemente marginali (ad esempio come e dove passare le proprie vacanze) a sostanziare la divaricazione delle strade. Quel collega - la cui formazione psicoterapeutica avevo riconosciuto semplicemente sfogliando in una libreria un suo libro e leggendone qualche passo - che pure mi aveva sostenuto nella mia decisione di iniziare un gruppo terapeutico aperto (era il 1 Marzo 1995), ora si allontanava fin quasi a fuggire via.
Poco importa... sono le scelte a regalare l’identità e sicuramente io non avevo nulla a che fare con la storia fallimentare del ’68 che lui doveva andare a recuperare, anche a costo di negare quell’innamoramento iniziale. La mia storia era diversa e anche la mia ricerca stava trovando, senza che io la cercassi, la via della differenziazione.
Rimasi a Parigi 20 giorni. La mattina andavo al Centro Tomatis e dopo girovagavo per la città a piedi. Durante gli ascolti disegnavo e dormivo: ricordo ancora l’onda che arrivò al cuore e agli occhi all’ascolto del primo canto gregoriano; la stessa provata qualche anno dopo all’ascolto del meraviglioso canto di un uomo, un barbone mezzo ubriaco, lungo il Ponte Carlo V a Praga. Il Parc Monceau, a pranzo, era una meta fissa: mangiavo la mia baghette mentre, a rotazione, leggevo un libro, o scrivevo, o semplicemente godevo del dolce far niente sotto i tiepidi raggi del sole estivo. Dopodiché girovagavo per la città a piedi: credo di non avere camminato mai così tanto in tutta la mia vita! Camminavo fino a sera per arrivare a Place de l’Italie e da lì era facile orientarmi per il rione Marée dove soggiornavo.
Giorno dopo giorno qualcosa camminava dentro di me - il suono direi oggi - che costruiva una nuova determinazione. Avevo lasciato l’Analisi Collettiva già da quasi un anno, da quando avevo sentito di essere stata chiamata dai pazienti ad assumere in prima persona la responsabilità della mia ricerca e ora mi capitava di comprendere il senso più profondo di quella scelta semplicemente mettendo in fila gli accadimenti dei mesi precedenti: quella estate sarei dovuta partire per Parigi insieme con un collega psichiatra di Grosseto, anche lui come me formatosi con Massimo Fagioli all’interno della Analisi Collettiva; lui, però, aveva deciso alla fine di andare a Cuba per seguire, attraverso le orme del “Che”, le vie del suo passato di uomo di sinistra. Ognuno ha la sua storia: benché si fosse attivato dopo i racconti su Tomatis e sulle implicazioni che quel pensiero poteva avere su una ricerca psicoterapeutica più ampia improntata sull’ascolto e non sulla vista, quello psichiatra si era dimostrato troppo preso dalla ideologia per soffermarsi sulle questioni del corpo. È strano come siano delle scelte apparentemente marginali (ad esempio come e dove passare le proprie vacanze) a sostanziare la divaricazione delle strade. Quel collega - la cui formazione psicoterapeutica avevo riconosciuto semplicemente sfogliando in una libreria un suo libro e leggendone qualche passo - che pure mi aveva sostenuto nella mia decisione di iniziare un gruppo terapeutico aperto (era il 1 Marzo 1995), ora si allontanava fin quasi a fuggire via.
Poco importa... sono le scelte a regalare l’identità e sicuramente io non avevo nulla a che fare con la storia fallimentare del ’68 che lui doveva andare a recuperare, anche a costo di negare quell’innamoramento iniziale. La mia storia era diversa e anche la mia ricerca stava trovando, senza che io la cercassi, la via della differenziazione.
Imparavo che fin dal quarto mese e mezzo di vita intrauterina il feto è in grado di ascoltare i suoni che provengono dal mondo viscerale materno in cui è immerso, fatto di respiri, di battiti cardiaci, di borborigmi. Solo l’azione di filtraggio operata dal liquido amniotico permette di sopportare quei rumori così pieni di basse frequenze (circa 60 decibel di intensità), paragonabili ad un locale affollato abbastanza rumoroso: su questo rumore di fondo della vita, ovattato ma continuo e rassicurante, compariva ad un certo punto la voce della madre. Profondamente diversa dagli altri suoni in quanto ricca di tonalità acute, la voce materna arrivava al feto come elemento nuovo, discontinuo, che lo sapeva mettere in vibrazione in un modo diverso. Dopo il parto il neonato avrebbe riconosciuto quel suono tra mille altri. Come ho avuto modo di scrivere in tempi successivi, questo riconoscimento, prima maglia di raccordo tra una sensazione attuale e una passata, segnava il passaggio dalla sensazione alla percezione e, grazie alla memoria, alla prima possibilità di rappresentazione psichica. “Da quel momento la ricerca, sostenuta dall’ascolto, si struttura come desiderio di ritrovare e come capacità di riconoscere. E l’acquisizione della stazione eretta e del linguaggio non sono che momenti successivi di uno sviluppo volto alla ricerca e all’espressione dell’Umano”.
Per Tomatis quindi, nei nove mesi di gestazione, il feto metteva i primi mattoni della sensazione a partire dagli stimoli uditivi ricevuti filtrati dentro il corpo della madre, e dalla voce materna stessa. Il futuro sviluppo del nascituro sarebbe dipeso dagli accadimenti di questa fase della esistenza: la serenità o la difficoltà vissute in questo periodo avrebbero segnato la sua formazione psichica. La mia ricerca professionale si arricchiva di una chiave teorica che mi permetteva una volta di più di ascoltare e rifiutare gli atteggiamenti fideistici di colleghi e collaboratori. Anche io, come quel neonato, avevo affinato negli anni la mia capacità di riconoscere le similitudini...
Mi dissero che, dopo il primo ciclo di ascolti di quindici giorni, sarebbe stato sufficiente fare il Corso AudioVocale (CAV) con il Professore, e così feci. Dopo una estate tormentata dai colleghi dell’Ospedale i quali evidentemente coglievano qualcosa di nuovo che irrimediabilmente (per loro!) si era fatta strada in me, tornai a Parigi nel settembre di quello stesso anno a fare il CAV, oltre che il primo step formativo. Mi trovai in una classe davvero variegata per nazionalità, età e professioni.
Di tutti quei cinque giorni ricordo in modo indelebile di quando il Professore mi fece sedere su una capace scrivania davanti a tutti gli altri e, saputo che ero psichiatra, mi disse sorridendo: “Scorrerà del sangue, allora!”; poi mi costrinse ad un braccio di ferro fisico con lui. “Arriverai a cantare con i piedi”, disse e da quel corpo a corpo uscirono da me dei suoni incredibili, mai sentiti prima. Un altro momento speciale fu quando mi chiese di rimanere ancora un mese a studiare direttamente con lui a Parigi. Risposi che proprio non potevo, avevo la responsabilità di pazienti gravi che seguivo in Ospedale e poi c’era quel pargolo di appena sette mesi da seguire: il gruppo terapeutico. Lui mi sorrise gentilmente dicendo che capiva. Ne ero convinta. Gli dissi che sarei tornata l’anno successivo. Quella scelta, sebbene dolorosa, non l’ho mai rimpianta: ognuno ha la sua ricerca e i tempi vengono dettati da una strana e misteriosa mistura. Quello era per me il tempo della presenza e della resistenza per costruire le basi solide di una continuità terapeutica che viene prima di ogni altra cosa. In quel momento dovevo essere per i pazienti quel suono della voce umana riconoscibile in mezzo al rumore degli altri rapporti e sebbene la voce di Tomatis avesse sentenziato un riconoscimento reciproco, nella mia storia professionale sapevo di dovere attendere i tempi di costruzione di quella rete interna che permette di accettare una discontinuità senza mettere in atto gli annullamenti dell’abbandono: la mia ricerca era sulla cura della malattia mentale.
Tornai esattamente un anno dopo, insieme con mio marito, lui per completare la formazione e io per portarla avanti, ma le cose erano cambiate in modo drammatico sia per me che per Tomatis. Io mi ero licenziata dall’Ospedale di Massa Marittima per motivi etici, come ho avuto già modo di raccontare, e per quanto riguarda il Professore, quello sarebbe stato il suo ultimo CAV nel Centro Tomatis, quello storico in Rue de Courcelles. Dopo quell’anno vissuto pericolosamente, Alfred Tomatis veniva sostanzialmente cacciato da tutto ciò che aveva creato, dal suo laboratorio come dalla sua stessa casa; tutto quello che era stato edificato da lui rimaneva alla figlia maggiore, nata dal suo primo matrimonio, e nelle mani di qualche scaltro collaboratore più attento a spingere il versante commerciale dell’impresa edificata piuttosto che quello clinico. In quel settembre del ’96 fu proprio mio marito ad aiutare il Professore a portare le valigie fuori da quella casa-studio in cui aveva fatto crescere la sua ricerca sperimentale e clinica. C’era una strana atmosfera in quel Corso AudioVocale, un senso solenne di passaggio: in più di una occasione il Professore fece riferimento alla morte, ma continuò indefesso a lavorare con la stessa concentrazione di sempre (e anche gli stessi orari!!). Il Centro Tomatis si spaccò e tutti i collaboratori clinici del Professore furono licenziati in tronco; altri scelsero autonomamente di andarsene.
Da parte nostra, mio marito ed io, avevamo preso la decisione di rompere con Parigi e ci prodigammo con gli altri Centri italiani per far nascere una associazione italiana di AudioPsicoFonologia. Intanto il Professore aveva trovato ospitalità per la sua ricerca a Londra, ma qualcosa non ci convinceva in quella nuova avventura formativa che stava nascendo. Rimanemmo equidistanti e nel frattempo io completai la mia formazione a Parigi con Madame Altar, anche lei licenziata in tronco in quanto braccio destro del Professore: come ex Responsabile delle attività cliniche del Centro Tomatis, era proprio la persona che faceva al caso mio. Era dicembre: il freddo e le giornate molto corte erano mitigate dalla atmosfera natalizia e dal lavoro clinico intenso. Lei, nonostante gli abiti e gli atteggiamenti un po’ troppo classici e austeri per i miei gusti, era molto gentile e cordiale: tante volte in quei giorni passammo anche il tempo libero insieme accettando la scommessa che la voglia di ascoltare e di comunicare supera qualsiasi problema linguistico: io non parlavo il francese ma lo capivo abbastanza e per lei era la stessa cosa con l’italiano.
Superai brillantemente l’esame finale e aprimmo il nostro Laboratorio di AudioPsicoFonologia a Roma: finalmente dopo diversi anni riunificavo in uno stesso spazio l’attività psicoterapeutica individuale e di gruppo, insieme con la nascente attività audiopsicofonologica. Era il maggio del 1997 quando il Musicalificio Grande Blu venne alla luce e per una strana ironia del destino una delle prime persone che venne a fare gli ascolti fu proprio uno psichiatra dell’Analisi Collettiva. Il nome ci era venuto alla mente in tandem: l’idea giocosa del Musicalificio era nata da me mentre quella poetica del Grande Blu da Marco. Comunicammo al Professore, che nel frattempo aveva lasciato Londra per ritirarsi a Carcassonne, di questa nascita e lui molto carinamente ci spedì una copia del suo primo libro, “L’oreille et la vie”, con una dedica semplice ma efficace, proprio come era lui.
Cominciammo ad organizzare i primi CAV: vennero da Centri Tomatis di tutta Italia e furono tutti molto contenti di apprendere qualcosa di sostanzialmente nuovo per loro. Lavoravamo con grande entusiasmo e in quei primi anni ci richiesero diverse interviste e anche degli articoli sul metodo. Uno mi è particolarmente caro perché è una delle poche cose che ho scritto insieme con mio marito. Lo riporto qui di seguito anche per l’importanza che ha avuto nel definire in modo chiaro l’impostazione della mia ricerca, anche in ambito psicoterapeutico, a partire dal 2000.
Di tutti quei cinque giorni ricordo in modo indelebile di quando il Professore mi fece sedere su una capace scrivania davanti a tutti gli altri e, saputo che ero psichiatra, mi disse sorridendo: “Scorrerà del sangue, allora!”; poi mi costrinse ad un braccio di ferro fisico con lui. “Arriverai a cantare con i piedi”, disse e da quel corpo a corpo uscirono da me dei suoni incredibili, mai sentiti prima. Un altro momento speciale fu quando mi chiese di rimanere ancora un mese a studiare direttamente con lui a Parigi. Risposi che proprio non potevo, avevo la responsabilità di pazienti gravi che seguivo in Ospedale e poi c’era quel pargolo di appena sette mesi da seguire: il gruppo terapeutico. Lui mi sorrise gentilmente dicendo che capiva. Ne ero convinta. Gli dissi che sarei tornata l’anno successivo. Quella scelta, sebbene dolorosa, non l’ho mai rimpianta: ognuno ha la sua ricerca e i tempi vengono dettati da una strana e misteriosa mistura. Quello era per me il tempo della presenza e della resistenza per costruire le basi solide di una continuità terapeutica che viene prima di ogni altra cosa. In quel momento dovevo essere per i pazienti quel suono della voce umana riconoscibile in mezzo al rumore degli altri rapporti e sebbene la voce di Tomatis avesse sentenziato un riconoscimento reciproco, nella mia storia professionale sapevo di dovere attendere i tempi di costruzione di quella rete interna che permette di accettare una discontinuità senza mettere in atto gli annullamenti dell’abbandono: la mia ricerca era sulla cura della malattia mentale.
Tornai esattamente un anno dopo, insieme con mio marito, lui per completare la formazione e io per portarla avanti, ma le cose erano cambiate in modo drammatico sia per me che per Tomatis. Io mi ero licenziata dall’Ospedale di Massa Marittima per motivi etici, come ho avuto già modo di raccontare, e per quanto riguarda il Professore, quello sarebbe stato il suo ultimo CAV nel Centro Tomatis, quello storico in Rue de Courcelles. Dopo quell’anno vissuto pericolosamente, Alfred Tomatis veniva sostanzialmente cacciato da tutto ciò che aveva creato, dal suo laboratorio come dalla sua stessa casa; tutto quello che era stato edificato da lui rimaneva alla figlia maggiore, nata dal suo primo matrimonio, e nelle mani di qualche scaltro collaboratore più attento a spingere il versante commerciale dell’impresa edificata piuttosto che quello clinico. In quel settembre del ’96 fu proprio mio marito ad aiutare il Professore a portare le valigie fuori da quella casa-studio in cui aveva fatto crescere la sua ricerca sperimentale e clinica. C’era una strana atmosfera in quel Corso AudioVocale, un senso solenne di passaggio: in più di una occasione il Professore fece riferimento alla morte, ma continuò indefesso a lavorare con la stessa concentrazione di sempre (e anche gli stessi orari!!). Il Centro Tomatis si spaccò e tutti i collaboratori clinici del Professore furono licenziati in tronco; altri scelsero autonomamente di andarsene.
Da parte nostra, mio marito ed io, avevamo preso la decisione di rompere con Parigi e ci prodigammo con gli altri Centri italiani per far nascere una associazione italiana di AudioPsicoFonologia. Intanto il Professore aveva trovato ospitalità per la sua ricerca a Londra, ma qualcosa non ci convinceva in quella nuova avventura formativa che stava nascendo. Rimanemmo equidistanti e nel frattempo io completai la mia formazione a Parigi con Madame Altar, anche lei licenziata in tronco in quanto braccio destro del Professore: come ex Responsabile delle attività cliniche del Centro Tomatis, era proprio la persona che faceva al caso mio. Era dicembre: il freddo e le giornate molto corte erano mitigate dalla atmosfera natalizia e dal lavoro clinico intenso. Lei, nonostante gli abiti e gli atteggiamenti un po’ troppo classici e austeri per i miei gusti, era molto gentile e cordiale: tante volte in quei giorni passammo anche il tempo libero insieme accettando la scommessa che la voglia di ascoltare e di comunicare supera qualsiasi problema linguistico: io non parlavo il francese ma lo capivo abbastanza e per lei era la stessa cosa con l’italiano.
Superai brillantemente l’esame finale e aprimmo il nostro Laboratorio di AudioPsicoFonologia a Roma: finalmente dopo diversi anni riunificavo in uno stesso spazio l’attività psicoterapeutica individuale e di gruppo, insieme con la nascente attività audiopsicofonologica. Era il maggio del 1997 quando il Musicalificio Grande Blu venne alla luce e per una strana ironia del destino una delle prime persone che venne a fare gli ascolti fu proprio uno psichiatra dell’Analisi Collettiva. Il nome ci era venuto alla mente in tandem: l’idea giocosa del Musicalificio era nata da me mentre quella poetica del Grande Blu da Marco. Comunicammo al Professore, che nel frattempo aveva lasciato Londra per ritirarsi a Carcassonne, di questa nascita e lui molto carinamente ci spedì una copia del suo primo libro, “L’oreille et la vie”, con una dedica semplice ma efficace, proprio come era lui.
Cominciammo ad organizzare i primi CAV: vennero da Centri Tomatis di tutta Italia e furono tutti molto contenti di apprendere qualcosa di sostanzialmente nuovo per loro. Lavoravamo con grande entusiasmo e in quei primi anni ci richiesero diverse interviste e anche degli articoli sul metodo. Uno mi è particolarmente caro perché è una delle poche cose che ho scritto insieme con mio marito. Lo riporto qui di seguito anche per l’importanza che ha avuto nel definire in modo chiaro l’impostazione della mia ricerca, anche in ambito psicoterapeutico, a partire dal 2000.
Airobaleno di Marco Mortillaro
DALLA SENSAZIONE ALLA PERCEZIONE E ALLA RECETTIVITÀ:
IL CAMMINO VERSO L’ ASCOLTO
IL CAMMINO VERSO L’ ASCOLTO
Concetta Turchi* e Marco Mortillaro**
Ogni azione, sia essa volontaria oppure no, ha la sua origine da una sensazione. La sensazione nasce dalla capacità che ha ogni organismo vivente di rispondere agli stimoli in cui è immerso, grazie alla presenza di recettori sensoriali più o meno complessi in grado di raccogliere una serie di informazioni sulla realtà circostante: prima tappa di quel filo diretto con il mondo che permette l’adattamento a partire da circuiti neuronali molto semplici quali i riflessi.
Seguendo lo sviluppo filogenetico, la centralizzazione della sensazione permette di collegare la struttura corporea, e lo spazio corrispondente, alla temporalità: infatti ogni tipo di messaggio sensoriale (tattile, acustico, visivo, ecc.) arriva al cervello come serie numerica di dati allineati nel tempo, dati che si possono analizzare e confrontare con altri registrati nelle precedenti esperienze. In questa ascesa al sistema nervoso centrale, la sensazione localizzata in uno spazio trova quel tempo che la trasforma in percezione, cioè nella possibilità di conoscenza del senso della sensazione.
Anche gli organi di senso si strutturano e si completano per rispondere in modo sempre più adeguato e specie-specifico. Nell’acquisizione di questa specificità che porterà verso l’umano, un ruolo fondamentale viene svolto dagli integratori cerebrali che compaiono in funzione degli imperativi evolutivi: nell’ordine sono l’integratore vestibolare e rinoencefalico, l’integratore visivo, l’integratore cocleare e quello piramidale.
L’integratore vestibolare controlla la struttura dinamica automatica, che gestisce attraverso una organizzazione protopatica, cioè al di fuori del campo cosciente. Con il controllo che opera su tutte le funzioni motorie, assicura la statica e la cinetica del corpo.
L’integratore olfattivo è il primitivo organo con funzione di orientamento: l’integratore vestibolare lo porta, dietro uno stimolo, là dove vuole o dove è necessario andare. Viene soppiantato ben presto dall’integratore visivo, che ha la stessa funzione, ma permette una maggior precisione.
L’integratore cocleare fa la sua comparsa nei mammiferi, trasformando tutte le relazioni esistenti fino a quel momento tra i vari integratori. La coclea assume la direzione del sistema e, con la collaborazione del vestibolo, porta all’acquisizione delle caratteristiche specificatamente umane: la verticalizzazione, la liberazione della mano, il linguaggio.
Soltanto con il completo sviluppo della coclea l’udito, da fenomeno sensoriale passivo legato alla messa in vibrazione del corpo indotta da una sorgente sonora, si può trasformare in ascolto come atto recettivo, cosciente e volontario. Infatti, nell’ascolto, è presente contemporaneamente un fenomeno sensoriale, la capacità di sentire i suoni, un fenomeno percettivo, la discriminazione delle qualità del suono (udito), e un fenomeno recettivo, la messa in ascolto, legato alla particolare postura che assume il corpo per lasciarsi inondare dai suoni del mondo che lo circonda. Diventare recettivi vuol dire imparare a percepire e arrivare al senso profondo della comunicazione con gli altri. In questa acquisizione di livelli sempre meno automatici, assume un ruolo determinante l’integratore piramidale, che trasforma l’atto motorio in atto volontario.
Quello che è avvenuto nei millenni come sviluppo filogenetico, si riepiloga nello sviluppo di ogni individuo. Fin dal quarto mese e mezzo di vita intrauterina il feto è in grado di ascoltare i suoni che provengono dal mondo circostante: sono i suoni del mondo viscerale materno in cui è immerso, sono i suoi respiri, i suoi battiti, i suoi borborigmi. Si tratta di suoni ricchi di basse frequenze che, attraverso l’operazione di filtraggio del liquido amniotico (che funziona come un filtro passa-alto), arrivano al feto come un rumore di fondo ovattato e rassicurante sul quale compare la voce della madre. Immediatamente riconoscibile dagli altri suoni in quanto ricca di tonalità acute, questo suono arriva al feto come elemento nuovo, discontinuo, che lo mette in vibrazione in un modo diverso. È quel suono che, dopo il parto, il neonato cercherà e riconoscerà tra mille altri, e questo riconoscimento getterà il ponte, il primo, tra una sensazione attuale e una sensazione passata. In quel suo primo riconoscere, la sensazione, divenuta percezione, troverà nella memoria la prima possibilità di rappresentazione psichica.
Tutto lo sviluppo successivo (motorio, psichico, linguistico) avverrà attraverso la mediazione della coclea e della sua funzione: l’ascolto. In questo modo il bambino, nel corso del suo sviluppo, passerà dall’acquisizione di uno schema corporeo alla elaborazione della propria immagine del corpo. Lo schema corporeo è una realtà di fatto data dalla vita del nostro corpo a contatto con il mondo fisico: esso si struttura a partire dalle sensazioni, attraverso l’apprendimento e l’esperienza. Non è specifico dell’essere umano poiché anche gli animali hanno uno schema corporeo che consente loro di muoversi e di sapere del loro movimento.
L’immagine corporea, collegata allo sviluppo dell’integratore cocleare, si struttura nell’ambito di una relazione, attraverso la comunicazione: la sua acquisizione scaturisce dal linguaggio e per il linguaggio. Il corpo, infatti, è sottoposto costantemente a pressioni sonore che ne eccitano sia la superficie cutanea che i visceri. Il linguaggio, poco alla volta, va a sensibilizzare le zone sensoriali che rispondono a quelle onde vibratorie; così la voce andrà a sollecitare proprio quella parte del corpo che funziona meglio. L’immagine del corpo è legata pertanto alla particolare utilizzazione del campo neuronico, utilizzazione che dipende dalla propria storia personale, dalla comparsa di fattori accidentali e/o di malattie, dalla impedenza del luogo in cui una persona vive, e dal tipo di scambio linguistico con persone della stessa etnìa.
Una immagine del corpo sana si ha quando la realtà corporea risuona continuamente con il corpo immaginato in modo da arrivare ad un concetto integrato di sé che consentirà di porsi in modo creativo con l’ambiente circostante. Tutto questo significa che è possibile rimodellare l’immagine del corpo a partire dal linguaggio proprio e altrui. La chiave di volta di questa trasformazione possibile è la recettività, che vuol dire ampliamento dei propri confini percettivi. Significa porsi attivamente in ascolto di fronte ad un avvenimento verbale che ci può trasformare.
Roma, 25 gennaio 2000
*Concetta Turchi, Medico, Specialista in Psichiatria e AudioPsicoFonologia. Psicoterapeuta psicanalitico.
**Marco Mortillaro, Musicista e Didatta musicale, Specializzato in AudioPsicoFonologia.
**Marco Mortillaro, Musicista e Didatta musicale, Specializzato in AudioPsicoFonologia.
Avevamo cominciato a fare delle riunioni periodiche con alcuni Centri Tomatis italiani che si muovevano alla ricerca di una collaborazione con altri centri europei. La loro modalità però non ci convinceva: sembravano come orfani alla ricerca di un nuovo padre che dà le regole (così evidentemente sentivano il Centro Tomatis di Parigi). Sembravano disposti a tutto pur di uscire da quell’orfanotrofio in cui si erano relegati, così quando fu fatta la votazione e a maggioranza fu decisa la costituzione della Associazione Europea, Marco ed io decidemmo di lasciare immediatamente la sala riunioni perché si pagava quella affiliazione con un “ritocco” della teorizzazione di Tomatis per noi inaccettabile: piccolo, dicevano loro; sostanziale, rispondevamo noi. Secondo Tomatis l’orecchio medio con la catena degli ossicini ha la funzione di accomodazione e non di trasmissione del suono: orbene, il ritocco riguardava proprio questo “particolare” che era stato alla base degli attacchi subiti da Tomatis ad opera della Medicina accademica.
Dopo un anno ci telefonarono i colleghi degli altri Centri italiani perché avevano deciso di accettare la nostra idea di fare una associazione italiana. E così fu. L’AIPAPF nacque nel Novembre 2001. Un mese dopo, era la mattina del 25 Dicembre, mi alzai improvvisamente senza neppure un filo di voce: ero andata a letto bene e anche quella mattina, a parte l’essere completamente afona, non avevo alcun altro segnale di malessere. Non era una cosa usuale per me perdere la voce, anzi credo che non mi sia mai accaduto prima di quel giorno. “Sta succedendo qualcosa di grave”, mi dicevo e quella sera arrivò la notizia che Tomatis, dopo un ulteriore peggioramento clinico, si era spento quello stesso giorno a Carcassonne: quanto era profondo il mio legame con quell’uomo! Quella afonia tornò per qualche anno ancora ogni volta che venivo presa dalle malattie stagionali, come a volere scandire dentro di me i tempi corporei del lutto.
Dopo un anno ci telefonarono i colleghi degli altri Centri italiani perché avevano deciso di accettare la nostra idea di fare una associazione italiana. E così fu. L’AIPAPF nacque nel Novembre 2001. Un mese dopo, era la mattina del 25 Dicembre, mi alzai improvvisamente senza neppure un filo di voce: ero andata a letto bene e anche quella mattina, a parte l’essere completamente afona, non avevo alcun altro segnale di malessere. Non era una cosa usuale per me perdere la voce, anzi credo che non mi sia mai accaduto prima di quel giorno. “Sta succedendo qualcosa di grave”, mi dicevo e quella sera arrivò la notizia che Tomatis, dopo un ulteriore peggioramento clinico, si era spento quello stesso giorno a Carcassonne: quanto era profondo il mio legame con quell’uomo! Quella afonia tornò per qualche anno ancora ogni volta che venivo presa dalle malattie stagionali, come a volere scandire dentro di me i tempi corporei del lutto.
Viale di mare di Marco Mortillaro
E la mia ricerca sullo sviluppo del linguaggio continuava seguendo le linee tracciate da Tomatis. Avevo scoperto che l’orecchio del neonato, nel passare da un udito liquido ad uno aereo, deve affrontare sul piano fisico numerosi problemi di adattamento, poiché l’aria non vibra come l’acqua. Dopo essere stato per mesi nell’oscurità e nel “romore” uterino, improvvisamente accecato dalla luce e aggredito dai rumori dell’ambiente, il neonato si ritira nel sonno come a volere ricreare il tranquillo ambiente prenatale. Ogni tanto, al risveglio, ciuccia insieme con il latte, la voce materna di cui sa già riconoscere le frequenze: questa intimità ritrovata viene facilitata dalla presenza ancora di un ascolto liquido, grazie alla permanenza nel suo orecchio del liquido amniotico che sarà riassorbito nei giorni successivi al parto. Poi il neonato sprofonda nel silenzio da cui riemergerà dopo qualche settimana con la neo-nata funzione di accomodazione dell’orecchio medio che modula il nuovo ascolto aereo: i due muscoli, della staffa e del martello, si attivano per la prima volta facendo ritrovare al neonato quelle abilità dell’udito prenatale che lo portano a ricercare sempre e soltanto una voce, quella della madre in cui si tuffa nuovamente. Questa attivazione è fondamentale per determinare il suo sviluppo psicocorporeo, l’acquisizione del linguaggio come l’evoluzione psichica della sua personalità.
Il nutrimento vocale, associato solo successivamente alla visione del volto materno, produce delle risposte. Ha così inizio la fase fonica, quella del cicaleccio del lattante, che è una sorta di traduzione fonica della comunicazione intrauterina tra la madre e il feto: corpo a corpo dolce e appassionato in grado di esprimere quel legame carnale che nulla ancora separa.
Nella fase successiva si instaura il primo vero linguaggio rivolto alla madre dove le sillabe sono dei sintagmi, cioè frasi che implicano tutto un significato: per questo si chiama fase sillabica. Questo linguaggio ha una forte carica affettiva perché il bimbo lo costruisce, a partire dall’avvenuto riconoscimento, come dono d’amore per la madre. In queste fasi il più piccolo disturbo può compromettere la elaborazione sonora: una malattia che fa perdere il gusto del gioco verbale, oppure una mancata risposta da parte della madre che lascia cadere il gioco sonoro nel vuoto.
Di seguito, la progressiva differenziazione degli emisferi cerebrali produce sul piano verbale una corrispondente differenziazione sillabica che si riconosce grazie alla comparsa di diversi accenti nelle sillabe: nasce allora la vera e propria fase linguistica, preludio all’acquisizione del linguaggio del padre che apre la strada al rapporto col mondo. Attraverso la comparsa del me di cui si parla e dell’Io che imprime il movimento, il linguaggio va ad esprimere il nuovo dialogo tra i due emisferi cerebrali: quello pensante, il destro, e quello che esegue, il sinistro. I collegamenti tra i due emisferi, attraverso il corpo calloso, assicurano il dialogo costante fra il Maestro e la sua orchestra, tra la consapevolezza del movimento dell’Io e la memoria e il desiderio di comunicare del Sé. Ed è così che si va strutturando l’immagine del corpo: per parlare occorre che la persona voglia utilizzare il suo corpo ai fini comunicativi, occorre cioè che il pensiero abiti il corpo.
La nostra società privilegia purtroppo il pensiero lineare-razionale dell’emisfero sinistro che, pur essendo importante in quanto esecutore, non può essere così basilare per la vita come la capacità di ascoltare alla base della comprensione. Il linguaggio scaturisce dal prendere-con-sé le fondamenta della vita annidato nella comunicazione intrauterina madre-figlio: è lì che i suoni passano come esperienza sensoriale per arrivare, alla nascita, alla costruzione di un rapporto dotato di senso. È quella la lingua nativa per ognuno di noi.
Tutte le altre lingue, ivi compresa quella del padre (con le sue regole grammaticali e la sua sintassi), si apprenderanno nello stesso modo, con lo stesso desiderio e gioia se quel primo incontro madre-figlio sarà stato felice; ma se l’incontro sarà stato nefasto il dolore psichico diverrà insostenibile e “... la difesa estrema può comportare la perdita dell’ascolto; la persona continua meccanicamente ad udire, ma non ha più il desiderio di cercare suoni dentro e fuori di sé, non ha più motivazioni per una comunicazione vera e profonda, vale a dire umana”. Molto è già stato detto sulla qualità della voce materna e l’insorgenza precoce di distorsioni psicologiche che sfociano con gli anni in veri e propri quadri psicopatologici. Per essere concisi, se la voce della madre esprime presenza e affettività il ponte sonoro che la madre offre al figlio sarà sempre quello che il bambino percorrerà con successo nelle fasi di passaggio della sua vita affettiva e corporea; ma se la madre sarà stata rabbiosa o peggio ancora anaffettiva, questo si tradurrà in buchi frequenziali che ostacoleranno il divenire umano di quel bambino andando ad intaccare proprio questa dimensione di desiderio che determina il cristallizzarsi di ricordi indelebili sotto forma di contratture muscolari o di fissazioni psicosomatiche. Quel corpo deformato e sofferente non potrà vibrare nella sua interezza e lo stesso suono della voce si spezzerà continuamente lì dove le contratture ne bloccano il passaggio.
Abbiamo visto come l’ascolto coinvolga l’intera complessità psicosomatica ed è per questo che i campi di applicazione della AudioPsicoFonologia sono molti sia in ambito patologico che fisiologico ed educativo (Fig.3). La rieducazione all’ascolto si avvale dell’Orecchio Elettronico che permette di stimolare quelle frequenze a cui l’orecchio si è chiuso ripercorrendo le fasi dello sviluppo dell’ascolto e ripristinando la risposta dinamica fisiologica dei muscoli dell’orecchio medio fondamentali per la regolazione della funzione. Dato il suo background, l’AudioPsicoFonologia può essere annoverata a tutti gli effetti tra le nuove discipline psiconeurofisiologiche.
CAMPI DI APPLICAZIONE DELL’AUDIOPSICOFONOLOGIA
Patologie dell’orecchio
- nei disturbi dell’equilibrio, nella sindrome di Ménière e nelle altre sindromi vertiginose.
- negli acufeni e in tutte le forme di ipersensibilità ai suoni e rumori.
- nelle sordità professionali (legate ad una alterazione funzionale) e nelle ipoacusie, o sordità parziali, di origine organica (nelle sordità parziali si riscontra spesso una caduta dell’udito in entrambe le orecchie anche quando in realtà è uno solo ad essere danneggiato; la rieducazione oltre a ripristinare la funzionalità residua dell’orecchio colpito, permette di recuperare l’altro orecchio che si appiattisce sulla funzione di quello danneggiato).
- nelle otiti ricorrenti e nei disturbi a carico dell’apparato fonatorio (polipi alle corde vocali, afonie frequenti).
Disturbi del linguaggio e dell’apprendimento
- nelle difficoltà di apprendimento del linguaggio del bambino.
- nelle difficoltà di apprendimento scolare.
- nella balbuzie e nella dislessia (si tratta in entrambi i casi di una turba evolutiva della funzione di ascolto che impedisce lo stabilizzarsi della lateralizzazione uditiva a destra: all’orecchio destro si deve il controllo e la regolazione del sistema audiofonatorio in quanto orecchio direttivo).
- nelle difficoltà di comprensione, concentrazione e memoria.
- nell’apprendimento delle lingue straniere (attraverso lo stimolo a percepire le frequenze che caratterizzano la banda passante di ogni lingua).
Disturbi psicomotori e del comportamento dei bambini e degli adulti
- nelle forme di iperattività e ipercinesia.
- nel ritardo dello sviluppo psicomotorio del bambino e nelle difficoltà di coordinazione motoria.
- nell’autismo.
Patologie psichiche e psicosomatiche
- depressione, ansia e crisi di panico, angoscia, spossatezza.
- asma, gastriti, tachicardie, ipertensione labile, cefalee muscolo-tensive.
Dinamizzazione e rilassamento
- nel riequilibrio delle energie psicocorporee (come nelle depressioni della terza età).
- nella preparazione al parto.
Voce, canto, creatività
Poiché l’ascolto rappresenta l’apertura della persona al mondo esterno in continuo rapporto dinamico con il proprio mondo interiore, ogni espressione creativa della propria identità personale ed artistica viene favorita da una rieducazione all’ascolto (cantanti, attori, musicisti, strumentisti, sportivi e danzatori).
- nei disturbi dell’equilibrio, nella sindrome di Ménière e nelle altre sindromi vertiginose.
- negli acufeni e in tutte le forme di ipersensibilità ai suoni e rumori.
- nelle sordità professionali (legate ad una alterazione funzionale) e nelle ipoacusie, o sordità parziali, di origine organica (nelle sordità parziali si riscontra spesso una caduta dell’udito in entrambe le orecchie anche quando in realtà è uno solo ad essere danneggiato; la rieducazione oltre a ripristinare la funzionalità residua dell’orecchio colpito, permette di recuperare l’altro orecchio che si appiattisce sulla funzione di quello danneggiato).
- nelle otiti ricorrenti e nei disturbi a carico dell’apparato fonatorio (polipi alle corde vocali, afonie frequenti).
Disturbi del linguaggio e dell’apprendimento
- nelle difficoltà di apprendimento del linguaggio del bambino.
- nelle difficoltà di apprendimento scolare.
- nella balbuzie e nella dislessia (si tratta in entrambi i casi di una turba evolutiva della funzione di ascolto che impedisce lo stabilizzarsi della lateralizzazione uditiva a destra: all’orecchio destro si deve il controllo e la regolazione del sistema audiofonatorio in quanto orecchio direttivo).
- nelle difficoltà di comprensione, concentrazione e memoria.
- nell’apprendimento delle lingue straniere (attraverso lo stimolo a percepire le frequenze che caratterizzano la banda passante di ogni lingua).
Disturbi psicomotori e del comportamento dei bambini e degli adulti
- nelle forme di iperattività e ipercinesia.
- nel ritardo dello sviluppo psicomotorio del bambino e nelle difficoltà di coordinazione motoria.
- nell’autismo.
Patologie psichiche e psicosomatiche
- depressione, ansia e crisi di panico, angoscia, spossatezza.
- asma, gastriti, tachicardie, ipertensione labile, cefalee muscolo-tensive.
Dinamizzazione e rilassamento
- nel riequilibrio delle energie psicocorporee (come nelle depressioni della terza età).
- nella preparazione al parto.
Voce, canto, creatività
Poiché l’ascolto rappresenta l’apertura della persona al mondo esterno in continuo rapporto dinamico con il proprio mondo interiore, ogni espressione creativa della propria identità personale ed artistica viene favorita da una rieducazione all’ascolto (cantanti, attori, musicisti, strumentisti, sportivi e danzatori).
Fig.3
Aeroalbero di Marco Mortillaro
L’AIPAPF nasceva con lo scopo di “conservare e diffondere l’audiopsicofonologia nello spirito e nell’originalità del suo fondatore Prof. Alfred A. Tomatis”. Abbiamo molto lottato, io e Marco, per fare scrivere nel testo costitutivo della associazione la parola audiopsicofonologia per intero e non come spesso si trova in giro, audio-psico-fonologia con i trattini, perché per noi questo significava non avere compreso la funzione integrante dell’ascolto. I colleghi accettarono solo sulla carta.
Quei trattini in realtà tornavano sempre e si ponevano come invisibili muraglie invalicabili che venivano passate direttamente, qual veleno silenzioso, agli allievi in formazione. Quando preparai un mio intervento sulla funzione di ascolto correlata con la sanità psichica alla nascita, raccontando di come nasce la malattia mentale, due socie fondatrici si avventarono su di me alla fine dell’intervento, come due falchi, per tentare di cavarmi gli occhi di quella visione: “Il tuo lavoro è davvero molto bello, ma sai, non ci pare proprio adatto!”, dissero. Se quella prospettiva non era adatta per una formazione, voleva dire che non era possibile fare formazione in quel contesto. Me ne andai e lo comunicai quella stessa sera mentre qualcuno mi tacciava di berlusconismo perché nella mia presentazione avevo osato parlare di… desiderio. Che dire?! L’ignoranza metteva in fila quei piccoli trattini invidiosi della interezza di una teoria. Parlavano del loro amore verso Tomatis e avevano già cominciato a deformarlo e rimpicciolirlo a loro misura. E pensavo: “Il muro che si erge davanti alle differenze non è forse riconducibile alla chiusura della selettività, e cioè alla difficoltà di discriminazione sonora collegata a quell’orecchio sinistro che è anche l’orecchio in grado di raccogliere la nostra storia affettiva?”. Non tutti sono in grado di riprodurre ciò che sentono e questo dipende dalla selettività che, quando è chiusa, esprime la incapacità a sintonizzarsi con il diverso da sé per poterlo comprendere.
Marco rimase ancora un anno nella associazione e questo segnò per me uno dei capitoli più dolorosi della mia storia personale. L’anno successivo, di ritorno dalla Croazia, accompagnai Marco in una struttura dell’Emilia Romagna dove l’AIPAPF avrebbe fatto il secondo step “de-formativo”, così ormai lo chiamavo. Sapevo che quella associazione a delinquere avrebbe cercato di attaccare quell’unico motivo per cui Marco era rimasto: il piacere di vedere gli allievi in formazione felici nel lavorare con lui nelle ore di CAV previste per la formazione. Volevo stare al suo fianco perché ne avrebbe sofferto molto e poi la mia sola presenza avrebbe determinato una operazione di disturbo in grado di attutire il loro attacco. E infatti quello stesso medico e psichiatra che mi aveva accusato di berlusconismo, mi propose addirittura di diventare Responsabile della Ricerca Scientifica della Associazione. Rifiutai quello specchietto per le allodole ribadendo che in quel contesto non era possibile nessun livello di Ricerca. Marco lasciò l’Associazione, anche se quel suo non essersene andato per tempo aveva minato, senza che lui se ne fosse accorto, il suo entusiasmo, forse una motivazione più profonda. Correva l’anno 2003. Nessuno degli operatori dei Centri Tomatis italiani venne più ai CAV che Marco (solo lui) aveva continuato ad organizzare annualmente.
L’anno successivo, dopo la vacanza estiva in Corsica, accompagnai Marco ad uno stage formativo di Medicina delle Arti da lui iniziato la primavera precedente: si teneva in un grazioso paese sui Pirenei francesi, Montabaun, luogo di nascita di Ingres, un esponente della pittura neoclassica. Sentivo che, nonostante l’interesse, Marco non riprendeva la sua motivazione perché veniva colpito nella cosa che lo feriva di più: il non essere ascoltato. Si ritrovò in un altro ambiente di pseudo-ricerca sordo alle ricerche altrui, un po’ come la sordità delle tele di Ingres, e non completò mai quella formazione. Per noi divenne sempre più difficile lavorare insieme con l’AudioPsicoFonologia. Da parte mia, avevo cominciato già da diversi anni una formazione su un lavoro di integrazione psicomotoria che ben si sposava con il metodo Tomatis: il metodo di Ruthy Alon Bones for Life è stata la spinta a continuare la mia ricerca, divenuta solitaria, sulla voce.
Però quell’estate, tornando da Montabaun successe qualcosa di davvero speciale: decidemmo di passare per Carcassonne, dove sapevamo essere sepolto Tomatis. Speravamo di trovare un piccolo cimitero e invece ci trovammo davanti ad una struttura enorme (una specie di quartiere) suddivisa a sua volta in due sezioni molto grandi. Dovevamo andare… a orecchio. Presi in mano la situazione e Marco mi lasciò fare: scegliemmo la sezione a destra e cominciammo a visitare quella parte del cimitero senza potere chiedere una informazione ad alcuno (sembrava di stare in Italia!). Marco cominciò a disperare: “Non lo troveremo mai” diceva, ma io continuavo a puntare le antenne imperterrita. Dopo neppure cinque minuti ci trovammo davanti alla tomba di Tomatis e cantammo emozionati la nostra preghiera laica con dei suoni a bocca chiusa, tenendoci per mano.
Quei trattini in realtà tornavano sempre e si ponevano come invisibili muraglie invalicabili che venivano passate direttamente, qual veleno silenzioso, agli allievi in formazione. Quando preparai un mio intervento sulla funzione di ascolto correlata con la sanità psichica alla nascita, raccontando di come nasce la malattia mentale, due socie fondatrici si avventarono su di me alla fine dell’intervento, come due falchi, per tentare di cavarmi gli occhi di quella visione: “Il tuo lavoro è davvero molto bello, ma sai, non ci pare proprio adatto!”, dissero. Se quella prospettiva non era adatta per una formazione, voleva dire che non era possibile fare formazione in quel contesto. Me ne andai e lo comunicai quella stessa sera mentre qualcuno mi tacciava di berlusconismo perché nella mia presentazione avevo osato parlare di… desiderio. Che dire?! L’ignoranza metteva in fila quei piccoli trattini invidiosi della interezza di una teoria. Parlavano del loro amore verso Tomatis e avevano già cominciato a deformarlo e rimpicciolirlo a loro misura. E pensavo: “Il muro che si erge davanti alle differenze non è forse riconducibile alla chiusura della selettività, e cioè alla difficoltà di discriminazione sonora collegata a quell’orecchio sinistro che è anche l’orecchio in grado di raccogliere la nostra storia affettiva?”. Non tutti sono in grado di riprodurre ciò che sentono e questo dipende dalla selettività che, quando è chiusa, esprime la incapacità a sintonizzarsi con il diverso da sé per poterlo comprendere.
Marco rimase ancora un anno nella associazione e questo segnò per me uno dei capitoli più dolorosi della mia storia personale. L’anno successivo, di ritorno dalla Croazia, accompagnai Marco in una struttura dell’Emilia Romagna dove l’AIPAPF avrebbe fatto il secondo step “de-formativo”, così ormai lo chiamavo. Sapevo che quella associazione a delinquere avrebbe cercato di attaccare quell’unico motivo per cui Marco era rimasto: il piacere di vedere gli allievi in formazione felici nel lavorare con lui nelle ore di CAV previste per la formazione. Volevo stare al suo fianco perché ne avrebbe sofferto molto e poi la mia sola presenza avrebbe determinato una operazione di disturbo in grado di attutire il loro attacco. E infatti quello stesso medico e psichiatra che mi aveva accusato di berlusconismo, mi propose addirittura di diventare Responsabile della Ricerca Scientifica della Associazione. Rifiutai quello specchietto per le allodole ribadendo che in quel contesto non era possibile nessun livello di Ricerca. Marco lasciò l’Associazione, anche se quel suo non essersene andato per tempo aveva minato, senza che lui se ne fosse accorto, il suo entusiasmo, forse una motivazione più profonda. Correva l’anno 2003. Nessuno degli operatori dei Centri Tomatis italiani venne più ai CAV che Marco (solo lui) aveva continuato ad organizzare annualmente.
L’anno successivo, dopo la vacanza estiva in Corsica, accompagnai Marco ad uno stage formativo di Medicina delle Arti da lui iniziato la primavera precedente: si teneva in un grazioso paese sui Pirenei francesi, Montabaun, luogo di nascita di Ingres, un esponente della pittura neoclassica. Sentivo che, nonostante l’interesse, Marco non riprendeva la sua motivazione perché veniva colpito nella cosa che lo feriva di più: il non essere ascoltato. Si ritrovò in un altro ambiente di pseudo-ricerca sordo alle ricerche altrui, un po’ come la sordità delle tele di Ingres, e non completò mai quella formazione. Per noi divenne sempre più difficile lavorare insieme con l’AudioPsicoFonologia. Da parte mia, avevo cominciato già da diversi anni una formazione su un lavoro di integrazione psicomotoria che ben si sposava con il metodo Tomatis: il metodo di Ruthy Alon Bones for Life è stata la spinta a continuare la mia ricerca, divenuta solitaria, sulla voce.
Però quell’estate, tornando da Montabaun successe qualcosa di davvero speciale: decidemmo di passare per Carcassonne, dove sapevamo essere sepolto Tomatis. Speravamo di trovare un piccolo cimitero e invece ci trovammo davanti ad una struttura enorme (una specie di quartiere) suddivisa a sua volta in due sezioni molto grandi. Dovevamo andare… a orecchio. Presi in mano la situazione e Marco mi lasciò fare: scegliemmo la sezione a destra e cominciammo a visitare quella parte del cimitero senza potere chiedere una informazione ad alcuno (sembrava di stare in Italia!). Marco cominciò a disperare: “Non lo troveremo mai” diceva, ma io continuavo a puntare le antenne imperterrita. Dopo neppure cinque minuti ci trovammo davanti alla tomba di Tomatis e cantammo emozionati la nostra preghiera laica con dei suoni a bocca chiusa, tenendoci per mano.
Ho avuto il privilegio di conoscere Alfred Tomatis e di formarmi con lui. Ricordo che, quando mi aveva detto con quel suo sorriso dolcissimo che mi avrebbe insegnato a cantare... con i piedi, non avevo capito a quel tempo il senso di quelle parole, ma ora so cosa intendeva: voleva che portassi la vibrazione della mia voce a spasso per il corpo, liberamente e con tutta la gioia possibile. Diceva questa cosa proprio a me che anni prima avevo sognato di Gelsomina (la protagonista del film “La strada”) e della sua difficoltà ad esprimere con la voce la sua poesia, schiacciata dallo Zampanò di turno. L’esperienza dell’ascolto ha trasformato la mia vita, il mio modo di lavorare e perfino di teorizzare... e Gelsomina non è morta abbandonata perché l’Artista non si è fatto uccidere dalla brutalità di Zampanò.
E mentre continuo a creare e sperimentare, proprio come fa un neonato nella sua culla fin dagli albori della sua vita sulla terra, nell’attesa che Gelsomina finalmente mi scelga, continuo ad esplorare con la voce, tanto che ora non so più se è la mia voce a reclamare nuovi pensieri o sono i pensieri a reclamare costantemente una nuova voce. Ora so che tutto il mondo suona e un orecchio in ascolto può trasformare ogni silenzio in una pausa musicale, capace di togliere dall’angoscia di rimanere muti, di non abitare il proprio corpo.
E mentre continuo a creare e sperimentare, proprio come fa un neonato nella sua culla fin dagli albori della sua vita sulla terra, nell’attesa che Gelsomina finalmente mi scelga, continuo ad esplorare con la voce, tanto che ora non so più se è la mia voce a reclamare nuovi pensieri o sono i pensieri a reclamare costantemente una nuova voce. Ora so che tutto il mondo suona e un orecchio in ascolto può trasformare ogni silenzio in una pausa musicale, capace di togliere dall’angoscia di rimanere muti, di non abitare il proprio corpo.
Lo spartito della fantasia di Marco Mortillaro
BIBLIOGRAFIA
A. TOMATIS, L’orecchio e la vita, Baldini & Castoldi Dalai Ed., Milano 1999 (prima edizione 1992).
A. TOMATIS, L’orecchio e la voce, Baldini & Castoldi Dalai Ed., Milano 2000 (prima edizione 1993).
A. TOMATIS, Dalla comunicazione intrauterina al linguaggio umano. La liberazione di Edipo, Ibis Edizioni, Como, 1993.
A. TOMATIS, L’orecchio e il linguaggio, Ibis Edizioni, Como, 1995.
A. TOMATIS, Educazione e dislessia, Omega Ed., Torino 1996.
A. TOMATIS, Perché Mozart?, Ibis Edizioni, Como 1996.
A. TOMATIS, Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red Edizioni, Milano 2001.
A. TOMATIS, Ascoltare l’universo, Baldini & Castoldi Dalai Ed., Milano 2003 (prima edizione 1998).
A. TOMATIS, Siamo tutti nati poliglotti, Ibis Edizioni, Como 2003.
A. TOMATIS, Nove mesi in paradiso, Ibis Edizioni, Como-Pavia 2007.
A. TOMATIS e W. PASSERINI, Management dell’ascolto, Franco Angeli Ed., Roma 2007.
A. TOMATIS, La notte uterina. La vita prima della nascita e il suo universo sonoro, Red Edizioni, Milano 2009.
A. TOMATIS, Vertigini, Ibis Edizioni, Como-Pavia 2009.
A. TOMATIS, Le difficoltà scolastiche, Ibis Edizioni, Como-Pavia 2011.
Da tenere presente che il primo libro comparso in lingua francese è L'Oreille et le Langage, Èdition du Seuil, Parigi 1963, e l’ultimo è Ecouter l’Univers, Èditions Robert Laffont, 1995.
A. TOMATIS, L’orecchio e la voce, Baldini & Castoldi Dalai Ed., Milano 2000 (prima edizione 1993).
A. TOMATIS, Dalla comunicazione intrauterina al linguaggio umano. La liberazione di Edipo, Ibis Edizioni, Como, 1993.
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A. TOMATIS, Ascoltare l’universo, Baldini & Castoldi Dalai Ed., Milano 2003 (prima edizione 1998).
A. TOMATIS, Siamo tutti nati poliglotti, Ibis Edizioni, Como 2003.
A. TOMATIS, Nove mesi in paradiso, Ibis Edizioni, Como-Pavia 2007.
A. TOMATIS e W. PASSERINI, Management dell’ascolto, Franco Angeli Ed., Roma 2007.
A. TOMATIS, La notte uterina. La vita prima della nascita e il suo universo sonoro, Red Edizioni, Milano 2009.
A. TOMATIS, Vertigini, Ibis Edizioni, Como-Pavia 2009.
A. TOMATIS, Le difficoltà scolastiche, Ibis Edizioni, Como-Pavia 2011.
Da tenere presente che il primo libro comparso in lingua francese è L'Oreille et le Langage, Èdition du Seuil, Parigi 1963, e l’ultimo è Ecouter l’Univers, Èditions Robert Laffont, 1995.
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FORMARE I RAGAZZI ALL’ASCOLTO
Concetta Turchi
Concetta Turchi
Onde di frequenza di Marco Mortillaro
Al mio lavoro usuale come psichiatra e psicoterapeuta dinamico all’interno dei due Ser.T della ASL/RM C (Distretti IX e XII) ho aggiunto per un po’ di anni un progetto di prevenzione specifico per i ragazzi delle scuole superiori, progetto che ho intitolato L’ascolto come funzione di discriminazione e di scelta. Ho potuto percorrere questa strada grazie alla mia formazione in AudioPsicoFonologia (parola complessa per dire che mi occupo della relazione tra ascolto, voce e sviluppo psicologico), completata tanti anni fa a Parigi con il Prof. Alfred Tomatis, fondatore di tale disciplina. Il presente lavoro è il risultato di sette anni di sperimentazione.
Nei primi due anni ho avuto l’aiuto dei colleghi psicologi dei due Ser.T: il Dott. Nicola Barone (Distretto IX) e il Dott. Claudio Pierlorenzi (Distretto XII). Sono subentrati poi, nei cinque anni successivi, i tirocinanti psicologi (tirocinio post-laurea) di diverse scuole di specializzazione in psicoterapia che si sono avvicendati, perché tenere a bada una classe di adolescenti non è cosa facile: la Dott. Cinzia Sersante, la Dott. Alexandra Iafolla, la Dott. Silvia Stocchi e la Dott. Mafalda Gallo. Di queste giovani colleghe solo la Dott. Sersante aveva inizialmente delle conoscenze sul metodo Tomatis, conoscenze che attraverso un percorso formativo con la sottoscritta, l’hanno portata nel tempo a diventare tecnico di AudioPsicoFonologia. Voglio ringraziare tutti questi colleghi, dai più giovani ai meno giovani, per lo slancio con cui hanno condiviso, insieme con i ragazzi delle varie scuole, questa esperienza, nuova anche per loro, che io andavo proponendo. Esperienza che tra l’altro è andata modificandosi nel tempo, in relazione alle risposte che abbiamo avuto dai ragazzi delle varie classi con cui abbiamo lavorato.
Questo progetto che, come dicevo, si è andato strutturando nel tempo, parte dall’assunto che chi ha la possibilità di scegliere, sceglie sempre ciò che è meglio per sé stesso. Quindi si tratta di un percorso formativo in cui la prevenzione diventa un fatto da acquisire interiormente, come è naturale per ogni essere vivente, umano e non, tenersi lontano da ciò che è nocivo.
Il discorso sulla prevenzione è molto complesso e di fatto può essere svolto in diversi modi, modi che si possono integrare per potenziarne l’effetto. Il primo atto preventivo nell’ambito clinico è la proposizione della cura, intesa non come risoluzione sintomatica, ma come recupero pieno della sanità psichica originaria presente alla nascita di ogni individuo: la cura e il suo obiettivo, la guarigione, diventano immediatamente azione preventiva nel momento in cui la persona guarita, non più paziente, porta nel mondo gli effetti del percorso psicoterapeutico fatto. Si tratta del suo nuovo modo di ascoltare sé stesso e gli altri, il suo movimento, il suo sguardo spalancato sul mondo: insomma la sua immagine. Egli diventa al contempo portatore di un nuovo sé e di una nuova speranza per un sé che abbia anche una espressione e un rispecchiamento sociale. Quando c’è questa speranza, che è insieme anche certezza, dati gli esiti della relazione terapeutica, il discorso sulla prevenzione si trova già ad un buon punto. Tutto questo per dirvi che la vera prevenzione si fa con una diagnosi precoce e corretta, prima ancora che con un efficace intervento di cura, che ne è la precisa conseguenza.
Tuttavia in ambito psichico le cose sono un po’ più complesse rispetto ad un ambito corporeo in cui impropriamente ricadono le cosiddette malattie somatiche. Infatti, in ambito psicopatologico esistono le personalità premorbose, cioè delle distorsioni dello sviluppo che danno luogo a personalità coartate, senza che peraltro si manifesti una chiara sintomatologia psichica. Molte di queste distorsioni si strutturano durante l’adolescenza, periodo turbolento della nostra esistenza, laddove ogni stato emotivo ed affettivo, ogni pensiero ed azione, è più vivido, come è più forte la capacità di immaginare. L’adolescenza è il luogo della provocazione, della minimizzazione e della esaltazione, di un ritmo non ancora “ritmato”, di una disarmonia che cerca il sogno e la poesia. L’adolescenza è il luogo psichico di quella sessualità emergente che cerca l’altro come diverso da sé, ma che cerca anche riparo, a volte conforto, in ciò che è già conosciuto: l’adolescenza dunque come fucina di ricerca che troverà nel percorso successivo la piena espressione. In una bellissima canzone Jacques Brel sostiene che a 17 anni tutti i sogni sono stati sognati; poi uno passa il resto della vita a realizzarli. Quando questo accade, l’Io si pone al servizio della piena realizzazione del Sé e della sua capacità di immaginare, una delle funzioni più importanti della nostra psiche.
Come si costruisce la capacità di immaginare? Beh, si tratta di un discorso piuttosto complesso che proprio non intendo semplificare. Posso dare tanto per cominciare dei rimandi bibliografici per un approfondimento. Diciamo che alla capacità di immaginare concorrono due funzioni strettamente interdipendenti: la memoria e l’ascolto.
L’ascolto, contrariamente all’udito che è un fenomeno passivo, è atto volontario inteso a ritrovare il mondo che ci circonda e a stabilire con esso una comunicazione profonda. La “messa in ascolto”, che coinvolge l’intero corpo, avviene attraverso l’acquisizione di una postura in grado di farlo entrare in risonanza con il mondo sonoro in cui è immerso. Ascoltare quindi diventa sapere cosa sentire, essere recettivi a tal punto da rispondere immediatamente a ciò che realmente gli altri ci comunicano attraverso il suono delle parole. È stato il Prof. Alfred Tomatis (1920-2001), medico otorinolaringoiatra francese, nella metà del secolo appena trascorso, ad approfondire su un piano psiconeurofisiologico la questione dell’ascolto a partire dalle funzioni dell’orecchio.
La relazione tra ascolto, postura e voce è indissolubilmente correlata al desiderio di comunicare, quindi alla dimensione psichica dell’essere umano. Nella vita precoce di ciascun individuo possono avvenire degli eventi difficili da superare che vanno ad intaccare proprio questo desiderio: i ricordi si cristallizzano e si fanno indelebili; la chiusura dell’ascolto determina, attraverso il sopraggiungere di contratture muscolari persistenti, una deformazione della postura nel suo complesso. Di conseguenza qualsiasi suono esterno che raggiunge il corpo non è più in grado di farlo vibrare nella sua interezza, ed anche il suono della voce dello stesso individuo si spezza lì dove le contratture ne bloccano il passaggio. Ricominciare a sensibilizzare l’ascolto vuol dire sciogliere per prima cosa questi nodi emotivi ed affettivi in modo da riprendere contatto e consapevolezza del modo in cui ci relazioniamo con noi stessi e con gli altri.
Sulla base di quanto detto finora, occorre considerare che i disturbi dell’attenzione, del comportamento e della comunicazione in età scolare (e spesso anche in tempi successivi) dipendono da un cattivo ascolto. Partendo da questo dato abbiamo pensato di proporre un lavoro specifico proprio per sensibilizzare i ragazzi ad un ascolto corretto, funzionale sia al contesto scolastico che allo sviluppo personale di questi adolescenti. Senza tenere conto che l’ascolto è fondamentale anche per l’acquisizione “viscerale” di ogni forma di linguaggio, compreso quello artistico.
1. Obiettivi
2. Materiali e Metodi
Mentre nel primo incontro, come abbiamo già detto, è stato proposto il Test dell’albero in forma collettiva, nell’incontro successivo è stato discusso il risultato del test prendendo in considerazione otto parametri che si desumono dalle curve di ascolto ottenute dalla analisi delle linee dell’albero (struttura interna della classe, comunicazione, personalità, creatività, immagine corporea, ascolto, tono dell’umore, affettività).
Questi parametri sono stati discussi con la classe che ha dovuto elaborare quanto da noi rilevato: “In sintesi, ci troviamo di fronte ad una classe di adolescenti in cui le emozioni vengono dirottate sull’agire corporeo e dove le singole difficoltà vengono celate dalla dimensione di gruppo. Da qui la tendenza ad uniformare i pensieri e i comportamenti con conseguente povertà creativa”. È evidente che il nostro dire voleva essere una provocazione per stabilire un primo contatto basato sulla curiosità e sulla ricerca.
Sempre nello stesso incontro sono state date delle informazioni sul concetto di ascolto e sulla relazione tra ascolto, voce e postura. Alla fine i ragazzi si sono dimostrati incuriositi dalla proposta di lavoro.
Durante il primo anno è stato molto impegnativo portare l’attenzione degli allievi proprio sul significato dell’ascolto e sulle loro difficoltà ad ascoltarsi reciprocamente. Come spesso accade tra gli adulti, mettevano in atto diverse modalità per interrompersi l’un con l’altro: si sovrapponevano a chi aveva la parola in quel momento; gli scherzi e le battute fuori luogo erano utilizzate puntualmente in modo da impedire ed impedirsi di conoscere ciò che di nuovo gli veniva proposto; si perdevano in atteggiamenti stereotipati che definivano l’appartenenza al gruppo, ma negavano la possibile espressione della individualità di ciascuno. Le resistenze a porsi in ascolto e a lasciarsi coinvolgere erano molte, impedendo un vero confronto non solo con noi, ma anche tra loro. Questa modalità difensiva è stata sempre verbalizzata ogni volta che si presentava perché occorreva creare uno spazio di pensabilità su quanto accadeva abitualmente.
Poiché alla base della pensabilità c’è il silenzio, siamo partiti proprio dalla postura d’ascolto: cercare a occhi chiusi e seduti sui banchi (senza quindi il contatto con la terra) dei suoni presenti e non ascoltati per scoprire che è possibile lanciare il nostro orecchio a delle distanze impensabili per raccogliere i suoni più lontani e apparentemente inaccessibili. Gli occhi chiusi che reclamano una nuova verticalità è stato il mezzo con cui i ragazzi hanno cominciato a scoprire la relazione tra ascolto e postura. Per portarli allo step successivo (il rapporto tra ascolto, postura ed emissione vocale) abbiamo proposto dei suoni a bocca chiusa per far sperimentare come il proprio suono e quello altrui può far vibrare lo strumento sonoro di un essere umano, ossia il suo corpo. Hanno imparato a raccogliere (percepire) la risonanza corporea del suono emesso (più o meno presente a seconda delle tensioni corporee) sia con l’orecchio che con le mani poste in vari punti della gabbia toracica e del corpo per raccogliere la vibrazione, cioè la componente ossea della conduzione uditiva. Hanno così scoperto che il passaggio della vibrazione era un indice della loro postura e del loro ascolto.
Il lavoro con la voce è stato fatto individualmente in modo che, mentre un ragazzo sperimentava direttamente su di sé il rapporto voce-postura-ascolto davanti agli altri, questi ultimi a loro volta potevano apprendere valutando i cambiamenti che ascoltavano. Hanno appreso come, modificando la postura, fosse possibile portare il suono della voce oltre i blocchi corporei delle contratture muscolari per raggiungere una progressiva ricchezza di armonici: questa esperienza ha comportato una partecipazione crescente della classe che ha cominciato ad attivarsi grazie alla liberazione di emozioni, affetti, idee. Alla fine dell’anno il suono prodotto collettivamente dalla classe non somigliava più ad un muggito, come era inizialmente, quando pensavano che il suono venisse prodotto dalla gola (e non da tutto il corpo) e lo si dovesse spingere fuori con forza per essere ascoltati.
Quando infine il suono ha cominciato a ritrovare la sua sede originaria, abbiamo lavorato anche con i vocalizzi (suoni a bocca aperta).
Durante il secondo anno abbiamo proposto dei giochi sonori alla ricerca del suono perduto: l’obiettivo era di far scendere in modo semplice la risonanza della vibrazione sonora fino ai piedi. Ci siamo scontrati con la prevedibile difficoltà dei ragazzi ad accettare il cambiamento che passa attraverso il corpo e poiché quest’ultimo è il solo a costruire una possibilità reale di svincolo interiore, abbiamo proposto lo svincolo dei suoni delle parole dalle parole stesse: i ragazzi erano invitati ad inventare una scenetta dove venivano messi in gioco dei sentimenti e, anziché far parlare i vari personaggi con un copione “corretto”, dovevano prendere le frasi dai vari libri a disposizione (di storia, geografia, arte, matematica e quant’altro) per arrivare ad esprimere in modo coerente i suoni dei sentimenti messi in gioco; a turno un gruppo di lavoro intavolava una conversazione decisa precedentemente all’insaputa del resto del gruppo per poi rappresentarla davanti agli altri. L’espressività vocale raggiunta attraverso questo gioco, non senza fatica, ha permesso di raccontare a chi ascoltava il contesto in cui si era immaginato l’incontro ed il significato della conversazione.
Nei quattro incontri annuali, oltre alla sperimentazione, abbiamo dato degli spazi di ascolto ai “tormenti” della classe o alle riflessioni legate ad eventi nazionali ed internazionali: l’ascolto è alla base di ogni elaborazione psichica e la sperimentazione deve sempre lasciare il passo al qui ed ora degli accadimenti. Un punto importante è stato ad esempio lasciare uno spazio di elaborazione alle scelte che i ragazzi avrebbero dovuto fare alla fine del biennio, per seguire gli indirizzi di studio, il che avrebbe comportato per molti un cambiamento di classe.
All’inizio del terzo anno abbiamo riproposto il Questionario, il Test dell’albero e l’Analisi della qualità sonica vocale, sia come momento di verifica che per includere i nuovi arrivati nel nostro progetto: poiché sono arrivati segnali chiari sulla possibilità di una maggiore integrazione delle emozioni e degli affetti, è stato possibile dare il via ad una ricerca creativa più autentica sia a livello individuale che di gruppo.
È cominciato così il lavoro sugli accordi di frequenza che ha consentito di mettere da parte le inibizioni per avventurarsi verso l’incredulità. Quale avventura è stata la ricerca dei suoni corrispondenti ai singoli colori e scoprire come ogni frequenza corrisponda ad un colore e ad una determinata localizzazione corporea: abbiamo cantato tutto questo insieme, sia con i suoni a bocca chiusa che con i vocalizzi. Inizialmente ero io il direttore d’orchestra e i primi violini erano le colleghe tirocinanti che intervenivano sulle difficoltà individuali ancora presenti. Alla fine dell’anno, però, anche i ragazzi hanno sperimentato la possibilità di “dirigere” la loro orchestra: sceglievano dei disegni fatti da loro e si cercava un suono complessivo che ne restituisse l’immagine. Questo lavoro ha molto divertito la classe e tutti hanno voluto il loro momento di gloria.
In questo anno i ragazzi hanno scoperto le proprie qualità e quelle degli altri, ma fondamentale è stato tutto il lavoro fatto sul cantare (cioè sul far suonare il proprio corpo): a parte una grande vitalità ritrovata, hanno potuto scoprire come la ricerca di un accordo sonoro permettesse di trovare facilmente forme di raccordo affettivo e di pensiero. Nel corso di questo anno abbiamo deciso noi di lasciare degli spazi alla discussione come momento di verifica della capacità di mantenere la concentrazione oltre che una capacità di ascolto e di linguaggio nel confronto. Questo ci ha permesso di orientare il lavoro rispetto ai momenti di crisi relativi a determinate situazioni della vita dei ragazzi in generale, ed anche all’interno del contesto scolastico (nei rapporti con i compagni e con i professori).
Durante il quarto e quinto anno i ragazzi ci hanno accolto sempre con grande entusiasmo e soprattutto molto desiderosi di affrontare le nuove sfide che avevamo in serbo per loro: sono arrivati così i giochi di fantasia. Abbiamo proposto situazioni differenti che implicavano livelli di fantasia crescenti, dal suonare disegni sempre più elaborati al tentativo di doppiaggio di alcune rappresentazioni. Nell’ultimo anno i ragazzi sono stati in grado di realizzare una rappresentazione centrata sul cartoon de I Simpson, scelto da loro stessi; le voci dei personaggi sono state studiate e riprodotte lavorando sulla postura necessaria per interpretare e far vivere il personaggio attraverso le qualità vocali che lo caratterizzava. Si è fatta strada una vena interpretativa davvero sorprendente dove hanno sperimentato in un modo diverso la loro ritrovata capacità di dare un suono alle loro immagini e rappresentazioni interiori. Abbiamo anche tentato il passaggio successivo, quello del doppiaggio di un episodio del suddetto cartoon, ma i ragazzi non erano ancora pronti per cimentarsi con quel sincronismo che tale operazione creativa richiede.
È stato emozionante anche l’incontro a cui ha partecipato la Dott.ssa Patrizia Fortini (Archeologa della Sovrintendenza ai Beni Culturali), invitata proprio per portare una esperienza diretta ai molti che si apprestavano a tradurre gli studi effettuati in una possibilità di lavoro e/o di un ulteriore approfondimento negli studi. Dopo una prima fase in cui i ragazzi hanno posto, con grande curiosità, moltissime domande, abbiamo suonato infine tutti insieme opere d’arte conosciute e amate.
Nel penultimo incontro sono stati riproposti sia il Questionario che il Test dell’albero. All’incontro finale, dove sono stati presenti tutti i tirocinanti che negli anni avevano partecipato alla realizzazione del progetto, è stato riproposto il percorso fatto insieme con loro attraverso la rivisitazione dei vari “Test dell’albero” disegnati nel corso degli anni. Li abbiamo cantati insieme per entrare in risonanza con i vissuti del passato e farli diventare cosa viva: memoria. La partecipazione dei ragazzi e la loro emozione scorreva viva, come la nostra, del resto.
L’obiettivo del nostro progetto era puntare sull’ascolto come funzione di discriminazione e di scelta, nella ferma convinzione che sapere ascoltare bene equivalga a sapere scegliere bene. Al di là dei risultati specifici relativi ai questionari e ai test utilizzati (vedi paragrafo successivo), che possono mostrare i risultati più o meno oggettivi del nostro lavoro, abbiamo potuto constatare direttamente nel rapporto come, nel corso degli anni, formare i ragazzi all’ascolto abbia voluto dire sostanzialmente aiutarli nella definizione di una identità scevra da identificazioni.
Come avete potuto leggere, un punto centrale del lavoro è stata la sperimentazione corporea che ha potuto col tempo rendere possibile la assimilazione del rapporto tra postura, ascolto e voce. Siamo intervenuti contemporaneamente sui tre livelli, con una complessità gradualmente crescente nei diversi incontri, tenendo conto delle difficoltà e delle risorse presenti sia sul piano individuale che del gruppo di lavoro nel complesso. Al di là delle prevedibili resistenze legate solo in parte a quanto di nuovo si andava proponendo, ho sempre trovato tra i ragazzi una profonda disponibilità a lasciarsi sperimentare.
Siamo partiti da una classe con dei livelli di angoscia collegati soprattutto ad un futuro visto come qualcosa che li avrebbe potuti ingurgitare: scegliere di frequentare un Liceo Artistico non è cosa facile nel nostro Paese di questi tempi. Si rilevava inoltre una discrepanza tra una struttura di personalità della classe fortemente improntata all’azione e una creatività stereotipata e compressa, in sintonia quest’ultima con una affettività poco espressa. Pur avendo un forte bisogno di comunicare, i ragazzi davano pochissima importanza alla qualità della loro voce, come pure ai contesti rumorosi in cui il filo della loro voce puntualmente si perdeva. L’immagine della classe si divideva tra quella dell’atleta e del pistolero.
Il lavoro fatto con la “postura d’ascolto” ha portato i ragazzi a scoprire il silenzio, gemma preziosa che ha la stessa importanza dello Zero nella matematica. Lavorare con quei corpi accasciati, ritorti su sé stessi, è stato come andare a toccare i loro dolori, sia quelli fisici che psichici. Riuscire a passare da un occhio giudicante ad un orecchio accogliente che permettesse di lanciare la sfida oltre la parola (grazie ai “giochi sonori”), è stata la chiave di accesso per liberare la loro rabbia rispetto a chi li legava ad un mondo stereotipato e fisso quanto i primi alberi che avevano disegnato.
Dopo appena due anni di lavoro la personalità della classe, precedentemente ancorata alla corporeità, cominciava a cercare una definizione attraverso gli affetti e i pensieri espressi. Un ascolto più attento dei contesti reclamava un passaggio dal bisogno alla esigenza di comunicare e la contemporanea ricerca di un livello di separazione dalla ridondanza creativa. L’atleta rimaneva a sostanziare l’immagine della classe insieme a quella del ballerino che aveva finalmente surclassato l’immagine un po’ infantile del vecchio pistolero. Era evidente che il lavoro sull’ascolto aveva messo in primo piano la ricerca di una armonia e di una attenzione su come vengono dette le cose. Cominciava a farsi strada uno spirito critico che lasciava al palo quello polemico dei primi anni.
Lavorare negli anni successivi sugli “accordi di frequenza” e sui “giochi di fantasia” li ha portati ad uscire fuori dalla visione angusta individuale e a cercare l’altro per condividere la gioia di una realizzazione. Finalmente lavorare con loro è diventato più piacevole e meno faticoso. E quando, per vari motivi, perdevano l’accordo raggiunto, era sufficiente ripartire dalla postura d’ascolto e dal ritrovato silenzio, per riprendere la gioia della concentrazione. Alla fine del quinquennio i livelli di angoscia hanno lasciato spazio ad una sana irrequietezza legata ai passaggi futuri, non percepiti più come obbligati. L’affettività della classe era finalmente ben espressa, in connessione con un buon ascolto e una creatività ricca. Se la parola non trovava ancora la pienezza del dire era perché, nel dire, era diventata evidente la paura di ferire. La figura dell’atleta si stagliava netta sullo sfondo a delineare l’immagine della classe, insieme con una attenzione speciale al suono, a ciò che può fare male al corpo e ai pensieri.
Assistere alla crescita umana dei ragazzi e, di pari passo, al dispiegarsi della loro fantasia, è stata una esperienza davvero emozionante culminata nell’ultimo incontro in cui hanno espresso spontaneamente i vissuti, in piena sintonia con la voce. Abbiamo parlato del loro futuro e, benché fosse presente un timore, coerente al momento di passaggio, nessuno di loro si sentiva disperso o privo di motivazione nell’affrontare il futuro. Molti hanno deciso di approfondire gli studi per la Conservazione dei Beni Culturali, ma diversi ragazzi hanno anche pensato di iscriversi ad Architettura e altri ancora di seguire la propria vena artistica; una ragazza tra loro ha deciso di intraprendere la strada che la porterà a diventare archeologa (la Dott.ssa Fortini ne sarebbe felice). In nessuna di queste scelte era presente quella sorta di rassegnazione che troppo spesso prende i ragazzi quando si vedono sbarrate le vie del futuro. Le decisioni sono state prese naturalmente, a partire da quel che è stato sentito e pensato.
Mi piace finire con la domanda posta da una ragazza proprio quell’ultimo giorno. Aveva notato che, nella discussione con ragazzi di altre classi, le posizioni di questi ultimi venivano espresse “in modo poco convincente”, sostanzialmente con una povertà di pensiero e di vocabolario. La ragazza li aveva bollati come “noiosi e inconcludenti, forse anche un po’ stupidi”. Una pausa di silenzio e poi con uno sguardo vivace ed indagatore era arrivata la fatidica domanda: “Ma non sarà stato il lavoro che abbiamo fatto insieme in questi anni a fare la differenza e a farmi percepire la distanza che c’è tra noi della classe e gli altri ragazzi nell’esprimere le idee?”. Ho risposto con un sorriso e poi abbiamo riso a gran voce tutti insieme.
APPENDICE
Percezione dei vari contesti sonori. Le risposte fornite rispetto alla capacità, all’interno di un contesto sonoro, di riuscire a tenere il filo vocale, delle idee e l’espressione verbale di queste ultime, non è correlata alla capacità di mantenere l’assetto posturale (mediamente i SI nelle prime tre rappresenta il doppio dei NO); mentre per quanto riguarda la voce collegata al mantenimento della postura troviamo una netta prevalenza dei NO, con un rapporto di 3:1. Per quanto riguarda gli eventuali bisogni che possono insorgere all’interno di un contesto sonoro (fame, sete, ecc.) si evidenzia che i NO rispetto al senso della fame sono assolutamente prevalenti; sul fumo c’è una prevalenza dei NO, mentre per la voglia di bere riscontriamo una prevalenza dei SI (3:1). Da sottolineare che la funzione dei muscoli masticatori ostacola l’ascolto, mentre tutti i movimenti del volto paragonabili al movimento di suzione (quale il bere) lo favoriscono. Andando a valutare i contesti sonori specifici si coglie una differenza tra la prevalenza del contesto “tranquillo” della famiglia (4:1), i contesti degli amici abituali che sono prevalentemente “rumorosi” (2:1) e infine della classe che viene percepita come rumorosa nella quasi assoluta totalità.
Autopercezione ed eteropercezione. I ragazzi non mostrano particolari difficoltà a memorizzare o a prestare attenzione (3:1), però si rilevano lievi difficoltà a prendere decisioni (prevalenza dei SI): quest’ultimo aspetto potrebbe essere collegato alla mancanza di abitudine nel leggere ad alta voce, anche se la prevalenza (19 persone su 23) dice di avere una relazione positiva con la propria voce (quest’ultimo dato non coincide con quanto emerso durante la sperimentazione vocale, dove nella quasi totalità hanno dichiarato di non amare la propria voce). Nel dettaglio è come se fosse presente un desiderio di avere una voce piacevole che non corrisponde alla realtà e questo dato è confermato dal fatto che tutti i ragazzi amano ascoltare la musica (il volume utilizzato in tale ascolto musicale è nel 50% dei casi elevato e nel restante 50% medio: pertanto il desiderio di ascoltare la musica viene in parte vanificato dal volume alto che notoriamente porta a una chiusura difensiva dell’orecchio). C’è contrapposizione tra la voglia di ascoltare la musica e la difficoltà ad ascoltare le persone: esiste un rapporto di 5:1 tra quelli che devono chiedere agli altri di ripetere ciò che hanno appena detto e quelli che non ne hanno bisogno. Peraltro solo per un quarto dei ragazzi è importante ascoltare una bella voce.
Due terzi dei ragazzi ha l’abitudine di masticare gomme (che sappiamo chiudere l’ascolto) e circa un terzo presenta disturbi neurovegetativi generici (nausea, vertigine). Poco più della metà dei ragazzi non riesce ad esprimersi con la voce come vorrebbe. I ragazzi si percepiscono irritabili in un rapporto di 3:1. Si sentono flessibili nel corpo nel rapporto di 2:1, anche se quando si tratta di focalizzare l’attenzione su dolori o tensioni nelle varie parti del corpo il rapporto scende a 1:1 (la zona più colpita è quella delle gambe). Tenere presente a questo proposito che sempre nel rapporto di 2:1 i ragazzi fanno molta attività fisica, ben oltre le ore scolastiche dedicate all’educazione fisica. In riferimento a come il ragazzo si sente percepito dagli altri compagni, il 50% sostiene che gli altri lo riprendono perché parla a voce troppo alta e perché assume una postura scorretta.
Percezione di sé rispetto alla classe. Il 50% dei ragazzi percepisce il contesto sonoro della classe come “aggressivo”, mentre l’altro 50% si muove nell’ambito del rassicurante-armonioso. Questi dati in percentuale concordano con la capacità che i ragazzi sentono di potere esprimere con la voce, ma non con le idee (scende da 2:1 a 1:1). In un rapporto di 2:1 i ragazzi non vogliono modificare il contesto sonoro della classe e quelli che lo vogliono migliorare è perché lo ritengono troppo “rumoroso”. Se paragoniamo questo dato con quello precedente in cui 20 ragazzi avevano detto che la loro classe era rumorosa, evidentemente meno della metà sente questo contesto dannoso. Il 50% dei ragazzi riesce a seguire i loro compagni e tra questi soltanto due persone su 13 collegano questa capacità di attenzione a ciò che l’altro dice e a come viene detto (timbro della voce). Nel 40% dei casi i ragazzi si sentono abbastanza ascoltati dai professori, nel 40% non si sentono ascoltati e solo il 20% si sente pienamente ascoltato; solo un 50% vuole migliorare il rapporto con gli insegnanti. Le due immagini prevalenti sono quelle del pistolero e dell’atleta che occupano rispettivamente il 30% delle risposte; è interessante notare il dato che 8 persone prediligono l’immagine dell’atleta e lo stesso numero di persone, non necessariamente le stesse, vorrebbero migliorare il contesto sonoro della classe. Il colore prediletto (2/3) è il rosso e questo si collega alla spiccata corporeità (il rosso si colloca in una banda di frequenza tra i 250 e i 1000Hz). Tra gli alimenti si evidenzia in modo particolare il cioccolato e il pomodoro cotto che per la loro reazione acida determinano un disturbo della capacità di ascolto.
Percezione dei vari contesti sonori. Rispetto alla capacità dei ragazzi di riuscire a tenere il filo della voce, il filo delle idee e ad esprimerle verbalmente all’interno di un contesto sonoro, l’80% della classe ha risposto SI; anche riguardo alla capacità di mantenere la postura la proporzione dei SI cresce rispetto al primo anno, infatti più della metà della classe risponde positivamente (ad essere maggiormente in difficoltà sono le ragazze). Riguardo all’insorgere di bisogni all’interno di un contesto sonoro (come la fame, la sete ed il fumare), la metà della classe risponde SI al senso della fame e gli alimenti prediletti sono costituiti dai carboidrati, sia dolci che salati; mentre per quanto riguarda la voglia di bere e di fumare le risposte dei NO sono prevalenti in un rapporto di circa 2:1. Quindi i ragazzi in prevalenza attivano più facilmente i muscoli implicati nella masticazione che interferiscono negativamente con l’ascolto, a differenza dei movimenti che rimandano alla suzione (come il bere) che invece lo agevola. Nel distinguere la percezione di specifici contesti sonori, anche la famiglia è considerata “rumorosa” dalla metà dei ragazzi, questa proporzione aumenta lievemente rispetto al gruppo di amici abituali e la classe viene percepita “rumorosa” dal 70% degli allievi.
Autopercezione ed eteropercezione. Pur vivendo in contesti sonori prevalentemente rumorosi, i ragazzi non hanno difficoltà a memorizzare le cose nel 90% dei casi e non hanno difficoltà a prestare attenzione in un rapporto di circa 2:1; mentre poco più della metà della classe dichiara di avere difficoltà nel prendere decisioni. In un rapporto di 4:1 i ragazzi non hanno l’abitudine di leggere ad alta voce, ma quasi tutti danno una voce interna a ciò che leggono. Quasi la totalità della classe dice di avere un rapporto positivo con la propria voce e questo potrebbe collimare con il fatto che a tutti piace ascoltare la musica (a basso volume per il 20%, a volume medio per il 30%), ma il volume alto che utilizza la metà della classe rende ragione della chiusura difensiva all’ascolto: inoltre in un rapporto di 2:1 utilizzano le cuffie che risultano ulteriormente dannose. C’è ancora una parziale contrapposizione tra la voglia di ascoltare la musica e la difficoltà ad ascoltare le persone, infatti, il 50% dei ragazzi chiede alle persone di ripetere ciò che hanno appena detto proprio nella stessa percentuale di chi ascolta musica ad alto volume ed ha l’abitudine di masticare gomme provocando la chiusura dell’orecchio. Solo 1/3 della classe ha disturbi neurovegetativi (nausea, vertigine). Il desiderio di mettersi in ascolto trova riscontro nel dato che più della metà della classe riesce ora ad esprimere con la propria voce esattamente ciò che vorrebbe, inoltre la prevalenza dei ragazzi da importanza all’ascolto di una bella voce (75%), e tra questi il 25% lo ritiene “molto” importante. Gli allievi si percepiscono irritabili con un indice medio alto in un rapporto di 3:1, si sentono flessibili nel corpo in rapporto di 4:1, anche se andando a specificare le zone di tensione corporea i 2/3 della classe dichiara di avere tensioni o dolori prevalentemente nella zona cervicale o nella schiena. Questo può essere collegato alle ore di attività fisica svolta al di fuori del contesto scolastico a cui si dedicano durante la settimana che, in un rapporto di 2:1, va dalle 4 ore a oltre 5 ore. Rispetto a come i ragazzi si ritengono percepiti dagli altri, poco meno della metà di questi viene ripreso perché parla a voce troppo alta, mentre in un rapporto di 2:1 vengono richiamati perché assumono una postura scorretta.
Percezione di sé rispetto alla classe. La metà dei ragazzi percepisce il contesto sonoro della classe “armonioso”, mentre il restante 50% lo ritiene “aggressivo” o “noioso” e, nella medesima proporzione vorrebbero cambiare il contesto sonoro della classe. Questo dato, confrontato con la percentuale di chi ritiene tale contesto “rumoroso”, rivela che una buona parte di questi ragazzi sente l’esigenza di migliorarlo. Questo ultimo dato sembra concordare con il fatto che quasi la totalità degli allievi comunque dichiara di riuscire ad esprimersi con la propria voce, esprimere le proprie idee e seguire i compagni quando intervengono. La capacità di seguire gli interventi dei compagni per poco più della metà della classe si collega all’intenzione e all’interesse di ascoltare le opinioni altrui. Le immagini scelte per rappresentare la classe raccolgono complessivamente i 2/3 delle preferenze: l’immagine dell’atleta e del ballerino in un rapporto di 2:1. Anche in questo caso l’immagine dell’atleta viene scelta da un numero di persone che corrispondente a quello di coloro che non si pongono in una posizione passiva ma vorrebbero migliorare il contesto sonoro della classe. Il colore scelto per rappresentare la classe è per il 45% dei ragazzi il rosso che riguarda le frequenze gravi collegate alla corporeità (la cui banda di frequenza va dai 250 ai 1000 Hz), mentre un 25% indica il giallo che corrisponde alle frequenze medie, ed un restante 25% sceglie il nero che rappresenta l’insieme di tutti i colori e riguarda l’intera gamma frequenziale. In merito alla percezione dei ragazzi sulla disponibilità degli insegnanti ad ascoltarli i 2/3 della classe si sente “abbastanza” ascoltato, mentre 1/3 risponde pienamente SI. Quando gli si chiede se gli piacerebbe migliorare la comunicazione con i docenti, la proporzione di quelli che rispondono SI aumenta (3/4) includendo parte di coloro che precedentemente si erano espressi del tutto positivamente rispetto all’ascolto da parte dei loro insegnanti.
Percezione dei vari contesti sonori. Alle domande inerenti la capacità, all’interno di un contesto sonoro, di riuscire a tenere il filo della voce, delle idee e riuscire ad esprimerle verbalmente, il 90% dei ragazzi risponde di SI. Queste capacità sono maggiormente correlate alla capacità di mantenere la postura, infatti solo il 30% della classe risponde di non riuscire. Per quanto riguarda i bisogni che possono insorgere all’interno del contesto sonoro (come fame, sete e fumare) si ha una prevalenza dei NO rispetto a tutte e tre le voci: sia per la fame che per il fumo il rapporto è di 3:1, mentre per la voglia di bere è lievemente maggiore (2:1). È diminuita la tendenza ad attivare i muscoli masticatori che chiudono l’ascolto, a favore dei muscoli coinvolti nel bere che rimandano alla suzione e lo agevolano. Considerando i contesti sonori specifici, quello familiare viene definito “rumoroso” dalla metà della classe, gli amici abituali sono percepiti come rumorosi dal 40% dei ragazzi e nella stessa percentuale anche la classe viene percepita come rumorosa.
Autopercezione ed eteropercezione. I ragazzi non hanno particolari difficoltà a memorizzare o a prestare attenzione (5:1), mentre aumentano lievemente le risposte dei SI riguardo alla difficoltà a prendere decisioni (2:4). Solo i 2/3 della classe ha acquisito l’abitudine di leggere ad alta voce, e quasi tutti affermano di avere una relazione positiva con la propria voce. Tutti i ragazzi amano ascoltare la musica e il volume utilizzato è per il 40% elevato mentre per il restante 60% medio-basso. C’è un riscontro tra il desiderio di ascoltare la musica e quello di mettersi in ascolto delle persone, infatti solo 1/3 della classe si trova costretto a chiedere ad altri di ripetere quanto appena detto (che corrisponde in parte con la percentuale di coloro che ascoltano la musica ad alto volume provocando la chiusura difensiva dell’orecchio). Diviene sempre più importante per i ragazzi ascoltare una bella voce: per il 60% è “molto” importante mentre per il restante 40 % lo è “abbastanza”. Poco meno della metà degli allievi ha l’abitudine di masticare gomme (chiudendo l’ascolto) e in un rapporto di 1:4 presenta disturbi neurovegetativi (nausea, vertigine). Il 70% della classe ritiene di riuscire ad esprimere con la voce esattamente ciò che vorrebbe. I ragazzi si percepiscono irritabili in un rapporto di 3:1. Si sentono flessibili nel corpo nel 90% dei casi, anche se il 30% della classe riferisce dolori concentrati in alcune zone del corpo (in modo particolare la cervicale e la schiena). È da notare che gli allievi pur essendo al quinto anno, quindi impegnati con gli esami finali, continuano a fare molta attività fisica oltre a quella svolta a scuola (in rapporto di 3:1 più di 4 ore settimanali). Rispetto a come i ragazzi ritengono di essere percepiti dagli altri il 40% afferma di venire ripreso perché assume una postura scorretta ed il 20% perché parla a voce troppo alta.
Percezione di sé rispetto alla classe. Il 70% dei ragazzi percepisce il contesto sonoro della classe come “armonioso”, mentre per il 10% è “aggressivo” e per il restante 20% “noioso”, infine circa il 30% degli allievi vorrebbe migliorare tale contesto. Quest’ultimo dato, posto in relazione con la percentuale di chi inizialmente aveva definito “rumoroso” il contesto sonoro della classe (40%), evidenzia come siano quasi tutti motivati a produrre un cambiamento. La totalità degli allievi comunque dichiara di riuscire ad esprimersi con la propria voce, esprimere le proprie idee e seguire i compagni quando intervengono. La capacità di seguire gli interventi dei compagni, viene collegata all’interesse per l’opinione degli altri e alla capacità di questi ultimi di farsi ascoltare. L’immagine che più rappresenta la classe è per il 60% dei ragazzi quella dell’atleta, mentre l’immagine del ballerino trova il 20% delle preferenze. Il colore che più li rappresenta è il rosso (collegato alle frequenze gravi) che raccoglie il 40% delle preferenze, mentre un 30% sceglie il giallo (correlato alle frequenze medie) ed il restante 30% l’azzurro (che include le frequenze acute). In merito alla percezione dei ragazzi sulla disponibilità degli insegnanti ad ascoltarli il 60% si sente “abbastanza” ascoltato dai loro insegnanti, ed il restante 40% risponde di sentirsi ascoltato pienamente. Quando gli si chiede se gli piacerebbe migliorare la comunicazione con i docenti, circa il 30% risponde SI. L’abitudine più difficile da modificare è risultata quella alimentare, infatti il cioccolato e il pomodoro cotto continuano ad essere consumati regolarmente dal 50% dei ragazzi, pur essendo cibi acidi.
Il Test dell’albero permette di comprendere a quale punto la coscienza arriva ad aprirsi una strada nel non cosciente: esprime l’immagine di sé, le nozioni di spazio e di tempo, la vitalità, la verticalità.
Si valutano i tre livelli dell’albero - radici, tronco, chioma - che corrispondono a tre bande frequenziali differenti. Le radici esplorano l’area somatica che va dai 125Hertz ai 1000 Hertz (zona dei gravi); il tronco esplora l’area del linguaggio, compresa tra i 1000 e i 3000 Hertz (zona dei medi); la chioma esplora l’area creativa, compresa tra i 3000 e gli 8000 Hertz (zona degli acuti).
Queste zone corrispondono alle differenti frequenze che mettono in vibrazione le diverse parti del corpo.
La prima zona detta Vestibolare o Somatica rivela lo schema corporeo, la motricità, il senso del ritmo, le relazioni spazio-temporali. Dal punto di vista psichico evidenzia la presenza di un temperamento pratico ed impulsivo; rispetto alla postura rivela le problematiche muscolo-scheletriche e viscerali dell’area che va dai piedi al dorso.
La seconda zona del Linguaggio è la zona dell’integrazione delle regole, della comprensione, della concentrazione, del pensiero razionale e del linguaggio. Può rilevare la presenza di una tendenza alla razionalizzazione come difesa dalle emozioni ed uno spirito analitico. A livello somatico evidenzia tensioni muscolo-scheletriche e problematiche viscerali a carico dell’area che va dalla zona dorsale a quella cervicale.
La terza zona della Creatività è correlata al desiderio di ascoltare, alla memoria affettiva, all’immaginazione e alla creatività come espressione della realizzazione di sé. Questa zona rileva tensioni a carico della cervicale (spesso causa di cefalee) e rivela possibili problematiche connesse soprattutto alla sfera psicoaffettiva.
Tornando alla morfologia dell’albero è possibile analizzare una seconda lettura.
- Le radici rappresentano ciò che nel feto è la placenta: il nutrimento essenziale dato dalla accoglienza materna strutturale, che indica il livello di vitalità e quindi di sicurezza, fondamentale per avere una recettività salda. Attraverso le radici si legge la curiosità di comprendere, di sapere della vita e della morte, il livello di coscienza non cosciente.
- Il tronco corrisponde al cordone ombelicale e quindi al legame fondamentale con la madre sul piano emozionale e affettivo: ha a che fare con la conduzione energetica (direzione dal basso verso l’alto) e con la crescita psicologica da cui nasce la nozione del tempo.
- La chioma, di cui si valutano la dimensione e la direzione oltre che il tratto, corrisponde alla pelle che si dispiega per comunicare con il mondo: ha a che fare con la libertà di pensiero e creatività; con quella estensione della energia che permette di comunicare con l’intero universo.
Esiste poi un terzo livello di valutazione del Test dell’albero, collegato alle linee dell’albero stesso, che delineano le curve di ascolto. Poiché la conduzione del suono avviene sia per via aerea che per via ossea, si avranno due curve per ogni orecchio che nel complesso descrivono la capacità d’ascolto. La curva aerea indica il modo in cui la persona si adatta al contesto sociale mentre la curva ossea indica la vita interiore della persona ed il funzionamento organico, incluse le tensioni psicocorporee che incidono sulla postura.
Le curve dell’orecchio destro descrivono la situazione attuale mentre quelle dell’orecchio sinistro riguardano più l’aspetto affettivo della storia personale. Il confronto tra le due orecchie indica l’equilibrio interno della persona e la simmetria/asimmetria del corpo: ad esempio, è importante la distanza tra curva aerea e ossea, sia nell’orecchio destro che in quello sinistro, poiché evidenzia quanto l’interiorità collima con ciò che emerge nella nostra relazione con il mondo; se si verifica la presenza di picchi (punte di particolare sensibilità e dolore) e/o scotomi (disinvestimento di aree particolari del corpo o del Sé). L’andamento ideale delle curve dovrebbe avere una prima parte progressivamente ascendente con l’apice della crescita intorno ai 4000Hz circa, con una lieve flessione successiva.
- Struttura interna della classe: abbastanza definita, anche se ci sono livelli di angoscia attuale.
- Comunicazione: forte bisogno di comunicare.
- Personalità: fortemente improntata all’azione corporea.
- Creatività: stereotipata.
- Immagine corporea: strutturata ed elegante.
- Ascolto: buono, anche se l’angoscia per le situazioni attuali è una interferenza di rilievo.
- Tono dell’umore: sufficientemente stabile.
- Affettività: poco espressa.
- Struttura interna della classe: definita. Sono presenti livelli di angoscia collegati al corpo e di rabbia esplicitata.
- Comunicazione: è appena accennato il passaggio dal bisogno all’esigenza di comunicare.
- Personalità: una corporeità che cerca una definizione attraverso gli affetti e i pensieri espressi.
- Creatività: la ricerca di staccarsi da una ridondanza.
- Immagine corporea: strutturata ed elegante.
- Ascolto: buono.
- Tono dell’umore: stabile.
- Affettività: espressa.
- Struttura interna della classe: definita, anche se è presente un livello di irrequietezza legata ai passaggi futuri.
- Comunicazione: buona, con punte di rabbia sempre verbalizzate.
- Personalità: si sta definendo, anche se la paura di dire è legata alla paura di ferire.
- Creatività: ricca.
- Immagine corporea: definita e stabile.
- Ascolto: molto buono.
- Tono dell’umore: buono.
- Affettività: ben espressa.
Nei primi due anni ho avuto l’aiuto dei colleghi psicologi dei due Ser.T: il Dott. Nicola Barone (Distretto IX) e il Dott. Claudio Pierlorenzi (Distretto XII). Sono subentrati poi, nei cinque anni successivi, i tirocinanti psicologi (tirocinio post-laurea) di diverse scuole di specializzazione in psicoterapia che si sono avvicendati, perché tenere a bada una classe di adolescenti non è cosa facile: la Dott. Cinzia Sersante, la Dott. Alexandra Iafolla, la Dott. Silvia Stocchi e la Dott. Mafalda Gallo. Di queste giovani colleghe solo la Dott. Sersante aveva inizialmente delle conoscenze sul metodo Tomatis, conoscenze che attraverso un percorso formativo con la sottoscritta, l’hanno portata nel tempo a diventare tecnico di AudioPsicoFonologia. Voglio ringraziare tutti questi colleghi, dai più giovani ai meno giovani, per lo slancio con cui hanno condiviso, insieme con i ragazzi delle varie scuole, questa esperienza, nuova anche per loro, che io andavo proponendo. Esperienza che tra l’altro è andata modificandosi nel tempo, in relazione alle risposte che abbiamo avuto dai ragazzi delle varie classi con cui abbiamo lavorato.
Questo progetto che, come dicevo, si è andato strutturando nel tempo, parte dall’assunto che chi ha la possibilità di scegliere, sceglie sempre ciò che è meglio per sé stesso. Quindi si tratta di un percorso formativo in cui la prevenzione diventa un fatto da acquisire interiormente, come è naturale per ogni essere vivente, umano e non, tenersi lontano da ciò che è nocivo.
INTRODUZIONE GENERALE
Il discorso sulla prevenzione è molto complesso e di fatto può essere svolto in diversi modi, modi che si possono integrare per potenziarne l’effetto. Il primo atto preventivo nell’ambito clinico è la proposizione della cura, intesa non come risoluzione sintomatica, ma come recupero pieno della sanità psichica originaria presente alla nascita di ogni individuo: la cura e il suo obiettivo, la guarigione, diventano immediatamente azione preventiva nel momento in cui la persona guarita, non più paziente, porta nel mondo gli effetti del percorso psicoterapeutico fatto. Si tratta del suo nuovo modo di ascoltare sé stesso e gli altri, il suo movimento, il suo sguardo spalancato sul mondo: insomma la sua immagine. Egli diventa al contempo portatore di un nuovo sé e di una nuova speranza per un sé che abbia anche una espressione e un rispecchiamento sociale. Quando c’è questa speranza, che è insieme anche certezza, dati gli esiti della relazione terapeutica, il discorso sulla prevenzione si trova già ad un buon punto. Tutto questo per dirvi che la vera prevenzione si fa con una diagnosi precoce e corretta, prima ancora che con un efficace intervento di cura, che ne è la precisa conseguenza.
Tuttavia in ambito psichico le cose sono un po’ più complesse rispetto ad un ambito corporeo in cui impropriamente ricadono le cosiddette malattie somatiche. Infatti, in ambito psicopatologico esistono le personalità premorbose, cioè delle distorsioni dello sviluppo che danno luogo a personalità coartate, senza che peraltro si manifesti una chiara sintomatologia psichica. Molte di queste distorsioni si strutturano durante l’adolescenza, periodo turbolento della nostra esistenza, laddove ogni stato emotivo ed affettivo, ogni pensiero ed azione, è più vivido, come è più forte la capacità di immaginare. L’adolescenza è il luogo della provocazione, della minimizzazione e della esaltazione, di un ritmo non ancora “ritmato”, di una disarmonia che cerca il sogno e la poesia. L’adolescenza è il luogo psichico di quella sessualità emergente che cerca l’altro come diverso da sé, ma che cerca anche riparo, a volte conforto, in ciò che è già conosciuto: l’adolescenza dunque come fucina di ricerca che troverà nel percorso successivo la piena espressione. In una bellissima canzone Jacques Brel sostiene che a 17 anni tutti i sogni sono stati sognati; poi uno passa il resto della vita a realizzarli. Quando questo accade, l’Io si pone al servizio della piena realizzazione del Sé e della sua capacità di immaginare, una delle funzioni più importanti della nostra psiche.
Come si costruisce la capacità di immaginare? Beh, si tratta di un discorso piuttosto complesso che proprio non intendo semplificare. Posso dare tanto per cominciare dei rimandi bibliografici per un approfondimento. Diciamo che alla capacità di immaginare concorrono due funzioni strettamente interdipendenti: la memoria e l’ascolto.
L’ascolto, contrariamente all’udito che è un fenomeno passivo, è atto volontario inteso a ritrovare il mondo che ci circonda e a stabilire con esso una comunicazione profonda. La “messa in ascolto”, che coinvolge l’intero corpo, avviene attraverso l’acquisizione di una postura in grado di farlo entrare in risonanza con il mondo sonoro in cui è immerso. Ascoltare quindi diventa sapere cosa sentire, essere recettivi a tal punto da rispondere immediatamente a ciò che realmente gli altri ci comunicano attraverso il suono delle parole. È stato il Prof. Alfred Tomatis (1920-2001), medico otorinolaringoiatra francese, nella metà del secolo appena trascorso, ad approfondire su un piano psiconeurofisiologico la questione dell’ascolto a partire dalle funzioni dell’orecchio.
La relazione tra ascolto, postura e voce è indissolubilmente correlata al desiderio di comunicare, quindi alla dimensione psichica dell’essere umano. Nella vita precoce di ciascun individuo possono avvenire degli eventi difficili da superare che vanno ad intaccare proprio questo desiderio: i ricordi si cristallizzano e si fanno indelebili; la chiusura dell’ascolto determina, attraverso il sopraggiungere di contratture muscolari persistenti, una deformazione della postura nel suo complesso. Di conseguenza qualsiasi suono esterno che raggiunge il corpo non è più in grado di farlo vibrare nella sua interezza, ed anche il suono della voce dello stesso individuo si spezza lì dove le contratture ne bloccano il passaggio. Ricominciare a sensibilizzare l’ascolto vuol dire sciogliere per prima cosa questi nodi emotivi ed affettivi in modo da riprendere contatto e consapevolezza del modo in cui ci relazioniamo con noi stessi e con gli altri.
PROGETTO
Sulla base di quanto detto finora, occorre considerare che i disturbi dell’attenzione, del comportamento e della comunicazione in età scolare (e spesso anche in tempi successivi) dipendono da un cattivo ascolto. Partendo da questo dato abbiamo pensato di proporre un lavoro specifico proprio per sensibilizzare i ragazzi ad un ascolto corretto, funzionale sia al contesto scolastico che allo sviluppo personale di questi adolescenti. Senza tenere conto che l’ascolto è fondamentale anche per l’acquisizione “viscerale” di ogni forma di linguaggio, compreso quello artistico.
1. Obiettivi
Come primo obiettivo ci siamo posti il miglioramento della capacità di ascolto degli studenti, verso loro stessi e verso il mondo esterno, con un conseguente concreto miglioramento nella discriminazione tra ciò che è dannoso e ciò che non lo è; come secondo obiettivo, il miglioramento della capacità di comunicazione tra allievi e insegnanti, con il conseguente sviluppo di un “Sé collettivo”. Quando poi il progetto è stato proposto a due Licei Artistici, si è aggiunto un terzo obiettivo: valutare, con la collaborazione degli insegnanti, i miglioramenti nella acquisizione di una mentalità artistica all’interno della classe pilota, rispetto ad altre classi non coinvolte in questo progetto.
C’è da dire che il modo in cui abbiamo proposto negli anni il progetto, è andato modificandosi sulla base delle esperienze accumulate, ma anche in funzione dei contesti scolastici in cui ci siamo trovati a lavorare. Nei primi due anni abbiamo proposto un lavoro annuale con alcune classi del primo e del quinto anno (di un liceo scientifico e di un istituto tecnico di Roma), pensando di aiutare i ragazzi a superare la crisi di passaggio, rispettivamente dalle scuole medie e verso gli studi universitari o esperienze lavorative. Queste esperienze sono state interessanti, ma l’intento formativo di questo progetto, ci siamo accorti, richiedeva dei tempi più lunghi: siamo passati così a delle forme progettuali biennali e quinquennali con la medesima classe di due licei artistici di Roma. Poiché l’ascolto è sempre ascolto di sé stessi e degli altri, avevamo pensato di coinvolgere nel lavoro anche gli insegnanti i quali però in generale si sono dimostrati poco disponibili: è stato davvero sconcertante e desolante rilevare la chiusura della maggior parte dei docenti che si sono barricati dietro generici impegni non meglio specificati (solo tre dei dodici insegnanti della classe del primo biennio del liceo artistico si sono resi abbastanza disponibili).
Date le tante e variegate esperienze, abbiamo deciso di descrivere in modo dettagliato la sola esperienza vissuta con i ragazzi del Liceo Artistico “Mario Mafai” (dove abbiamo seguito gli studenti di una stessa classe dal primo al quinto anno) perché in questo contesto c’è stata la messa a punto definitiva della metodologia.
C’è da dire che il modo in cui abbiamo proposto negli anni il progetto, è andato modificandosi sulla base delle esperienze accumulate, ma anche in funzione dei contesti scolastici in cui ci siamo trovati a lavorare. Nei primi due anni abbiamo proposto un lavoro annuale con alcune classi del primo e del quinto anno (di un liceo scientifico e di un istituto tecnico di Roma), pensando di aiutare i ragazzi a superare la crisi di passaggio, rispettivamente dalle scuole medie e verso gli studi universitari o esperienze lavorative. Queste esperienze sono state interessanti, ma l’intento formativo di questo progetto, ci siamo accorti, richiedeva dei tempi più lunghi: siamo passati così a delle forme progettuali biennali e quinquennali con la medesima classe di due licei artistici di Roma. Poiché l’ascolto è sempre ascolto di sé stessi e degli altri, avevamo pensato di coinvolgere nel lavoro anche gli insegnanti i quali però in generale si sono dimostrati poco disponibili: è stato davvero sconcertante e desolante rilevare la chiusura della maggior parte dei docenti che si sono barricati dietro generici impegni non meglio specificati (solo tre dei dodici insegnanti della classe del primo biennio del liceo artistico si sono resi abbastanza disponibili).
Date le tante e variegate esperienze, abbiamo deciso di descrivere in modo dettagliato la sola esperienza vissuta con i ragazzi del Liceo Artistico “Mario Mafai” (dove abbiamo seguito gli studenti di una stessa classe dal primo al quinto anno) perché in questo contesto c’è stata la messa a punto definitiva della metodologia.
2. Materiali e Metodi
Per ogni anno scolastico sono stati fatti quattro incontri della durata di due ore ciascuno. Questo riportato di seguito è il calendario del primo anno di entrambi i licei artistici.
Riportiamo nel paragrafo “Materiali specifici ed Elaborazioni” i questionari da noi costruiti, sia per gli allievi che per gli insegnanti. I Questionari esplorano le abitudini di vita, gli atteggiamenti posturali, i contesti sonori in cui si vive, il contesto sonoro specifico della classe e la presenza di eventuali difficoltà scolastiche. Abbiamo ritenuto opportuno far rientrare le risposte del questionario all’interno di tre categorie così definite: percezione dei vari contesti sonori; eteropercezione ed autopercezione; percezione di Sé rispetto al contesto specifico della classe.
Abbiamo quindi utilizzato il Test dell’albero secondo la variante che il Prof. Tomatis ha adottato per valutare la qualità dell’ascolto dei bambini non in grado di essere sottoposti direttamente al test di ascolto: questo test è in grado di mettere in relazione la funzione dell’ascolto con la realizzazione della immagine corporea attraverso quanto viene disegnato. Generalmente viene fatto da una persona sola, ma noi abbiamo voluto valutare la classe nell’insieme, per cui abbiamo fatto un Test dell’albero collettivo invitando tutti i ragazzi della classe a venire in successione per contribuire, con un tratto, alla costruzione dell’immagine finale. Hanno così disegnato in sequenza sei alberi: i primi due devono essere fatti con la mano dominante e valutano rispettivamente le due curve, aerea e ossea, dell’orecchio corrispondente alla mano utilizzata; quindi si fa disegnare un albero immaginario (che valuta il livello di creatività, segnale di attivazione cocleare) e successivamente un albero a occhi chiusi (che valuta in tal modo la funzione vestibolare, cioè la rappresentazione dello spazio corporeo); gli ultimi due disegni devono essere fatti con la mano non dominante e rappresentano rispettivamente la curva aerea e ossea dell’orecchio corrispondente alla mano utilizzata. Il test dell’albero modificato secondo Tomatis permette dunque una valutazione generale della capacità d’ascolto dell’intera classe.
Oltre al Questionario e al Test dell’albero è stata fatta una Analisi della qualità sonica vocale della classe, invitando i ragazzi a fare dei suoni a bocca chiusa: ciò ha dato un ulteriore orientamento sulla banda passante in cui la classe si muove, vale a dire il suo campo frequenziale di ascolto.
Riportiamo nel paragrafo “Materiali specifici ed Elaborazioni” i questionari da noi costruiti, sia per gli allievi che per gli insegnanti. I Questionari esplorano le abitudini di vita, gli atteggiamenti posturali, i contesti sonori in cui si vive, il contesto sonoro specifico della classe e la presenza di eventuali difficoltà scolastiche. Abbiamo ritenuto opportuno far rientrare le risposte del questionario all’interno di tre categorie così definite: percezione dei vari contesti sonori; eteropercezione ed autopercezione; percezione di Sé rispetto al contesto specifico della classe.
Abbiamo quindi utilizzato il Test dell’albero secondo la variante che il Prof. Tomatis ha adottato per valutare la qualità dell’ascolto dei bambini non in grado di essere sottoposti direttamente al test di ascolto: questo test è in grado di mettere in relazione la funzione dell’ascolto con la realizzazione della immagine corporea attraverso quanto viene disegnato. Generalmente viene fatto da una persona sola, ma noi abbiamo voluto valutare la classe nell’insieme, per cui abbiamo fatto un Test dell’albero collettivo invitando tutti i ragazzi della classe a venire in successione per contribuire, con un tratto, alla costruzione dell’immagine finale. Hanno così disegnato in sequenza sei alberi: i primi due devono essere fatti con la mano dominante e valutano rispettivamente le due curve, aerea e ossea, dell’orecchio corrispondente alla mano utilizzata; quindi si fa disegnare un albero immaginario (che valuta il livello di creatività, segnale di attivazione cocleare) e successivamente un albero a occhi chiusi (che valuta in tal modo la funzione vestibolare, cioè la rappresentazione dello spazio corporeo); gli ultimi due disegni devono essere fatti con la mano non dominante e rappresentano rispettivamente la curva aerea e ossea dell’orecchio corrispondente alla mano utilizzata. Il test dell’albero modificato secondo Tomatis permette dunque una valutazione generale della capacità d’ascolto dell’intera classe.
Oltre al Questionario e al Test dell’albero è stata fatta una Analisi della qualità sonica vocale della classe, invitando i ragazzi a fare dei suoni a bocca chiusa: ciò ha dato un ulteriore orientamento sulla banda passante in cui la classe si muove, vale a dire il suo campo frequenziale di ascolto.
PROCEDIMENTO PER LA SPERIMENTAZIONE VOCALE
Mentre nel primo incontro, come abbiamo già detto, è stato proposto il Test dell’albero in forma collettiva, nell’incontro successivo è stato discusso il risultato del test prendendo in considerazione otto parametri che si desumono dalle curve di ascolto ottenute dalla analisi delle linee dell’albero (struttura interna della classe, comunicazione, personalità, creatività, immagine corporea, ascolto, tono dell’umore, affettività).
Questi parametri sono stati discussi con la classe che ha dovuto elaborare quanto da noi rilevato: “In sintesi, ci troviamo di fronte ad una classe di adolescenti in cui le emozioni vengono dirottate sull’agire corporeo e dove le singole difficoltà vengono celate dalla dimensione di gruppo. Da qui la tendenza ad uniformare i pensieri e i comportamenti con conseguente povertà creativa”. È evidente che il nostro dire voleva essere una provocazione per stabilire un primo contatto basato sulla curiosità e sulla ricerca.
Sempre nello stesso incontro sono state date delle informazioni sul concetto di ascolto e sulla relazione tra ascolto, voce e postura. Alla fine i ragazzi si sono dimostrati incuriositi dalla proposta di lavoro.
Durante il primo anno è stato molto impegnativo portare l’attenzione degli allievi proprio sul significato dell’ascolto e sulle loro difficoltà ad ascoltarsi reciprocamente. Come spesso accade tra gli adulti, mettevano in atto diverse modalità per interrompersi l’un con l’altro: si sovrapponevano a chi aveva la parola in quel momento; gli scherzi e le battute fuori luogo erano utilizzate puntualmente in modo da impedire ed impedirsi di conoscere ciò che di nuovo gli veniva proposto; si perdevano in atteggiamenti stereotipati che definivano l’appartenenza al gruppo, ma negavano la possibile espressione della individualità di ciascuno. Le resistenze a porsi in ascolto e a lasciarsi coinvolgere erano molte, impedendo un vero confronto non solo con noi, ma anche tra loro. Questa modalità difensiva è stata sempre verbalizzata ogni volta che si presentava perché occorreva creare uno spazio di pensabilità su quanto accadeva abitualmente.
Poiché alla base della pensabilità c’è il silenzio, siamo partiti proprio dalla postura d’ascolto: cercare a occhi chiusi e seduti sui banchi (senza quindi il contatto con la terra) dei suoni presenti e non ascoltati per scoprire che è possibile lanciare il nostro orecchio a delle distanze impensabili per raccogliere i suoni più lontani e apparentemente inaccessibili. Gli occhi chiusi che reclamano una nuova verticalità è stato il mezzo con cui i ragazzi hanno cominciato a scoprire la relazione tra ascolto e postura. Per portarli allo step successivo (il rapporto tra ascolto, postura ed emissione vocale) abbiamo proposto dei suoni a bocca chiusa per far sperimentare come il proprio suono e quello altrui può far vibrare lo strumento sonoro di un essere umano, ossia il suo corpo. Hanno imparato a raccogliere (percepire) la risonanza corporea del suono emesso (più o meno presente a seconda delle tensioni corporee) sia con l’orecchio che con le mani poste in vari punti della gabbia toracica e del corpo per raccogliere la vibrazione, cioè la componente ossea della conduzione uditiva. Hanno così scoperto che il passaggio della vibrazione era un indice della loro postura e del loro ascolto.
Il lavoro con la voce è stato fatto individualmente in modo che, mentre un ragazzo sperimentava direttamente su di sé il rapporto voce-postura-ascolto davanti agli altri, questi ultimi a loro volta potevano apprendere valutando i cambiamenti che ascoltavano. Hanno appreso come, modificando la postura, fosse possibile portare il suono della voce oltre i blocchi corporei delle contratture muscolari per raggiungere una progressiva ricchezza di armonici: questa esperienza ha comportato una partecipazione crescente della classe che ha cominciato ad attivarsi grazie alla liberazione di emozioni, affetti, idee. Alla fine dell’anno il suono prodotto collettivamente dalla classe non somigliava più ad un muggito, come era inizialmente, quando pensavano che il suono venisse prodotto dalla gola (e non da tutto il corpo) e lo si dovesse spingere fuori con forza per essere ascoltati.
Quando infine il suono ha cominciato a ritrovare la sua sede originaria, abbiamo lavorato anche con i vocalizzi (suoni a bocca aperta).
Durante il secondo anno abbiamo proposto dei giochi sonori alla ricerca del suono perduto: l’obiettivo era di far scendere in modo semplice la risonanza della vibrazione sonora fino ai piedi. Ci siamo scontrati con la prevedibile difficoltà dei ragazzi ad accettare il cambiamento che passa attraverso il corpo e poiché quest’ultimo è il solo a costruire una possibilità reale di svincolo interiore, abbiamo proposto lo svincolo dei suoni delle parole dalle parole stesse: i ragazzi erano invitati ad inventare una scenetta dove venivano messi in gioco dei sentimenti e, anziché far parlare i vari personaggi con un copione “corretto”, dovevano prendere le frasi dai vari libri a disposizione (di storia, geografia, arte, matematica e quant’altro) per arrivare ad esprimere in modo coerente i suoni dei sentimenti messi in gioco; a turno un gruppo di lavoro intavolava una conversazione decisa precedentemente all’insaputa del resto del gruppo per poi rappresentarla davanti agli altri. L’espressività vocale raggiunta attraverso questo gioco, non senza fatica, ha permesso di raccontare a chi ascoltava il contesto in cui si era immaginato l’incontro ed il significato della conversazione.
Nei quattro incontri annuali, oltre alla sperimentazione, abbiamo dato degli spazi di ascolto ai “tormenti” della classe o alle riflessioni legate ad eventi nazionali ed internazionali: l’ascolto è alla base di ogni elaborazione psichica e la sperimentazione deve sempre lasciare il passo al qui ed ora degli accadimenti. Un punto importante è stato ad esempio lasciare uno spazio di elaborazione alle scelte che i ragazzi avrebbero dovuto fare alla fine del biennio, per seguire gli indirizzi di studio, il che avrebbe comportato per molti un cambiamento di classe.
All’inizio del terzo anno abbiamo riproposto il Questionario, il Test dell’albero e l’Analisi della qualità sonica vocale, sia come momento di verifica che per includere i nuovi arrivati nel nostro progetto: poiché sono arrivati segnali chiari sulla possibilità di una maggiore integrazione delle emozioni e degli affetti, è stato possibile dare il via ad una ricerca creativa più autentica sia a livello individuale che di gruppo.
È cominciato così il lavoro sugli accordi di frequenza che ha consentito di mettere da parte le inibizioni per avventurarsi verso l’incredulità. Quale avventura è stata la ricerca dei suoni corrispondenti ai singoli colori e scoprire come ogni frequenza corrisponda ad un colore e ad una determinata localizzazione corporea: abbiamo cantato tutto questo insieme, sia con i suoni a bocca chiusa che con i vocalizzi. Inizialmente ero io il direttore d’orchestra e i primi violini erano le colleghe tirocinanti che intervenivano sulle difficoltà individuali ancora presenti. Alla fine dell’anno, però, anche i ragazzi hanno sperimentato la possibilità di “dirigere” la loro orchestra: sceglievano dei disegni fatti da loro e si cercava un suono complessivo che ne restituisse l’immagine. Questo lavoro ha molto divertito la classe e tutti hanno voluto il loro momento di gloria.
In questo anno i ragazzi hanno scoperto le proprie qualità e quelle degli altri, ma fondamentale è stato tutto il lavoro fatto sul cantare (cioè sul far suonare il proprio corpo): a parte una grande vitalità ritrovata, hanno potuto scoprire come la ricerca di un accordo sonoro permettesse di trovare facilmente forme di raccordo affettivo e di pensiero. Nel corso di questo anno abbiamo deciso noi di lasciare degli spazi alla discussione come momento di verifica della capacità di mantenere la concentrazione oltre che una capacità di ascolto e di linguaggio nel confronto. Questo ci ha permesso di orientare il lavoro rispetto ai momenti di crisi relativi a determinate situazioni della vita dei ragazzi in generale, ed anche all’interno del contesto scolastico (nei rapporti con i compagni e con i professori).
Durante il quarto e quinto anno i ragazzi ci hanno accolto sempre con grande entusiasmo e soprattutto molto desiderosi di affrontare le nuove sfide che avevamo in serbo per loro: sono arrivati così i giochi di fantasia. Abbiamo proposto situazioni differenti che implicavano livelli di fantasia crescenti, dal suonare disegni sempre più elaborati al tentativo di doppiaggio di alcune rappresentazioni. Nell’ultimo anno i ragazzi sono stati in grado di realizzare una rappresentazione centrata sul cartoon de I Simpson, scelto da loro stessi; le voci dei personaggi sono state studiate e riprodotte lavorando sulla postura necessaria per interpretare e far vivere il personaggio attraverso le qualità vocali che lo caratterizzava. Si è fatta strada una vena interpretativa davvero sorprendente dove hanno sperimentato in un modo diverso la loro ritrovata capacità di dare un suono alle loro immagini e rappresentazioni interiori. Abbiamo anche tentato il passaggio successivo, quello del doppiaggio di un episodio del suddetto cartoon, ma i ragazzi non erano ancora pronti per cimentarsi con quel sincronismo che tale operazione creativa richiede.
È stato emozionante anche l’incontro a cui ha partecipato la Dott.ssa Patrizia Fortini (Archeologa della Sovrintendenza ai Beni Culturali), invitata proprio per portare una esperienza diretta ai molti che si apprestavano a tradurre gli studi effettuati in una possibilità di lavoro e/o di un ulteriore approfondimento negli studi. Dopo una prima fase in cui i ragazzi hanno posto, con grande curiosità, moltissime domande, abbiamo suonato infine tutti insieme opere d’arte conosciute e amate.
Nel penultimo incontro sono stati riproposti sia il Questionario che il Test dell’albero. All’incontro finale, dove sono stati presenti tutti i tirocinanti che negli anni avevano partecipato alla realizzazione del progetto, è stato riproposto il percorso fatto insieme con loro attraverso la rivisitazione dei vari “Test dell’albero” disegnati nel corso degli anni. Li abbiamo cantati insieme per entrare in risonanza con i vissuti del passato e farli diventare cosa viva: memoria. La partecipazione dei ragazzi e la loro emozione scorreva viva, come la nostra, del resto.
L’esperienza delle tirocinanti sulle vie del suono
(a cura di Alexandra Iafolla, Cinzia Sersante, Silvia Stocchi)
Abbiamo collaborato alla realizzazione del progetto in qualità di psicologhe tirocinanti durante gli anni della specializzazione. Quando siamo state coinvolte venivamo da esperienze molto diverse e ognuna di noi stava vivendo momenti critici all’interno della propria formazione: la Dott.ssa Cinzia Sersante, che ha partecipato nei primi due anni del progetto, si stava formando in AudioPsicoFonologia ed aveva partecipato ad altri progetti sull’ascolto già in corso presso altri istituti superiori; per la Dott.ssa Alexandra Iafolla e la Dott.ssa Silvia Stocchi, coinvolte negli anni successivi, il contenuto stesso del progetto era completamente nuovo.
Nei cinque anni di lavoro, pur essendoci inserite in tempi diversi ed avvicendate nel tempo, abbiamo potuto vivere con continuità il percorso di crescita della classe grazie agli incontri di supervisione clinica tenuti dalla Dott.ssa Concetta Turchi presso la ASL RM/C. Per avventurarci in questo progetto siamo state invitate a lasciare i bagagli ingombranti delle vetuste teorie psicologiche, unico modo per fare spazio a quella nuova esperienza. Non abbiamo accolto quell’invito tutte allo stesso modo e le differenze emerse dal confronto hanno messo ancora più in evidenza le grandi potenzialità che questo lavoro offriva non solo ai ragazzi, che ne erano ovviamente i protagonisti, ma anche a noi.
Il primo approccio con la classe non è stato semplice da sostenere. I ragazzi si rapportavano come se venisse loro proposta una delle attività scolastiche in cui si ritrovavano a essere i soliti contenitori passivi di una presunta conoscenza travasata da un adulto. Questo preconcetto si allargava al concetto stesso di ascolto, da cui il tentativo di teorizzarlo ed istituzionalizzarlo prima ancora di averlo vissuto direttamente. Come corollario di questo atteggiamento, i ragazzi cercavano di costruire l’appartenenza al gruppo uniformandosi nel modo di esprimersi, sia in termini verbali che non verbali: erano compatti in questo loro impedirsi di ascoltare e conoscere ciò che di nuovo veniva loro proposto. Ottenere un silenzio attento e spontaneo rivolto a chiunque avesse la parola in quel momento sembrava un’impresa davvero titanica. Rispetto a tali atteggiamenti noi tirocinanti eravamo sempre tentate di intervenire - e a volte lo abbiamo anche fatto - chiedendo il silenzio come fanno gli insegnanti, ma la Dott.ssa Turchi ci riprendeva sempre spiegandoci che muoversi in quel modo aveva il significato di chiedere il rispetto a partire da uno dei tanti schemi rigidi imposti dall’educazione. Diceva: “Il rispetto ce lo dobbiamo guadagnare”. Noi sopportavamo tacendo perché, in quelle circostanze era arduo anche solo immaginare come sarebbe stato possibile trovare un canale per avviare un cambiamento. Di conseguenza, all’impatto con le resistenze dei ragazzi, tendevamo a metterci difensivamente nella posizione marginale di osservatrici, piuttosto che partecipare attivamente. A distanza di tempo ci accorgiamo che abbiamo messo in atto le stesse modalità difensive di quei ragazzi; e infatti, come loro, siamo state coinvolte nelle varie attività proposte sperimentandole insieme con gli allievi. Solo questo ci ha permesso di superare lo stallo iniziale immergendoci completamente nella realtà che stavamo vivendo.
Per superare le difficoltà vissute nel rapporto con la classe, è stato fondamentale avere la possibilità di osservare e tentare di comprendere il modo di porsi e di condurre il lavoro della Dott. Turchi che inizialmente ci appariva indecifrabile: il suo movimento non era mai prevedibile né riconducibile ad alcun ruolo sia per noi che per i giovani alunni. Nell’attesa di trovare un modo diverso per rapportarci ai ragazzi, stavamo imparando che potevamo crescere insieme solo lasciando il bagaglio di rapporti codificati che facevano parte della nostra vita professionale come di quella personale.
Per quante tra noi non avevano nessuna conoscenza del metodo Tomatis, e neanche la più pallida idea di cosa significasse lavorare sull’ascolto e sulla voce, l’impatto con le attività proposte è stato spiazzante almeno quanto lo era per i ragazzi. Nel raggiungimento della postura d’ascolto, ad esempio, eravamo tutti invitati a sederci sui banchi per cercare, a occhi chiusi, i suoni provenienti dall’interno della classe e poi perfino dall’esterno dell’edificio: l’invito era quello di immaginare di intrecciare le orecchie sul vertice della testa e portare questa specie di chignon sulla mano destra, mentre il corpo poteva oscillare liberamente alla ricerca dei suoni come una antenna. Tutto questo ovviamente poteva essere fatto solo in un silenzio totale. Come capivamo le risatine, le battute e il chiacchiericcio dei ragazzi! Anche noi, come loro, non riuscivamo proprio a comprendere a cosa potesse servire immaginare di avere le orecchie collocate in un’altra zona del corpo e altre cose strane di questo tipo: sembrava proprio un’esperienza bizzarra e in alcuni momenti era perfino imbarazzante viverla con la classe. Eravamo talmente disorientate che in quei momenti avremmo preferito essere dei piccoli insetti per osservare senza essere viste e, per quanto tentassimo con ostinazione di aggrapparci a spiegazioni razionali, era proprio impossibile riuscire nell’intento… e questo ci incuriosiva moltissimo. Sicuramente incuriosiva anche i ragazzi.
Nelle prime sperimentazioni proposte, dopo la fase dei suoni a bocca chiusa per giungere a sentire come il suono della voce facesse vibrare il corpo, dovevano leggere ad alta voce e, coadiuvati dalla Dott. Turchi, assumere le posizioni più strane per permettere il passaggio del suono in tutto il corpo. Era incredibile - anche per noi! – come, una volta lasciate anche solo per un momento le tensioni corporee e/o il pensiero del giudizio dei compagni, la voce emergesse dapprima timidamente e poi via via in modo più determinato chiedendo il diritto ad esistere: nello stupore generale il suono cominciava a ritrovare la via del corpo e i pensieri cambiavano con il mutare delle voci. Nel corso del tempo accadeva sempre più spesso che il suono autentico e vibrante della voce sgorgasse improvvisamente: era come assistere alla nascita di un bambino che con i primi vagiti sente il proprio corpo che vibra e fa vibrare tutto l’ambiente intorno a lui per annunciare il suo arrivo. I muscoli del corpo ed in particolare quelli del volto ne beneficiavano, distendendosi, cosicché i ragazzi trovavano contemporaneamente una postura più eretta e dei lineamenti più rilassati. Il piacere di queste scoperte li rendeva spontaneamente sempre più presenti, e mentre partecipavamo alle varie attività con loro, anche noi vivevamo quella stessa gioia. La potenza di quei momenti ci permetteva di iniziare a intuire quanto fosse profondo il rapporto tra il suono autentico della propria voce e l’essere vivi: era ormai chiaro come lavorare con la voce andasse a toccare corde profonde e delicate.
Al secondo anno di lavoro avevamo l’impressione che la classe fosse in bilico tra due strade: quella della curiosità per qualcosa di nuovo che stavano scoprendo e la paura che questo li portasse troppo lontani dal conosciuto. Quel vissuto apparteneva anche a noi che, pur avendo iniziato a mettere in discussione le vecchie certezze, eravamo ancora in bilico tra il conosciuto rassicurante e l’ignoto destabilizzante. Curiosa posizione la nostra: se da una parte eravamo lì proprio per attivare un processo di cambiamento, dall’altra dovevamo noi per prime fare i conti con le nostre difese. Il passaggio tra il secondo e il terzo anno è stato particolarmente delicato perché ciascuno di loro era chiamato a scegliere il proprio indirizzo di studi dopo il biennio: ci hanno così chiesto di riservare una parte dell’ultimo incontro ad un confronto tra loro e con noi. Evidentemente cominciava ad affiorare l’esigenza di un ascolto reciproco rispetto ai propri vissuti e le voci erano in grado di esprimere esattamente le emozioni collegate alle proprie incertezze e timori, come quelle relative agli interessi e alle passioni.
Al terzo anno la classe era cambiata: alcuni avevano scelto altri indirizzi e altri si erano aggiunti. I nuovi arrivati dovevano cimentarsi con l’esperienza in corso e tra questi c’era un ragazzo decisamente prepotente di 16 anni che andava assumendo il ruolo di leader negativo della classe (tra l’altro frequentava un gruppo di ragazzi più grandi del suo quartiere con i quali aveva compiuto i primi furti): nel mettersi in gioco era divertito e spaesato, regalando un’immagine di sé assai diversa da quella che fino a quel momento si era ostinato a costruire. Dovevamo arrenderci all’evidenza: era proprio il lavoro sull’ascolto a condurre ognuno ad entrare in contatto con una dimensione profonda di sé. In quell’anno e nel successivo i ragazzi hanno continuato a giocare con i suoni lasciandosi coinvolgere sempre di più e riuscendo a tenere il filo della propria voce più facilmente. La ricerca di un’espressione sonora rendeva possibile non solo suonare i disegni personali che ognuno sceglieva accuratamente per l’occasione, ma persino di realizzare delle immagini a partire dal suono. Anche i Test dell’albero nel tempo acquisivano un significato particolare per la classe: realizzarli diventava sempre più semplice e piacevole, ed erano sempre interessati a quanto ne emergeva. L’armonia che avevano trovato insieme si rifletteva nelle loro opere, che raccontavano il percorso di crescita e di sviluppo delle proprie capacità creative. D’altra parte anche noi scoprivamo insieme con i ragazzi come fosse possibile col solo suono della voce rendere esattamente il senso di un dialogo; come determinate frequenze sonore potessero mettere in vibrazione specifiche aree del corpo e come fosse possibile dare un suono ad ogni colore, disegno e perfino opera d’arte.
All’inizio del quinto anno li abbiamo trovati veramente cresciuti: erano molto attenti e curiosi, desiderosi di trovare nuove forme di espressione personale. Questo si traduceva in un rinnovato interesse per quanto gli andavamo proponendo e soprattutto nella voglia di divertirsi e sperimentare. Quando gli è stato proposto di ideare un’opera che fosse espressione di quanto realizzato insieme negli anni, loro hanno scelto di reinterpretare con le proprie voci i personaggi de I Simpson. Abbiamo studiato insieme le caratteristiche corporee e vocali dei singoli personaggi ed è stato molto emozionante assistere alla loro messa in scena, cosa che ha trasformato in modo indelebile per noi il ricordo di quel cartone animato. Cercare con il proprio corpo le posture collegate alle voci dei personaggi è stata una autentica sperimentazione: scoprivano che alla relazione postura-voce si aggiungeva quella dell’atteggiamento nei confronti della vita. Tutto ciò ci confermava quanto fosse importante questa esperienza nell’ambito della professione per la quale ci stavamo preparando.
All’incontro conclusivo di questo percorso erano presenti tutti i tirocinanti che avevano partecipato nel quinquennio alla realizzazione del progetto. Per chi non aveva avuto modo di seguire i ragazzi negli ultimi anni, è stato molto emozionante e sorprendente ritrovarli così cambiati. Erano quasi irriconoscibili tanto erano cresciuti umanamente e nel modo in cui, disinvolti e appassionati, giocavano col suono. Erano ora capaci di proporre la loro identità nell’interazione, di confrontarsi tra loro e con noi in modo diverso. Tutto il lavoro fatto gli aveva permesso di recuperare la capacità di ascolto ritrovando un livello di fantasia importante. Nel mentre ripercorrevamo l’esperienza vissuta insieme, attraverso la rivisitazione dei Test dell’albero realizzati negli anni, l’emozione era palpabile e trovava nei ragazzi una piena espressione corporea e verbale.
Quell’esperienza, che ci aveva all’inizio schiaffeggiate e poi rapite, aveva tracciato la strada per una ricerca personale tesa ad iniziare, o approfondire, il lavoro sull’ascolto e sulla voce, benché esso avrebbe continuato a scardinare - lo sapevamo! - qualsiasi forma di certezza precostituita, in primis le conoscenze “nozionistiche” apprese sui libri in tanti anni di studi e forse anche l’idea stessa che ognuna di noi aveva di sé. Lavorare con quei ragazzi, vedere la loro crescita, ci aveva fatto sentire i confini angusti delle nostre credenze come dei reali impedimenti ad una comunicazione profonda. Questo lungo viaggio ci ha dato modo di scoprire che mettere l’ascolto al centro della propria esistenza significa viverla, essere presenti nel rapporto con sé e con l’altro, e potersi mettere nella condizione di fare scelte sempre più libere. Cominciavamo a comprendere quanto questo fosse indispensabile per costruire una identità umana prima ancora che professionale. Poter affiancare la Dott. Turchi in tutto il percorso ci ha insegnato come soltanto una prassi centrata sull’ascolto consente di poter essere agenti del cambiamento, o perfino della trasformazione, indispensabile per svolgere qualsivoglia funzione terapeutica.
(a cura di Alexandra Iafolla, Cinzia Sersante, Silvia Stocchi)
Abbiamo collaborato alla realizzazione del progetto in qualità di psicologhe tirocinanti durante gli anni della specializzazione. Quando siamo state coinvolte venivamo da esperienze molto diverse e ognuna di noi stava vivendo momenti critici all’interno della propria formazione: la Dott.ssa Cinzia Sersante, che ha partecipato nei primi due anni del progetto, si stava formando in AudioPsicoFonologia ed aveva partecipato ad altri progetti sull’ascolto già in corso presso altri istituti superiori; per la Dott.ssa Alexandra Iafolla e la Dott.ssa Silvia Stocchi, coinvolte negli anni successivi, il contenuto stesso del progetto era completamente nuovo.
Nei cinque anni di lavoro, pur essendoci inserite in tempi diversi ed avvicendate nel tempo, abbiamo potuto vivere con continuità il percorso di crescita della classe grazie agli incontri di supervisione clinica tenuti dalla Dott.ssa Concetta Turchi presso la ASL RM/C. Per avventurarci in questo progetto siamo state invitate a lasciare i bagagli ingombranti delle vetuste teorie psicologiche, unico modo per fare spazio a quella nuova esperienza. Non abbiamo accolto quell’invito tutte allo stesso modo e le differenze emerse dal confronto hanno messo ancora più in evidenza le grandi potenzialità che questo lavoro offriva non solo ai ragazzi, che ne erano ovviamente i protagonisti, ma anche a noi.
Il primo approccio con la classe non è stato semplice da sostenere. I ragazzi si rapportavano come se venisse loro proposta una delle attività scolastiche in cui si ritrovavano a essere i soliti contenitori passivi di una presunta conoscenza travasata da un adulto. Questo preconcetto si allargava al concetto stesso di ascolto, da cui il tentativo di teorizzarlo ed istituzionalizzarlo prima ancora di averlo vissuto direttamente. Come corollario di questo atteggiamento, i ragazzi cercavano di costruire l’appartenenza al gruppo uniformandosi nel modo di esprimersi, sia in termini verbali che non verbali: erano compatti in questo loro impedirsi di ascoltare e conoscere ciò che di nuovo veniva loro proposto. Ottenere un silenzio attento e spontaneo rivolto a chiunque avesse la parola in quel momento sembrava un’impresa davvero titanica. Rispetto a tali atteggiamenti noi tirocinanti eravamo sempre tentate di intervenire - e a volte lo abbiamo anche fatto - chiedendo il silenzio come fanno gli insegnanti, ma la Dott.ssa Turchi ci riprendeva sempre spiegandoci che muoversi in quel modo aveva il significato di chiedere il rispetto a partire da uno dei tanti schemi rigidi imposti dall’educazione. Diceva: “Il rispetto ce lo dobbiamo guadagnare”. Noi sopportavamo tacendo perché, in quelle circostanze era arduo anche solo immaginare come sarebbe stato possibile trovare un canale per avviare un cambiamento. Di conseguenza, all’impatto con le resistenze dei ragazzi, tendevamo a metterci difensivamente nella posizione marginale di osservatrici, piuttosto che partecipare attivamente. A distanza di tempo ci accorgiamo che abbiamo messo in atto le stesse modalità difensive di quei ragazzi; e infatti, come loro, siamo state coinvolte nelle varie attività proposte sperimentandole insieme con gli allievi. Solo questo ci ha permesso di superare lo stallo iniziale immergendoci completamente nella realtà che stavamo vivendo.
Per superare le difficoltà vissute nel rapporto con la classe, è stato fondamentale avere la possibilità di osservare e tentare di comprendere il modo di porsi e di condurre il lavoro della Dott. Turchi che inizialmente ci appariva indecifrabile: il suo movimento non era mai prevedibile né riconducibile ad alcun ruolo sia per noi che per i giovani alunni. Nell’attesa di trovare un modo diverso per rapportarci ai ragazzi, stavamo imparando che potevamo crescere insieme solo lasciando il bagaglio di rapporti codificati che facevano parte della nostra vita professionale come di quella personale.
Per quante tra noi non avevano nessuna conoscenza del metodo Tomatis, e neanche la più pallida idea di cosa significasse lavorare sull’ascolto e sulla voce, l’impatto con le attività proposte è stato spiazzante almeno quanto lo era per i ragazzi. Nel raggiungimento della postura d’ascolto, ad esempio, eravamo tutti invitati a sederci sui banchi per cercare, a occhi chiusi, i suoni provenienti dall’interno della classe e poi perfino dall’esterno dell’edificio: l’invito era quello di immaginare di intrecciare le orecchie sul vertice della testa e portare questa specie di chignon sulla mano destra, mentre il corpo poteva oscillare liberamente alla ricerca dei suoni come una antenna. Tutto questo ovviamente poteva essere fatto solo in un silenzio totale. Come capivamo le risatine, le battute e il chiacchiericcio dei ragazzi! Anche noi, come loro, non riuscivamo proprio a comprendere a cosa potesse servire immaginare di avere le orecchie collocate in un’altra zona del corpo e altre cose strane di questo tipo: sembrava proprio un’esperienza bizzarra e in alcuni momenti era perfino imbarazzante viverla con la classe. Eravamo talmente disorientate che in quei momenti avremmo preferito essere dei piccoli insetti per osservare senza essere viste e, per quanto tentassimo con ostinazione di aggrapparci a spiegazioni razionali, era proprio impossibile riuscire nell’intento… e questo ci incuriosiva moltissimo. Sicuramente incuriosiva anche i ragazzi.
Nelle prime sperimentazioni proposte, dopo la fase dei suoni a bocca chiusa per giungere a sentire come il suono della voce facesse vibrare il corpo, dovevano leggere ad alta voce e, coadiuvati dalla Dott. Turchi, assumere le posizioni più strane per permettere il passaggio del suono in tutto il corpo. Era incredibile - anche per noi! – come, una volta lasciate anche solo per un momento le tensioni corporee e/o il pensiero del giudizio dei compagni, la voce emergesse dapprima timidamente e poi via via in modo più determinato chiedendo il diritto ad esistere: nello stupore generale il suono cominciava a ritrovare la via del corpo e i pensieri cambiavano con il mutare delle voci. Nel corso del tempo accadeva sempre più spesso che il suono autentico e vibrante della voce sgorgasse improvvisamente: era come assistere alla nascita di un bambino che con i primi vagiti sente il proprio corpo che vibra e fa vibrare tutto l’ambiente intorno a lui per annunciare il suo arrivo. I muscoli del corpo ed in particolare quelli del volto ne beneficiavano, distendendosi, cosicché i ragazzi trovavano contemporaneamente una postura più eretta e dei lineamenti più rilassati. Il piacere di queste scoperte li rendeva spontaneamente sempre più presenti, e mentre partecipavamo alle varie attività con loro, anche noi vivevamo quella stessa gioia. La potenza di quei momenti ci permetteva di iniziare a intuire quanto fosse profondo il rapporto tra il suono autentico della propria voce e l’essere vivi: era ormai chiaro come lavorare con la voce andasse a toccare corde profonde e delicate.
Al secondo anno di lavoro avevamo l’impressione che la classe fosse in bilico tra due strade: quella della curiosità per qualcosa di nuovo che stavano scoprendo e la paura che questo li portasse troppo lontani dal conosciuto. Quel vissuto apparteneva anche a noi che, pur avendo iniziato a mettere in discussione le vecchie certezze, eravamo ancora in bilico tra il conosciuto rassicurante e l’ignoto destabilizzante. Curiosa posizione la nostra: se da una parte eravamo lì proprio per attivare un processo di cambiamento, dall’altra dovevamo noi per prime fare i conti con le nostre difese. Il passaggio tra il secondo e il terzo anno è stato particolarmente delicato perché ciascuno di loro era chiamato a scegliere il proprio indirizzo di studi dopo il biennio: ci hanno così chiesto di riservare una parte dell’ultimo incontro ad un confronto tra loro e con noi. Evidentemente cominciava ad affiorare l’esigenza di un ascolto reciproco rispetto ai propri vissuti e le voci erano in grado di esprimere esattamente le emozioni collegate alle proprie incertezze e timori, come quelle relative agli interessi e alle passioni.
Al terzo anno la classe era cambiata: alcuni avevano scelto altri indirizzi e altri si erano aggiunti. I nuovi arrivati dovevano cimentarsi con l’esperienza in corso e tra questi c’era un ragazzo decisamente prepotente di 16 anni che andava assumendo il ruolo di leader negativo della classe (tra l’altro frequentava un gruppo di ragazzi più grandi del suo quartiere con i quali aveva compiuto i primi furti): nel mettersi in gioco era divertito e spaesato, regalando un’immagine di sé assai diversa da quella che fino a quel momento si era ostinato a costruire. Dovevamo arrenderci all’evidenza: era proprio il lavoro sull’ascolto a condurre ognuno ad entrare in contatto con una dimensione profonda di sé. In quell’anno e nel successivo i ragazzi hanno continuato a giocare con i suoni lasciandosi coinvolgere sempre di più e riuscendo a tenere il filo della propria voce più facilmente. La ricerca di un’espressione sonora rendeva possibile non solo suonare i disegni personali che ognuno sceglieva accuratamente per l’occasione, ma persino di realizzare delle immagini a partire dal suono. Anche i Test dell’albero nel tempo acquisivano un significato particolare per la classe: realizzarli diventava sempre più semplice e piacevole, ed erano sempre interessati a quanto ne emergeva. L’armonia che avevano trovato insieme si rifletteva nelle loro opere, che raccontavano il percorso di crescita e di sviluppo delle proprie capacità creative. D’altra parte anche noi scoprivamo insieme con i ragazzi come fosse possibile col solo suono della voce rendere esattamente il senso di un dialogo; come determinate frequenze sonore potessero mettere in vibrazione specifiche aree del corpo e come fosse possibile dare un suono ad ogni colore, disegno e perfino opera d’arte.
All’inizio del quinto anno li abbiamo trovati veramente cresciuti: erano molto attenti e curiosi, desiderosi di trovare nuove forme di espressione personale. Questo si traduceva in un rinnovato interesse per quanto gli andavamo proponendo e soprattutto nella voglia di divertirsi e sperimentare. Quando gli è stato proposto di ideare un’opera che fosse espressione di quanto realizzato insieme negli anni, loro hanno scelto di reinterpretare con le proprie voci i personaggi de I Simpson. Abbiamo studiato insieme le caratteristiche corporee e vocali dei singoli personaggi ed è stato molto emozionante assistere alla loro messa in scena, cosa che ha trasformato in modo indelebile per noi il ricordo di quel cartone animato. Cercare con il proprio corpo le posture collegate alle voci dei personaggi è stata una autentica sperimentazione: scoprivano che alla relazione postura-voce si aggiungeva quella dell’atteggiamento nei confronti della vita. Tutto ciò ci confermava quanto fosse importante questa esperienza nell’ambito della professione per la quale ci stavamo preparando.
All’incontro conclusivo di questo percorso erano presenti tutti i tirocinanti che avevano partecipato nel quinquennio alla realizzazione del progetto. Per chi non aveva avuto modo di seguire i ragazzi negli ultimi anni, è stato molto emozionante e sorprendente ritrovarli così cambiati. Erano quasi irriconoscibili tanto erano cresciuti umanamente e nel modo in cui, disinvolti e appassionati, giocavano col suono. Erano ora capaci di proporre la loro identità nell’interazione, di confrontarsi tra loro e con noi in modo diverso. Tutto il lavoro fatto gli aveva permesso di recuperare la capacità di ascolto ritrovando un livello di fantasia importante. Nel mentre ripercorrevamo l’esperienza vissuta insieme, attraverso la rivisitazione dei Test dell’albero realizzati negli anni, l’emozione era palpabile e trovava nei ragazzi una piena espressione corporea e verbale.
Quell’esperienza, che ci aveva all’inizio schiaffeggiate e poi rapite, aveva tracciato la strada per una ricerca personale tesa ad iniziare, o approfondire, il lavoro sull’ascolto e sulla voce, benché esso avrebbe continuato a scardinare - lo sapevamo! - qualsiasi forma di certezza precostituita, in primis le conoscenze “nozionistiche” apprese sui libri in tanti anni di studi e forse anche l’idea stessa che ognuna di noi aveva di sé. Lavorare con quei ragazzi, vedere la loro crescita, ci aveva fatto sentire i confini angusti delle nostre credenze come dei reali impedimenti ad una comunicazione profonda. Questo lungo viaggio ci ha dato modo di scoprire che mettere l’ascolto al centro della propria esistenza significa viverla, essere presenti nel rapporto con sé e con l’altro, e potersi mettere nella condizione di fare scelte sempre più libere. Cominciavamo a comprendere quanto questo fosse indispensabile per costruire una identità umana prima ancora che professionale. Poter affiancare la Dott. Turchi in tutto il percorso ci ha insegnato come soltanto una prassi centrata sull’ascolto consente di poter essere agenti del cambiamento, o perfino della trasformazione, indispensabile per svolgere qualsivoglia funzione terapeutica.
DISCUSSIONE FINALE
L’obiettivo del nostro progetto era puntare sull’ascolto come funzione di discriminazione e di scelta, nella ferma convinzione che sapere ascoltare bene equivalga a sapere scegliere bene. Al di là dei risultati specifici relativi ai questionari e ai test utilizzati (vedi paragrafo successivo), che possono mostrare i risultati più o meno oggettivi del nostro lavoro, abbiamo potuto constatare direttamente nel rapporto come, nel corso degli anni, formare i ragazzi all’ascolto abbia voluto dire sostanzialmente aiutarli nella definizione di una identità scevra da identificazioni.
Come avete potuto leggere, un punto centrale del lavoro è stata la sperimentazione corporea che ha potuto col tempo rendere possibile la assimilazione del rapporto tra postura, ascolto e voce. Siamo intervenuti contemporaneamente sui tre livelli, con una complessità gradualmente crescente nei diversi incontri, tenendo conto delle difficoltà e delle risorse presenti sia sul piano individuale che del gruppo di lavoro nel complesso. Al di là delle prevedibili resistenze legate solo in parte a quanto di nuovo si andava proponendo, ho sempre trovato tra i ragazzi una profonda disponibilità a lasciarsi sperimentare.
Siamo partiti da una classe con dei livelli di angoscia collegati soprattutto ad un futuro visto come qualcosa che li avrebbe potuti ingurgitare: scegliere di frequentare un Liceo Artistico non è cosa facile nel nostro Paese di questi tempi. Si rilevava inoltre una discrepanza tra una struttura di personalità della classe fortemente improntata all’azione e una creatività stereotipata e compressa, in sintonia quest’ultima con una affettività poco espressa. Pur avendo un forte bisogno di comunicare, i ragazzi davano pochissima importanza alla qualità della loro voce, come pure ai contesti rumorosi in cui il filo della loro voce puntualmente si perdeva. L’immagine della classe si divideva tra quella dell’atleta e del pistolero.
Il lavoro fatto con la “postura d’ascolto” ha portato i ragazzi a scoprire il silenzio, gemma preziosa che ha la stessa importanza dello Zero nella matematica. Lavorare con quei corpi accasciati, ritorti su sé stessi, è stato come andare a toccare i loro dolori, sia quelli fisici che psichici. Riuscire a passare da un occhio giudicante ad un orecchio accogliente che permettesse di lanciare la sfida oltre la parola (grazie ai “giochi sonori”), è stata la chiave di accesso per liberare la loro rabbia rispetto a chi li legava ad un mondo stereotipato e fisso quanto i primi alberi che avevano disegnato.
Dopo appena due anni di lavoro la personalità della classe, precedentemente ancorata alla corporeità, cominciava a cercare una definizione attraverso gli affetti e i pensieri espressi. Un ascolto più attento dei contesti reclamava un passaggio dal bisogno alla esigenza di comunicare e la contemporanea ricerca di un livello di separazione dalla ridondanza creativa. L’atleta rimaneva a sostanziare l’immagine della classe insieme a quella del ballerino che aveva finalmente surclassato l’immagine un po’ infantile del vecchio pistolero. Era evidente che il lavoro sull’ascolto aveva messo in primo piano la ricerca di una armonia e di una attenzione su come vengono dette le cose. Cominciava a farsi strada uno spirito critico che lasciava al palo quello polemico dei primi anni.
Lavorare negli anni successivi sugli “accordi di frequenza” e sui “giochi di fantasia” li ha portati ad uscire fuori dalla visione angusta individuale e a cercare l’altro per condividere la gioia di una realizzazione. Finalmente lavorare con loro è diventato più piacevole e meno faticoso. E quando, per vari motivi, perdevano l’accordo raggiunto, era sufficiente ripartire dalla postura d’ascolto e dal ritrovato silenzio, per riprendere la gioia della concentrazione. Alla fine del quinquennio i livelli di angoscia hanno lasciato spazio ad una sana irrequietezza legata ai passaggi futuri, non percepiti più come obbligati. L’affettività della classe era finalmente ben espressa, in connessione con un buon ascolto e una creatività ricca. Se la parola non trovava ancora la pienezza del dire era perché, nel dire, era diventata evidente la paura di ferire. La figura dell’atleta si stagliava netta sullo sfondo a delineare l’immagine della classe, insieme con una attenzione speciale al suono, a ciò che può fare male al corpo e ai pensieri.
Assistere alla crescita umana dei ragazzi e, di pari passo, al dispiegarsi della loro fantasia, è stata una esperienza davvero emozionante culminata nell’ultimo incontro in cui hanno espresso spontaneamente i vissuti, in piena sintonia con la voce. Abbiamo parlato del loro futuro e, benché fosse presente un timore, coerente al momento di passaggio, nessuno di loro si sentiva disperso o privo di motivazione nell’affrontare il futuro. Molti hanno deciso di approfondire gli studi per la Conservazione dei Beni Culturali, ma diversi ragazzi hanno anche pensato di iscriversi ad Architettura e altri ancora di seguire la propria vena artistica; una ragazza tra loro ha deciso di intraprendere la strada che la porterà a diventare archeologa (la Dott.ssa Fortini ne sarebbe felice). In nessuna di queste scelte era presente quella sorta di rassegnazione che troppo spesso prende i ragazzi quando si vedono sbarrate le vie del futuro. Le decisioni sono state prese naturalmente, a partire da quel che è stato sentito e pensato.
Mi piace finire con la domanda posta da una ragazza proprio quell’ultimo giorno. Aveva notato che, nella discussione con ragazzi di altre classi, le posizioni di questi ultimi venivano espresse “in modo poco convincente”, sostanzialmente con una povertà di pensiero e di vocabolario. La ragazza li aveva bollati come “noiosi e inconcludenti, forse anche un po’ stupidi”. Una pausa di silenzio e poi con uno sguardo vivace ed indagatore era arrivata la fatidica domanda: “Ma non sarà stato il lavoro che abbiamo fatto insieme in questi anni a fare la differenza e a farmi percepire la distanza che c’è tra noi della classe e gli altri ragazzi nell’esprimere le idee?”. Ho risposto con un sorriso e poi abbiamo riso a gran voce tutti insieme.
Ulivi d'estate di Paola Bindi
APPENDICE
MATERIALI SPECIFICI ED ELABORAZIONI
(con la collaborazione della Dott. Cinzia Sersante)
(con la collaborazione della Dott. Cinzia Sersante)
RISULTATI DEI QUESTIONARI
Elaborazione del primo questionario (nella classe sono presenti 23 alunni).
Percezione dei vari contesti sonori. Le risposte fornite rispetto alla capacità, all’interno di un contesto sonoro, di riuscire a tenere il filo vocale, delle idee e l’espressione verbale di queste ultime, non è correlata alla capacità di mantenere l’assetto posturale (mediamente i SI nelle prime tre rappresenta il doppio dei NO); mentre per quanto riguarda la voce collegata al mantenimento della postura troviamo una netta prevalenza dei NO, con un rapporto di 3:1. Per quanto riguarda gli eventuali bisogni che possono insorgere all’interno di un contesto sonoro (fame, sete, ecc.) si evidenzia che i NO rispetto al senso della fame sono assolutamente prevalenti; sul fumo c’è una prevalenza dei NO, mentre per la voglia di bere riscontriamo una prevalenza dei SI (3:1). Da sottolineare che la funzione dei muscoli masticatori ostacola l’ascolto, mentre tutti i movimenti del volto paragonabili al movimento di suzione (quale il bere) lo favoriscono. Andando a valutare i contesti sonori specifici si coglie una differenza tra la prevalenza del contesto “tranquillo” della famiglia (4:1), i contesti degli amici abituali che sono prevalentemente “rumorosi” (2:1) e infine della classe che viene percepita come rumorosa nella quasi assoluta totalità.
Autopercezione ed eteropercezione. I ragazzi non mostrano particolari difficoltà a memorizzare o a prestare attenzione (3:1), però si rilevano lievi difficoltà a prendere decisioni (prevalenza dei SI): quest’ultimo aspetto potrebbe essere collegato alla mancanza di abitudine nel leggere ad alta voce, anche se la prevalenza (19 persone su 23) dice di avere una relazione positiva con la propria voce (quest’ultimo dato non coincide con quanto emerso durante la sperimentazione vocale, dove nella quasi totalità hanno dichiarato di non amare la propria voce). Nel dettaglio è come se fosse presente un desiderio di avere una voce piacevole che non corrisponde alla realtà e questo dato è confermato dal fatto che tutti i ragazzi amano ascoltare la musica (il volume utilizzato in tale ascolto musicale è nel 50% dei casi elevato e nel restante 50% medio: pertanto il desiderio di ascoltare la musica viene in parte vanificato dal volume alto che notoriamente porta a una chiusura difensiva dell’orecchio). C’è contrapposizione tra la voglia di ascoltare la musica e la difficoltà ad ascoltare le persone: esiste un rapporto di 5:1 tra quelli che devono chiedere agli altri di ripetere ciò che hanno appena detto e quelli che non ne hanno bisogno. Peraltro solo per un quarto dei ragazzi è importante ascoltare una bella voce.
Due terzi dei ragazzi ha l’abitudine di masticare gomme (che sappiamo chiudere l’ascolto) e circa un terzo presenta disturbi neurovegetativi generici (nausea, vertigine). Poco più della metà dei ragazzi non riesce ad esprimersi con la voce come vorrebbe. I ragazzi si percepiscono irritabili in un rapporto di 3:1. Si sentono flessibili nel corpo nel rapporto di 2:1, anche se quando si tratta di focalizzare l’attenzione su dolori o tensioni nelle varie parti del corpo il rapporto scende a 1:1 (la zona più colpita è quella delle gambe). Tenere presente a questo proposito che sempre nel rapporto di 2:1 i ragazzi fanno molta attività fisica, ben oltre le ore scolastiche dedicate all’educazione fisica. In riferimento a come il ragazzo si sente percepito dagli altri compagni, il 50% sostiene che gli altri lo riprendono perché parla a voce troppo alta e perché assume una postura scorretta.
Percezione di sé rispetto alla classe. Il 50% dei ragazzi percepisce il contesto sonoro della classe come “aggressivo”, mentre l’altro 50% si muove nell’ambito del rassicurante-armonioso. Questi dati in percentuale concordano con la capacità che i ragazzi sentono di potere esprimere con la voce, ma non con le idee (scende da 2:1 a 1:1). In un rapporto di 2:1 i ragazzi non vogliono modificare il contesto sonoro della classe e quelli che lo vogliono migliorare è perché lo ritengono troppo “rumoroso”. Se paragoniamo questo dato con quello precedente in cui 20 ragazzi avevano detto che la loro classe era rumorosa, evidentemente meno della metà sente questo contesto dannoso. Il 50% dei ragazzi riesce a seguire i loro compagni e tra questi soltanto due persone su 13 collegano questa capacità di attenzione a ciò che l’altro dice e a come viene detto (timbro della voce). Nel 40% dei casi i ragazzi si sentono abbastanza ascoltati dai professori, nel 40% non si sentono ascoltati e solo il 20% si sente pienamente ascoltato; solo un 50% vuole migliorare il rapporto con gli insegnanti. Le due immagini prevalenti sono quelle del pistolero e dell’atleta che occupano rispettivamente il 30% delle risposte; è interessante notare il dato che 8 persone prediligono l’immagine dell’atleta e lo stesso numero di persone, non necessariamente le stesse, vorrebbero migliorare il contesto sonoro della classe. Il colore prediletto (2/3) è il rosso e questo si collega alla spiccata corporeità (il rosso si colloca in una banda di frequenza tra i 250 e i 1000Hz). Tra gli alimenti si evidenzia in modo particolare il cioccolato e il pomodoro cotto che per la loro reazione acida determinano un disturbo della capacità di ascolto.
Elaborazione del secondo questionario (la classe è composta da 14 alunni).
Percezione dei vari contesti sonori. Rispetto alla capacità dei ragazzi di riuscire a tenere il filo della voce, il filo delle idee e ad esprimerle verbalmente all’interno di un contesto sonoro, l’80% della classe ha risposto SI; anche riguardo alla capacità di mantenere la postura la proporzione dei SI cresce rispetto al primo anno, infatti più della metà della classe risponde positivamente (ad essere maggiormente in difficoltà sono le ragazze). Riguardo all’insorgere di bisogni all’interno di un contesto sonoro (come la fame, la sete ed il fumare), la metà della classe risponde SI al senso della fame e gli alimenti prediletti sono costituiti dai carboidrati, sia dolci che salati; mentre per quanto riguarda la voglia di bere e di fumare le risposte dei NO sono prevalenti in un rapporto di circa 2:1. Quindi i ragazzi in prevalenza attivano più facilmente i muscoli implicati nella masticazione che interferiscono negativamente con l’ascolto, a differenza dei movimenti che rimandano alla suzione (come il bere) che invece lo agevola. Nel distinguere la percezione di specifici contesti sonori, anche la famiglia è considerata “rumorosa” dalla metà dei ragazzi, questa proporzione aumenta lievemente rispetto al gruppo di amici abituali e la classe viene percepita “rumorosa” dal 70% degli allievi.
Autopercezione ed eteropercezione. Pur vivendo in contesti sonori prevalentemente rumorosi, i ragazzi non hanno difficoltà a memorizzare le cose nel 90% dei casi e non hanno difficoltà a prestare attenzione in un rapporto di circa 2:1; mentre poco più della metà della classe dichiara di avere difficoltà nel prendere decisioni. In un rapporto di 4:1 i ragazzi non hanno l’abitudine di leggere ad alta voce, ma quasi tutti danno una voce interna a ciò che leggono. Quasi la totalità della classe dice di avere un rapporto positivo con la propria voce e questo potrebbe collimare con il fatto che a tutti piace ascoltare la musica (a basso volume per il 20%, a volume medio per il 30%), ma il volume alto che utilizza la metà della classe rende ragione della chiusura difensiva all’ascolto: inoltre in un rapporto di 2:1 utilizzano le cuffie che risultano ulteriormente dannose. C’è ancora una parziale contrapposizione tra la voglia di ascoltare la musica e la difficoltà ad ascoltare le persone, infatti, il 50% dei ragazzi chiede alle persone di ripetere ciò che hanno appena detto proprio nella stessa percentuale di chi ascolta musica ad alto volume ed ha l’abitudine di masticare gomme provocando la chiusura dell’orecchio. Solo 1/3 della classe ha disturbi neurovegetativi (nausea, vertigine). Il desiderio di mettersi in ascolto trova riscontro nel dato che più della metà della classe riesce ora ad esprimere con la propria voce esattamente ciò che vorrebbe, inoltre la prevalenza dei ragazzi da importanza all’ascolto di una bella voce (75%), e tra questi il 25% lo ritiene “molto” importante. Gli allievi si percepiscono irritabili con un indice medio alto in un rapporto di 3:1, si sentono flessibili nel corpo in rapporto di 4:1, anche se andando a specificare le zone di tensione corporea i 2/3 della classe dichiara di avere tensioni o dolori prevalentemente nella zona cervicale o nella schiena. Questo può essere collegato alle ore di attività fisica svolta al di fuori del contesto scolastico a cui si dedicano durante la settimana che, in un rapporto di 2:1, va dalle 4 ore a oltre 5 ore. Rispetto a come i ragazzi si ritengono percepiti dagli altri, poco meno della metà di questi viene ripreso perché parla a voce troppo alta, mentre in un rapporto di 2:1 vengono richiamati perché assumono una postura scorretta.
Percezione di sé rispetto alla classe. La metà dei ragazzi percepisce il contesto sonoro della classe “armonioso”, mentre il restante 50% lo ritiene “aggressivo” o “noioso” e, nella medesima proporzione vorrebbero cambiare il contesto sonoro della classe. Questo dato, confrontato con la percentuale di chi ritiene tale contesto “rumoroso”, rivela che una buona parte di questi ragazzi sente l’esigenza di migliorarlo. Questo ultimo dato sembra concordare con il fatto che quasi la totalità degli allievi comunque dichiara di riuscire ad esprimersi con la propria voce, esprimere le proprie idee e seguire i compagni quando intervengono. La capacità di seguire gli interventi dei compagni per poco più della metà della classe si collega all’intenzione e all’interesse di ascoltare le opinioni altrui. Le immagini scelte per rappresentare la classe raccolgono complessivamente i 2/3 delle preferenze: l’immagine dell’atleta e del ballerino in un rapporto di 2:1. Anche in questo caso l’immagine dell’atleta viene scelta da un numero di persone che corrispondente a quello di coloro che non si pongono in una posizione passiva ma vorrebbero migliorare il contesto sonoro della classe. Il colore scelto per rappresentare la classe è per il 45% dei ragazzi il rosso che riguarda le frequenze gravi collegate alla corporeità (la cui banda di frequenza va dai 250 ai 1000 Hz), mentre un 25% indica il giallo che corrisponde alle frequenze medie, ed un restante 25% sceglie il nero che rappresenta l’insieme di tutti i colori e riguarda l’intera gamma frequenziale. In merito alla percezione dei ragazzi sulla disponibilità degli insegnanti ad ascoltarli i 2/3 della classe si sente “abbastanza” ascoltato, mentre 1/3 risponde pienamente SI. Quando gli si chiede se gli piacerebbe migliorare la comunicazione con i docenti, la proporzione di quelli che rispondono SI aumenta (3/4) includendo parte di coloro che precedentemente si erano espressi del tutto positivamente rispetto all’ascolto da parte dei loro insegnanti.
Elaborazione del terzo questionario (la classe è sempre composta da 14 alunni).
Percezione dei vari contesti sonori. Alle domande inerenti la capacità, all’interno di un contesto sonoro, di riuscire a tenere il filo della voce, delle idee e riuscire ad esprimerle verbalmente, il 90% dei ragazzi risponde di SI. Queste capacità sono maggiormente correlate alla capacità di mantenere la postura, infatti solo il 30% della classe risponde di non riuscire. Per quanto riguarda i bisogni che possono insorgere all’interno del contesto sonoro (come fame, sete e fumare) si ha una prevalenza dei NO rispetto a tutte e tre le voci: sia per la fame che per il fumo il rapporto è di 3:1, mentre per la voglia di bere è lievemente maggiore (2:1). È diminuita la tendenza ad attivare i muscoli masticatori che chiudono l’ascolto, a favore dei muscoli coinvolti nel bere che rimandano alla suzione e lo agevolano. Considerando i contesti sonori specifici, quello familiare viene definito “rumoroso” dalla metà della classe, gli amici abituali sono percepiti come rumorosi dal 40% dei ragazzi e nella stessa percentuale anche la classe viene percepita come rumorosa.
Autopercezione ed eteropercezione. I ragazzi non hanno particolari difficoltà a memorizzare o a prestare attenzione (5:1), mentre aumentano lievemente le risposte dei SI riguardo alla difficoltà a prendere decisioni (2:4). Solo i 2/3 della classe ha acquisito l’abitudine di leggere ad alta voce, e quasi tutti affermano di avere una relazione positiva con la propria voce. Tutti i ragazzi amano ascoltare la musica e il volume utilizzato è per il 40% elevato mentre per il restante 60% medio-basso. C’è un riscontro tra il desiderio di ascoltare la musica e quello di mettersi in ascolto delle persone, infatti solo 1/3 della classe si trova costretto a chiedere ad altri di ripetere quanto appena detto (che corrisponde in parte con la percentuale di coloro che ascoltano la musica ad alto volume provocando la chiusura difensiva dell’orecchio). Diviene sempre più importante per i ragazzi ascoltare una bella voce: per il 60% è “molto” importante mentre per il restante 40 % lo è “abbastanza”. Poco meno della metà degli allievi ha l’abitudine di masticare gomme (chiudendo l’ascolto) e in un rapporto di 1:4 presenta disturbi neurovegetativi (nausea, vertigine). Il 70% della classe ritiene di riuscire ad esprimere con la voce esattamente ciò che vorrebbe. I ragazzi si percepiscono irritabili in un rapporto di 3:1. Si sentono flessibili nel corpo nel 90% dei casi, anche se il 30% della classe riferisce dolori concentrati in alcune zone del corpo (in modo particolare la cervicale e la schiena). È da notare che gli allievi pur essendo al quinto anno, quindi impegnati con gli esami finali, continuano a fare molta attività fisica oltre a quella svolta a scuola (in rapporto di 3:1 più di 4 ore settimanali). Rispetto a come i ragazzi ritengono di essere percepiti dagli altri il 40% afferma di venire ripreso perché assume una postura scorretta ed il 20% perché parla a voce troppo alta.
Percezione di sé rispetto alla classe. Il 70% dei ragazzi percepisce il contesto sonoro della classe come “armonioso”, mentre per il 10% è “aggressivo” e per il restante 20% “noioso”, infine circa il 30% degli allievi vorrebbe migliorare tale contesto. Quest’ultimo dato, posto in relazione con la percentuale di chi inizialmente aveva definito “rumoroso” il contesto sonoro della classe (40%), evidenzia come siano quasi tutti motivati a produrre un cambiamento. La totalità degli allievi comunque dichiara di riuscire ad esprimersi con la propria voce, esprimere le proprie idee e seguire i compagni quando intervengono. La capacità di seguire gli interventi dei compagni, viene collegata all’interesse per l’opinione degli altri e alla capacità di questi ultimi di farsi ascoltare. L’immagine che più rappresenta la classe è per il 60% dei ragazzi quella dell’atleta, mentre l’immagine del ballerino trova il 20% delle preferenze. Il colore che più li rappresenta è il rosso (collegato alle frequenze gravi) che raccoglie il 40% delle preferenze, mentre un 30% sceglie il giallo (correlato alle frequenze medie) ed il restante 30% l’azzurro (che include le frequenze acute). In merito alla percezione dei ragazzi sulla disponibilità degli insegnanti ad ascoltarli il 60% si sente “abbastanza” ascoltato dai loro insegnanti, ed il restante 40% risponde di sentirsi ascoltato pienamente. Quando gli si chiede se gli piacerebbe migliorare la comunicazione con i docenti, circa il 30% risponde SI. L’abitudine più difficile da modificare è risultata quella alimentare, infatti il cioccolato e il pomodoro cotto continuano ad essere consumati regolarmente dal 50% dei ragazzi, pur essendo cibi acidi.
TEST DELL’ALBERO E RISULTATI
Il Test dell’albero permette di comprendere a quale punto la coscienza arriva ad aprirsi una strada nel non cosciente: esprime l’immagine di sé, le nozioni di spazio e di tempo, la vitalità, la verticalità.
Si valutano i tre livelli dell’albero - radici, tronco, chioma - che corrispondono a tre bande frequenziali differenti. Le radici esplorano l’area somatica che va dai 125Hertz ai 1000 Hertz (zona dei gravi); il tronco esplora l’area del linguaggio, compresa tra i 1000 e i 3000 Hertz (zona dei medi); la chioma esplora l’area creativa, compresa tra i 3000 e gli 8000 Hertz (zona degli acuti).
Queste zone corrispondono alle differenti frequenze che mettono in vibrazione le diverse parti del corpo.
La prima zona detta Vestibolare o Somatica rivela lo schema corporeo, la motricità, il senso del ritmo, le relazioni spazio-temporali. Dal punto di vista psichico evidenzia la presenza di un temperamento pratico ed impulsivo; rispetto alla postura rivela le problematiche muscolo-scheletriche e viscerali dell’area che va dai piedi al dorso.
La seconda zona del Linguaggio è la zona dell’integrazione delle regole, della comprensione, della concentrazione, del pensiero razionale e del linguaggio. Può rilevare la presenza di una tendenza alla razionalizzazione come difesa dalle emozioni ed uno spirito analitico. A livello somatico evidenzia tensioni muscolo-scheletriche e problematiche viscerali a carico dell’area che va dalla zona dorsale a quella cervicale.
La terza zona della Creatività è correlata al desiderio di ascoltare, alla memoria affettiva, all’immaginazione e alla creatività come espressione della realizzazione di sé. Questa zona rileva tensioni a carico della cervicale (spesso causa di cefalee) e rivela possibili problematiche connesse soprattutto alla sfera psicoaffettiva.
Tornando alla morfologia dell’albero è possibile analizzare una seconda lettura.
- Le radici rappresentano ciò che nel feto è la placenta: il nutrimento essenziale dato dalla accoglienza materna strutturale, che indica il livello di vitalità e quindi di sicurezza, fondamentale per avere una recettività salda. Attraverso le radici si legge la curiosità di comprendere, di sapere della vita e della morte, il livello di coscienza non cosciente.
- Il tronco corrisponde al cordone ombelicale e quindi al legame fondamentale con la madre sul piano emozionale e affettivo: ha a che fare con la conduzione energetica (direzione dal basso verso l’alto) e con la crescita psicologica da cui nasce la nozione del tempo.
- La chioma, di cui si valutano la dimensione e la direzione oltre che il tratto, corrisponde alla pelle che si dispiega per comunicare con il mondo: ha a che fare con la libertà di pensiero e creatività; con quella estensione della energia che permette di comunicare con l’intero universo.
Esiste poi un terzo livello di valutazione del Test dell’albero, collegato alle linee dell’albero stesso, che delineano le curve di ascolto. Poiché la conduzione del suono avviene sia per via aerea che per via ossea, si avranno due curve per ogni orecchio che nel complesso descrivono la capacità d’ascolto. La curva aerea indica il modo in cui la persona si adatta al contesto sociale mentre la curva ossea indica la vita interiore della persona ed il funzionamento organico, incluse le tensioni psicocorporee che incidono sulla postura.
Le curve dell’orecchio destro descrivono la situazione attuale mentre quelle dell’orecchio sinistro riguardano più l’aspetto affettivo della storia personale. Il confronto tra le due orecchie indica l’equilibrio interno della persona e la simmetria/asimmetria del corpo: ad esempio, è importante la distanza tra curva aerea e ossea, sia nell’orecchio destro che in quello sinistro, poiché evidenzia quanto l’interiorità collima con ciò che emerge nella nostra relazione con il mondo; se si verifica la presenza di picchi (punte di particolare sensibilità e dolore) e/o scotomi (disinvestimento di aree particolari del corpo o del Sé). L’andamento ideale delle curve dovrebbe avere una prima parte progressivamente ascendente con l’apice della crescita intorno ai 4000Hz circa, con una lieve flessione successiva.
Elaborazione del primo Test dell’albero
- Struttura interna della classe: abbastanza definita, anche se ci sono livelli di angoscia attuale.
- Comunicazione: forte bisogno di comunicare.
- Personalità: fortemente improntata all’azione corporea.
- Creatività: stereotipata.
- Immagine corporea: strutturata ed elegante.
- Ascolto: buono, anche se l’angoscia per le situazioni attuali è una interferenza di rilievo.
- Tono dell’umore: sufficientemente stabile.
- Affettività: poco espressa.
Elaborazione del secondo Test dell’albero
- Struttura interna della classe: definita. Sono presenti livelli di angoscia collegati al corpo e di rabbia esplicitata.
- Comunicazione: è appena accennato il passaggio dal bisogno all’esigenza di comunicare.
- Personalità: una corporeità che cerca una definizione attraverso gli affetti e i pensieri espressi.
- Creatività: la ricerca di staccarsi da una ridondanza.
- Immagine corporea: strutturata ed elegante.
- Ascolto: buono.
- Tono dell’umore: stabile.
- Affettività: espressa.
Elaborazione del terzo Test dell’albero
- Struttura interna della classe: definita, anche se è presente un livello di irrequietezza legata ai passaggi futuri.
- Comunicazione: buona, con punte di rabbia sempre verbalizzate.
- Personalità: si sta definendo, anche se la paura di dire è legata alla paura di ferire.
- Creatività: ricca.
- Immagine corporea: definita e stabile.
- Ascolto: molto buono.
- Tono dell’umore: buono.
- Affettività: ben espressa.
Albero fatto con la mano dominante, I anno
Albero fatto con la mano dominante, III anno
Albero fatto con la mano dominante, V anno
Albero di fantasia, I anno
Albero di fantasia, III anno
Albero di fantasia, V anno
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Percorsi di cura in terapia psicodinamica.
SIAMO ANDATE NELLA TERRA DI NESSUNO di Claudia Amato e Concetta Turchi. Anno 2014
INTIMACY di Concetta Turchi. Anno 2010
SIAMO ANDATE NELLA TERRA DI NESSUNO
Claudia Amato e Concetta Turchi
“La vera consapevolezza non è quella che ci raccontano. No.
Essa sta in quel particolare stato della coscienza in grado di esprimere
la meravigliosa commistione tra possessione e lucida chiarezza.
Solo in quei momenti sappiamo… e sappiamo che siamo nati per conoscere”.
(Concetta Turchi)
Essa sta in quel particolare stato della coscienza in grado di esprimere
la meravigliosa commistione tra possessione e lucida chiarezza.
Solo in quei momenti sappiamo… e sappiamo che siamo nati per conoscere”.
(Concetta Turchi)
Composizione di fuoco di Claudia Amato e Concetta Turchi
Camminavo veloce per quel marciapiede asfaltato che portava al solito posto. Con i soldi in tasca andavo a procurarmi la dose della prima serata, senza sapere esattamente perché. Mi preparavo per il momento più difficile della giornata, quello in cui non sapevo cosa fare per tappare il buco, quello in cui non sapevo dove andare per non pensare, per non sentire tutto il dolore sordo che mi invadeva dentro e tutta quell’angoscia che mi schiacciava come un enorme macigno scuro. Il corpo urlava e bisognava obbedire. La testa pulsava e niente e nessuno avrebbero potuto fermarmi. Avrei fatto fuori chiunque si fosse messo fra me e la mia roba, l’avrei ammazzato forse con quella stessa mano ferita per le ripetute operazioni quotidiane... più e più volte al giorno. Camminavo e camminavo con gli occhi sbarrati. Il cuore batteva forte e il respiro era affannoso, mentre arraffavo quello che serviva, sempre le stesse cose... senza nemmeno variare. Non importava quel che compravo, ma quanto ne compravo. Poi, una volta a casa, dietro la porta di legno bianca, fra quelle quattro mura fredde e sorde, piastrellate di azzurro fino a metà altezza, mi mettevo ad “operare”.
Il rito aveva inizio. Lo specchio ovale rifletteva un volto emaciato e colmo di disperazione, con gli occhi cerchiati. Qualcuno mi diceva che sembravo una malata terminale e, anche se ne soffrivo fin quasi a morirne, in quel momento tutto questo non aveva importanza. Mi guardavo nello specchio e aspettavo, come se a quell’altra fosse lecito dire qualcosa; ma niente le era concesso in quell’istante. Tutto quello che c’era al di là della porta scompariva. Nessuno contava più. Se qualcuno si azzardava ad interferire, doveva vedersela con quella parte di me che si stava lavando le mani con cura... ma nessuno osava più, anche perché quando era accaduto le conseguenze erano state calci e pugni a mobili e porte, aggressioni, oggetti che volavano, urla e occhi di sangue. Dopo lo specchio mi spostavo a sinistra dove mi accasciavo cominciando a sentire il dolore. Tutto scoppiava dentro. La pelle dell’addome, tirata fin quasi a strapparsi, mi impediva di piegarmi. Finalmente arrivava la “liberazione”. La sensazione di svuotamento mi portava sollievo ogni minuto di più: sempre più vuota, sempre più pulita. La testa pulsava, con i capelli raccolti disciplinatamente dietro la nuca perché loro proprio non dovevano sporcarsi. Mi appoggiavo un po' mentre il corpo era sconquassato dallo sfinimento, ma tutto sommato mi sentivo leggera. Mi tiravo su, tornavo al lavandino e poi allo specchio. Davanti a me lo spettacolo di un volto svuotato, con gli occhi sbarrati e ancora insanguinati. Sentivo il dolore della mia gola indolenzita. Quella visione mi dava ancora più dolore... però, ora, mi sentivo più pulita.
Lo sapevo che questo riempire per poi svuotare non portava da nessuna parte, visto che né prima né dopo riuscivo a trovare pace. Sistemavo tutto perché niente e nessuno doveva prendere contatto con il mio rituale da schifo. Uscivo dal bagno e tornavo alla mia normalità, senza apparenti pretese nei confronti degli altri. Nessuno doveva vedere la mia vulnerabilità: ero forte e lo sbattevo addosso a tutti. Per nessuna ragione potevo raccontare quello che accadeva tutti i giorni. Mi vergognavo troppo e poi... nessuno sarebbe stato forte quanto me, anzi più di me... per potermi aiutare. Quando una sera un uomo mi urlò che non avevo scampo: dovevo chiedere aiuto. Mi guardava con occhi disperati restituendomi alla mia disperazione. In fondo lo sapevo anche io che non avrei mai potuto farcela da sola.
Andai così nei luoghi istituzionali dove si trattano i problemi come i miei. Lì per lì non sapevo nemmeno io quel che cercavo. Avevo una paura tremenda e, mentre continuavo a chiedermi cosa ci facevo nel luogo dei medici dei matti, mi arrivarono dalla porta chiusa, proprio di fronte a me, delle urla confuse. Poi sentii un urlo di donna più forte che diceva a chiare note: “O la piantate o vi sbatto fuori”. Rimasi inchiodata alla sedia, non potevo più scappare. Era sceso un grande silenzio al di là di quella porta e anche dentro di me. Dopo un tempo che non saprei dire la porta si aprì e uscirono in tanti da quella stanza, tutti altissimi. Poi comparve lei, terribilmente piccola e minuta. Quell’urlo imperioso era veramente uscito da lei? Ero stupita. Sorridendomi mi invitò ad entrare. Mi alzai pian piano e la seguii.
La prima volta in quella grande stanza un po' spoglia e fatiscente la guardavo al di là di quella grande scrivania con cui i luoghi istituzionali sanciscono la divisione che deve esserci tra medico e paziente. Mi osservava un po' in cagnesco, arruffando lo sguardo e gonfiando i muscoli per far sembrare più grande e forte la sua esile figura. Raccontava con voce metallica dei suoi sintomi, ma non voleva che fosse toccato altro, abituata com’era “a sciare da sola sui campi di neve”, immagine onirica portata inaspettatamente al secondo sguardo. “Sono forte, cosa crede?”, urlava rabbiosa con tutto il suo essere; forte di fronte alla indifferenza del mondo che la circondava, forte nel controllo delle sue emozioni, forte nel gestire il rapporto con gli uomini. Eppure, quando si ritrovava nella solitudine di quel campo di neve, correva in bagno a svuotare con forza tutto quello che aveva ingoiato, e non solo attraverso la bocca; poca importanza aveva in quel momento se si trattava di cibo buono o avariato, di rapporti sani o malati. Mangiava tutto e vomitava tutto. Mangiava tutto per dare spazio ad un bisogno profondo di rapporto, cieco alla qualità del rapporto stesso, e vomitava tutto per negare quel bisogno fragile di bimba che non le permetteva scelta alcuna. “Sono bulimica”. Definiva il suo sintomo come se non le appartenesse, come se lo guardasse dall’esterno, come se quel suo stato di malattia fosse una cosa a lei estranea. “Il mio unico problema è con il cibo”. Rispondevo: “La sua è una malattia. C’è un rapporto malato con gli altri che è possibile curare”.
Diventava furiosa di fronte a quella frase che si cristallizzava nell’aria come l’acqua alle temperature più basse, a farsi neve che non riusciva a trovare quel calore per sciogliersi in lacrime di dolore! Il volto rimaneva teso, con l’espressione un po' stupita e piena di paura di fronte a chi non esita a dare voce ad una domanda di cui si teme la risposta. La domanda mai fatta - “Sono malata?” - non poteva essere affrontata perché dietro questa c’era la disperazione nera di un giudizio a priori: non poter guarire. Morte nera vissuta in famiglia nella inamovibilità senza speranza della malattia della madre e nella assenza iterativa del padre il quale, dopo avere rinunciato all’impresa di poter rendere bella la sua donna di un tempo, aveva posato lo sguardo su donne più giovani. La scoperta del tradimento aveva aperto la danza della violenza, anche di quella fisica: pezzi di catrame si erano avvinghiati sui lembi di pelle del volto di lei, posti da altri per non vedere la richiesta di una donna.
Lei aveva assistito a tutto questo, aveva vissuto tutto questo: la sordità ad una richiesta continuamente negata, dimenticata, oltraggiata. E lei aveva indissolubilmente unito in sé quella madre bisognosa di riconoscimento e quel padre che toglieva ogni speranza nel controllo folle di una bellezza originaria che aveva avuto come unico peccato quello di avergli fatto perdere la testa. Non poteva innamorarsi, non doveva innamorarsi. E anche gli altri non potevano e non dovevano innamorarsi di lei... perché distruggeva tutto e tutti. Masticava e vomitava senza tregua per non accettare quella dipendenza affettiva dagli altri che le ricordava troppo la passività della madre. Vomitava con forza più e più volte al giorno per ribadire che i rapporti li gestiva lei, che non aveva bisogno di nessuno, creando intorno a sé laghi fangosi che legavano in un abbraccio di morte, dato che il sesso era solo una questione di potere.
Annaspavano, le sue emozioni vinte, in quel vomito disperato quanto inutile che le parlava dei suoi visceri, di quei villi allungati fino allo spasimo nel tentativo di un assorbimento destinato a non venire mai, per perpetuare il romanzo familiare che lei aveva fatto suo. Mangiava e vomitava con rabbia, la bella rabbia che parla continuamente di una delusione cocente vissuta nei rapporti utilitaristici con gli altri; quegli stessi altri che stabilivano un rapporto con lei senza cercare di dire o modificare alcunché, andando a rinforzare quel senso di disperazione rabbiosa che si accende di fronte ai luoghi dell’indifferenza. Non poteva innamorarsi, non doveva innamorarsi... e neanche gli altri potevano e dovevano innamorarsi. Quella rabbia oscura che cercava, senza saperlo, una presenza, le permetteva di accettare solo la sfida. Ed io, abbattendo quella scrivania di legno, pesante e scura, collocata per sancire la distanza tra medico e paziente, l’impossibilità della cura, la sfidai.
Tutte le dipendenze patologiche, siano esse da cibo, da sostanze stupefacenti, da alcool, da gioco, da sesso o altro, hanno la loro origine in una deformazione di quella dipendenza fisiologica che ogni essere umano vive durante i suoi primi mesi di vita all’interno del rapporto con la madre. Rapporto carnale iniziato prima della nascita, quando ancora non c’era soluzione di continuità tra le due carni e quando l’unica discontinuità era legata alla voce della madre, espressione sonora di una realtà umana da ricordare e da ricercare. Dopo la nascita, sancita dalla cesura delle carni, il bambino ritrova alla fine di quel lungo tuffo che lo introduce nel mondo, l’abbraccio caldo della madre, la sua voce, il suo seno, e in quel tempo e in quello spazio trova la sua identità umana originaria. Identità che si va strutturando e irrobustendo carezza dopo carezza, cicaleggio dopo cicaleggio, poppata dopo poppata, in quel periodo in cui madre e bambino, come due amanti, godono l’uno dell’altro, lontani dal mondo e dalle sue regole. In quella sospensione del tempo i due protagonisti vivono appassionatamente la loro possessione reciproca: quell’attaccamento vibrante, a volte furioso, che li conduce l’uno nelle braccia dell’altro, spazio in cui i desideri possono essere placati e dove, dopo la separazione, ognuno può ritrovare la strada del sogno e della memoria.
L’abbraccio caldo sostenuto dalle vibrazioni sonore scorre su fili sensoriali i quali si intersecano a formare reti neuronali che liberano le molecole delle emozioni: quelle che ci fanno sentire felici o arrabbiati, tristi o sollevati. Ed è proprio lì, nell’amplesso molecolare tra un recettore e il suo legante, in quello spazio infinitesimale nel cuore del mondo, che si va strutturando l’integrazione dell’Uomo: integrità psicocorporea che lo prepara alla integrazione ambientale e alla Storia. Rapporto dopo rapporto, quando il neonato rimane solo nella sua culla, si costruisce l’immagine legata all’esperienza emozionale appena vissuta: la memoria di quei rapporti è proprio lì, in quei recettori che aspettano il proprio legante allo stesso modo di come si può aspettare la donna o l’uomo desiderato. Con le informazioni provenienti dai cinque sensi si costruiscono le vie del piacere mediate dalla liberazione delle endorfine. Saranno le emozioni vissute da quel lattante ad aiutarlo nella selezione di ciò che occorre ricordare e di quello che è più opportuno dimenticare. Non potrà ricordare tutto e forse non è neppure necessario, perché l’emozione che accompagna il ricordo lo aiuterà nella selezione.
Il cambiamento biochimico avvenuto nel recettore è la base molecolare della memoria, dispersa in una rete psicosomatica che si estende a tutto il corpo. Quando il neonato crescerà, la scelta fra ciò che diventa un pensiero emergente dalla memoria e uno schema di pensiero sepolto nel corpo come ricordo, viene mediata proprio da quei recettori: i peptidi, in questo modo, plasmano a livello molecolare i suoi ricordi in via di formazione e sono in grado di ricondurlo nello stato d’animo giusto per fargli sentire l’esigenza di recuperarli. Le molecole delle emozioni uniscono organi ed apparati in un organismo, una rete unica che reagisce ai cambiamenti o li agisce, una rete inconscia che lo sosterrà nei suoi passi nel mondo.
Se il neonato, subito dopo la nascita, o anche nelle fasi successive, subisce un’assenza affettiva della madre, sperimenta in termini neuronali un buco nella rete peptidica e questo buco si traduce in termini psichici come una perdita dolorosa che genera uno stato di confusione e di angoscia. Il desiderio frustrato di un rapporto caldo rompe l’armonia originaria per cui il bambino sa di essere nato e lo conduce verso una rabbia divoratrice nei confronti di una madre deludente che, sparendo dentro di lui, gli fa sperimentare il terrore di non poterla ritrovare. Se l’assenza della madre si perpetua, si struttura nel bambino una dinamica di bramosia che trasforma il rapporto umano nel possesso rabbioso e insaziabile di un corpo come oggetto sostitutivo da divorare. Quella rabbia per lui è davvero troppa, come troppa è l’angoscia; diventa imperativo farle sparire entrambe anche se, con esse, vanno via le sue esigenze affettive, quelle collegate ad ogni possibilità evolutiva reale ed armonica.
Ma... si sa... il bambino così fragile e dipendente, nella impossibilità di modificare il mondo esterno, può solo deformare sé stesso: la rete molecolare si stereotipizza nella presenza di ricordi ridondanti che cortocircuitano in continuazione a prescindere dal mondo esterno, dato l’annullamento di ogni componente affettiva sia dentro che fuori di sé. Le emozioni represse vengono immagazzinate nel corpo, in quella rete inconscia mediata dal rilascio dei peptidi, e i ricordi, collegati a quelle emozioni, rimangono rinchiusi nei loro recettori, bloccandoli e irrigidendo il sistema. L’immagine della nascita viene perduta e comincia quella deformazione psichica che si manifesterà come patologia conclamata negli anni successivi. Infatti, le deformazioni molecolari non consentiranno il naturale superamento delle tappe evolutive del bambino, dell’adolescente e poi dell’adulto il quale, ad ogni situazione critica, reagirà con un modello stereotipato che lo porterà ad irrigidirsi nella sua carenza, provocando danni sempre più consistenti all’immagine interiore, a quella prima identità che cerca nel rapporto con l’altro quella originaria rete affettiva e sociale, sostenuta dalla sua rete molecolare. Le dipendenze patologiche, pertanto, si strutturano sia in termini molecolari che psichici come tentativo, destinato all’insuccesso, di ricucire una rete in grado di restituire, seppure momentaneamente, quel sentimento di coesione con l’altro su cui si struttura la felicità.
“L’azione della droga sul mio organismo, oltre ad alleviare ogni dolore, produceva un effetto nettamente euforizzante, che mi riempiva di una felicità ai confini con l’estasi. L’aspetto più straordinario era che la droga sembrava cancellare del tutto anche l’ansia e il disagio emotivo che provavo nel sentirmi confinata in un letto d’ospedale, separata da mio marito e da un figlio ancora piccolo” (C.B. PERT, Molecole di Emozioni, Corbaccio Ed., Milano 2000).
La prima endovena arriva al cervello dell’eroinomane come un orgasmo. L’eroina da una parte gli fa rivivere un ricordo antico da cui non riesce a separarsi, dall’altra - poiché i buchi della rete peptidica si fanno sempre più devastanti - sancisce inesorabilmente la difficoltà di riunificare quanto è andato perduto: quella integrità psicocorporea alla base della possibilità di evolvere. Questa devastazione progressiva va di pari passo con la già avvenuta disgregazione della famiglia di appartenenza: si tratta di coppie genitoriali malate (dietro la maschera della normalità) in cui è presente un conflitto perenne sempre al limite di una rottura che però non avviene mai, come se il senso profondo dello stare insieme fosse proprio il conflitto, l’impossibilità di essere felici. L’atmosfera di guerra è quanto viene dato ai figli giorno dopo giorno, figli trattati come alleati o come nemici, e comunque come strumenti funzionali a perpetuare lo stato di guerra, degli oggetti da manipolare e non più degli esseri umani da far evolvere. Meglio se dichiaratamente malati, perché possono essere accusati di essere la causa delle loro “depressioni” e delle loro scelte di infelicità. E i figli vengono sacrificati in nome di un Padre e di una Madre che consentono solo l’identificazione con la storia creata su misura per loro; a questi ultimi non rimane che deformarsi ancora, come sempre, rimanendo presi in quella catena di cose materiali che i genitori non hanno mai avuto il coraggio di spezzare, per non permettere alcun livello di separazione e di verità. Per questo la separazione è vissuta automaticamente come buco nero in cui sprofondare, dato l’annullamento del rapporto con l’altro e del proprio legame affettivo con esso. Si perpetua l’annullamento subìto e vissuto originariamente all’interno della famiglia: la soddisfazione del bisogno materiale, dell’oggetto fisico immediatamente disponibile, avviene attraverso l’annullamento di ciò che in quella famiglia non si può sostenere, vale a dire una realtà psichica in grado di parlare della realtà umana.
Solo la depressione più o meno silente, segno di una perdita subita, può essere la spinta per accettare un rapporto terapeutico. Quando invece la patologia propriamente psichica viene negata e completamente nascosta dal bisogno materiale, la comparsa nel mondo esterno di un essere umano, diverso in quanto non degradato, suscita uno stato di angoscia insostenibile che nasce dalla messa in crisi del proprio assetto psichico: la perversione del rapporto non lascia spazio ad alcun conflitto ed egli finisce col difendere la sua scelta di onnipotenza rivendicando la “libertà” di una ricerca del piacere. Caste o sacche di emarginazione vengono poste al confine della propria identità individuale e sociale, solo apparentemente alternative ai modelli proposti dalla famiglia e dalla cultura dominante.
La nostra storia era cominciata una mattina assolata quando ancora credevo di sapere quale fosse il mio problema. Ben presto cominciai ad accorgermi della mia ignoranza in materia. Avevo molta paura, mi sentivo dentro un tunnel nero... in un pozzo senza fondo. Lei era sempre lì, tutte le settimane, integra, malgrado io non lo fossi e tentassi tutte le volte di annullarla con le ricadute. Era bella, solare, si vestiva bene, non come me che mi appesantivo per nascondere e per parare i colpi. Sorrideva e rideva tanto! Da quanto non sentivo ridere così! Non si arrabbiava con me per quelle ossessioni che mi rendevano prigioniera di un meccanismo a morsa. Non mi giudicava, mai. Non ho mai visto sul suo volto un’espressione di disprezzo o disgusto. Non si sottraeva. Addirittura un giorno mi disse che ci voleva un musicista “per far volare la gabbianella” (il riferimento è al libro di Sepulveda). Esterna com’era al mio mondo, lei avrebbe potuto criticarmi per la mia assoluta mancanza di volontà, per la mia debolezza, per la mia incapacità di fermare i massacri.
E invece no, contava altro. Contava quello che avevo dentro e che mi ero trascinata dietro come un fardello per tutti quegli anni in cui avevo cercato di dimenticare i ripetuti orrori che si nascondevano dietro l’apparente normalità familiare. Non mi faceva domande. Ascoltava. In quell’angolo buio in cui mi ero rincantucciata per anni, vedevo uno spiraglio di luce. L’avevo trovata. Avevo la mia testimone, anche se a volte si trattava di un testimone scomodo che mi fronteggiava, che non potevo controllare, a cui non potevo mentire. Un testimone che interpretava i miei sogni, restituendomi alla mia verità, anche quella dura. Ed erano proprio le sue interpretazioni che non mi davano tregua, che non mi lasciavano scampo. Spesso andavo via aggrovigliata e nel tragitto verso casa sentivo la rabbia montare sempre più forte, più cocente... intensa fino a diventare odio. Allora immaginavo un muro che mi si parava davanti e a quel punto aumentavo la velocità del mio scooter fino a giocare con i semafori, stupidamente. Diceva cose che proprio non mi piacevano e non volevo sentire, che mi risultavano estranee e insopportabili. Chi era lei per fare questo? Che ne sapeva di quello che c’era oltre il muro e poi... c’era davvero un oltre?
Io rimanevo nel buio che mi inghiottiva e mi strappava la voglia di vivere togliendomi il respiro, fino a non volere altro che il nulla e poi... lei dov’era quando non stavamo insieme sedute l’una di fronte all’altra? E se, tornando, io non l’avessi più trovata? Mi stavo legando ma... se fosse andata via... se fosse improvvisamente sparita o morta... cosa avrei fatto? Certe notti l’angoscia era tanta che mi mettevo a fare “la danza dei coltelli” per dare al mio dolore una via di espressione. L’immagine si riferisce ad un sogno di quel periodo, in cui mi trovavo con un coltello in mano a fare una specie di danza librando la lama nell’aria, come un vecchio samurai. Lei, a proposito del sogno aveva detto: “Ha visto finalmente il film ‘Diavolo in corpo’” (pellicola girata da Marco Bellocchio nel 1986). Ero sconvolta: come faceva a saperlo? Aveva parlato della mia difficoltà nell’accettare la separazione dall’altro, la sua libertà. Giulia, la protagonista, gioca con il coltello sul corpo inerme e nudo del suo amante, Federico, che nel sonno sogna e ride... Giulia si chiede se Federico sta sognando di lei, ma l’angoscia di rimanere fuori dal sogno di lui è troppo forte. Mi aveva detto: “Eppure, in questo sogno, c’è la danza di Giulia quando si libera dall’angoscia di sentirsi esclusa nel momento in cui l’altro si separa da lei”. Camminavo e camminavo, lentamente, e questa volta la strada era quella giusta.
Veniva, settimana dopo settimana, ingolfata nei suoi abiti scuri, con gli eterni pantaloni che proseguivano, sembrava, senza soluzione di continuità, in quegli scarponi che la tenevano sollevata da terra quel tanto che bastava per non ascoltare il giovane corpo ululante di dolore. Continuava a guardarmi in cagnesco, contratta, come se si aspettasse da un momento all’altro il tiro mancino. Tradimenti lanciati continuamente dalle persone intorno a lei, amici e parenti, che la volevano esattamente come lei era: arrabbiata, cieca, immobile, dipendente, legata ad una visione utilitaristica della realtà. Anche i suoi sogni erano collegati a fatti materiali, come i cibi che ingurgitava a forza quando sentiva il vuoto attanagliante. Mi accettava perché “ero tosta”, come lei si sentiva, ma c’era davvero poco spazio per altro. Ascoltavo e interpretavo... per poi ascoltare ancora. E questo lentamente ricostruiva la linea di separazione tra lei e gli altri, linea che si spezzava in mille punti quando prendeva la strada delle cose materiali: in quella linea che si andava definendo, lei poteva non essere più il burattino impazzito dietro cui gli altri, con il sorriso ebete dell’indifferenza, si nascondevano. Dietro cui lei stessa si nascondeva. La linea introflessa che, nella estroflessione, si rompeva in mille punti, era l’unica possibilità di ascolto del suo corpo. La costrinsi ad ascoltare, a considerare i dolori del corpo non come dei nemici odiosi da eliminare, ma come i testimoni dolorosi che la potevano aiutare a fuggire dalla tana dell’orco. Testimoni di uno stupro continuo a cui non riusciva ad opporsi perché lei stessa apriva le danze della violenza, nel tentativo disperato di mantenere un controllo. Almeno quello.
E venne il momento in cui non riuscì più a far l’amore come prima. Non riusciva più a buttarsi via. Momento magico, quello, in cui mi guardava con gli occhi sgranati dicendomi, con voce fanciulla, che non era possibile che proprio lei, non riusciva più a trovare gli automatismi erotici delle bambole meccaniche. Sgranava gli occhi e dietro quell’ansia scivolata sulla terra che lentamente ritornava sotto i suoi piedi, c’era la calma di potere accettare tutto questo perché non si sentiva più da sola. I suoi rituali di morte, lo svuotamento magico dei rapporti di veleno, sempre di più li collegava ad un sopruso violento, ad una parola non detta, ad un bacio rubato da un angelo divoratore. Questa sua fragilità la spaventava, questo suo non sapere l’angosciava e, a volte, quando coglieva un movimento che sapeva di nuovo, affondava ancora di più il suo corpo nei veleni, quasi a volermi dimostrare che io non contavo nulla, che la nostra storia non contava nulla. E io ascoltavo e interpretavo... per poi ascoltare ancora.
Ascoltavo quei dolori del corpo che mi laceravano lasciandomi piegata in due, senza fiato, quando lei chiudeva la porta dietro di sé. I suoi crampi e le lacerazioni passavano a me e io dovevo tenere in me, per lei, tutto questo: il suo dolore, fisico e psichico, ritrovava in me una unità, una coerenza, una possibilità. Il mio compito di testimone viscerale ricuciva il corpo dilaniato ai suoi affetti, ai suoi desideri, ai suoi sogni. A lei rimaneva l’illusione di avermi scelto solo come testimone esterno della sua storia, e con questo era convinta di preservarmi magicamente dalla sua rabbia e dal suo odio. Anche se in parte era così, dato che lei non poteva vedermi quando ancora riusciva appena a vedere sé stessa. E io lasciavo fare quel tanto che bastava per farle sentire che era lei a condurre il gioco, anche se sapeva profondamente e profondamente accettava il mio condurla per le difficili vie della demolizione e della ricostruzione.
Quella linea che si andava definendo, diventò nuova casa, tentativo di nuove storie, sicuramente lasciar cadere i fili del passato: la sua rabbia vedeva di più e chiedeva di più... Rimaneva nell’ombra l’idea radicata di non poter cambiare lo stato profondo delle cose, l’impossibilità dell’idea di una cura possibile. D’altra parte se lei mi accettava solo come testimone...! Ma io non accettai di essere solo testimone di una storia e, nuovamente, la sfidai.
La ricerca della smagliatura della rete individuale (molecolare e affettiva) e familiare trova una corrispondenza nel “vuoto” socioculturale. La ricerca storica ci ha portato nella Grecia degli inizi del IV secolo a.C. quando Platone costruisce quella visione del mondo che, arrivando pressoché inalterata fino ai nostri giorni, pone le basi logico-razionali del vivere umano: “... è bandita dalla polis ogni forma d’arte basata sulle molteplici variazioni” (da La Repubblica di Platone), bandita è la tragedia e i suoi miti perché osano esprimere al contempo il luogo e il tempo di forme contraddittorie. Tali forme albergano insieme nell’inscindibile doppio (e non dualismo) Apollo-Dioniso, espressione evidente che dietro l’esperienza consapevole dalle forme nette e dai contorni definiti (apollinea, appunto) esiste un fondo oscuro, misterioso, impenetrabile al linguaggio della ragione, che parla solo attraverso le rappresentazioni senza parole (dionisiaca). È in quel periodo che la Musica subisce un profondo cambiamento di senso: fino a quel momento essa si mescolava alla danza e al linguaggio tanto da poter dire che musica e poesia venivano a coincidere perfettamente. La musica è poesia, il suono di una voce è linguaggio... e... quanto al movimento, esso è rappresentazione di una musica interna che diventa linguaggio del corpo.
Con la nuova Era si perde quella visione globale del mondo di cui la musica era la struttura portante, l’armonia dominante che riuniva in sé gli opposti alla ricerca costante di un’espressione creativa sostenuta dalla potenza della passione. Finisce la polifonia e la poliarmonia. Musica e poesia si scindono ed entrambe si scindono dal vivere quotidiano, dagli affetti, dai movimenti. La passione si frammenta nei mille rivoli delle passioni parziali, mentre si va costruendo la cultura della lucida coscienza la quale non deve prevedere la presenza di fatti corporei inconsci che alludono ad un tempo in cui la passione era un evento integralmente vissuto, frutto di una sanità che, nell’interazione con altre sanità, dava spazio ad una creatività senza limite alcuno. Tale scissione sarà ribadita da S. Agostino attraverso la radicalizzazione del dualismo: quando il senso del suono viene alterato, non rimangono che le parole, trappole mortali nella bocca vorace di Fata Morgana. Su questa scissione si ipertrofizza l’aspetto dionisiaco, patologico proprio perché non più integrato alla dimensione apollinea. Si costruisce quel dualismo su cui prolifera la cultura della droga che incontra nella persona affetta da dipendenza patologica un pensiero forte e comune: il dionisiaco non è neppure più malattia, ma male inestirpabile dell’essere umano e, in quanto tale, incurabile. Male su cui si può esercitare solo un’azione di controllo da parte di un pensiero onnipotente malato di razionalità: su questo altare ideologico vengono sacrificati ogni giorno migliaia e migliaia di tossicodipendenti.
Mi propose di entrare nel gruppo. Accettai. Ero curiosa di conoscere gli altri e in particolare volevo conoscere l’altro artefice di “Al Chiaro di Luna” (mi riferisco al rapporto terapeutico raccontato in questo articolo): quella libreria e quella storia avevano messo in moto qualcosa dentro di me. Volevo continuare perché volevo di più... forse volevo il senso della Storia. E, anche se dentro di me avevo tanta paura, sapevo che c’era molto di più. All’inizio non fu facile. Li sentivo tutti estranei e quando qualcuno era ostile, più o meno apertamente, reagivo mostrando le zanne. Solo una “ragazzetta” mi venne incontro facendomi sentire accettata. Partii da lì, anche se poi compresi con dolore che si trattava di un’alleanza dietro cui si celavano favori occulti e violenti. Molte volte fui sul punto di mollare, ma le interpretazioni di lei, la sua calma e la sua presenza mi tenevano ferma, incollata al pavimento su cui mi sedevo quando ancora eravamo in cerchio. Lei diceva - e continua ancora a dirlo - che le dinamiche si devono svolgere e questo mi faceva tanto arrabbiare perché pretendevo che lei impedisse lo svolgersi delle brutte situazioni. C’é un tempo giusto per tutto e col tempo ho compreso che aveva maledettamente ragione perché quel suo modo di fare non mi proteggeva e mi costringeva ad andare in fondo alle cose.
Lei era molto diversa da come mi appariva in individuale. La sentivo dura, severa, ma anche morbida ed elastica: andava di fiore in fiore e quel suo trasformarsi in una frazione di secondo mi lasciava senza fiato. Quando non digerivo la sua diversità, la allontanavo da dentro di me e la percepivo ostile: una volta le attribuii la paura che avevo della mia furia cieca. Disse che le mie reazioni di lupo non spaventavano lei, spaventavano me. Stramaledicevo il giorno in cui l’avevo incontrata. Stramaledicevo la sua conoscenza che mi procurava anche dolore. Mi costringeva a scegliere tutte le volte... e la odiavo anche per questo. Avevo perso tutto: le vecchie sembianze, i vecchi vestiti, le tristi conoscenze, i soliti locali, i vecchi veleni... quel “piccolo mondo antico”, così lei lo chiamava, era crollato ed il vento proveniente dal mare l’aveva spazzato via.
Intanto gli attacchi spietati ed inevitabili dall’esterno, da parte di coloro che non potevano accettare il mio cambiamento, mi portavano verso una nuova solitudine, quella che mi schiacciava inchiodandomi alla sedia della scrivania, ad ascoltare “The Wind” (tratto dall’album di K. Jarrett Paris Concert del 1990), a scrivere interminabili pagine di diario e a colorare album. Ci provavo a voltarmi indietro, ma niente era più allo stesso modo. Passava il tempo e non riuscivo a tornare al passato. Niente più sipari, niente più scuse. La pista di neve si era trasformata in un percorso su cui un grosso fuoristrada tutto sporco di fango, senza possibilità alcuna di fare inversione, procedeva inesorabile.
Avrebbe potuto nascondersi per anni, come spesso accade, nell’alcova di un rapporto a due che troppo facilmente viene codificato come psicoterapeutico, per evitare di aprirsi al nuovo mondo. Le proposi di entrare nel gruppo terapeutico. Rispose con curiosità mista ad angoscia. Dietro la sua maschera di tranquillità presentò immediatamente la sua carta d’identità, il suo primo sogno nel gruppo: “Era con le spalle alla finestra, seduta con altre persone a formare un cerchio. Un uomo al centro minacciava coloro che non ce l’avrebbero fatta a tenere quella posizione: sarebbero stati sgozzati”. Ecco che mostrava i suoi denti di lupo, i coltelli affilati della distorsione di fronte alla costrizione di un’immagine bella e... separata. Il gruppo terapeutico era diventato una banda di mafiosi con tanto di capo branco: distorsione delirante da cui mi proteggeva e si proteggeva nel chiuso di un rapporto a due, mafioso per definizione... immodificabile per definizione. Era bastato metterla in un nuovo contesto, in mezzo ad altri, per farle scattare la vecchia angoscia di esclusione di fronte allo sconosciuto: il suo porsi di spalle alla finestra era il tentativo di volgere lo sguardo dallo stato attuale, pulsione attiva esercitata per non vedere il nuovo terapeuta con delle qualità che osavano discostarsi dalle sue. Si ritrovava a costruire, nel nuovo, una situazione vecchia da gestire con vecchi sistemi: pezzi di catrame posti sul mio volto per non vedere il senso della mia pretesa.
E così cominciarono nuovamente le immagini di “tosta” che cercava nell’ombra alleanze di mafia, legate, come si sa, a favori da rendere, vecchi retaggi di una famiglia in cui lei stessa era stata oggetto di favore. Riconosceva il meccanismo malato, insopportabile nella sua sporcizia, e mi guardava a tratti con una paura colma di vergogna: occhi nuovi tentavano di guardare quel terapeuta che non era più solo un testimone. Si stupiva di ciò che faceva, si arrabbiava per ciò che dicevo e, a volte, quando l’angoscia di non comprendermi era troppo forte, mi adulava. Mi adulava perché aveva paura di me, mi adulava perché aveva paura di sé stessa e del suo odio eppure... i suoi occhi continuavano a rimanere sgranati e le pieghe della fronte si distendevano sempre più. Una pausa estiva fu l’occasione per fare emergere in modo ancora più netto la percezione delirante: l’accusa violenta di avere paura della sua rabbia nascondeva l’odio per quelle mie qualità che l’avevano portata a distruggere il suo vecchio mondo, le sue atroci certezze. Si sentiva troppo fragile in quei suoi primi passi nel mondo e questa fragilità era per lei insopportabile perché la allontanava da me, la faceva sentire tagliata fuori da una forza nuova e diversa che percepiva in me.
La guardavo mentre mi sfidava portando la testa in avanti, affilando il volto e guardandomi con occhi di lupo alla ricerca di qualche segno sul mio volto di quella paura che mi attribuiva. Sentivo il movimento del lupo che si avvicina allo sconosciuto, girandogli intorno lentamente, per cogliere quel minimo movimento sconnesso di chi si sente preda e saltargli alla gola. La separazione amplificava il vissuto di essere tagliata fuori e la riempiva di angoscia per quella distorsione dell’immagine del terapeuta che andava costruendo: pulsione attiva di morte. Lei, però, rimaneva inchiodata a terra, con gli occhi spalancati e la bocca aperta a riempirsi a tratti di un riso irrefrenabile. Ascoltò la calma che accompagnava l’interpretazione e dal sorriso azzurro del suo mare ritrovato nacque l’immagine del vecchio lupo di mare che, su una barca, diceva ai suoi compagni di viaggio: “Chi non ce la fa lo dica ora e se ne vada, perché dopo non potrà mollare più”. Cominciava ad accettare le vie viscerali della diversità e della Storia, la solitudine bella di chi fa una scelta per sé.
Dioniso era stato inizialmente chiamato a rappresentare la ricerca sulle alterazioni degli stati di coscienza, su quel passaggio tra sonno e veglia che è l’albergo della memoria e dei sogni, luogo in cui si struttura una particolare forma di conoscenza intuitiva e irrazionale, così distante da quella lucida e cosciente. Ed è proprio questa forma di conoscenza che ha guidato artisti e scienziati, sciamani e streghe, verso la reminiscenza di antichi stati di trance, spinti evidentemente dalla ricerca inconscia verso l’integrazione. Intere popolazioni fin dalla notte dei tempi hanno utilizzato misteriose piante chiamate “divine” (il fungo teonanacatl e il cactus peyotl) nella misura in cui erano capaci di mettere in contatto con il sovrannaturale: queste sostanze possedevano il segreto della visione e, in quelle genti, il senso del loro uso era legato alla sperimentazione di una ricerca di un’immagine collettiva. L’uomo qualunque diveniva sciamano nella sua capacità di esaltare i sensi, cancellando ogni forma di ricordo, per raggiungere la memoria di un’antilope o di un artista, memoria che lo rendeva - lui pensava - libero da quel confine non ancora delineato tra animalità e umanità. Questa ricerca di unione col “divino” superava i confini della mente come quelli geografici: dalle cerimonie rituali indigene messicane alle pratiche misteriche della Grecia classica, o ancora più indietro nel tempo, nel mondo dei Veda che avevano ben chiaro – loro sì - il parallelismo tra “divino” e invisibile, invisibile e inconscio. Ma un conto è masticare o inalare sostanze vegetali, un conto è mangiare il corpus christi. La celebrazione dell’eucarestia nella chiesa cattolica, evidente allusione rituale alla dinamica di bramosia, non è forse la degradazione “schizoide” di quelle forme più antiche di rapporto col “divino”? E quale è la responsabilità della scissione (da cui scaturisce il termine “anima”) perpetrata della cultura cristiana nella genesi delle tossicodipendenze come fenomeno di massa tristemente noto?
Storicamente tre furono le sostanze che trovarono la via della dipendenza di massa: alcool, tabacco e oppio. Cristoforo Colombo portò la pianta del tabacco in Europa e fu Paracelso, nel ’500, quale medico-mago e alchimista, a ottenere il laudano (tintura di oppio in alcool) utilizzato sia come medicinale che come droga psicoattiva fino a tutto il XIX secolo. Queste sostanze persero pian piano il rapporto con le loro radici geografiche e sociali portando ad un utilizzo non controllato socialmente e pertanto dichiaratamente “tossico” (per il monopolio dell’oppio furono fatte, nel 1839 e nel 1856, ben due guerre). Esiste una indissolubile ambiguità della cultura dominante legata al controllo di un bisogno che in un tempo lontano era esigenza e prima ancora desiderio; in nome di questo controllo essa da una parte impone il monopolio di talune droghe in alcuni periodi storici, e dall’altra mette in atto un meccanismo di proibizione: la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre si perpetua attraverso la persecuzione operata in nome della religione nei confronti dei popoli che facevano un uso tribale di queste sostanze. Fino ad arrivare alla sanguinosa persecuzione delle streghe le quali, nell’oscuro Medioevo, tentavano di diffondere l’antichissima religione magica del culto della Luna (M.A. MURRAY, Il dio delle streghe, Astrolabio-Ubaldini Ed., traduzione di M. Ferretti, Roma 1972): le donne lunari, attraverso le loro misteriose pozioni, erano capaci di indurre incantamenti per raggiungere un’intima comunione con la Natura. E forse fu proprio per questo che le streghe non furono difese da nessuno: contrariamente agli uomini che con le sostanze cercavano il rapporto col “divino”, loro, laiche fin nelle ossa, cercavano una comunione con quella terra che è radice di tutte le cose.
A partire dalla fine del XVIII secolo, l’ambiente intellettuale si interessa sempre di più all’uso delle droghe e le esperienze mistiche con l’oppio e con l’hascish diventano un tentativo di superare i limiti corporei: così quel corpo strappato alla tradizione cristiana viene nuovamente sacrificato nel nome di una sperimentazione artistica. Come sempre sono gli artisti a pagare lo scotto più grande e in Europa a centinaia continuarono a morire e ad impazzire per un “desiderio cieco” che non diventava mai conoscenza, in nome di quella ideologia religiosa per cui il bisogno di sostanza materiale costantemente insoddisfatto è peccato originale, malattia incurabile. “Era il periodo in cui la psicoanalisi ufficiale, perduto il suo rapporto con l’inconscio, divenne il pilastro ideologico di una società che, criminalizzando in modo isterico, l’uso dell’alcool e della droga, lo trasformò in un gigantesco business” (D. FARGNOLI, “Droga come esplorazione della mente”, ne Il Sogno della Farfalla, 2, Nuove Edizioni Romane, Roma 2000). Il periodo della guerra portò alla scoperta delle anfetamine e del metadone, quest’ultimo sintetizzato per la prima volta dai nazisti, fino ad arrivare all’LSD. Il buco nero dei campi di sterminio e della bomba atomica aprirono la strada ad un nuovo fenomeno di massa: la beat generation. I capelli si allungavano per rappresentare forse la ricerca di quella nuova intelligenza che non si riusciva a trovare, perché nessuna protesi chimica può produrre un cambiamento interiore. E arrivò la disperazione dell’impossibilità del cambiamento, troppo forte per essere accolta, troppo forte per non essere annullata: il movimento junky è il nuovo figlio immolato sulla croce. Ormai le sostanze servono solo per distruggere il pensiero e gli affetti, quindi l’immagine interna, e potrebbero diventare una denuncia costante, per chi sa ascoltare, del livello di disumanizzazione messa in atto costantemente dalla nostra cultura.
La psichiatria ufficiale non si sottrae a questa degenerazione e si fa serva del padrone con l’utilizzo a tappeto degli psicofarmaci. Come i cocktail chimici che i ragazzi improvvisano nelle strade buie e nelle discoteche di quartiere, anche gli psicofarmaci, la cui prescrizione medica trasforma d’incanto il significato sociale della sostanza, diventano il veleno dato per modificare, spesso in modo irreversibile, la vita emotiva di una persona, la sua capacità di pensare e di volere: essi vanno a ratificare la “scissione” che deve esserci tra mente e corpo, quella confusione tra l’oggetto fisico e la realtà psichica su cui si regge la nostra cultura. Ecco come la psichiatria ufficiale finisce col sostenere e far crescere la cultura della droga, chiusa nella disperazione coperta dalle mille parole senza suono che sanciscono continuamente l’impossibilità di una cura. In questa ottica la scarica endorfinica, espressione molecolare del vissuto psicocorporeo che sostiene l’orgasmo, viene annullata dalla ideologia della impossibilità di conoscere l’altro attraverso i nostri sensi, attraverso le nostre molecole di emozioni; concezione tossica, sostenuta freudianamente, che avvelena lentamente fino a far morire l’immagine di quel primo rapporto tra madre e figlio, quando il figlio al seno della madre è partecipe della sua dimensione divina, divina nel senso che ad ogni poppata è lei a dargli la vita. Noi sappiamo invece che questo è il tempo della fisiologica alienazione religiosa del poppante, fondata su una realtà di rapporto da cui lui dipende totalmente per potere crescere sano: lo stesso tipo di rapporto che esiste tra maestro ed allievo, terapeuta e paziente. È questo il luogo delle origini, quella “età dell’oro” dove la passione è piena e totale, perché piena e totale è la corrispondenza di amorosi sensi. Sappiamo anche che ad un certo punto diventa necessario lasciare andare questa dimensione religiosa: è questa l’esperienza psichica ineludibile che permette di far rivivere, in ogni atto di regressione creativa, quel corpo a corpo appassionato che restituisce nuova vita all’esperienza che si va vivendo. Sarà il superamento di questa dipendenza fisiologica in cui il neonato continua a nutrirsi della realtà interna del suo amante-madre-maestro-terapeuta, sarà questa separazione a portarlo verso le strade dell’autonomia e della creatività perché quando esiste un livello di sanità, le visioni sostenute dall’immagine interna diventano investimento progressivo della realtà, modificazione continua dello stato di coscienza. Diventano regressione istantanea che ci porta oltre la coscienza nel mondo della memoria e della fantasia.
Una notte sognai di essere in una grande stanza... era un bagno molto bello, con delle grandi finestre dalle quali entrava la luce del sole. Mi guardavo nello specchio e poi provavo a vomitare. Non ci riuscivo più. Quel sogno mi portò a sensazioni nuove, una trasformazione veloce prendeva forma anche nella realtà materiale: immergermi nel mare per scendere in profondità alla ricerca di un riscontro, di una corrispondenza. E, anche se nella realtà esterna mi scontravo faticosamente con i bisogni degli altri piuttosto che incontrarmi con i loro desideri - come io speravo -, non mi perdevo d’animo. Quando il vecchio gruppo si trasformò in un organismo pulsante mi sentii come un ponte di passaggio. Nei sogni tornavo indietro a riprendermi delle cose, tutte indispensabili per oltrepassare il ponte e nella traversata da un continente ad un altro, non avevo più accanto tutti i miei vecchi compagni di viaggio: alcuni si erano fermati di fronte al bivio che costringe a quella prassi tanto difficile da sostenere per la coerenza che impone. Ero spaventata dal peso della responsabilità e dalla fatica che mi attendeva, ma quest’altra solitudine era una nuova occasione e poi... giunse dal mare un navigatore coraggioso...
Anche lei è cambiata in tutto questo tempo. Anche lei ha fatto le sue scelte. Dal cerchio della stanza azzurra siamo passati a quello della stanza gialla di “Chiaro di Luna”; poi il cerchio si è trasformato in un ordine sparso e motivato che impone una presenza costante e attiva di rapporto. Lei continua a trasformarsi tutte le volte alla velocità della luce e questo mi piace perché non saprò mai come sarà la prossima volta. Nel gruppo era marinaio, adesso è acrobata, domani... “chi può dirlo!”. Ogni volta fa mille acrobazie, talvolta assurde, altre volte irriverenti, a tratti pericolose... sempre e comunque coerenti col suo sentire, con la sua vitalità, con i suoi desideri, con la sua passione, con la sua sanità. Adesso sogno che litighiamo. Me lo posso permettere, finalmente! Ora posso metterla in discussione, non più su basi di negazioni e annullamenti, ma di un rapporto umano che me la fa sentire accanto e fa sentire me più vera. La Morte Nera ha lasciato finalmente il posto alla certezza delle tante nascite che verranno. Nel bosco non c’è più quel lupo furioso e ammalato di rabbia che si nascondeva perché aveva paura dell’uomo: i denti e i coltelli acuminati, la folta pelliccia e gli occhi gialli hanno lasciato il posto ad una donna che ascolta la sua visceralità, all’unisono con il mare.
Di lei, dietro quella scrivania scura del primo incontro, mi resta una memoria chiara ed indelebile. Dopo essersi messa di fronte a me, adesso mi è accanto con tutta la sua difficile diversità... Quando interpreta si fa paracadute, diventa fuoco che scioglie i ghiacci, rete integra per gli acrobati, acqua del mare per i tuffatori... Quando con la sua presenza corporea e psichica sta lì, sente il dolore e non si sottrae, non ti molla anche quando tu vuoi mollare... Quando mi guarda e i suoi occhi diventano liquidi come le maree oceaniche... Quando parliamo, quando ridiamo, quando ci scontriamo, quando scriviamo e quando leggiamo. Adesso lo so, so perché l’ho scelta e so perché lei ha scelto me... il motivo per cui sono qui a raccontare.
Arrivò il momento in cui tremava per tutto. Si spaventava della violenza altrui e si sentiva inerme, come sempre s’era sentita, al di sotto della sua maschera. Il rifiuto netto e calmo di identificarsi con l’aggressore a volte non si accompagnava alla rapidità e alla prontezza necessarie verso chi tende le trappole della delinquenza. La calma, però, le faceva accettare in sé quell’“idiota” (sto parlando del Principe Myskin, personaggio de L’idiota di F. Dostoevskij) che la rendeva pulita e bella. Bellezza e pulizia che cercavano nuove possibilità: lo spazio esterno divenne nuova casa e quello interno trovò una sessualità composta che aveva il coraggio dell’attesa. La sessualità blu trovava un movimento di rappresentazione nelle gambe lasciate scoperte dalle gonne morbide e nelle linee curve della sua femminilità che si delineavano sotto le maglie divenute sempre più colorate e aderenti. E mentre andava scoprendo danze e passioni, immagini maschili e nuove linee si articolavano dentro e fuori di lei. Mi guardava con aria incredula dicendo: “Io sono felice!”. Il suo sguardo innamorato diventava sornione quando coglieva la realtà umana che le porgevo sempre di più, riuscendo a sostenerla sempre di più, ridendo con me, a volte ridendo di me con quella nuova ironia che riusciva a mettere nel rapporto.
Le crisi bulimiche se ne sono andate tanto tempo fa, semplicemente. A volte sorrido quando le capita ancora di arruffare lo sguardo: del lupo ha mantenuto il fiuto e il bel movimento, la forte lealtà. La voce ritrovata, morbida e calda, non si affretta ad esprimere concetti intelligenti, ma si arricchisce dei silenzi e dei movimenti del corpo. Ed è con questi che reagisce alle dinamiche violente del mondo esterno e talvolta a quelle di un gruppo diventato organismo anche grazie a lei. È sua l’immagine dei cercatori di pietre colorate nel fondo di quel mare dove ognuno trova ciò che cerca e dove ogni pietra è diversa dall’altra: cercatori uniti in un raccordo di emozioni che si muovono, ciascuno nella propria individualità, come fossero un tutt’uno, a dare il ritmo e il senso della Storia. È sua l’immagine delle pietre di mare trasparenti, azzurre come il colore del mare, segno profondo di una recettività sempre pronta ad essere attraversata per dare spazio a nuove nascite. E ora ha davanti a sé la prova più dura: riuscire a tenere di fronte agli altri la bellezza e la potenza di una separazione possibile.
Mentre la guardo muoversi con delicatezza fra le cose del mondo, mentre la ascolto nella ricerca dei suoni del suo corpo, mentre la sento nella passione della sua ricerca, mi chiedo a volte se non sia stato il rapporto con lei, quel corpo a corpo sempre vissuto, a farmi scegliere di lasciare il lavoro di consulente psichiatra nei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) a favore dei bistrattati Servizi per le Tossicodipendenze (Ser.T.).
Negli ultimi dieci anni sempre di più all’interno delle istituzioni specificatamente psichiatriche il livello di scontro è stato narcotizzato dalla prescrizione degli psicofarmaci con il risultato di avere una istituzionalizzazione assai rapida dei pazienti, anche di quelli giovani (sempre più giovani) alle prime crisi. La cura della malattia mentale prevede lo scontro con la violenza insita nella malattia stessa: i processi di identificazione con l’altro, infatti, messi in atto da questi malati, mal si confrontano con i processi di identificazione dall’altro che fa la sanità di un individuo. Troppo rapidamente i pazienti psichiatrici rientrano nelle norme familiari, sociali... e psichiatriche, andando a smorzare la carica di dissenso che la malattia mentale porta sempre con sé. Ecco... nei Ser.T. ho trovato vivo ancora quel dissenso: esso è confuso, mescolato a dinamiche perverse, ma evidentemente la presenza “ingombrante” di un corpo che si ostina a sentire, nonostante tutto, diventa strumento di dissenso oltre che di autodistruzione.
Il dissenso vive sempre ai margini, ai confini del mondo preconfezionato, e nessuno è più emarginato di un tossicodipendente: egli è confinato dalla psichiatria e dalla medicina del corpo, è confinato da sé stesso perché deve entrare nei meccanismi di identificazione imposti dalla famiglia, è confinato dal vivere sociale perché il rapporto con la “roba” da cui dipende diventa una risposta a specchio della reificazione dell’essere umano continuamente perpetrata dalla nostra cultura. Ligia a questa nefanda tradizione culturale, la medicina ufficiale ha “risposto” alla tossicodipendenza da eroina con la riduzione del danno, mettendo cioè in primo piano la sopravvivenza materiale del tossicodipendente senza farsi il minimo carico del danno psichico: frutto di una cultura tossicomanica la scelta di dare spazio alla realtà materiale, annullando la dimensione psichica! Questa concezione ideologica, ben lontana dal senso della cura, è stata il punto di partenza della cacciata dei tossicodipendenti dai Dipartimenti di Salute Mentale, per relegarli alla dimensione di patologia sociale: con la cacciata dal paradiso terrestre dei peccatori viene sancita la negazione della malattia tossicomanica, stessa negazione perpetrata continuamente dal malato di tossicodipendenza.
E allora diventa necessario che lo psichiatra vada in quella terra di nessuno che la psichiatria ha dimenticato, dimenticandosi anche di sé stessa. Occorre trovare il dissenso per coloro che non l’hanno più. Occorre andare ai margini, lungo quella linea di confine che ci permette di affermare come le dipendenze da qualsivoglia sostanza siano il sintomo di una malattia psichica che può essere curata in quei casi (e sono molti) non ancora istituzionalizzati nell’annullamento violento e onnipotente che spazza via i vissuti della mancanza e della perdita. Linea di confine, lembo di terra in cui recuperare quel corpo a corpo su cui ricostruire una rete molecolare che parla di altri vissuti, laddove una cura e una formazione continua abbracciano sempre nuovi protagonisti perché nuove voci osano chiedere un rapporto che li trasformi; linea di confine dove i gesti dei pazienti si ritraggono impauriti come a realizzare la difficoltà di lasciare la linea di confine di una malattia confinata; linea di confine di una psichiatria che ha difficoltà a lasciare andare una “professione” basata sul controllo di sé e dell’altro, ottusamente centrata sulla ipertrofia di un Io come risposta ad un Sé che non riesce ad esistere. Lasciare i confini per separarsi, per identificarsi dagli altri, e poter essere una voce fuori dal coro. Per poi rientrare in una coralità che ha il coraggio di affermare una nuova possibilità di conoscenza: voci che chiedono... chiedere per trovare la propria voce... dare voce per ritrovare il proprio corpo e restituirlo al movimento della rappresentazione laddove la musica è poesia e il linguaggio è il suono su cui si articolano i movimenti.
Esiste il pensiero che sia la modificazione dello stato di coscienza a creare una particolare sensibilità, mentre noi sappiamo, per averlo vissuto, che è l’emergenza di una realtà inconscia, di un’immagine interna, a creare una sensibilità e un’affettività diverse, una nuova forma di pensiero. Noi sappiamo che chi riesce a produrre da solo le molecole delle emozioni è un artista, un individuo naturalmente drogato, cioè posseduto dalla potenza di un movimento che lo porta continuamente verso quel pensiero creativo che dilata il tempo e lo spazio. Alterazione dello stato di coscienza che dà un senso all’esistenza per quella conoscenza che diventa immediatamente prassi di rapporto, abitando quello spazio che abbatte la barriera tra sonno e veglia. È quella possessione, anche furiosa, che ci fa trovare la via del corpo e, con essa, la via della passione, la potenza espressiva di quella interezza psicocorporea che sperimentiamo per la prima volta con il desiderio.
La tossicodipendenza dilagante è certamente una risposta individuale e sociale ad una cultura malata di razionalità che fa scivolare continuamente verso l’insensibilità e l’anaffettività. La cura delle tossicodipendenze, però, può rappresentare l’occasione per la Medicina, e in particolare per la Psichiatria, di riscattare sé stessa e la sua funzione nell’ambito delle scienze umane attraverso il superamento della scissione “anima e corpo” e il conseguente recupero di quella integrità psicocorporea che allude a nuove prospettive di pensiero e di integrazione sociale. Le immagini interne, infatti, non si piegano alle forme di dominio, allo stesso modo in cui l’Arte, la vera arte, riesce ad esprimersi in ogni tempo e in ogni contesto parlando in continuazione, anche in tempi bui, della libertà dell’Uomo, delle sue possibilità e della sua umanità.
Qualche tempo fa avevo sognato di essere sul costone di una grande montagna. Con altri compagni stavamo scalando un lungo tratto di parete molto ripida e difficile. Sotto era molto profondo, ma io guardavo oltre e mi rendevo conto dell’impresa che mi attendeva. Ad un certo punto davanti a me scorgevo picconi, occhiali e caschi lasciati quali trofei da altri alpinisti che, prima di me, erano stati su quello stesso percorso. Erano riusciti a raggiungere la cima e quei trofei, ormai un tutt’uno con la roccia viva, ne erano la testimonianza. Perdevo i sensi e mi risvegliavo calma. Chiedevo cosa fosse successo e qualcuno mi rispondeva che ce l’avevamo fatta. Era necessario perdere la coscienza per accettare di riuscire: dopo Hanging Rock (mi riferisco al film di Peter Weir Picnic a Hanging Rock del 1975) e la danza vicino a un fuoco, la separazione era diventata una storia bella e possibile.
La guarigione era giunta inaspettata, con grande sorpresa e una progressiva ondata di paura. Non vi avevo mai pensato semplicemente perché stavo così bene in quel contesto (l’Organismo) che se qualcuno mi avesse detto “sei guarita”, avrei sgranato gli occhi e sarei rimasta in silenzio paventando la “fine”. Quanto mi sbagliavo! Da quel momento la paura aveva iniziato ad avere la meglio: pensavo di ritrovarmi fuori dalle mie origini, lontana dalle mie nuove radici, via dalla mia terra montagnosa ricca di cime frastagliate e corsi d’acqua che si tuffavano in mare da altezze vertiginose. Guarire dall’antica ferita dell’abbandono sì, ma dopo, cosa ne sarebbe stato di me? Nell’immediato c’era solo un non-sapere come muovermi, sentirmi diversa e avere paura fino a quasi auto-escludermi. Ero ancora sulla barca e temevo di lasciarla proprio nel momento in cui la libertà era a un passo; in più c’era il timore di annegare nella sensazione di perdita che in quel momento sentivo come insostenibile.
Richiamando alla memoria quei momenti, mi si para davanti l’immagine di “Pi” (il ragazzo) e Richard Parker (la tigre) che si separano sulla spiaggia dopo un lungo viaggio vissuto insieme su una scialuppa di salvataggio. La tigre atterra sulla sabbia e si muove barcollante verso la vegetazione. Il ragazzo aspetta che si volti, che abbassi le orecchie, che lo guardi in segno di saluto, ma questa, oscillando la coda, fissa la radura e scompare. “Pi” piange come un bambino, non per la gioia di essere sopravvissuto, ma perché Richard Parker se n’è andato in modo brusco e lui si sente abbandonato. Anche le mie lacrime scendono calde imprimendosi sulle guance quando ricordo certi momenti: sono duri gli addii, per di più in situazioni non facili, e spesso si patisce per la frettolosità e la freddolosità. Diventa allora importante imprimere alle cose, alle sensazioni vissute con le persone, agli eventi, una forma significativa. A me era accaduta la stessa cosa e mi ero sentita come un’adolescente che si affaccia alla vita con tutta la fragilità di una nuova identità, coi suoi maldestri tentativi di affermarla, e un’esposizione a dinamiche violente che facevano il loro corso. Ero in un mare in burrasca, un altro, e questa volta dovevo proteggere la mia bussola dalle intemperie devastanti: a corto di energia, di ossigeno e di sangue, la mia bussola aveva cominciato a funzionare male forse ad opera di calamite misteriose, e io diventavo portavoce di parole e domande non mie, oggetto di azioni e dubbi di altri, di pensieri che mai mi avevano sfiorato e che sentivo a me estranei anche nel disorientamento. Ero arrivata anche a perdere la voce. Rendendomi man mano conto delle mie responsabilità, decisi di rimediare e di provare, testando la memoria, contando sul calore, la profondità e la potenza di un rapporto terapeutico e umano sempre vissuto. Quella tempesta, dove viva era la sensazione di venire respinta, esclusa, dimenticata e addirittura cancellata, ha lasciato spazio alla calma e alla certezza di ciò che era stato, momento dopo momento, parola dopo parola.
Fuori dall’uragano ho incontrato una megattera d’argento col manto di Luna che mi ha cantato di Tempo e di Storia. Così i miei studi intorno alle Lingue mi hanno restituito a una concentrazione e a una disciplina ritrovata e rinnovata, per riprendere un progetto, quello di diventare ufficialmente traduttrice dopo il lavoro di traduzione di un importante libro svolto insieme qualche tempo prima. Terminata la traduzione di quel libro non avevo sostenuto e difeso del tutto quella nascita. Ho recuperato questa mancanza continuando a lavorare alla mia ricerca. Mi sento di ringraziare una volta di più chi mi è stata accanto e di fronte da sempre; grazie anche per il bellissimo viaggio con un musicista a Parigi, al lavoro sull’ascolto e sulla voce che mi accompagnano di continuo nella mia nuova vita.
Per molto tempo non sono riuscita a scrivere: riempivo solo fogli di carta dove trascrivevo i miei stati d’animo, per poi stracciarli o conservarne poche righe. Tentavo di scrivere di qualcosa che mi aveva colpito o che mi interessava sviluppare, ma non riuscivo - pur avendone tanta voglia: questo mi provocava un dolore acuto anche se continuavo lo stesso a sentirmi parte di un lavoro bello, coraggioso e creativo che procedeva nonostante tutto. Leggevo gli scritti e godevo delle immagini degli altri, accettando quella strana sospensione del desiderio. Sapere che altre persone proseguivano la navigazione e la ricerca nelle scienze umane e nell’arte, mi dava la certezza di esserci anche io, in qualche modo. E così è stato, sebbene i miei disegni divenissero sempre più elementari: mi ritrovavo a un tavolo pieno di colori e pastelli, voci con bei suoni e movimenti, e disegnavo... sfumavo... strappavo anche, ma sempre ridendo divertita. Tutto questo processo di recupero, un po’ come quello delle tartarughe ferite che vengono poi rimesse in mare, è terminato, accompagnato da un bellissimo lavoro sul corpo che svolgo tuttora con un gruppo di persone da me scelte e condotte dal filo sapiente e continuo di quel corpo a corpo da sempre vissuto, vivo, pulsante in me e tutt’intorno...
Quel corpo a corpo terapeutico di cui mi sono fidata e a cui mi sono affidata, soprattutto quando non capivo bene cosa volesse dire e collideva con altre situazioni... questo mi ha salvata dalle vecchie e ferrose certezze dei legami-ragnatela. Ho compreso che il rischio di cadere è sempre presente per ogni essere umano, anche se in forme e livelli differenti, sia durante un percorso di cura che dopo; e più la posta in gioco è alta, più si rischia, a volte anche la vita, perché le scelte comportano coraggio, fatica e grandi prove da sostenere. Quando si sceglie si lascia sempre qualcosa e comprenderlo è fondamentale quanto il ricordare che ciascuno è responsabile dell’andamento della propria esistenza. Anche nei momenti di massima disperazione, di buio, di follia, c’è sempre un istante di lucidità in cui un essere umano può decidere cosa fare di sé e volontariamente imprimere una virata, per poi sentire le proprie percezioni trasformarsi inevitabilmente e sperimentare nuovi stati di reale apertura al mondo. In tutti questi anni ho vissuto rapporti con persone che come me affrontavano il loro percorso, e ne ho viste cadere: alcune si sono rialzate, altre no, ma sempre hanno scelto. Questi compagni di viaggio, su in cima alla montagna, hanno deciso se proseguire o scendere, o starsene dov’erano... oppure migrare altrove.
In questo tempo ho scoperto, e dolorosamente vissuto, che prima di scegliere si può anche decidere di trascinarsi o di temporeggiare, per poi scoprire che il corpo ha un tempo diverso. Riguardo e rivivo la mia storia personale, che non è solo la mia, e mi sfilano davanti immagini e musiche... vedo Ferdi e il suo amico Ale, fragili protagonisti del film Nemmeno il destino. Vivono entrambi in una realtà fatta di macerie familiari, con una madre malata e un padre alcolista. Entrambi assistono i rispettivi genitori, li accudiscono e in questo subire accettano di lacerare e fare a brandelli i propri volti, di torturarsi ripetutamente, di distruggersi in un’esistenza squallida fatta di fabbriche dismesse e di scenari senza speranza. Ma subito dopo ecco l’immagine di Ferdi che si lancia nel vuoto sul suo motorino rosso... tutto sfuma progressivamente e inevitabilmente verso altre immagini, ma non prima di soffermarmi su delle note molto belle che di tanto in tanto ho voglia di ascoltare... e che mi portano altrove… a Taranto, la mia città natale, e nel “Mar Piccolo”. Nel quartiere Paolo VI, in uno dei posti più degradati - simile al quartiere Tamburi in cui da bambina passavo in macchina ogni sabato e sentivo quell’inconfondibile odore acre, e notavo le finestre, le persiane e i muri rossi perché invasi dalle polveri del siderurgico - vive Tiziano che, nonostante la sua giovane età, bada alla famiglia dopo che il padre l’ha abbandonata per un’esistenza disperata annegata nei videopoker. La madre lotta a suo modo, come tante donne della città, per difendere i figli da un’aria irrespirabile, invasa dai veleni. Dov’è la storia antica di questa terra? Dove sono andate le sue tradizioni? Tiziano lotta per restare alla larga dalla mafia del territorio, quella che protegge in cambio della propria dignità e della speranza. Il boss del quartiere gli dice che non c’è uomo più fedele di quello che è in debito, il debito che lega ai padri e alle madri, i debiti familiari di morte che come macigni trascinano nel pozzo con una corda stretta al collo. Quando si ritrova in riformatorio scopre, attraverso la lettura di Cuore di tenebra, che quando legge è come se stesse da un’altra parte, è come se partisse. Ed è proprio quello che farà insieme con Stella e il suo vestito rosso. Taranto è dietro di loro, con un bellissimo sole che nonostante i fumi delle sostanze continua a scaldare e a fare luce, a donare una storia diversa, a infondere nuova vita.
Tra i due mari che si uniscono attraverso un lembo di terra, ne è passata di acqua sotto al ponte girevole bollente di sole. Ora sono qui a scrivere di questa storia che continua e che ogni giorno diventa altro ancora. La dipendenza che ho vissuto pienamente in un tempo lontano si è tramutata in desiderio e in passione del desiderio, una forma di possessione vissuta con il corpo, in un’immersione totale nella bellezza, in un perdersi dentro un’atmosfera percepibile attraverso tutte le fibre del corpo, coi cinque e più sensi, da vivere nel tocco, nel gusto, nell’odore dei suoni, nella voce, nella musica. Le dosi di un tempo si sono trasformate in sete continua, ogni volta appagata, e che chiede naturalmente sempre di più. La mancanza e il malessere di una volta, terminato l’effetto innaturale, sono divenuti una forma rappresentativa di forte nostalgia per la fine di un evento, o esperienza condivisa, o giornata trascorsa insieme. E devo sentirmi libera verso me stessa di rappresentare il mio stato d’animo di dolore per i nuovi sentimenti acuti per tutto il tempo che necessito, anche se solo per alcuni istanti, o minuti, oppure ore. E toccava scoprire il segreto delle separazioni che segnano il passo verso le definizioni e l’identità, che differenziano le linee più o meno lunghe dei cambiamenti dalle traiettorie infinite delle trasformazioni, distinguendo quel che appare ed è materiale, da ciò che è reale, umano, non si vede ma si ascolta, e pervade l’aria di suoni e voci. E penso a un bambino che gode dell’odore di una madre presente, profumata, morbida, sorridente, o a un uomo che ascolta i suoni carezzevoli di una voce bella, sinuosa e che sfiora le corde più profonde, o a due amanti che si sono appena uniti dimentichi del mondo fuori, o a un musicista che compone e tocca e vive la sua musica nuova, a uomini che suonano e che cantano, a donne che danzano, e scrivono, e interpretano, o a ricercatori che sognano e cambiano il mondo...
Di questi momenti, della loro intensità e di molto altro io mi nutro e vivo continuamente le separazioni, che non sono più distanziamenti - e questo ora lo posso sapere – ma vogliono dire ritrovarsi sempre... e sempre nella bellezza e nella creatività del rapporto, e in una sorta di senso dell’appartenenza basato sulle differenze e sulle corrispondenze, e in un movimento perpetuo che varca i confini del conoscibile. Dovevo inabissarmi da sola per sapere che separazione non vuol dire perdere, dividere, dimenticare, ma rappresentare e definire, rafforzare e ritrovare. E così, in questa certezza mi sono lasciata prendere dalla calma e dalla memoria ‘presente e viva’ e dal ‘suon di lei’, con la sensazione fisica di proteggere tutto il vissuto e di custodirlo in me. Con questo bagaglio continuo ad affrontare quel che mi circonda e con cui mi confronto, con cui mi scontro o che, proprio grazie a questa intensità continua, scelgo a volte anche di non sperimentare.
E tutto rinsalda le strutture per sconfinare e trovare le infinite risonanze dei campi in cui siamo tutti immersi e che ci pervadono, per stabilire nuove connessioni, seguendo i flussi delle differenze e delle assonanze, per continuare a cercare, scoprire e inventare, esplorare nuove realtà umane e dimensioni. E ora siamo uscite dai due mari, abbiamo attraversato le acque con sopra il ponte girevole, abbiamo guardato verso l’alto, immerse, mentre l’acqua lambiva le carni, e abbiamo ascoltato il suono emesso dalle scie delle navi che lasciano il porto e riprendono a navigare, dopo aver attraversato l’estensione dei lunghi bracci di metallo prezioso che saldi si uniscono e si dividono, si congiungono e si separano ancora... Il mare aperto è davanti a noi... e io non ho più paura.
A volte non basta una vita per lasciare dietro di sé la paura di “lasciare andare”, ma quando questo accade il corpo esulta con il vento tra i capelli, riverbera nel fuoco del ventre, risuona felice con le onde del mare nelle orecchie. In quel preciso istante la liquidità dell’Arte si incontra con i piedi che affondano nella terra, ne prendono la forza per ergersi ed incedere con il canto dei liberi pensieri.
Si tratta di questioni creative e di espressività umana che nulla hanno più a che fare con la patologia, ma non per questo sono meno temibili e temerarie. Lasciare andare le “cose” che incatenano alla materialità... ecco il salto ardito, temporalmente dato, che conduce finalmente nell’invisibile, non più da cogliere e da raccogliere, ma da vivere.
Quando Siamo andati nella terra di nessuno abbiamo colto l’invisibile tra le righe dello spartito, come dire che nel buco nero della disperazione abbiamo visto, tra le fiamme della passione, un uomo e una donna danzare sul cratere di un vulcano per scrivere con il sangue un manifesto sulle possibilità umane.
Poi Siamo andate nella terra di nessuno dove abbiamo raccolto quell’invisibile che ci ha reso fertili scoprendo così quella relazione con il Tempo che solo le donne gravide conoscono: due donne hanno danzato intorno al fuoco per raccontare, senza dire, della loro disponibilità incarnata a lasciarsi rapire dalla “indicibile bellezza”... quel tanto che basta per sentire la via della trasformazione. Quel tanto che basta... per cogliere che “la verità della bellezza è una strana sincronia... è qualcosa che ha a che fare con il tempo... con il tempo e le sue direzioni. Fino ad arrivare a quell’unica traiettoria che fa la bellezza della verità”.
...Eppure noi donne sembriamo saperlo da sempre che quel tanto che basta (per noi) è “rischiare tutto per esprimere tutto”(John Cassavetes). Da questa posizione etica viene generata quella immagine maschile capace di lasciare andare la terra di nessuno e i suoi abitanti... senza voltarsi. Per vivere nell’inconscio e per l’inconscio, per sbirciare nel latente e giocare a rendersi appena un po’ visibili... quel tanto che basta per sentire sempre vivo il desiderio dell’altro... e investirlo della nostra passione. Proprio come i Veda vogliamo vivere la sapienza, cioè “conoscere il senso della nostra conoscenza ... ben sapendo che per essere ... desti come gli déi” la scelta di vivere in ogni istante significa... trovare l’istante del Tempo. E questa non è un’altra storia. È vivere la Storia.
Il rito aveva inizio. Lo specchio ovale rifletteva un volto emaciato e colmo di disperazione, con gli occhi cerchiati. Qualcuno mi diceva che sembravo una malata terminale e, anche se ne soffrivo fin quasi a morirne, in quel momento tutto questo non aveva importanza. Mi guardavo nello specchio e aspettavo, come se a quell’altra fosse lecito dire qualcosa; ma niente le era concesso in quell’istante. Tutto quello che c’era al di là della porta scompariva. Nessuno contava più. Se qualcuno si azzardava ad interferire, doveva vedersela con quella parte di me che si stava lavando le mani con cura... ma nessuno osava più, anche perché quando era accaduto le conseguenze erano state calci e pugni a mobili e porte, aggressioni, oggetti che volavano, urla e occhi di sangue. Dopo lo specchio mi spostavo a sinistra dove mi accasciavo cominciando a sentire il dolore. Tutto scoppiava dentro. La pelle dell’addome, tirata fin quasi a strapparsi, mi impediva di piegarmi. Finalmente arrivava la “liberazione”. La sensazione di svuotamento mi portava sollievo ogni minuto di più: sempre più vuota, sempre più pulita. La testa pulsava, con i capelli raccolti disciplinatamente dietro la nuca perché loro proprio non dovevano sporcarsi. Mi appoggiavo un po' mentre il corpo era sconquassato dallo sfinimento, ma tutto sommato mi sentivo leggera. Mi tiravo su, tornavo al lavandino e poi allo specchio. Davanti a me lo spettacolo di un volto svuotato, con gli occhi sbarrati e ancora insanguinati. Sentivo il dolore della mia gola indolenzita. Quella visione mi dava ancora più dolore... però, ora, mi sentivo più pulita.
Lo sapevo che questo riempire per poi svuotare non portava da nessuna parte, visto che né prima né dopo riuscivo a trovare pace. Sistemavo tutto perché niente e nessuno doveva prendere contatto con il mio rituale da schifo. Uscivo dal bagno e tornavo alla mia normalità, senza apparenti pretese nei confronti degli altri. Nessuno doveva vedere la mia vulnerabilità: ero forte e lo sbattevo addosso a tutti. Per nessuna ragione potevo raccontare quello che accadeva tutti i giorni. Mi vergognavo troppo e poi... nessuno sarebbe stato forte quanto me, anzi più di me... per potermi aiutare. Quando una sera un uomo mi urlò che non avevo scampo: dovevo chiedere aiuto. Mi guardava con occhi disperati restituendomi alla mia disperazione. In fondo lo sapevo anche io che non avrei mai potuto farcela da sola.
Andai così nei luoghi istituzionali dove si trattano i problemi come i miei. Lì per lì non sapevo nemmeno io quel che cercavo. Avevo una paura tremenda e, mentre continuavo a chiedermi cosa ci facevo nel luogo dei medici dei matti, mi arrivarono dalla porta chiusa, proprio di fronte a me, delle urla confuse. Poi sentii un urlo di donna più forte che diceva a chiare note: “O la piantate o vi sbatto fuori”. Rimasi inchiodata alla sedia, non potevo più scappare. Era sceso un grande silenzio al di là di quella porta e anche dentro di me. Dopo un tempo che non saprei dire la porta si aprì e uscirono in tanti da quella stanza, tutti altissimi. Poi comparve lei, terribilmente piccola e minuta. Quell’urlo imperioso era veramente uscito da lei? Ero stupita. Sorridendomi mi invitò ad entrare. Mi alzai pian piano e la seguii.
La prima volta in quella grande stanza un po' spoglia e fatiscente la guardavo al di là di quella grande scrivania con cui i luoghi istituzionali sanciscono la divisione che deve esserci tra medico e paziente. Mi osservava un po' in cagnesco, arruffando lo sguardo e gonfiando i muscoli per far sembrare più grande e forte la sua esile figura. Raccontava con voce metallica dei suoi sintomi, ma non voleva che fosse toccato altro, abituata com’era “a sciare da sola sui campi di neve”, immagine onirica portata inaspettatamente al secondo sguardo. “Sono forte, cosa crede?”, urlava rabbiosa con tutto il suo essere; forte di fronte alla indifferenza del mondo che la circondava, forte nel controllo delle sue emozioni, forte nel gestire il rapporto con gli uomini. Eppure, quando si ritrovava nella solitudine di quel campo di neve, correva in bagno a svuotare con forza tutto quello che aveva ingoiato, e non solo attraverso la bocca; poca importanza aveva in quel momento se si trattava di cibo buono o avariato, di rapporti sani o malati. Mangiava tutto e vomitava tutto. Mangiava tutto per dare spazio ad un bisogno profondo di rapporto, cieco alla qualità del rapporto stesso, e vomitava tutto per negare quel bisogno fragile di bimba che non le permetteva scelta alcuna. “Sono bulimica”. Definiva il suo sintomo come se non le appartenesse, come se lo guardasse dall’esterno, come se quel suo stato di malattia fosse una cosa a lei estranea. “Il mio unico problema è con il cibo”. Rispondevo: “La sua è una malattia. C’è un rapporto malato con gli altri che è possibile curare”.
Diventava furiosa di fronte a quella frase che si cristallizzava nell’aria come l’acqua alle temperature più basse, a farsi neve che non riusciva a trovare quel calore per sciogliersi in lacrime di dolore! Il volto rimaneva teso, con l’espressione un po' stupita e piena di paura di fronte a chi non esita a dare voce ad una domanda di cui si teme la risposta. La domanda mai fatta - “Sono malata?” - non poteva essere affrontata perché dietro questa c’era la disperazione nera di un giudizio a priori: non poter guarire. Morte nera vissuta in famiglia nella inamovibilità senza speranza della malattia della madre e nella assenza iterativa del padre il quale, dopo avere rinunciato all’impresa di poter rendere bella la sua donna di un tempo, aveva posato lo sguardo su donne più giovani. La scoperta del tradimento aveva aperto la danza della violenza, anche di quella fisica: pezzi di catrame si erano avvinghiati sui lembi di pelle del volto di lei, posti da altri per non vedere la richiesta di una donna.
Lei aveva assistito a tutto questo, aveva vissuto tutto questo: la sordità ad una richiesta continuamente negata, dimenticata, oltraggiata. E lei aveva indissolubilmente unito in sé quella madre bisognosa di riconoscimento e quel padre che toglieva ogni speranza nel controllo folle di una bellezza originaria che aveva avuto come unico peccato quello di avergli fatto perdere la testa. Non poteva innamorarsi, non doveva innamorarsi. E anche gli altri non potevano e non dovevano innamorarsi di lei... perché distruggeva tutto e tutti. Masticava e vomitava senza tregua per non accettare quella dipendenza affettiva dagli altri che le ricordava troppo la passività della madre. Vomitava con forza più e più volte al giorno per ribadire che i rapporti li gestiva lei, che non aveva bisogno di nessuno, creando intorno a sé laghi fangosi che legavano in un abbraccio di morte, dato che il sesso era solo una questione di potere.
Annaspavano, le sue emozioni vinte, in quel vomito disperato quanto inutile che le parlava dei suoi visceri, di quei villi allungati fino allo spasimo nel tentativo di un assorbimento destinato a non venire mai, per perpetuare il romanzo familiare che lei aveva fatto suo. Mangiava e vomitava con rabbia, la bella rabbia che parla continuamente di una delusione cocente vissuta nei rapporti utilitaristici con gli altri; quegli stessi altri che stabilivano un rapporto con lei senza cercare di dire o modificare alcunché, andando a rinforzare quel senso di disperazione rabbiosa che si accende di fronte ai luoghi dell’indifferenza. Non poteva innamorarsi, non doveva innamorarsi... e neanche gli altri potevano e dovevano innamorarsi. Quella rabbia oscura che cercava, senza saperlo, una presenza, le permetteva di accettare solo la sfida. Ed io, abbattendo quella scrivania di legno, pesante e scura, collocata per sancire la distanza tra medico e paziente, l’impossibilità della cura, la sfidai.
Tutte le dipendenze patologiche, siano esse da cibo, da sostanze stupefacenti, da alcool, da gioco, da sesso o altro, hanno la loro origine in una deformazione di quella dipendenza fisiologica che ogni essere umano vive durante i suoi primi mesi di vita all’interno del rapporto con la madre. Rapporto carnale iniziato prima della nascita, quando ancora non c’era soluzione di continuità tra le due carni e quando l’unica discontinuità era legata alla voce della madre, espressione sonora di una realtà umana da ricordare e da ricercare. Dopo la nascita, sancita dalla cesura delle carni, il bambino ritrova alla fine di quel lungo tuffo che lo introduce nel mondo, l’abbraccio caldo della madre, la sua voce, il suo seno, e in quel tempo e in quello spazio trova la sua identità umana originaria. Identità che si va strutturando e irrobustendo carezza dopo carezza, cicaleggio dopo cicaleggio, poppata dopo poppata, in quel periodo in cui madre e bambino, come due amanti, godono l’uno dell’altro, lontani dal mondo e dalle sue regole. In quella sospensione del tempo i due protagonisti vivono appassionatamente la loro possessione reciproca: quell’attaccamento vibrante, a volte furioso, che li conduce l’uno nelle braccia dell’altro, spazio in cui i desideri possono essere placati e dove, dopo la separazione, ognuno può ritrovare la strada del sogno e della memoria.
L’abbraccio caldo sostenuto dalle vibrazioni sonore scorre su fili sensoriali i quali si intersecano a formare reti neuronali che liberano le molecole delle emozioni: quelle che ci fanno sentire felici o arrabbiati, tristi o sollevati. Ed è proprio lì, nell’amplesso molecolare tra un recettore e il suo legante, in quello spazio infinitesimale nel cuore del mondo, che si va strutturando l’integrazione dell’Uomo: integrità psicocorporea che lo prepara alla integrazione ambientale e alla Storia. Rapporto dopo rapporto, quando il neonato rimane solo nella sua culla, si costruisce l’immagine legata all’esperienza emozionale appena vissuta: la memoria di quei rapporti è proprio lì, in quei recettori che aspettano il proprio legante allo stesso modo di come si può aspettare la donna o l’uomo desiderato. Con le informazioni provenienti dai cinque sensi si costruiscono le vie del piacere mediate dalla liberazione delle endorfine. Saranno le emozioni vissute da quel lattante ad aiutarlo nella selezione di ciò che occorre ricordare e di quello che è più opportuno dimenticare. Non potrà ricordare tutto e forse non è neppure necessario, perché l’emozione che accompagna il ricordo lo aiuterà nella selezione.
Il cambiamento biochimico avvenuto nel recettore è la base molecolare della memoria, dispersa in una rete psicosomatica che si estende a tutto il corpo. Quando il neonato crescerà, la scelta fra ciò che diventa un pensiero emergente dalla memoria e uno schema di pensiero sepolto nel corpo come ricordo, viene mediata proprio da quei recettori: i peptidi, in questo modo, plasmano a livello molecolare i suoi ricordi in via di formazione e sono in grado di ricondurlo nello stato d’animo giusto per fargli sentire l’esigenza di recuperarli. Le molecole delle emozioni uniscono organi ed apparati in un organismo, una rete unica che reagisce ai cambiamenti o li agisce, una rete inconscia che lo sosterrà nei suoi passi nel mondo.
Se il neonato, subito dopo la nascita, o anche nelle fasi successive, subisce un’assenza affettiva della madre, sperimenta in termini neuronali un buco nella rete peptidica e questo buco si traduce in termini psichici come una perdita dolorosa che genera uno stato di confusione e di angoscia. Il desiderio frustrato di un rapporto caldo rompe l’armonia originaria per cui il bambino sa di essere nato e lo conduce verso una rabbia divoratrice nei confronti di una madre deludente che, sparendo dentro di lui, gli fa sperimentare il terrore di non poterla ritrovare. Se l’assenza della madre si perpetua, si struttura nel bambino una dinamica di bramosia che trasforma il rapporto umano nel possesso rabbioso e insaziabile di un corpo come oggetto sostitutivo da divorare. Quella rabbia per lui è davvero troppa, come troppa è l’angoscia; diventa imperativo farle sparire entrambe anche se, con esse, vanno via le sue esigenze affettive, quelle collegate ad ogni possibilità evolutiva reale ed armonica.
Ma... si sa... il bambino così fragile e dipendente, nella impossibilità di modificare il mondo esterno, può solo deformare sé stesso: la rete molecolare si stereotipizza nella presenza di ricordi ridondanti che cortocircuitano in continuazione a prescindere dal mondo esterno, dato l’annullamento di ogni componente affettiva sia dentro che fuori di sé. Le emozioni represse vengono immagazzinate nel corpo, in quella rete inconscia mediata dal rilascio dei peptidi, e i ricordi, collegati a quelle emozioni, rimangono rinchiusi nei loro recettori, bloccandoli e irrigidendo il sistema. L’immagine della nascita viene perduta e comincia quella deformazione psichica che si manifesterà come patologia conclamata negli anni successivi. Infatti, le deformazioni molecolari non consentiranno il naturale superamento delle tappe evolutive del bambino, dell’adolescente e poi dell’adulto il quale, ad ogni situazione critica, reagirà con un modello stereotipato che lo porterà ad irrigidirsi nella sua carenza, provocando danni sempre più consistenti all’immagine interiore, a quella prima identità che cerca nel rapporto con l’altro quella originaria rete affettiva e sociale, sostenuta dalla sua rete molecolare. Le dipendenze patologiche, pertanto, si strutturano sia in termini molecolari che psichici come tentativo, destinato all’insuccesso, di ricucire una rete in grado di restituire, seppure momentaneamente, quel sentimento di coesione con l’altro su cui si struttura la felicità.
“L’azione della droga sul mio organismo, oltre ad alleviare ogni dolore, produceva un effetto nettamente euforizzante, che mi riempiva di una felicità ai confini con l’estasi. L’aspetto più straordinario era che la droga sembrava cancellare del tutto anche l’ansia e il disagio emotivo che provavo nel sentirmi confinata in un letto d’ospedale, separata da mio marito e da un figlio ancora piccolo” (C.B. PERT, Molecole di Emozioni, Corbaccio Ed., Milano 2000).
La prima endovena arriva al cervello dell’eroinomane come un orgasmo. L’eroina da una parte gli fa rivivere un ricordo antico da cui non riesce a separarsi, dall’altra - poiché i buchi della rete peptidica si fanno sempre più devastanti - sancisce inesorabilmente la difficoltà di riunificare quanto è andato perduto: quella integrità psicocorporea alla base della possibilità di evolvere. Questa devastazione progressiva va di pari passo con la già avvenuta disgregazione della famiglia di appartenenza: si tratta di coppie genitoriali malate (dietro la maschera della normalità) in cui è presente un conflitto perenne sempre al limite di una rottura che però non avviene mai, come se il senso profondo dello stare insieme fosse proprio il conflitto, l’impossibilità di essere felici. L’atmosfera di guerra è quanto viene dato ai figli giorno dopo giorno, figli trattati come alleati o come nemici, e comunque come strumenti funzionali a perpetuare lo stato di guerra, degli oggetti da manipolare e non più degli esseri umani da far evolvere. Meglio se dichiaratamente malati, perché possono essere accusati di essere la causa delle loro “depressioni” e delle loro scelte di infelicità. E i figli vengono sacrificati in nome di un Padre e di una Madre che consentono solo l’identificazione con la storia creata su misura per loro; a questi ultimi non rimane che deformarsi ancora, come sempre, rimanendo presi in quella catena di cose materiali che i genitori non hanno mai avuto il coraggio di spezzare, per non permettere alcun livello di separazione e di verità. Per questo la separazione è vissuta automaticamente come buco nero in cui sprofondare, dato l’annullamento del rapporto con l’altro e del proprio legame affettivo con esso. Si perpetua l’annullamento subìto e vissuto originariamente all’interno della famiglia: la soddisfazione del bisogno materiale, dell’oggetto fisico immediatamente disponibile, avviene attraverso l’annullamento di ciò che in quella famiglia non si può sostenere, vale a dire una realtà psichica in grado di parlare della realtà umana.
Solo la depressione più o meno silente, segno di una perdita subita, può essere la spinta per accettare un rapporto terapeutico. Quando invece la patologia propriamente psichica viene negata e completamente nascosta dal bisogno materiale, la comparsa nel mondo esterno di un essere umano, diverso in quanto non degradato, suscita uno stato di angoscia insostenibile che nasce dalla messa in crisi del proprio assetto psichico: la perversione del rapporto non lascia spazio ad alcun conflitto ed egli finisce col difendere la sua scelta di onnipotenza rivendicando la “libertà” di una ricerca del piacere. Caste o sacche di emarginazione vengono poste al confine della propria identità individuale e sociale, solo apparentemente alternative ai modelli proposti dalla famiglia e dalla cultura dominante.
La nostra storia era cominciata una mattina assolata quando ancora credevo di sapere quale fosse il mio problema. Ben presto cominciai ad accorgermi della mia ignoranza in materia. Avevo molta paura, mi sentivo dentro un tunnel nero... in un pozzo senza fondo. Lei era sempre lì, tutte le settimane, integra, malgrado io non lo fossi e tentassi tutte le volte di annullarla con le ricadute. Era bella, solare, si vestiva bene, non come me che mi appesantivo per nascondere e per parare i colpi. Sorrideva e rideva tanto! Da quanto non sentivo ridere così! Non si arrabbiava con me per quelle ossessioni che mi rendevano prigioniera di un meccanismo a morsa. Non mi giudicava, mai. Non ho mai visto sul suo volto un’espressione di disprezzo o disgusto. Non si sottraeva. Addirittura un giorno mi disse che ci voleva un musicista “per far volare la gabbianella” (il riferimento è al libro di Sepulveda). Esterna com’era al mio mondo, lei avrebbe potuto criticarmi per la mia assoluta mancanza di volontà, per la mia debolezza, per la mia incapacità di fermare i massacri.
E invece no, contava altro. Contava quello che avevo dentro e che mi ero trascinata dietro come un fardello per tutti quegli anni in cui avevo cercato di dimenticare i ripetuti orrori che si nascondevano dietro l’apparente normalità familiare. Non mi faceva domande. Ascoltava. In quell’angolo buio in cui mi ero rincantucciata per anni, vedevo uno spiraglio di luce. L’avevo trovata. Avevo la mia testimone, anche se a volte si trattava di un testimone scomodo che mi fronteggiava, che non potevo controllare, a cui non potevo mentire. Un testimone che interpretava i miei sogni, restituendomi alla mia verità, anche quella dura. Ed erano proprio le sue interpretazioni che non mi davano tregua, che non mi lasciavano scampo. Spesso andavo via aggrovigliata e nel tragitto verso casa sentivo la rabbia montare sempre più forte, più cocente... intensa fino a diventare odio. Allora immaginavo un muro che mi si parava davanti e a quel punto aumentavo la velocità del mio scooter fino a giocare con i semafori, stupidamente. Diceva cose che proprio non mi piacevano e non volevo sentire, che mi risultavano estranee e insopportabili. Chi era lei per fare questo? Che ne sapeva di quello che c’era oltre il muro e poi... c’era davvero un oltre?
Io rimanevo nel buio che mi inghiottiva e mi strappava la voglia di vivere togliendomi il respiro, fino a non volere altro che il nulla e poi... lei dov’era quando non stavamo insieme sedute l’una di fronte all’altra? E se, tornando, io non l’avessi più trovata? Mi stavo legando ma... se fosse andata via... se fosse improvvisamente sparita o morta... cosa avrei fatto? Certe notti l’angoscia era tanta che mi mettevo a fare “la danza dei coltelli” per dare al mio dolore una via di espressione. L’immagine si riferisce ad un sogno di quel periodo, in cui mi trovavo con un coltello in mano a fare una specie di danza librando la lama nell’aria, come un vecchio samurai. Lei, a proposito del sogno aveva detto: “Ha visto finalmente il film ‘Diavolo in corpo’” (pellicola girata da Marco Bellocchio nel 1986). Ero sconvolta: come faceva a saperlo? Aveva parlato della mia difficoltà nell’accettare la separazione dall’altro, la sua libertà. Giulia, la protagonista, gioca con il coltello sul corpo inerme e nudo del suo amante, Federico, che nel sonno sogna e ride... Giulia si chiede se Federico sta sognando di lei, ma l’angoscia di rimanere fuori dal sogno di lui è troppo forte. Mi aveva detto: “Eppure, in questo sogno, c’è la danza di Giulia quando si libera dall’angoscia di sentirsi esclusa nel momento in cui l’altro si separa da lei”. Camminavo e camminavo, lentamente, e questa volta la strada era quella giusta.
Veniva, settimana dopo settimana, ingolfata nei suoi abiti scuri, con gli eterni pantaloni che proseguivano, sembrava, senza soluzione di continuità, in quegli scarponi che la tenevano sollevata da terra quel tanto che bastava per non ascoltare il giovane corpo ululante di dolore. Continuava a guardarmi in cagnesco, contratta, come se si aspettasse da un momento all’altro il tiro mancino. Tradimenti lanciati continuamente dalle persone intorno a lei, amici e parenti, che la volevano esattamente come lei era: arrabbiata, cieca, immobile, dipendente, legata ad una visione utilitaristica della realtà. Anche i suoi sogni erano collegati a fatti materiali, come i cibi che ingurgitava a forza quando sentiva il vuoto attanagliante. Mi accettava perché “ero tosta”, come lei si sentiva, ma c’era davvero poco spazio per altro. Ascoltavo e interpretavo... per poi ascoltare ancora. E questo lentamente ricostruiva la linea di separazione tra lei e gli altri, linea che si spezzava in mille punti quando prendeva la strada delle cose materiali: in quella linea che si andava definendo, lei poteva non essere più il burattino impazzito dietro cui gli altri, con il sorriso ebete dell’indifferenza, si nascondevano. Dietro cui lei stessa si nascondeva. La linea introflessa che, nella estroflessione, si rompeva in mille punti, era l’unica possibilità di ascolto del suo corpo. La costrinsi ad ascoltare, a considerare i dolori del corpo non come dei nemici odiosi da eliminare, ma come i testimoni dolorosi che la potevano aiutare a fuggire dalla tana dell’orco. Testimoni di uno stupro continuo a cui non riusciva ad opporsi perché lei stessa apriva le danze della violenza, nel tentativo disperato di mantenere un controllo. Almeno quello.
E venne il momento in cui non riuscì più a far l’amore come prima. Non riusciva più a buttarsi via. Momento magico, quello, in cui mi guardava con gli occhi sgranati dicendomi, con voce fanciulla, che non era possibile che proprio lei, non riusciva più a trovare gli automatismi erotici delle bambole meccaniche. Sgranava gli occhi e dietro quell’ansia scivolata sulla terra che lentamente ritornava sotto i suoi piedi, c’era la calma di potere accettare tutto questo perché non si sentiva più da sola. I suoi rituali di morte, lo svuotamento magico dei rapporti di veleno, sempre di più li collegava ad un sopruso violento, ad una parola non detta, ad un bacio rubato da un angelo divoratore. Questa sua fragilità la spaventava, questo suo non sapere l’angosciava e, a volte, quando coglieva un movimento che sapeva di nuovo, affondava ancora di più il suo corpo nei veleni, quasi a volermi dimostrare che io non contavo nulla, che la nostra storia non contava nulla. E io ascoltavo e interpretavo... per poi ascoltare ancora.
Ascoltavo quei dolori del corpo che mi laceravano lasciandomi piegata in due, senza fiato, quando lei chiudeva la porta dietro di sé. I suoi crampi e le lacerazioni passavano a me e io dovevo tenere in me, per lei, tutto questo: il suo dolore, fisico e psichico, ritrovava in me una unità, una coerenza, una possibilità. Il mio compito di testimone viscerale ricuciva il corpo dilaniato ai suoi affetti, ai suoi desideri, ai suoi sogni. A lei rimaneva l’illusione di avermi scelto solo come testimone esterno della sua storia, e con questo era convinta di preservarmi magicamente dalla sua rabbia e dal suo odio. Anche se in parte era così, dato che lei non poteva vedermi quando ancora riusciva appena a vedere sé stessa. E io lasciavo fare quel tanto che bastava per farle sentire che era lei a condurre il gioco, anche se sapeva profondamente e profondamente accettava il mio condurla per le difficili vie della demolizione e della ricostruzione.
Quella linea che si andava definendo, diventò nuova casa, tentativo di nuove storie, sicuramente lasciar cadere i fili del passato: la sua rabbia vedeva di più e chiedeva di più... Rimaneva nell’ombra l’idea radicata di non poter cambiare lo stato profondo delle cose, l’impossibilità dell’idea di una cura possibile. D’altra parte se lei mi accettava solo come testimone...! Ma io non accettai di essere solo testimone di una storia e, nuovamente, la sfidai.
La ricerca della smagliatura della rete individuale (molecolare e affettiva) e familiare trova una corrispondenza nel “vuoto” socioculturale. La ricerca storica ci ha portato nella Grecia degli inizi del IV secolo a.C. quando Platone costruisce quella visione del mondo che, arrivando pressoché inalterata fino ai nostri giorni, pone le basi logico-razionali del vivere umano: “... è bandita dalla polis ogni forma d’arte basata sulle molteplici variazioni” (da La Repubblica di Platone), bandita è la tragedia e i suoi miti perché osano esprimere al contempo il luogo e il tempo di forme contraddittorie. Tali forme albergano insieme nell’inscindibile doppio (e non dualismo) Apollo-Dioniso, espressione evidente che dietro l’esperienza consapevole dalle forme nette e dai contorni definiti (apollinea, appunto) esiste un fondo oscuro, misterioso, impenetrabile al linguaggio della ragione, che parla solo attraverso le rappresentazioni senza parole (dionisiaca). È in quel periodo che la Musica subisce un profondo cambiamento di senso: fino a quel momento essa si mescolava alla danza e al linguaggio tanto da poter dire che musica e poesia venivano a coincidere perfettamente. La musica è poesia, il suono di una voce è linguaggio... e... quanto al movimento, esso è rappresentazione di una musica interna che diventa linguaggio del corpo.
Con la nuova Era si perde quella visione globale del mondo di cui la musica era la struttura portante, l’armonia dominante che riuniva in sé gli opposti alla ricerca costante di un’espressione creativa sostenuta dalla potenza della passione. Finisce la polifonia e la poliarmonia. Musica e poesia si scindono ed entrambe si scindono dal vivere quotidiano, dagli affetti, dai movimenti. La passione si frammenta nei mille rivoli delle passioni parziali, mentre si va costruendo la cultura della lucida coscienza la quale non deve prevedere la presenza di fatti corporei inconsci che alludono ad un tempo in cui la passione era un evento integralmente vissuto, frutto di una sanità che, nell’interazione con altre sanità, dava spazio ad una creatività senza limite alcuno. Tale scissione sarà ribadita da S. Agostino attraverso la radicalizzazione del dualismo: quando il senso del suono viene alterato, non rimangono che le parole, trappole mortali nella bocca vorace di Fata Morgana. Su questa scissione si ipertrofizza l’aspetto dionisiaco, patologico proprio perché non più integrato alla dimensione apollinea. Si costruisce quel dualismo su cui prolifera la cultura della droga che incontra nella persona affetta da dipendenza patologica un pensiero forte e comune: il dionisiaco non è neppure più malattia, ma male inestirpabile dell’essere umano e, in quanto tale, incurabile. Male su cui si può esercitare solo un’azione di controllo da parte di un pensiero onnipotente malato di razionalità: su questo altare ideologico vengono sacrificati ogni giorno migliaia e migliaia di tossicodipendenti.
Mi propose di entrare nel gruppo. Accettai. Ero curiosa di conoscere gli altri e in particolare volevo conoscere l’altro artefice di “Al Chiaro di Luna” (mi riferisco al rapporto terapeutico raccontato in questo articolo): quella libreria e quella storia avevano messo in moto qualcosa dentro di me. Volevo continuare perché volevo di più... forse volevo il senso della Storia. E, anche se dentro di me avevo tanta paura, sapevo che c’era molto di più. All’inizio non fu facile. Li sentivo tutti estranei e quando qualcuno era ostile, più o meno apertamente, reagivo mostrando le zanne. Solo una “ragazzetta” mi venne incontro facendomi sentire accettata. Partii da lì, anche se poi compresi con dolore che si trattava di un’alleanza dietro cui si celavano favori occulti e violenti. Molte volte fui sul punto di mollare, ma le interpretazioni di lei, la sua calma e la sua presenza mi tenevano ferma, incollata al pavimento su cui mi sedevo quando ancora eravamo in cerchio. Lei diceva - e continua ancora a dirlo - che le dinamiche si devono svolgere e questo mi faceva tanto arrabbiare perché pretendevo che lei impedisse lo svolgersi delle brutte situazioni. C’é un tempo giusto per tutto e col tempo ho compreso che aveva maledettamente ragione perché quel suo modo di fare non mi proteggeva e mi costringeva ad andare in fondo alle cose.
Lei era molto diversa da come mi appariva in individuale. La sentivo dura, severa, ma anche morbida ed elastica: andava di fiore in fiore e quel suo trasformarsi in una frazione di secondo mi lasciava senza fiato. Quando non digerivo la sua diversità, la allontanavo da dentro di me e la percepivo ostile: una volta le attribuii la paura che avevo della mia furia cieca. Disse che le mie reazioni di lupo non spaventavano lei, spaventavano me. Stramaledicevo il giorno in cui l’avevo incontrata. Stramaledicevo la sua conoscenza che mi procurava anche dolore. Mi costringeva a scegliere tutte le volte... e la odiavo anche per questo. Avevo perso tutto: le vecchie sembianze, i vecchi vestiti, le tristi conoscenze, i soliti locali, i vecchi veleni... quel “piccolo mondo antico”, così lei lo chiamava, era crollato ed il vento proveniente dal mare l’aveva spazzato via.
Intanto gli attacchi spietati ed inevitabili dall’esterno, da parte di coloro che non potevano accettare il mio cambiamento, mi portavano verso una nuova solitudine, quella che mi schiacciava inchiodandomi alla sedia della scrivania, ad ascoltare “The Wind” (tratto dall’album di K. Jarrett Paris Concert del 1990), a scrivere interminabili pagine di diario e a colorare album. Ci provavo a voltarmi indietro, ma niente era più allo stesso modo. Passava il tempo e non riuscivo a tornare al passato. Niente più sipari, niente più scuse. La pista di neve si era trasformata in un percorso su cui un grosso fuoristrada tutto sporco di fango, senza possibilità alcuna di fare inversione, procedeva inesorabile.
Avrebbe potuto nascondersi per anni, come spesso accade, nell’alcova di un rapporto a due che troppo facilmente viene codificato come psicoterapeutico, per evitare di aprirsi al nuovo mondo. Le proposi di entrare nel gruppo terapeutico. Rispose con curiosità mista ad angoscia. Dietro la sua maschera di tranquillità presentò immediatamente la sua carta d’identità, il suo primo sogno nel gruppo: “Era con le spalle alla finestra, seduta con altre persone a formare un cerchio. Un uomo al centro minacciava coloro che non ce l’avrebbero fatta a tenere quella posizione: sarebbero stati sgozzati”. Ecco che mostrava i suoi denti di lupo, i coltelli affilati della distorsione di fronte alla costrizione di un’immagine bella e... separata. Il gruppo terapeutico era diventato una banda di mafiosi con tanto di capo branco: distorsione delirante da cui mi proteggeva e si proteggeva nel chiuso di un rapporto a due, mafioso per definizione... immodificabile per definizione. Era bastato metterla in un nuovo contesto, in mezzo ad altri, per farle scattare la vecchia angoscia di esclusione di fronte allo sconosciuto: il suo porsi di spalle alla finestra era il tentativo di volgere lo sguardo dallo stato attuale, pulsione attiva esercitata per non vedere il nuovo terapeuta con delle qualità che osavano discostarsi dalle sue. Si ritrovava a costruire, nel nuovo, una situazione vecchia da gestire con vecchi sistemi: pezzi di catrame posti sul mio volto per non vedere il senso della mia pretesa.
E così cominciarono nuovamente le immagini di “tosta” che cercava nell’ombra alleanze di mafia, legate, come si sa, a favori da rendere, vecchi retaggi di una famiglia in cui lei stessa era stata oggetto di favore. Riconosceva il meccanismo malato, insopportabile nella sua sporcizia, e mi guardava a tratti con una paura colma di vergogna: occhi nuovi tentavano di guardare quel terapeuta che non era più solo un testimone. Si stupiva di ciò che faceva, si arrabbiava per ciò che dicevo e, a volte, quando l’angoscia di non comprendermi era troppo forte, mi adulava. Mi adulava perché aveva paura di me, mi adulava perché aveva paura di sé stessa e del suo odio eppure... i suoi occhi continuavano a rimanere sgranati e le pieghe della fronte si distendevano sempre più. Una pausa estiva fu l’occasione per fare emergere in modo ancora più netto la percezione delirante: l’accusa violenta di avere paura della sua rabbia nascondeva l’odio per quelle mie qualità che l’avevano portata a distruggere il suo vecchio mondo, le sue atroci certezze. Si sentiva troppo fragile in quei suoi primi passi nel mondo e questa fragilità era per lei insopportabile perché la allontanava da me, la faceva sentire tagliata fuori da una forza nuova e diversa che percepiva in me.
La guardavo mentre mi sfidava portando la testa in avanti, affilando il volto e guardandomi con occhi di lupo alla ricerca di qualche segno sul mio volto di quella paura che mi attribuiva. Sentivo il movimento del lupo che si avvicina allo sconosciuto, girandogli intorno lentamente, per cogliere quel minimo movimento sconnesso di chi si sente preda e saltargli alla gola. La separazione amplificava il vissuto di essere tagliata fuori e la riempiva di angoscia per quella distorsione dell’immagine del terapeuta che andava costruendo: pulsione attiva di morte. Lei, però, rimaneva inchiodata a terra, con gli occhi spalancati e la bocca aperta a riempirsi a tratti di un riso irrefrenabile. Ascoltò la calma che accompagnava l’interpretazione e dal sorriso azzurro del suo mare ritrovato nacque l’immagine del vecchio lupo di mare che, su una barca, diceva ai suoi compagni di viaggio: “Chi non ce la fa lo dica ora e se ne vada, perché dopo non potrà mollare più”. Cominciava ad accettare le vie viscerali della diversità e della Storia, la solitudine bella di chi fa una scelta per sé.
Dioniso era stato inizialmente chiamato a rappresentare la ricerca sulle alterazioni degli stati di coscienza, su quel passaggio tra sonno e veglia che è l’albergo della memoria e dei sogni, luogo in cui si struttura una particolare forma di conoscenza intuitiva e irrazionale, così distante da quella lucida e cosciente. Ed è proprio questa forma di conoscenza che ha guidato artisti e scienziati, sciamani e streghe, verso la reminiscenza di antichi stati di trance, spinti evidentemente dalla ricerca inconscia verso l’integrazione. Intere popolazioni fin dalla notte dei tempi hanno utilizzato misteriose piante chiamate “divine” (il fungo teonanacatl e il cactus peyotl) nella misura in cui erano capaci di mettere in contatto con il sovrannaturale: queste sostanze possedevano il segreto della visione e, in quelle genti, il senso del loro uso era legato alla sperimentazione di una ricerca di un’immagine collettiva. L’uomo qualunque diveniva sciamano nella sua capacità di esaltare i sensi, cancellando ogni forma di ricordo, per raggiungere la memoria di un’antilope o di un artista, memoria che lo rendeva - lui pensava - libero da quel confine non ancora delineato tra animalità e umanità. Questa ricerca di unione col “divino” superava i confini della mente come quelli geografici: dalle cerimonie rituali indigene messicane alle pratiche misteriche della Grecia classica, o ancora più indietro nel tempo, nel mondo dei Veda che avevano ben chiaro – loro sì - il parallelismo tra “divino” e invisibile, invisibile e inconscio. Ma un conto è masticare o inalare sostanze vegetali, un conto è mangiare il corpus christi. La celebrazione dell’eucarestia nella chiesa cattolica, evidente allusione rituale alla dinamica di bramosia, non è forse la degradazione “schizoide” di quelle forme più antiche di rapporto col “divino”? E quale è la responsabilità della scissione (da cui scaturisce il termine “anima”) perpetrata della cultura cristiana nella genesi delle tossicodipendenze come fenomeno di massa tristemente noto?
Storicamente tre furono le sostanze che trovarono la via della dipendenza di massa: alcool, tabacco e oppio. Cristoforo Colombo portò la pianta del tabacco in Europa e fu Paracelso, nel ’500, quale medico-mago e alchimista, a ottenere il laudano (tintura di oppio in alcool) utilizzato sia come medicinale che come droga psicoattiva fino a tutto il XIX secolo. Queste sostanze persero pian piano il rapporto con le loro radici geografiche e sociali portando ad un utilizzo non controllato socialmente e pertanto dichiaratamente “tossico” (per il monopolio dell’oppio furono fatte, nel 1839 e nel 1856, ben due guerre). Esiste una indissolubile ambiguità della cultura dominante legata al controllo di un bisogno che in un tempo lontano era esigenza e prima ancora desiderio; in nome di questo controllo essa da una parte impone il monopolio di talune droghe in alcuni periodi storici, e dall’altra mette in atto un meccanismo di proibizione: la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre si perpetua attraverso la persecuzione operata in nome della religione nei confronti dei popoli che facevano un uso tribale di queste sostanze. Fino ad arrivare alla sanguinosa persecuzione delle streghe le quali, nell’oscuro Medioevo, tentavano di diffondere l’antichissima religione magica del culto della Luna (M.A. MURRAY, Il dio delle streghe, Astrolabio-Ubaldini Ed., traduzione di M. Ferretti, Roma 1972): le donne lunari, attraverso le loro misteriose pozioni, erano capaci di indurre incantamenti per raggiungere un’intima comunione con la Natura. E forse fu proprio per questo che le streghe non furono difese da nessuno: contrariamente agli uomini che con le sostanze cercavano il rapporto col “divino”, loro, laiche fin nelle ossa, cercavano una comunione con quella terra che è radice di tutte le cose.
A partire dalla fine del XVIII secolo, l’ambiente intellettuale si interessa sempre di più all’uso delle droghe e le esperienze mistiche con l’oppio e con l’hascish diventano un tentativo di superare i limiti corporei: così quel corpo strappato alla tradizione cristiana viene nuovamente sacrificato nel nome di una sperimentazione artistica. Come sempre sono gli artisti a pagare lo scotto più grande e in Europa a centinaia continuarono a morire e ad impazzire per un “desiderio cieco” che non diventava mai conoscenza, in nome di quella ideologia religiosa per cui il bisogno di sostanza materiale costantemente insoddisfatto è peccato originale, malattia incurabile. “Era il periodo in cui la psicoanalisi ufficiale, perduto il suo rapporto con l’inconscio, divenne il pilastro ideologico di una società che, criminalizzando in modo isterico, l’uso dell’alcool e della droga, lo trasformò in un gigantesco business” (D. FARGNOLI, “Droga come esplorazione della mente”, ne Il Sogno della Farfalla, 2, Nuove Edizioni Romane, Roma 2000). Il periodo della guerra portò alla scoperta delle anfetamine e del metadone, quest’ultimo sintetizzato per la prima volta dai nazisti, fino ad arrivare all’LSD. Il buco nero dei campi di sterminio e della bomba atomica aprirono la strada ad un nuovo fenomeno di massa: la beat generation. I capelli si allungavano per rappresentare forse la ricerca di quella nuova intelligenza che non si riusciva a trovare, perché nessuna protesi chimica può produrre un cambiamento interiore. E arrivò la disperazione dell’impossibilità del cambiamento, troppo forte per essere accolta, troppo forte per non essere annullata: il movimento junky è il nuovo figlio immolato sulla croce. Ormai le sostanze servono solo per distruggere il pensiero e gli affetti, quindi l’immagine interna, e potrebbero diventare una denuncia costante, per chi sa ascoltare, del livello di disumanizzazione messa in atto costantemente dalla nostra cultura.
La psichiatria ufficiale non si sottrae a questa degenerazione e si fa serva del padrone con l’utilizzo a tappeto degli psicofarmaci. Come i cocktail chimici che i ragazzi improvvisano nelle strade buie e nelle discoteche di quartiere, anche gli psicofarmaci, la cui prescrizione medica trasforma d’incanto il significato sociale della sostanza, diventano il veleno dato per modificare, spesso in modo irreversibile, la vita emotiva di una persona, la sua capacità di pensare e di volere: essi vanno a ratificare la “scissione” che deve esserci tra mente e corpo, quella confusione tra l’oggetto fisico e la realtà psichica su cui si regge la nostra cultura. Ecco come la psichiatria ufficiale finisce col sostenere e far crescere la cultura della droga, chiusa nella disperazione coperta dalle mille parole senza suono che sanciscono continuamente l’impossibilità di una cura. In questa ottica la scarica endorfinica, espressione molecolare del vissuto psicocorporeo che sostiene l’orgasmo, viene annullata dalla ideologia della impossibilità di conoscere l’altro attraverso i nostri sensi, attraverso le nostre molecole di emozioni; concezione tossica, sostenuta freudianamente, che avvelena lentamente fino a far morire l’immagine di quel primo rapporto tra madre e figlio, quando il figlio al seno della madre è partecipe della sua dimensione divina, divina nel senso che ad ogni poppata è lei a dargli la vita. Noi sappiamo invece che questo è il tempo della fisiologica alienazione religiosa del poppante, fondata su una realtà di rapporto da cui lui dipende totalmente per potere crescere sano: lo stesso tipo di rapporto che esiste tra maestro ed allievo, terapeuta e paziente. È questo il luogo delle origini, quella “età dell’oro” dove la passione è piena e totale, perché piena e totale è la corrispondenza di amorosi sensi. Sappiamo anche che ad un certo punto diventa necessario lasciare andare questa dimensione religiosa: è questa l’esperienza psichica ineludibile che permette di far rivivere, in ogni atto di regressione creativa, quel corpo a corpo appassionato che restituisce nuova vita all’esperienza che si va vivendo. Sarà il superamento di questa dipendenza fisiologica in cui il neonato continua a nutrirsi della realtà interna del suo amante-madre-maestro-terapeuta, sarà questa separazione a portarlo verso le strade dell’autonomia e della creatività perché quando esiste un livello di sanità, le visioni sostenute dall’immagine interna diventano investimento progressivo della realtà, modificazione continua dello stato di coscienza. Diventano regressione istantanea che ci porta oltre la coscienza nel mondo della memoria e della fantasia.
Una notte sognai di essere in una grande stanza... era un bagno molto bello, con delle grandi finestre dalle quali entrava la luce del sole. Mi guardavo nello specchio e poi provavo a vomitare. Non ci riuscivo più. Quel sogno mi portò a sensazioni nuove, una trasformazione veloce prendeva forma anche nella realtà materiale: immergermi nel mare per scendere in profondità alla ricerca di un riscontro, di una corrispondenza. E, anche se nella realtà esterna mi scontravo faticosamente con i bisogni degli altri piuttosto che incontrarmi con i loro desideri - come io speravo -, non mi perdevo d’animo. Quando il vecchio gruppo si trasformò in un organismo pulsante mi sentii come un ponte di passaggio. Nei sogni tornavo indietro a riprendermi delle cose, tutte indispensabili per oltrepassare il ponte e nella traversata da un continente ad un altro, non avevo più accanto tutti i miei vecchi compagni di viaggio: alcuni si erano fermati di fronte al bivio che costringe a quella prassi tanto difficile da sostenere per la coerenza che impone. Ero spaventata dal peso della responsabilità e dalla fatica che mi attendeva, ma quest’altra solitudine era una nuova occasione e poi... giunse dal mare un navigatore coraggioso...
Anche lei è cambiata in tutto questo tempo. Anche lei ha fatto le sue scelte. Dal cerchio della stanza azzurra siamo passati a quello della stanza gialla di “Chiaro di Luna”; poi il cerchio si è trasformato in un ordine sparso e motivato che impone una presenza costante e attiva di rapporto. Lei continua a trasformarsi tutte le volte alla velocità della luce e questo mi piace perché non saprò mai come sarà la prossima volta. Nel gruppo era marinaio, adesso è acrobata, domani... “chi può dirlo!”. Ogni volta fa mille acrobazie, talvolta assurde, altre volte irriverenti, a tratti pericolose... sempre e comunque coerenti col suo sentire, con la sua vitalità, con i suoi desideri, con la sua passione, con la sua sanità. Adesso sogno che litighiamo. Me lo posso permettere, finalmente! Ora posso metterla in discussione, non più su basi di negazioni e annullamenti, ma di un rapporto umano che me la fa sentire accanto e fa sentire me più vera. La Morte Nera ha lasciato finalmente il posto alla certezza delle tante nascite che verranno. Nel bosco non c’è più quel lupo furioso e ammalato di rabbia che si nascondeva perché aveva paura dell’uomo: i denti e i coltelli acuminati, la folta pelliccia e gli occhi gialli hanno lasciato il posto ad una donna che ascolta la sua visceralità, all’unisono con il mare.
Di lei, dietro quella scrivania scura del primo incontro, mi resta una memoria chiara ed indelebile. Dopo essersi messa di fronte a me, adesso mi è accanto con tutta la sua difficile diversità... Quando interpreta si fa paracadute, diventa fuoco che scioglie i ghiacci, rete integra per gli acrobati, acqua del mare per i tuffatori... Quando con la sua presenza corporea e psichica sta lì, sente il dolore e non si sottrae, non ti molla anche quando tu vuoi mollare... Quando mi guarda e i suoi occhi diventano liquidi come le maree oceaniche... Quando parliamo, quando ridiamo, quando ci scontriamo, quando scriviamo e quando leggiamo. Adesso lo so, so perché l’ho scelta e so perché lei ha scelto me... il motivo per cui sono qui a raccontare.
Arrivò il momento in cui tremava per tutto. Si spaventava della violenza altrui e si sentiva inerme, come sempre s’era sentita, al di sotto della sua maschera. Il rifiuto netto e calmo di identificarsi con l’aggressore a volte non si accompagnava alla rapidità e alla prontezza necessarie verso chi tende le trappole della delinquenza. La calma, però, le faceva accettare in sé quell’“idiota” (sto parlando del Principe Myskin, personaggio de L’idiota di F. Dostoevskij) che la rendeva pulita e bella. Bellezza e pulizia che cercavano nuove possibilità: lo spazio esterno divenne nuova casa e quello interno trovò una sessualità composta che aveva il coraggio dell’attesa. La sessualità blu trovava un movimento di rappresentazione nelle gambe lasciate scoperte dalle gonne morbide e nelle linee curve della sua femminilità che si delineavano sotto le maglie divenute sempre più colorate e aderenti. E mentre andava scoprendo danze e passioni, immagini maschili e nuove linee si articolavano dentro e fuori di lei. Mi guardava con aria incredula dicendo: “Io sono felice!”. Il suo sguardo innamorato diventava sornione quando coglieva la realtà umana che le porgevo sempre di più, riuscendo a sostenerla sempre di più, ridendo con me, a volte ridendo di me con quella nuova ironia che riusciva a mettere nel rapporto.
Le crisi bulimiche se ne sono andate tanto tempo fa, semplicemente. A volte sorrido quando le capita ancora di arruffare lo sguardo: del lupo ha mantenuto il fiuto e il bel movimento, la forte lealtà. La voce ritrovata, morbida e calda, non si affretta ad esprimere concetti intelligenti, ma si arricchisce dei silenzi e dei movimenti del corpo. Ed è con questi che reagisce alle dinamiche violente del mondo esterno e talvolta a quelle di un gruppo diventato organismo anche grazie a lei. È sua l’immagine dei cercatori di pietre colorate nel fondo di quel mare dove ognuno trova ciò che cerca e dove ogni pietra è diversa dall’altra: cercatori uniti in un raccordo di emozioni che si muovono, ciascuno nella propria individualità, come fossero un tutt’uno, a dare il ritmo e il senso della Storia. È sua l’immagine delle pietre di mare trasparenti, azzurre come il colore del mare, segno profondo di una recettività sempre pronta ad essere attraversata per dare spazio a nuove nascite. E ora ha davanti a sé la prova più dura: riuscire a tenere di fronte agli altri la bellezza e la potenza di una separazione possibile.
Mentre la guardo muoversi con delicatezza fra le cose del mondo, mentre la ascolto nella ricerca dei suoni del suo corpo, mentre la sento nella passione della sua ricerca, mi chiedo a volte se non sia stato il rapporto con lei, quel corpo a corpo sempre vissuto, a farmi scegliere di lasciare il lavoro di consulente psichiatra nei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) a favore dei bistrattati Servizi per le Tossicodipendenze (Ser.T.).
Negli ultimi dieci anni sempre di più all’interno delle istituzioni specificatamente psichiatriche il livello di scontro è stato narcotizzato dalla prescrizione degli psicofarmaci con il risultato di avere una istituzionalizzazione assai rapida dei pazienti, anche di quelli giovani (sempre più giovani) alle prime crisi. La cura della malattia mentale prevede lo scontro con la violenza insita nella malattia stessa: i processi di identificazione con l’altro, infatti, messi in atto da questi malati, mal si confrontano con i processi di identificazione dall’altro che fa la sanità di un individuo. Troppo rapidamente i pazienti psichiatrici rientrano nelle norme familiari, sociali... e psichiatriche, andando a smorzare la carica di dissenso che la malattia mentale porta sempre con sé. Ecco... nei Ser.T. ho trovato vivo ancora quel dissenso: esso è confuso, mescolato a dinamiche perverse, ma evidentemente la presenza “ingombrante” di un corpo che si ostina a sentire, nonostante tutto, diventa strumento di dissenso oltre che di autodistruzione.
Il dissenso vive sempre ai margini, ai confini del mondo preconfezionato, e nessuno è più emarginato di un tossicodipendente: egli è confinato dalla psichiatria e dalla medicina del corpo, è confinato da sé stesso perché deve entrare nei meccanismi di identificazione imposti dalla famiglia, è confinato dal vivere sociale perché il rapporto con la “roba” da cui dipende diventa una risposta a specchio della reificazione dell’essere umano continuamente perpetrata dalla nostra cultura. Ligia a questa nefanda tradizione culturale, la medicina ufficiale ha “risposto” alla tossicodipendenza da eroina con la riduzione del danno, mettendo cioè in primo piano la sopravvivenza materiale del tossicodipendente senza farsi il minimo carico del danno psichico: frutto di una cultura tossicomanica la scelta di dare spazio alla realtà materiale, annullando la dimensione psichica! Questa concezione ideologica, ben lontana dal senso della cura, è stata il punto di partenza della cacciata dei tossicodipendenti dai Dipartimenti di Salute Mentale, per relegarli alla dimensione di patologia sociale: con la cacciata dal paradiso terrestre dei peccatori viene sancita la negazione della malattia tossicomanica, stessa negazione perpetrata continuamente dal malato di tossicodipendenza.
E allora diventa necessario che lo psichiatra vada in quella terra di nessuno che la psichiatria ha dimenticato, dimenticandosi anche di sé stessa. Occorre trovare il dissenso per coloro che non l’hanno più. Occorre andare ai margini, lungo quella linea di confine che ci permette di affermare come le dipendenze da qualsivoglia sostanza siano il sintomo di una malattia psichica che può essere curata in quei casi (e sono molti) non ancora istituzionalizzati nell’annullamento violento e onnipotente che spazza via i vissuti della mancanza e della perdita. Linea di confine, lembo di terra in cui recuperare quel corpo a corpo su cui ricostruire una rete molecolare che parla di altri vissuti, laddove una cura e una formazione continua abbracciano sempre nuovi protagonisti perché nuove voci osano chiedere un rapporto che li trasformi; linea di confine dove i gesti dei pazienti si ritraggono impauriti come a realizzare la difficoltà di lasciare la linea di confine di una malattia confinata; linea di confine di una psichiatria che ha difficoltà a lasciare andare una “professione” basata sul controllo di sé e dell’altro, ottusamente centrata sulla ipertrofia di un Io come risposta ad un Sé che non riesce ad esistere. Lasciare i confini per separarsi, per identificarsi dagli altri, e poter essere una voce fuori dal coro. Per poi rientrare in una coralità che ha il coraggio di affermare una nuova possibilità di conoscenza: voci che chiedono... chiedere per trovare la propria voce... dare voce per ritrovare il proprio corpo e restituirlo al movimento della rappresentazione laddove la musica è poesia e il linguaggio è il suono su cui si articolano i movimenti.
Esiste il pensiero che sia la modificazione dello stato di coscienza a creare una particolare sensibilità, mentre noi sappiamo, per averlo vissuto, che è l’emergenza di una realtà inconscia, di un’immagine interna, a creare una sensibilità e un’affettività diverse, una nuova forma di pensiero. Noi sappiamo che chi riesce a produrre da solo le molecole delle emozioni è un artista, un individuo naturalmente drogato, cioè posseduto dalla potenza di un movimento che lo porta continuamente verso quel pensiero creativo che dilata il tempo e lo spazio. Alterazione dello stato di coscienza che dà un senso all’esistenza per quella conoscenza che diventa immediatamente prassi di rapporto, abitando quello spazio che abbatte la barriera tra sonno e veglia. È quella possessione, anche furiosa, che ci fa trovare la via del corpo e, con essa, la via della passione, la potenza espressiva di quella interezza psicocorporea che sperimentiamo per la prima volta con il desiderio.
La tossicodipendenza dilagante è certamente una risposta individuale e sociale ad una cultura malata di razionalità che fa scivolare continuamente verso l’insensibilità e l’anaffettività. La cura delle tossicodipendenze, però, può rappresentare l’occasione per la Medicina, e in particolare per la Psichiatria, di riscattare sé stessa e la sua funzione nell’ambito delle scienze umane attraverso il superamento della scissione “anima e corpo” e il conseguente recupero di quella integrità psicocorporea che allude a nuove prospettive di pensiero e di integrazione sociale. Le immagini interne, infatti, non si piegano alle forme di dominio, allo stesso modo in cui l’Arte, la vera arte, riesce ad esprimersi in ogni tempo e in ogni contesto parlando in continuazione, anche in tempi bui, della libertà dell’Uomo, delle sue possibilità e della sua umanità.
Qualche tempo fa avevo sognato di essere sul costone di una grande montagna. Con altri compagni stavamo scalando un lungo tratto di parete molto ripida e difficile. Sotto era molto profondo, ma io guardavo oltre e mi rendevo conto dell’impresa che mi attendeva. Ad un certo punto davanti a me scorgevo picconi, occhiali e caschi lasciati quali trofei da altri alpinisti che, prima di me, erano stati su quello stesso percorso. Erano riusciti a raggiungere la cima e quei trofei, ormai un tutt’uno con la roccia viva, ne erano la testimonianza. Perdevo i sensi e mi risvegliavo calma. Chiedevo cosa fosse successo e qualcuno mi rispondeva che ce l’avevamo fatta. Era necessario perdere la coscienza per accettare di riuscire: dopo Hanging Rock (mi riferisco al film di Peter Weir Picnic a Hanging Rock del 1975) e la danza vicino a un fuoco, la separazione era diventata una storia bella e possibile.
La guarigione era giunta inaspettata, con grande sorpresa e una progressiva ondata di paura. Non vi avevo mai pensato semplicemente perché stavo così bene in quel contesto (l’Organismo) che se qualcuno mi avesse detto “sei guarita”, avrei sgranato gli occhi e sarei rimasta in silenzio paventando la “fine”. Quanto mi sbagliavo! Da quel momento la paura aveva iniziato ad avere la meglio: pensavo di ritrovarmi fuori dalle mie origini, lontana dalle mie nuove radici, via dalla mia terra montagnosa ricca di cime frastagliate e corsi d’acqua che si tuffavano in mare da altezze vertiginose. Guarire dall’antica ferita dell’abbandono sì, ma dopo, cosa ne sarebbe stato di me? Nell’immediato c’era solo un non-sapere come muovermi, sentirmi diversa e avere paura fino a quasi auto-escludermi. Ero ancora sulla barca e temevo di lasciarla proprio nel momento in cui la libertà era a un passo; in più c’era il timore di annegare nella sensazione di perdita che in quel momento sentivo come insostenibile.
Richiamando alla memoria quei momenti, mi si para davanti l’immagine di “Pi” (il ragazzo) e Richard Parker (la tigre) che si separano sulla spiaggia dopo un lungo viaggio vissuto insieme su una scialuppa di salvataggio. La tigre atterra sulla sabbia e si muove barcollante verso la vegetazione. Il ragazzo aspetta che si volti, che abbassi le orecchie, che lo guardi in segno di saluto, ma questa, oscillando la coda, fissa la radura e scompare. “Pi” piange come un bambino, non per la gioia di essere sopravvissuto, ma perché Richard Parker se n’è andato in modo brusco e lui si sente abbandonato. Anche le mie lacrime scendono calde imprimendosi sulle guance quando ricordo certi momenti: sono duri gli addii, per di più in situazioni non facili, e spesso si patisce per la frettolosità e la freddolosità. Diventa allora importante imprimere alle cose, alle sensazioni vissute con le persone, agli eventi, una forma significativa. A me era accaduta la stessa cosa e mi ero sentita come un’adolescente che si affaccia alla vita con tutta la fragilità di una nuova identità, coi suoi maldestri tentativi di affermarla, e un’esposizione a dinamiche violente che facevano il loro corso. Ero in un mare in burrasca, un altro, e questa volta dovevo proteggere la mia bussola dalle intemperie devastanti: a corto di energia, di ossigeno e di sangue, la mia bussola aveva cominciato a funzionare male forse ad opera di calamite misteriose, e io diventavo portavoce di parole e domande non mie, oggetto di azioni e dubbi di altri, di pensieri che mai mi avevano sfiorato e che sentivo a me estranei anche nel disorientamento. Ero arrivata anche a perdere la voce. Rendendomi man mano conto delle mie responsabilità, decisi di rimediare e di provare, testando la memoria, contando sul calore, la profondità e la potenza di un rapporto terapeutico e umano sempre vissuto. Quella tempesta, dove viva era la sensazione di venire respinta, esclusa, dimenticata e addirittura cancellata, ha lasciato spazio alla calma e alla certezza di ciò che era stato, momento dopo momento, parola dopo parola.
Fuori dall’uragano ho incontrato una megattera d’argento col manto di Luna che mi ha cantato di Tempo e di Storia. Così i miei studi intorno alle Lingue mi hanno restituito a una concentrazione e a una disciplina ritrovata e rinnovata, per riprendere un progetto, quello di diventare ufficialmente traduttrice dopo il lavoro di traduzione di un importante libro svolto insieme qualche tempo prima. Terminata la traduzione di quel libro non avevo sostenuto e difeso del tutto quella nascita. Ho recuperato questa mancanza continuando a lavorare alla mia ricerca. Mi sento di ringraziare una volta di più chi mi è stata accanto e di fronte da sempre; grazie anche per il bellissimo viaggio con un musicista a Parigi, al lavoro sull’ascolto e sulla voce che mi accompagnano di continuo nella mia nuova vita.
Per molto tempo non sono riuscita a scrivere: riempivo solo fogli di carta dove trascrivevo i miei stati d’animo, per poi stracciarli o conservarne poche righe. Tentavo di scrivere di qualcosa che mi aveva colpito o che mi interessava sviluppare, ma non riuscivo - pur avendone tanta voglia: questo mi provocava un dolore acuto anche se continuavo lo stesso a sentirmi parte di un lavoro bello, coraggioso e creativo che procedeva nonostante tutto. Leggevo gli scritti e godevo delle immagini degli altri, accettando quella strana sospensione del desiderio. Sapere che altre persone proseguivano la navigazione e la ricerca nelle scienze umane e nell’arte, mi dava la certezza di esserci anche io, in qualche modo. E così è stato, sebbene i miei disegni divenissero sempre più elementari: mi ritrovavo a un tavolo pieno di colori e pastelli, voci con bei suoni e movimenti, e disegnavo... sfumavo... strappavo anche, ma sempre ridendo divertita. Tutto questo processo di recupero, un po’ come quello delle tartarughe ferite che vengono poi rimesse in mare, è terminato, accompagnato da un bellissimo lavoro sul corpo che svolgo tuttora con un gruppo di persone da me scelte e condotte dal filo sapiente e continuo di quel corpo a corpo da sempre vissuto, vivo, pulsante in me e tutt’intorno...
Quel corpo a corpo terapeutico di cui mi sono fidata e a cui mi sono affidata, soprattutto quando non capivo bene cosa volesse dire e collideva con altre situazioni... questo mi ha salvata dalle vecchie e ferrose certezze dei legami-ragnatela. Ho compreso che il rischio di cadere è sempre presente per ogni essere umano, anche se in forme e livelli differenti, sia durante un percorso di cura che dopo; e più la posta in gioco è alta, più si rischia, a volte anche la vita, perché le scelte comportano coraggio, fatica e grandi prove da sostenere. Quando si sceglie si lascia sempre qualcosa e comprenderlo è fondamentale quanto il ricordare che ciascuno è responsabile dell’andamento della propria esistenza. Anche nei momenti di massima disperazione, di buio, di follia, c’è sempre un istante di lucidità in cui un essere umano può decidere cosa fare di sé e volontariamente imprimere una virata, per poi sentire le proprie percezioni trasformarsi inevitabilmente e sperimentare nuovi stati di reale apertura al mondo. In tutti questi anni ho vissuto rapporti con persone che come me affrontavano il loro percorso, e ne ho viste cadere: alcune si sono rialzate, altre no, ma sempre hanno scelto. Questi compagni di viaggio, su in cima alla montagna, hanno deciso se proseguire o scendere, o starsene dov’erano... oppure migrare altrove.
In questo tempo ho scoperto, e dolorosamente vissuto, che prima di scegliere si può anche decidere di trascinarsi o di temporeggiare, per poi scoprire che il corpo ha un tempo diverso. Riguardo e rivivo la mia storia personale, che non è solo la mia, e mi sfilano davanti immagini e musiche... vedo Ferdi e il suo amico Ale, fragili protagonisti del film Nemmeno il destino. Vivono entrambi in una realtà fatta di macerie familiari, con una madre malata e un padre alcolista. Entrambi assistono i rispettivi genitori, li accudiscono e in questo subire accettano di lacerare e fare a brandelli i propri volti, di torturarsi ripetutamente, di distruggersi in un’esistenza squallida fatta di fabbriche dismesse e di scenari senza speranza. Ma subito dopo ecco l’immagine di Ferdi che si lancia nel vuoto sul suo motorino rosso... tutto sfuma progressivamente e inevitabilmente verso altre immagini, ma non prima di soffermarmi su delle note molto belle che di tanto in tanto ho voglia di ascoltare... e che mi portano altrove… a Taranto, la mia città natale, e nel “Mar Piccolo”. Nel quartiere Paolo VI, in uno dei posti più degradati - simile al quartiere Tamburi in cui da bambina passavo in macchina ogni sabato e sentivo quell’inconfondibile odore acre, e notavo le finestre, le persiane e i muri rossi perché invasi dalle polveri del siderurgico - vive Tiziano che, nonostante la sua giovane età, bada alla famiglia dopo che il padre l’ha abbandonata per un’esistenza disperata annegata nei videopoker. La madre lotta a suo modo, come tante donne della città, per difendere i figli da un’aria irrespirabile, invasa dai veleni. Dov’è la storia antica di questa terra? Dove sono andate le sue tradizioni? Tiziano lotta per restare alla larga dalla mafia del territorio, quella che protegge in cambio della propria dignità e della speranza. Il boss del quartiere gli dice che non c’è uomo più fedele di quello che è in debito, il debito che lega ai padri e alle madri, i debiti familiari di morte che come macigni trascinano nel pozzo con una corda stretta al collo. Quando si ritrova in riformatorio scopre, attraverso la lettura di Cuore di tenebra, che quando legge è come se stesse da un’altra parte, è come se partisse. Ed è proprio quello che farà insieme con Stella e il suo vestito rosso. Taranto è dietro di loro, con un bellissimo sole che nonostante i fumi delle sostanze continua a scaldare e a fare luce, a donare una storia diversa, a infondere nuova vita.
Tra i due mari che si uniscono attraverso un lembo di terra, ne è passata di acqua sotto al ponte girevole bollente di sole. Ora sono qui a scrivere di questa storia che continua e che ogni giorno diventa altro ancora. La dipendenza che ho vissuto pienamente in un tempo lontano si è tramutata in desiderio e in passione del desiderio, una forma di possessione vissuta con il corpo, in un’immersione totale nella bellezza, in un perdersi dentro un’atmosfera percepibile attraverso tutte le fibre del corpo, coi cinque e più sensi, da vivere nel tocco, nel gusto, nell’odore dei suoni, nella voce, nella musica. Le dosi di un tempo si sono trasformate in sete continua, ogni volta appagata, e che chiede naturalmente sempre di più. La mancanza e il malessere di una volta, terminato l’effetto innaturale, sono divenuti una forma rappresentativa di forte nostalgia per la fine di un evento, o esperienza condivisa, o giornata trascorsa insieme. E devo sentirmi libera verso me stessa di rappresentare il mio stato d’animo di dolore per i nuovi sentimenti acuti per tutto il tempo che necessito, anche se solo per alcuni istanti, o minuti, oppure ore. E toccava scoprire il segreto delle separazioni che segnano il passo verso le definizioni e l’identità, che differenziano le linee più o meno lunghe dei cambiamenti dalle traiettorie infinite delle trasformazioni, distinguendo quel che appare ed è materiale, da ciò che è reale, umano, non si vede ma si ascolta, e pervade l’aria di suoni e voci. E penso a un bambino che gode dell’odore di una madre presente, profumata, morbida, sorridente, o a un uomo che ascolta i suoni carezzevoli di una voce bella, sinuosa e che sfiora le corde più profonde, o a due amanti che si sono appena uniti dimentichi del mondo fuori, o a un musicista che compone e tocca e vive la sua musica nuova, a uomini che suonano e che cantano, a donne che danzano, e scrivono, e interpretano, o a ricercatori che sognano e cambiano il mondo...
Di questi momenti, della loro intensità e di molto altro io mi nutro e vivo continuamente le separazioni, che non sono più distanziamenti - e questo ora lo posso sapere – ma vogliono dire ritrovarsi sempre... e sempre nella bellezza e nella creatività del rapporto, e in una sorta di senso dell’appartenenza basato sulle differenze e sulle corrispondenze, e in un movimento perpetuo che varca i confini del conoscibile. Dovevo inabissarmi da sola per sapere che separazione non vuol dire perdere, dividere, dimenticare, ma rappresentare e definire, rafforzare e ritrovare. E così, in questa certezza mi sono lasciata prendere dalla calma e dalla memoria ‘presente e viva’ e dal ‘suon di lei’, con la sensazione fisica di proteggere tutto il vissuto e di custodirlo in me. Con questo bagaglio continuo ad affrontare quel che mi circonda e con cui mi confronto, con cui mi scontro o che, proprio grazie a questa intensità continua, scelgo a volte anche di non sperimentare.
E tutto rinsalda le strutture per sconfinare e trovare le infinite risonanze dei campi in cui siamo tutti immersi e che ci pervadono, per stabilire nuove connessioni, seguendo i flussi delle differenze e delle assonanze, per continuare a cercare, scoprire e inventare, esplorare nuove realtà umane e dimensioni. E ora siamo uscite dai due mari, abbiamo attraversato le acque con sopra il ponte girevole, abbiamo guardato verso l’alto, immerse, mentre l’acqua lambiva le carni, e abbiamo ascoltato il suono emesso dalle scie delle navi che lasciano il porto e riprendono a navigare, dopo aver attraversato l’estensione dei lunghi bracci di metallo prezioso che saldi si uniscono e si dividono, si congiungono e si separano ancora... Il mare aperto è davanti a noi... e io non ho più paura.
A volte non basta una vita per lasciare dietro di sé la paura di “lasciare andare”, ma quando questo accade il corpo esulta con il vento tra i capelli, riverbera nel fuoco del ventre, risuona felice con le onde del mare nelle orecchie. In quel preciso istante la liquidità dell’Arte si incontra con i piedi che affondano nella terra, ne prendono la forza per ergersi ed incedere con il canto dei liberi pensieri.
Si tratta di questioni creative e di espressività umana che nulla hanno più a che fare con la patologia, ma non per questo sono meno temibili e temerarie. Lasciare andare le “cose” che incatenano alla materialità... ecco il salto ardito, temporalmente dato, che conduce finalmente nell’invisibile, non più da cogliere e da raccogliere, ma da vivere.
Quando Siamo andati nella terra di nessuno abbiamo colto l’invisibile tra le righe dello spartito, come dire che nel buco nero della disperazione abbiamo visto, tra le fiamme della passione, un uomo e una donna danzare sul cratere di un vulcano per scrivere con il sangue un manifesto sulle possibilità umane.
Poi Siamo andate nella terra di nessuno dove abbiamo raccolto quell’invisibile che ci ha reso fertili scoprendo così quella relazione con il Tempo che solo le donne gravide conoscono: due donne hanno danzato intorno al fuoco per raccontare, senza dire, della loro disponibilità incarnata a lasciarsi rapire dalla “indicibile bellezza”... quel tanto che basta per sentire la via della trasformazione. Quel tanto che basta... per cogliere che “la verità della bellezza è una strana sincronia... è qualcosa che ha a che fare con il tempo... con il tempo e le sue direzioni. Fino ad arrivare a quell’unica traiettoria che fa la bellezza della verità”.
...Eppure noi donne sembriamo saperlo da sempre che quel tanto che basta (per noi) è “rischiare tutto per esprimere tutto”(John Cassavetes). Da questa posizione etica viene generata quella immagine maschile capace di lasciare andare la terra di nessuno e i suoi abitanti... senza voltarsi. Per vivere nell’inconscio e per l’inconscio, per sbirciare nel latente e giocare a rendersi appena un po’ visibili... quel tanto che basta per sentire sempre vivo il desiderio dell’altro... e investirlo della nostra passione. Proprio come i Veda vogliamo vivere la sapienza, cioè “conoscere il senso della nostra conoscenza ... ben sapendo che per essere ... desti come gli déi” la scelta di vivere in ogni istante significa... trovare l’istante del Tempo. E questa non è un’altra storia. È vivere la Storia.
BIBLIOGRAFIA DI BASE
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F. DOSTOEVSKIJ, Il giocatore, traduzione di B. Del Re, Einaudi Ed., Torino 1999.
M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza (prima ed. 1972), Nuove Edizioni Romane, Roma 2000.
M. FAGIOLI, La marionetta e il burattino (prima ed. 1974), Nuove Edizioni Romane, Roma 1999.
M. FAGIOLI, Psicoanalisi della nascita e castrazione umana, Nuove Edizioni Romane, Roma 1995.
M. FAGIOLI, Bambino Donna e trasformazione dell'Uomo, Nuove Edizioni Romane, Roma 2000.
N. LALLI, Manuale di Psichiatria e Psicoterapia, Liguori Ed., Napoli 2000.
E. USCIANI-PETRINI, Il suono incrinato, Einaudi Ed., Torino 2001.
S. MAZZOCCHI, Vite d'azzardo, Sperling & Kupfer Ed., Milano 2002.
C. OLIEVENSTEIN, Droga, traduzione di A. Serra, Raffaello Cortina Ed., Milano 2001.
C. PERT, Molecole di Emozioni, traduzione di L. Perria, Corbaccio Ed., Milano 2000.
F. RANIERI – C. CERBINI - P.E. DI MAURO, Nuove droghe e nuove etnie, Armando Ed., Roma 2002.
A. TOMATIS, L'orecchio e il linguaggio, traduzione di L. Merletti, Ibis Edizioni, Como-Pavia 1995.
A. TOMATIS, Come nasce e si sviluppa l'ascolto umano, traduzione di G. Cimino, Red Edizioni, Como 2001.
G. VERGANI - R. BERTOLLI - F. RAVERA, Un buco nell'anima, Libri Scheiwiller Ed., Milano 2002.
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G. VERGANI - R. BERTOLLI - F. RAVERA, Un buco nell'anima, Libri Scheiwiller Ed., Milano 2002.
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INTIMACY
Concetta Turchi
“Rischiare per un sogno che nessuno vede”.
(da Million Dollar Baby di Clint Eastwood)
(da Million Dollar Baby di Clint Eastwood)
Vicinanze nel nero di Shelly Bisirry
Requiem per un sogno mai sognato
Ci sono sogni che rivelano e sogni che nascondono
Ci sono sogni che parlano e altri che ci guardano
silenziosi
Ci sono strade nella notte che folgorano le stelle
per un amore mai tentato
forse... neppure mai sognato.
E quando i sogni volano
per trovare una inattesa vicinanza
torna il timore di sempre,
incontrare lo sguardo di Medusa e diventare
pietra.
Ci sono sogni che rivelano e sogni che nascondono
Ci sono sogni che parlano e altri che ci guardano
silenziosi
Ci sono strade nella notte che folgorano le stelle
per un amore mai tentato
forse... neppure mai sognato.
E quando i sogni volano
per trovare una inattesa vicinanza
torna il timore di sempre,
incontrare lo sguardo di Medusa e diventare
pietra.
Lo sguardo
Forse proprio per il timore di incontrare Medusa non mi hai guardato negli occhi per così tanto tempo... e io ho stranamente accettato il silenzio del tuo sguardo perché non era coltre di neve messa artificialmente su una giornata di sole. Quando poi un giorno hai fermato i tuoi occhi nei miei ho avuto la certezza di quel mio sentire anche se i suoni nasali della tua voce oscuravano la musica del cuore perdendosi nelle lamentele risapute che, come lo sguardo chino, non cercavano risposte.
A conferma di questa doppia risonanza dello sguardo e della voce, il corpo si muoveva portandosi dietro il paradosso del tentativo di nascondersi nella impossibilità di farlo. Quando ti vidi per la prima volta entrare da quella porta piccola e fatiscente, la tua figura per un attimo la colmò completamente nel suo essere eretta, per poi richiudersi in un battibaleno annunciando una depressione da tempo portata sulle spalle. Tutto di te parlava di una presenza appena vagheggiata... e rimembravo: “Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi da queste finestre scintillanti, e parlar con voi dalle finestre di questo albergo ove abitai fanciullo, e delle gioie mie vidi la fine”...
“E delle gioie mie vidi la fine”... Ecco, era come se ti portassi sempre dietro, nelle tasche dei pantaloni dove spesso affondavi le mani, questa frase che era il requiem su cui si infrangeva ogni possibile sogno; dove la tua capacità di stupirti doveva lasciare il via libera ad ogni... stupefacente polverina. Stupefacente e seduttiva... proprio come la tua iniziale richiesta, portata avanti con sguardo ammiccante, di essere seguito fuori dal Ser.T.
Avevo risposto infastidita: “Non ne vedo il motivo. Il mio modo di lavorare non cambia, senza contare che non è mia abitudine portare i pazienti dal pubblico al privato”.
Ti era già capitato di “sedurre” una psicoterapeuta ultra blasonata e non ti aveva fatto per niente bene.
“Ma fa male!”, fu la tua esclamazione un giorno guardandomi negli occhi mentre grandi lacrime scavavano le risapute strade su quelle guance divenute un po’ pienotte: loro scendevano e il busto si piegava in avanti mentre gli avambracci facevano perno sulla scrivania e le mani si intrecciavano a forza come per trattenere una reazione esplosiva. Mi avevi guardato come fanno talvolta gli adulti quando, con lo sguardo bambino, non sanno capacitarsi dei moti invisibili e violenti dell’assenza; forse per questo non ridevi quasi mai e le rare volte in cui accadeva le tue mani premevano l’una contro l’altra come ad arginare un moto da dentro che poteva pervadere la tua decisione di sempre. A quel dolore così straziante e conosciuto rispondevo con il silenzio, per risparmiarti le parole “utili” e vuote della consolazione che da sempre ti motivavano ad ogni tipo di delega.
A dire il vero la nostra storia, che era sotto la spada di Damocle di un tempo stabilito da altri (nello specifico la Casa di Produzione che pagava la tua permanenza a Roma), è stata costellata proprio di quelle cose che tu tanto temevi: i colpi di testa e... le risate. Come quando, ritornando a visita dopo il nostro primo incontro, mi avevi detto che ti eri sentito talmente bene da avere ritrovato la voglia di fare l’amore con la tua ragazza. Oppure quando, in preda ad un blocco creativo, non riuscendo a trovare la strada per comporre quella musica da film che ti aveva portato a Roma, avevi seguito il mio suggerimento.
“Perché non chiude tutto e se ne va qualche giorno al mare con la sua ragazza? La creatività mica può timbrare il cartellino!”.
Così ti avevo detto, e tu, dopo aver vomitato - scuotendo ripetutamente la testa - che la mia proposta era una follia e che sembrava proprio non mi rendessi conto della mole dei tuoi impegni, avevi accettato, mi avevi seguito “senza una ragione, come un ragazzo segue un aquilone”. Appena sbarcato a Ventotene (per una strana coincidenza il luogo da me scelto anni prima per sposarmi), avevi buttato quegli anfibi che serravano i tuoi piedi e i tuoi pensieri; quel gesto facile, accompagnato da un sorriso lieve, ti aveva fatto ritrovare la strada della composizione musicale. Da allora non ti ho più visto con gli anfibi.
Quell’evento aveva aperto uno squarcio e, anche se continuavi a non guardarmi durante le sedute se non di passaggio da una posizione all’altra del corpo - devo dire che ti muovevi molto! -, era chiara la vicinanza del nostro sentire come pure la lontananza dei nostri punti di vista soprattutto rispetto alla creatività e alla musica.
“Quando la smetterà di utilizzare la musica per consolarsi e consolare?”, ti chiedevo provocatoriamente. Quando poi me la ridevo per certe tue rigidità mi guardavi di traverso e una volta, prendendo il coraggio a quattro mani, arrivasti a dire: “Mi dico spesso che cazzo ha da ridere?!... Ma poi... è così disarmante la sua risata!”.
Il mio ridere irriverente ti rasserenava nonostante le sempre tantissime questioni materiali che ti attanagliavano: nessuno prima di allora ti aveva riso in faccia mentre esponevi minuziosamente le tue lamentazioni per le fatiche inenarrabili che dovevi sostenere. La giovane psicoterapeuta con cui avevi lavorato fino al momento della partenza ti aveva abituato in altro modo eppure... un giorno, a proposito del rapporto con le donne, avevi osato una affermazione curiosa.
“Si possono amare due donne contemporaneamente. È la prima volta che penso questo”.
La cura poteva iniziare a trovare una pacifica convivenza dentro di te. A onor del vero c’era stata una “rivista galeotta”, con un articolo sulle dipendenze patologiche di cui ero coautrice: ti era piaciuta talmente tanto da comprare le copie residue da Feltrinelli per spedirne una alla tua terapeuta e l’altra alla Responsabile di Comunità (colei che ti aveva seguito inizialmente prima di ripudiarla a causa della sua presenza altalenante). Con la tua giovane terapeuta ti eri trovato bene anche perché l’avevi un po’ allevata.
“Con me si è fatta un nome. Ero un caso molto difficile”.
Questa frase uscì alla chetichella tra le maglie di un sorrisetto beffardo mentre guardavi me che, pur avendo un’aria da giovinetta, non ero esattamente di primo pelo: con me potevi mettere insieme l’immagine di ragazza da condurre con quella della donna da cui lasciarsi condurre.
Ci capitava di fare lunghe discussioni sui film, tu per mestiere e io per passione: essendo entrambi estimatori della settima arte, essa divenne il nostro terreno di comunicazione privilegiato. A dire il vero eri sempre “un po’ incazzato” quando mi permettevo di fare degli apprezzamenti che esulavano dal tuo campo di pensabilità, ed effettivamente un po’ mi divertivo a punzecchiarti per sgonfiare la tua onnipotenza. Tu borbottavi ma lasciavi fare: un senso di profonda fiducia e... di qualcosa d’altro... si fece strada dopo neppure sei mesi.
“Ho fatto un sogno. Ero in strada, forse inizialmente con la mia ragazza. Era una strada di città. Mi avvicino alla vetrina di un negozio per guardare qualcosa quando improvvisamente vedo riflessa sulla vetrina la mia immagine e quella di una ragazza che so essere mia sorella...”.
Poi, guardandomi dritto negli occhi: “Ma io non ce l’ho una sorella!”.
“Forse il suo inconscio l’ha trovata una sorella”, dico.
E tu, con la tua guizzante intelligenza: “Ah, sarebbe lei la sorella?”, con il tono spavaldo di chi è abituato a combattere la timidezza.
“Credo proprio di si”.
Non c’era altro da dire... quando nasce la fiducia non c’è mai molto da dire. Tu sorridevi quieto sorseggiando il silenzio e io ero con te mentre sfilavano le immagini risvegliate dal tuo racconto.
La prima pausa estiva fu condita con il veleno delle tue lamentazioni estenuanti mescolate a richieste di prescrizioni farmacologiche: le pretese malate del tuo usurpatore interno mascheravano, nei giorni dell’abbandono, i vissuti insostenibili della impotenza. Quell’estate usciva un film di cui avevi curato la musica: bello e triste il film, bella e triste anche la tua musica, forse un po’ di mestiere.
Il nostro rapporto psicoterapeutico “con contratto a termine”, così amavo chiamarlo, continuava a farsi strada nel tempo intermedio dell’attesa feconda: il termine era legato a quando tu avresti lasciato Roma per tornare nella tua città dopo la conclusione di questo film, opera prima di una giovane regista con cui avevi fatto l’Accademia. Consideravo il nostro lavoro più un accompagnamento terapeutico che una vera e propria psicoterapia del profondo, perché non vi era stata una tua richiesta o scelta in grado di togliere quel rapporto dalla casualità di un incontro: il mio compito era di traghettarti senza scosse in quel periodo romano che doveva essere breve come quegli amori estivi che finiscono con il ritorno a casa. Ero stata io a proporti il mio aiuto, contravvenendo ad ogni mia regola, perché dietro la tua supponenza decisamente antipatica avevo colto la fragilità e la sensibilità del tuo essere, qualità che ti esponevano ad un rischio di cui neppure tu eri consapevole, tronfio come eri del percorso comunitario fatto e delle tue arti manipolatorie.
C’era dell’altro: avevo visto in te una parte di me, la stessa che tu avevi colto col “sogno della sorella”, e non potevo proprio disinteressarmene. Sta di fatto che il nostro lavoro proseguì dopo l’estate perché questo film non riusciva a trovare la via della fine.
Ogni tanto col fare indagatore dello sguardo dicevi di volere rimanere a Roma, ma la mia risposta - “Vedremo!” - ti lasciava in mezzo alle tue menzogne. In realtà stavi meglio perché più naturalmente trovavi la strada del sorriso... e della musica.
Sia chiaro, non erano tutte rose e fiori! Come quella volta, ad esempio che venisti in seduta entusiasta per avere visto un film (Big Fish) - per me orrido! - imperniato sul rapporto padre-figlio. In particolare avevi trovato commovente la scena finale in cui il figlio esce dall’acqua portando il corpo esanime del padre tuffatosi per l’ennesima volta alla ricerca del Grande Pesce: che fosse grande sogno o grande illusione sembrava avere poca importanza per te. Trattare la speranza e l’illusione allo stesso modo è cosa molto pericolosa, di quelle che fanno ammalare psichicamente; per questo non potevo tacere l’invisibile veleno di quella scena violenta dove vi era l’invito silente alla accettazione dell’assenza, ovvero l’invito all’oltraggioso buonismo che, giustificando ogni cosa, produce identificazioni senza identità. Te lo dissi e in quel preciso istante ti furono chiari i limiti della tua comprensione: oh quale terribile colpo inferto alla tua intelligenza supponente!
La volta successiva arrivò una telefonata in cui mi comunicavi che eri stato invitato ad un festival di musica da film; quel filo trasportò la mia risata sorniona mentre dicevo: “Va bene, ci vediamo la prossima settimana”. Al tuo ritorno mi raccontasti della bellissima esperienza vissuta: finalmente avevi potuto suonare il basso insieme con altri musicisti direttamente sulle immagini “senza avere in mezzo questi cazzo di registi”. Proprio non riuscii a trattenere le risate.
“Che si ride?”, fu la tua domanda curiosa e divertita, come a dire ‘Voglio proprio vedere dove va a parare!’.
“Beh, evidentemente ha sentito la mia interpretazione del film come un’opera di regia troppo forte, se non addirittura invadente, per la sua identità... Beh, accetto la critica, ma ribadisco l‘interpretazione”.
I temi dell’odio e dell’invidia non erano al momento praticabili; d’altra parte non avevo tenuto per me l’interpretazione più profonda del “sogno della sorella”, quella collegata alla diversità che innesca il desiderio? L’immagine riflessa sulla vetrina non reclamava forse a gran voce Quell’oscuro oggetto del desiderio, con le due donne in una, la bionda e la mora, una da amare per le somiglianze e l’altra da desiderare per le differenze? Tu volevi l’amore, per di più consolatorio - ‘E d’altra parte esiste un amore che non lo sia?’ - e io ti rispondevo picche... Come quella volta in cui avevi cominciato la seduta sfoggiando i tuoi più terribili lai e ti dissi scocciata che non avevo alcuna intenzione di ascoltarti.
“Lei deve ascoltarmi”, insistendo sul “deve”.
“Io non le devo niente. Io voglio, e sottolineo voglio, ascoltarla, ma non sono qui per subire passivamente la sua violenza”, risposi con veemenza. Mi guardavi trasecolato e senza parole mentre, schienato sulla poltrona, delineavo i confini della cura da quelli della assistenza consolatoria.
Arrivò il periodo di Natale con i relativi compiti per le vacanze... ovviamente per me! Poco tempo prima ti avevo prescritto di vedere (e ascoltare) Il favoloso mondo di Amelie e ora eri tu a suggerirmi Requiem for a dream, un film spietato sulla tossicodipendenza con cui sembravi voler ribadire che non c’erano vie di uscita dalla malattia psichica. Mi chiedevo se questo film fosse la risposta rabbiosa alla pausa invernale - una sorta di intimidazione davanti ad una separazione che parlava di una mia libertà - oppure una comunicazione spietata e dolorosa che esprimeva un senso di appartenenza, perfino di possessione, a quella storia di similitudini violente. Probabilmente erano entrambe le cose, me lo dovevo ricordare.
Durante quelle vacanze avevi conosciuto il padre della tua ragazza e ti eri reso conto di come (il quanto già lo sapevi) la vostra relazione fosse malata: lei, che ti aveva seguito a Roma in quella avventura cinematografica, andava a rinforzare la tua onnipotenza a causa della sua giovane età e della dipendenza affettiva. In fondo avevi cresciuto anche lei, proprio come avevi fatto con la tua terapeuta!
Fu allora che arrivò la scelta di mollare il peso della “azione terapeutica” a qualcun altro che non fossi tu: anche lei aveva l’esigenza di una psicoterapia per combattere la sua passività che ti collocava costantemente in una posizione di “doverosa responsabilità” nei suoi confronti - esattamente quello che ti appesantiva la vita - anche se tu coattivamente la ricercavi per un silenzio orribile di cui ti eri fatto carico fin da quando tuo fratello più piccolo, ancora bambino, aveva tentato il suicidio. Non se ne era più parlato all’interno della famiglia - non se ne doveva più parlare! - e tutto aveva ripreso a funzionare come se nulla fosse: lui era diventato architetto... tu musicista... ed era sempre lui che ti veniva a riprendere dagli effetti delle tue intemperanze... stupefacenti, in silenzio... Tornava sempre quel maledetto silenzio.
Galoppammo con leggerezza verso una nuova estate che ti vide protagonista, in qualità di compositore, di un film duro dove due ragazzi delle periferie annegano nelle loro esistenze senza vita. Bella e sentita la tua musica, capace di portare verso la tridimensionalità degli affetti: eri stato meno di mestiere, forse perché il tema della madre era lacerazione viva senza ancora la possibilità della parola; possibilità che venne nei mesi successivi quando cominciammo ad affrontare quel dolore scoperto che bruciava la pelle e gli occhi. La tua era una madre arrabbiata, spigolosa, che si portava dietro la tristezza di una Sicilia lasciata dietro le spalle insieme con le sue storie di sale e di sangue.
‘Due giovani siciliani, un uomo e una donna, decidono di trasferirsi nel Nord portando con loro un sogno o una fuga, forse entrambe le cose. La periferia di un piccolo centro li divide sempre più profondamente e la donna perde il sorriso... per sempre. Depressioni e malesseri del corpo cominciano a parlare di un tradimento perpetrato: lui si allontana verso altre donne, lei rimane chiusa in un sogno arrugginito che si fa delirio’.
Andavi scoprendo la donna dietro la madre e se quest’ultima non poteva essere in alcun modo perdonabile, la donna sì: aveva patito per una perdita di cui il marito - tuo padre - forse non si era neppure accorto, andando a sancire la lacerazione sanguinante che alimentava la rabbia... e tu eri rimasto intrappolato tra loro a recitare la messa da requiem per un sogno... solo che questo sogno non era tuo... e neppure la messa da requiem.
Tua era la sensibilità, la gentilezza, la timidezza, la fervida intelligenza e anche la algida e sfuggevole arroganza. Fatto è che, come mi è capitato spesso di constatare nel mio lavoro, mentre tu miglioravi tua madre si ammalava sempre di più nel corpo: una stranissima fibrosi polmonare tagliava lentamente il suo respiro. La stranezza era legata al fatto che in genere questo tipo di patologia rappresenta l’esito di malattie professionali legate alla esposizione continua a sostanze inalate che si depositano nei polmoni. Chissà quali tossicità dell’animo avevano trovato la via del corpo determinando quella sclerosi del polmone che, di pari passo con l’irrigidimento nelle sue posizioni, aveva portato a escludere l’amore una volta per tutte dalla sua vita! Tutti gli uomini dovevano essere esclusi, perfino i figli. Tu stavi meglio e lei peggiorava... bisognava pure che qualcuno tenesse il testimone dell’assistenzialismo! Una volta ti dissi che avevi trovato un modo davvero inusuale di fare l’infermiere.
“Costringe gli altri ad occuparsi di lei”.
Ti tirasti indietro con il busto sollevando le braccia conserte così com’erano, come fossero un blocco unico, dalla scrivania.
“Qualcuno potrebbe pensare che è pazzesco ciò che dice!”, fu la tua esclamazione.
“Qualcuno... ma non lei”, risposi.
Sorridesti teneramente guardando di lato e un po’ in basso mentre dicevi che, anche se era pazzesco, da qualche parte sentivi del vero in quel che dicevo. Tempo dopo tua madre ti scrisse una lunga e bella lettera incrinando l’immagine univoca di quella donna ostile che da bambino ti pettinava con forza i capelli strappandoli e facendoti male ogni volta.
La riappacificazione interiore con tua madre, priva di scusanti nei confronti delle sue evidenti manchevolezze, ci diede il “la” per il fatale salto: era arrivato il momento dello svezzamento dalla sostanza sostitutiva assunta al Ser.T. Quello diventava il momento della verità oltre le parole. Conoscevo bene la tua convinzione di non riuscire a stare lontano dalle sostanze senza una stampella farmacologica, degradando di conseguenza ogni intervento psicologico ad un sostegno consolatorio ad oltranza per quella ideologia dell’incurabilità che era penetrata nelle carni. Ti proposi di ritualizzare questo passaggio con un ricovero in clinica e decidemmo per le festività natalizie che ti vedevano più tranquillo dagli impegni professionali e vedevano me un po’ più libera e disponibile per le visite nella struttura.
I primi giorni furono difficili anche se non rinunciavi ad una certa teatralità giocata soprattutto nei confronti dei giovani medici. Sorridevo nel vedere come ti trastullavi nel ruolo di malato: ti trovavo sempre con una elegante veste da camera indossata sopra un pigiama ugualmente elegante e ai piedi delle pantofole ricercate che erano in realtà dei sandali comprati anni prima in occasione di un viaggio in Marocco di cui non mi hai mai raccontato. Ti eri portato della buona musica e, fra i libri, il primo numero de L’ArcoAcrobata che ti avevo regalato per l’occasione: il primo giorno in cui venni a trovarti in clinica - era di pomeriggio - ti trovai sdraiato sul letto, frastornato e assonnato dagli psicofarmaci, con la rivista aperta a metà sopra il tuo corpo, come fosse una coperta.
Grande intimità costruita così semplicemente in quei giorni! Era la prima volta che facevi un’astinenza in ambiente protetto e non da solo tra i tremiti di freddo, i crampi e i vomiti violenti. In genere quando venivo a trovarti rimanevo un paio d’ore e, se te la sentivi, ti portavo fuori dal reparto chiuso di psichiatria per regalarti una ventata di sanità. Facevamo passeggiate nel parco anche se brevi perché ti stancavi facilmente; per lo più preferivi stare seduto ai tavolini esterni del bar, esposto alle fredde temperature invernali - proprio tu che eri così freddoloso! - a sorseggiare bevande calde e a fumare qualche sigaretta di troppo mentre con gli occhi a fessura sicuramente non ti potevano sfuggire le mie mani che si facevano livide per il freddo. Ho sempre pensato che volessi mettere alla prova la mia resistenza... anche quella fisica. E comunque eri sempre tu a chiedere di rientrare.
Era piacevole parlare con te perché conoscevi più di quanto fossi disposto a mostrare. In realtà sentivo il tuo piacere sottile nello scardinare gli stereotipi che le persone hanno sui tossicodipendenti. Potevi in alcuni momenti vestirti anche da reietto, ma questo nulla toglieva alla grande cultura, e non solo musicale, che possedevi. Anche quello fu un banco di prova... ovviamente per me.
Un giorno al bar interno della Clinica Universitaria, andando a finire non so come sul tema di una mia ricerca sul rapporto tra suono e cura, nominai i tarantolati: fu allora che ti avvicinasti fin quasi a sovrastarmi fisicamente. Non arretrai davanti alla potenza di quel fuoco e seppi così che anni prima eri stato chiamato come fonico a girare un film nel Salento su questo argomento; eri partito per quella avventura con la tua ragazza d’allora, ma avevate entrambi ceduto all’eroina, come se la potenza di quella ricerca vi avesse messo in discussione dal profondo. Avevate letteralmente frantumato quell’amore, probabilmente per sgretolare quella possibilità e Roma era stato lo scenario ultimo di quel fallimento.
“Ma chissà se era amore... lei era anoressica. Con le donne ci sono sempre tanti casini!”.
Poi, guardando in lontananza: “Ho lasciato qualcosa di importante lì”.
E ancora... “Non ce l’ho fatta!”.
Ascoltai con indicibile pena quel grumo d’angoscia e sentivo con tristezza le mie parole rimbalzare sorde mentre ti dicevo che era possibile andare a riprendersi quel qualcosa.
Ti vidi arretrare impercettibilmente e poi accadde davvero mentre dicevi distrattamente: “Forse... è possibile!”.
Il ricovero si prolungò per un mese e io venni a trovarti regolarmente.
Il panda e le sue brame
Le prime settimane “da lucido”, difficili di per sé, furono devastate da complicazioni lavorative che ti facevano vacillare dall’ansia all’angoscia più pura: nessun rapporto (compreso il nostro) sembrava in grado di contenere quello stato, nessuno psicofarmaco si rivelava efficace (figurarsi l’omeopatia!), nessun consiglio sul lavoro era adeguato. Si materializzava nel rapporto l’immagine del panda che si era già affacciata impunemente tra le maglie dei tuoi movimenti: un animale in via di estinzione che, con la sua tenera faccia da pagliaccio, divora con tenace lentezza intere foreste di bambù... fino a sterminarle!
E mentre la voracità del panda imperversava, il mancato riconoscimento di te ad opera di te stesso ti faceva toccare la depressione più nera, là dove lo spazio del nostro lavoro veniva continuamente ingoiato (proprio come il bambù!) dalle questioni materiali. Ti agitavi a più non posso in quel mare in tempesta - assediato come eri dalle follie condivise e dalle invidie individuali - dove per te era molto difficile discriminare quanto le richieste della Produzione fossero lecite oppure no, e per me sapere quanti e quali rischi corressi veramente. Ero preoccupata; sapevo che tu esasperavi la situazione, ma ero preoccupata lo stesso.
‘Seppure il panda è a rischio di estinzione, anche le foreste di bambù hanno i loro diritti!?’, mi dicevo.
Fu allora che feci una cosa che un “bravo” terapeuta proprio non deve fare: dopo avere consultato una persona a me molto cara (anch’egli musicista) il quale mi diede il nominativo di un compositore che avresti potuto contattare a suo nome, ti telefonai. La tua voce era un misto di stupore e gratitudine mentre ti dicevo della possibilità di confrontarti con un compositore noto nel settore ma estraneo alle dinamiche folli che ti circondavano dove, tanto per cambiare, tutti finivano per nascondersi dietro la tua tossicodipendenza; precisai di non conoscere la persona in questione, quindi potevi sentirti libero di fare qualsiasi cosa. L’incontro andò bene perché quella persona sconosciuta ti aveva dato quel riconoscimento che quelli che ti conoscevano continuavano a negarti.
Accadde così che i confini della realtà che stavi pericolosamente varcando fossero ritrovati anche se certamente quel mio movimento, lo sapevo fin troppo bene, esponeva il nostro rapporto alle rappresaglie della tua malattia: potevi interpretarlo come un cedimento alle tue manipolazioni di sempre, o peggio ancora come una mia manovra di seduzione. Questo rischio lo conoscevo... ed ero pronta ad affrontarlo.
E infatti... le tue lamentazioni si fecero più aspre e le tue assenze cominciarono a mietere il sapore della morte mentre emergeva dallo sfondo l’entità della tua depressione, quella che avevo sentito fin dal primo momento. È vero, il contesto lavorativo si faceva più difficile e avevi la sensazione di avere dei consiglieri più interessati ad affondarti che a sostenerti, ma ti legavi strumentalmente a quanto ti andava accadendo materialmente per ribadire la tua impossibilità. Mi strattonavi con gli aspetti materiali che affondavano i desideri più profondi, ma sapevo di dover tenere fermo il timone sulle questioni “interne”.
Un pomeriggio, arrivata in ambulatorio, mi dissero che una ragazza mi voleva parlare. Non la potevo ricevere in quel momento, ma l’infermiera ritornò dopo qualche minuto con una lettera di quella sconosciuta che misi di fretta nell’agenda riservandomi di leggerla dopo, tra una seduta e l’altra. Quel pomeriggio me lo ricordo bene! Parlavi senza dire nulla ed eri tornato a fuggire lo sguardo: questa volta però eri tu a non volere che io incontrassi il tuo sguardo di pietra. Sentivo la coltre di neve pesare sul cuore fino a fargli perdere il ritmo per poi recuperarlo con un balzo alla gola: conosco bene quei moti del cuore, di quando l’altro porta una negazione nella relazione! Percepivo il tuo senso di vergogna e una pena lancinante in quel tuo fuggire nel silenzio omertoso dell’assenza come dallo sguardo.
Continuavo a guardarti in un silenzio triste finché: “Ma che cosa ha da guardarmi?”.
E io: “La guardo... semplicemente... perché sento quanto è esasperato... e disperato”.
Avevi capito che avevo capito, ma il dire (come il non dire) era una tua scelta che, condivisibile o no, io accettavo. Mentre ti guardavo andare via alla chetichella come un ladro che ha rubato un’opera d’arte ad un Museo e non sa cosa farsene, ricordavo le frantumaglie disperate di quell’incontro: “Questo film non uscirà e non mi pagheranno... non riuscirò a completare la colonna sonora... forse ha ragione la Responsabile di Comunità quando dice che la musica mi ucciderà”.
Quando finalmente si chiuse la porta dietro di te, rimasi sola in quella stanza fatiscente che, colma del tuo dolore, mi sembrò ancora più desolata. Lo so, è una mia precisa scelta accettare quello che un paziente vuole dirmi - ‘Le dinamiche si devono svolgere’ -, ma quanto era pesante in quel momento quella scelta! Mentre camminavo avanti e indietro per superare l’inedia dell’assenza, mi ritornò alla mente la lettera della sconosciuta. Nel leggerla capii che a scriverla era stata la tua ragazza: mi comunicava che avevi ricominciato a ‘farti’ e si sentiva disperata per questo. Nella seduta successiva ti raccontai l’accaduto e ti consegnai due lettere: quella della tua ragazza e una mia per lei. Quest’ultima te la lessi.
“Comprendo la sua preoccupazione, tuttavia è una libertà del suo ragazzo quella di raccontarsi come meglio crede, perché il dire o il non dire come stanno le cose ha a che fare con un livello di fiducia particolare, quello che può andare oltre la paura di deludere l’altro. Faccia la fidanzata e non la madre o la poliziotta! Ne parli con il suo terapeuta, così come il suo ragazzo avrà occasione, quando lo riterrà opportuno, di fare con me. Le auguro un buon lavoro... e, per favore, non mi cerchi più”.
Poi la tua domanda: “Lo aveva capito, vero?”.
“Si, sono rimasta molto dispiaciuta!”.
E tu, tirandoti indietro con il busto, sempre trascinandoti il monoblocco delle braccia conserte, con un tono vagamente trionfante: “Ecco... l’ho delusa... - scuotendo la testa col tono falsamente dimesso di chi ha l’asso nella manica - ... è arrabbiata perché l’ho delusa!”.
“Non ha capito proprio niente. Non sono delusa perché non ho aspettative nei suoi confronti... Non sarà una sua libertà, ma è certamente un suo diritto deludere chicchessia. Proprio non comprende che le aspettative degli altri, presunte o reali, sono una violenza?”.
“Non ha aspettative nei miei confronti?!... Ma... ma così... è disarmante!”, fu la tua incredula esclamazione.
Ti guardavo dritto negli occhi mentre continuavo con veemenza sotto il tuo sguardo fattosi interrogativo.
“Eppure è così, se ne faccia una ragione. Non ho aspettative, ho solo pretese... - sorridendo - ...e quello che pretendo in un rapporto è la presenza: poteva dirmi semplicemente come stavano le cose, ma questo è evidentemente molto difficile per lei perché ci tiene troppo a fare il “bravo” paziente”.
Mi guardavi sorpreso mentre sembravi contento e incazzato allo stesso tempo: contento perché - ne convenivi - non eri tenuto a comportarti bene, incazzato... per lo stesso motivo! Quel giorno vidi una leggerezza nuova e una espressione dolce del volto che certamente non ti era usuale.
‘Mi farà vedere i sorci verdi’, pensai sorridendo.
Continuarono le turbolenze e lo scontro con i “cinematografari” divenne continuo. Eppure... continuavi a scrivere la colonna sonora e avevi preso un nuovo appartamentino, questa volta pagato da te e non dalla Casa di Produzione. Questa nuova casa non solo era il tuo laboratorio di lavoro, ma stava diventando uno spazio dove accoglievi alcuni musicisti per suonare tutti insieme. Perfino la tua ragazza, che da qualche tempo aveva cominciato a prendere lezioni di violoncello, vi partecipava con grande piacere. Certo, con lei c’erano sempre questioni importanti da affrontare che esulavano dalla tua tossicodipendenza: sembrava invidiosa della tua creatività e faceva di tutto per mettersi in competizione con te, probabilmente nel tentativo di svincolarsi dai propri livelli di dipendenza affettiva. In ogni modo anche lei partecipava attivamente a quel tormentone di non lasciarti comporre in tranquillità.
Per la prima volta stavi pensando seriamente alla possibilità di rimanere a Roma per portare avanti la psicoterapia, ma l’attacco possente che sferravi al nostro lavoro era altrettanto feroce nel ribadire che non vi erano modi alternativi per affrontare le questioni del mondo. Fu così che quella tiepida primavera si fece rovente sotto i tuoi colpi inferti nel vano tentativo di forzare le regole del setting. Ti facevi e ti assentavi - avvertendomi!!? - quando una mattina arrivò una tua telefonata.
“La mia ragazza mi sta lasciando. La sto perdendo! Proprio non ce la faccio a venire in terapia con la mia vita che va in pezzi”. Eri in lacrime.
Con quello sarebbe stato il terzo incontro mancato e sapevi bene che saltare quell’incontro avrebbe comportato l’interruzione “d’ufficio” del nostro lavoro psicoterapeutico: era una delle regole che ti avevo illustrato all’inizio.
“Se salta l’appuntamento di oggi perderà anche me”.
Arrivò un lamento inusitato: “Ma non ce la faccio! Proprio non capisce?”.
“Provi”, fu la mia laconica risposta.
Riuscisti a venire quel giorno e anche nelle settimane successive: “Ho sentito la sua determinazione”.
La mia determinazione era stata... determinante per il superamento della crisi nera. Ti proposi dieci colloqui per rinegoziare il nostro lavoro e aiutarti a superare quel momento difficile.
“Glielo devo... perché si sta impegnando molto”, ti dissi.
Qualsiasi altra decisione sul proseguio del lavoro si rinviava a fine estate, dopo la conclusione del film che ormai era imminente.
In quel periodo ci fu anche un tuo breve viaggio di lavoro nei Balcani per fare le prove di orchestrazione di alcune parti della colonna sonora. Fu per te una esperienza straordinaria perché lavorare con artisti del tuo livello ti faceva ritrovare quelle capacità e un desiderio di fare che in Italia, negli ambienti che frequentavi, venivano sistematicamente risucchiati. Avevi conosciuto anche una giovane cantante con una voce straordinaria con cui avevi trovato una immediata sintonia.
“Avrei potuto fare meglio, se solo avessi ultimato a suo tempo gli studi di orchestrazione!”, avevi detto con disappunto.
“Beh, è sempre in tempo a ultimare quegli studi e a diventare sempre più indipendente nella sua espressione musicale”.
“È vero! Lo posso fare... magari da settembre”, sollevato.
La porta d’Oriente
Ti dedicasti al lavoro, sia del film che al nostro, con grande impegno. Nonostante la paura della solitudine ti avesse sempre atterrito, non eri poi così smarrito davanti alla scelta della tua ragazza. Anzi. Per la prima volta nutrivi nei suoi confronti una forma di rispetto perché sapevi quanto per lei fosse difficile quella scelta. In realtà in quella benefica solitudine cominciavi a mettere dei confini e stavi perfino completando la colonna sonora nonostante avessi capito che quel film non sarebbe mai uscito: eri incappato in una di quelle produzioni che cominciano i film solo per avere i finanziamenti dallo Stato e a “quei banditi”, come li chiamavi, non interessava altro. Quel lavoro era comunque una occasione per cimentarsi e per capire il rapporto con la tua creatività continuamente prigioniera di quegli aspetti materiali che, seppur reali (i banditi non pagavano, tuo padre non ti aiutava, la tua ragazza da lontano continuava a prendersela con te), erano solo una copertura per non affrontare a viso aperto il tuo valore.
Un giorno, verso la fine di quella complicata primavera, come ciliegina sulla torta arrivò una telefonata della Responsabile di Comunità - la Grande Madre, come amavo chiamarla tra me e me - la quale mi chiese la disponibilità per aiutare un regista alle prese con una sceneggiatura nascente, guarda caso, su una ragazza anoressica. Tu avevi lavorato con lui anni prima, ma poi, ufficialmente a causa della tua tossicodipendenza, eri stato estromesso dal giro sebbene tutti sapessero quanto fossi bravo. Quando ti comunicai la cosa per decidere insieme il da farsi, la sorpresa si mescolò all’incazzatura: non era la prima volta che quella donna si comportava in modo “curioso” e poi... eri geloso, geloso di me! Ti chiesi di lasciare svolgere la dinamica e di provare a fidarti. Da parte mia non avevo alcuna mira personale, ma qui era in gioco la possibilità per te di comprendere cosa si agita di fronte ad una persona creativa di cui si ha il sentore dell’artista. La tua curiosità prevalse e quando incontrai quel regista gli dissi che il romanzo su cui lui intendeva costruire la sceneggiatura mistificava il discorso sulla cura della malattia mentale. “Per quello che mi riguarda il film può iniziare solo dove il libro, peraltro brutto, finisce. È l’unico modo per dare una autentica possibilità alla giovane protagonista”. Fece finta di non capire o forse non capì davvero, per questo gli regalai un numero de L'ArcoAcrobata. Avremmo dovuto incontrarci una settimana dopo, ma mi fece recapitare una lettera dove, tra mille ringraziamenti, annullava - non uso il termine a caso - l’appuntamento perché, avendo una personalità troppo spiccata, avrei interferito con il percorso, professionale e non, che stava facendo (anche lui era in psicoterapia).
Quando ne parlammo riuscisti a comprendere bene le dinamiche invidiose di quel regista e anche quelle di controllo della Grande Madre: d’altra parte non era lei che scuotendo l’aria con le lunghe maniche nere, come una novella Crudelia Demon, ti aveva detto che avresti dovuto lasciare la musica altrimenti ti avrebbe portato alla morte? E pensare che in occasione del nostro primo incontro ti avevo detto esattamente il contrario: dovevi salvare la musica per guarire.
‘È l’unico modo in cui riesce a tenere la speranza dell’amore per la madre... dell’amore per la vita’, avevo pensato.
C’era un tuo valore che si rendeva finalmente evidente ai tuoi occhi e... tu eri per la prima volta in grado di proteggerlo. Forse per questo la nostra coppia terapeutica doveva essere tenuta a bada! Poteva scuotere fin dalle fondamenta certi presupposti teorici collegati più all’adattamento che alla cura... e la vera arte, come forse il regista aveva subodorato, nulla ha a che fare con l’adattamento.
Nel mese di giugno arrivò la tua colonna sonora.
“Voglio sapere cosa ne pensa. Ci tengo molto al suo giudizio...”. Eri calmo e sereno, evidentemente soddisfatto del tuo lavoro.
Quel giorno, tornata a casa, mi precipitai ad ascoltare quel CD... e fui travolta. In quella musica era scomparsa ogni forma di mestiere e per di più vi era qualcosa di mai sentito prima in altri tuoi pezzi: la durezza del rock si mescolava con un sound etnico di grande respiro che conferiva alla musica una sessualità e una gioiosità nuova, oltre la potenza e la tenerezza di sempre. Quella era la colonna sonora del nostro rapporto ed era bellissima.
“È talmente viva e bella che quando la ascolto mi viene un nome... Porta d’Oriente”.
‘Se mi viene di darle il nome, vuol dire che è una nascita’, pensavo mentre tu esclamavi:“Bello! Posso utilizzarlo?”.
Eri contento, lo sguardo era tenero come la tua voce. Ne avevi mandato una copia anche a quel regista e lui era rimasto tramortito: “Da dove è venuta fuori questa musica? Non sembra neppure la tua”, aveva detto astioso. E invece era proprio tua. Ce la ridemmo di gusto di fronte alle reazioni più disparate per quella tua realizzazione. A tua madre quella musica era piaciuta moltissimo; la giovane regista del film, “la matta” come amavi chiamarla, era addirittura entusiasta. La tua battaglia l’avevi vinta: la tua tossicodipendenza non poteva essere il parafulmine delle assenze degli altri. La capacità di arrivare al tuo valore aveva svelato la delinquenza e l’invidia dei più.
È in questo momento di grazia che si colloca un episodio davvero carino che ti vide protagonista.
La tua ragazza, da quando ti aveva lasciato, si era appoggiata in casa di un tuo amico e si era portata via la tua macchina come pegno per dei soldi che lei riteneva tu le dovessi restituire. Era evidentemente solo un pretesto e questa cosa ti dava un gran fastidio. Un giorno arrivasti in seduta con l’aria più sorniona del solito e...
“Ieri sera ero solo in casa ed ero incazzato perché proprio non riuscivo a capire il motivo per cui dovessi rinunciare alla mia macchina. Le questioni di denaro non c’entrano, perché da quando siamo a Roma ho sempre sostenuto io le spese di casa e le ho dato anche l’occasione di lavorare nel cinema e di guadagnare. Beh, ieri notte rimuginavo e camminavo avanti e indietro per la casa pensando che proprio non era giusto, quando, ad un certo punto, ho avuto l’impulso di prendere la moto e di andare sotto casa del mio ex-amico che la ospita. Ho cercato la mia, e sottolineo mia, macchina, l’ho trovata e con le seconde chiavi me la sono portata via. Poi tra mille palpitazioni sono tornato quatto quatto a riprendere la moto e ho guadagnato casa nel cuore della notte”.
“Meraviglioso!”, dissi ridendo.
“Lo sapevo che le sarebbe piaciuto!”, fu il tuo commento accompagnato da una sonora risata.
“Aspetti, non ho finito. Quando poi lei mi ha chiamato con la coda tra le gambe per dirmi che la macchina era stata rubata, non solo sono stato muto come un pesce, ma ho anche fatto finta di arrabbiarmi per la incuria evidente con cui aveva tenuto l’auto... Non avrò esagerato?”.
“Fantastico!”, fu il mio commento.
Qualche giorno dopo la invitasti a casa per sciogliere l’arcano, ma lei si arrabbiò moltissimo e se ne andò in preda al delirio, sotto i tuoi occhi che la guardavano con amore.
“Mi sono rivisto e avrei voluto fermarla... ma poi l’ho lasciata andare”.
Ti rassicurai perché era in buone mani sul piano psicoterapico e poi... forse lei doveva mettersi in una nuova posizione per potere comprendere ed accettare quel tuo movimento da fidanzato geloso. Quella “bella botta di sanità”, come la chiamai, fu l’occasione per te di rivisitare il nostro rapporto terapeutico e per me di rilanciare una nuova sfida. Ma andiamo con ordine...
Un caldo pomeriggio estivo, stringendoti le mani una contro l’altra, arrivò inattesa la dichiarazione.
“La devo proprio ringraziare”. Ti guardai in modo interrogativo e rimasi in silenzio in attesa. “Se non ci fosse stata lei sarei impazzito”.
Rimasi di sasso per due motivi: perché me lo dicevi e perché... era terribilmente vero. Risposi che il nostro lavoro aveva solo messo a fuoco le tue capacità: quella fu l’unica cosa che dissi anche se da tempo andavo pensando che la decisione della Comunità di mandarti a Roma in una situazione emotiva ancora così aperta era stata estremamente pericolosa. Nella tua storia Roma si collegava ad un fallimento affettivo e professionale e una ricaduta avrebbe potuto compromettere per sempre il tuo rapporto con la musica.
“Ho pensato anche che il suo è un bel lavoro. Ci vuole creatività”.
“Esattamente come il suo”, risposi.
Provavi riconoscenza nei miei confronti, ma per te era sempre molto difficile accettare di divenire pietra da scolpire. Questa era la questione e questo dovevi affrontare: quindi ti proposi di passare dopo l’estate in un contesto terapeutico allargato. Sapevo di avere osato molto, ma per affrontare e risolvere una volta per tutte la tua onnipotenza ti dovevo mettere in un contesto in grado di sorprendere e contenere al contempo.
Ci congedammo per la pausa estiva, mentre già i tuoi sogni portavano immagini nuove, folle di persone e bagni al mare, come anteprime di quella nuova situazione che si sarebbe aperta a settembre.
Quella era la porta d’Oriente che io offrivo a te.
Le risate
Seconda settimana di settembre. Alla ripresa del gruppo aperto che da diversi anni ha preso il nome di Organismo, arriva sul filo di lana la scampanellata delle 20.00. Ti presenti vestito di tutto punto, cosa un po’ inusuale per te. Annusi l’atmosfera e, quando la rilassatezza ti prende, ti metti a cavalcioni sulla sedia in modo da appoggiare il solito monoblocco delle braccia conserte unite per le mani. Ogni tanto ti sbircio con la coda dell’occhio e vedo che te la ridi abbassando la testa per non essere visto. La tua emozione si miscela con quella degli altri nella attesa trepidante che si scioglie quando ti chiamo.
“Si sente che c’è una storia in questa storia, a partire dal linguaggio. Non capisco molto, ma va bene”. Metti le parole in modo tale da evitare di darmi del tu, come avviene nell’Organismo. Ne approfitto per dire di quando il linguaggio si libera dalla identificazione con i padri. Le quattro ore scorrono lievi e alla fine sei l’ultimo ad uscire. Nel corridoio ti affacci nella piccola stanza del pianoforte bianco.
“Anche io da ragazzino avevo un pianoforte bianco. È tuo?”. Annuisco. Ci ritroviamo ancora una volta... come sempre.
La settimana dopo porti un sogno.
“Stavo uscendo dalle rovine di una casa devastata. Ci sono altre persone, ma mi accorgo in particolare di un uomo, sconosciuto. Ci allontaniamo dalle macerie seguendo un sentiero di terra e alla fine del sentiero l‘altro uomo trova una donna ad attenderlo. Li vedo allontanarsi insieme mentre io rimango solo. Nessuna donna aspetta me e mi sento uno sfigato”.
Entrare nell’Organismo era l’occasione per uscire una volta per tutte dalla casa del padre, quella delle identificazioni obbligate di cui riconoscevi la violenta devastazione, ma questo comportava affrontare l’abbandono da parte della madre che ti lasciava esposto a sostenere in solitudine, e senza amore, la differenza con gli altri.
“Una parte di te ritiene che non ci siano donne in grado di aspettarti. È una negazione che porti nel rapporto, un a priori che ti intossica. Ma è realmente un tuo pensiero oppure è il frutto avvelenato di una identificazione che ti impedisce di essere?”.
‘Ecco l’ostacolo più grande alla sua espressione creativa - pensavo - più si differenzia e più sente la solitudine come abbandono. Non è la musica a portarlo alla morte, è il pensiero ingannevole che tutto ciò che lo porta verso una originalità lo lascia inesorabilmente solo: ecco il perché della simbiosi!’, mi dicevo. La simbiosi quindi offriva il vantaggio di ripararti dall’annosa questione dell’odio e dell’invidia, provati e subiti.
La volta successiva porti un secondo sogno.
“C’erano dei bambini che mi inseguivano facendo una grande cagnara. Era una sorta di banda, ma non sapevo che cosa volessero da me. Ad un certo punto mi prendono e, pigiando le loro dita, mi strappano la pelle dei polpastrelli delle mani. Non provo dolore, è come un gioco dove tutti ridono. Nell’immagine successiva mi trovo a guidare un pullman pieno di bambini”.
“Qui è in ballo la trasformazione e non un cambiamento!”, dico.
Avevi compreso che venire all’Organismo significava strappare via le identificazioni di sempre... e lo facevano dei bambini! E mentre il tuo inconscio riprendeva la questione della identità libera dalle identificazioni, ricompariva il guizzo onnipotente, seppur giocoso, che ti portava a guidare tu le situazioni.
“Insomma, smettila di fare il salvatore! Lo vuoi capire o no che qui a condurre sono io?”, dico ridendo.
La depressione impotente era il contenuto silente e velenoso di quella onnipotenza che andava anche oltre la tua autentica curiosità nei confronti degli altri.
Poi... salti un incontro e lasci te stesso nelle mani del feroce divoratore per sancire con l’assenza fisica anche quella psichica.
La volta successiva all’incontro mancato porti i primi morsi della depressione anche se nei tuoi sogni “stranamente” ridevi.
“Io mi fido del tuo inconscio... tu neppure lo ascolti”, dico mentre l’inerzia prende il sopravvento. Tuttavia, la presenza degli altri non ti permette le lamentazioni di sempre.
Dopo quegli incontri non sei più venuto, con grande dispiacere di tutti. Una immagine è rimasta indelebile: tu che ti allontani in punta di piedi, così come eri entrato, serrando in un abbraccio tutte le riviste de L’ArcoAcrobata mentre dici contento “Vado a studiare”.
“Rien ne va plus”
Sapevo quanto fosse importante e delicata quella scelta: decidere di continuare il percorso di cura voleva dire affrontare le identificazioni moleste e separarti dalla violenza del padre come dall’impotenza della madre; voleva dire pensare alla tua vita creativa senza dovere dare più i resti ad alcuno. Era presente inoltre un sentimento di vergogna rispetto ai tuo livelli di violenza, oltre che un senso di protezione nei confronti miei e di quella storia per cui nutrivi un profondo rispetto. Di una cosa ero certa: ti avrei rivisto. E infatti...
Una mattina di gennaio, subito dopo le feste, affacciandomi nel piccolo atrio del Servizio incontro il tuo sguardo impacciato.
“Che ci fai qui?”, chiedo sorridente mentre con un colpo d’occhio raccolgo la tua eleganza e il tuo imbarazzo. Ti porto al bar per parlare in modo informale e, seduti davanti a due tazze di tè fumanti, mi dici che sei stato molto male in quei mesi.
“Non mi alzavo neppure più dal letto. Ricordi quando ti parlavo del padre della mia ragazza? Peggio, molto peggio. Sono diventato un barbone in casa e ad un certo punto non ce l’ho fatta più: ho ricominciato a farmi. Sono venuto qui perché non sapevo cosa altro fare”.
Ti rispondo che hai fatto bene a chiedere aiuto e quella stessa mattina avrei parlato con il tuo medico di riferimento.
“Per quello che mi riguarda io rimango ad aspettarti nell’Organismo. Mi sembrerebbe di negarti qualcosa se ti offrissi nuovamente un lavoro individuale... e io non voglio negarti nulla. Puoi guarire: ricordi le risate dei tuoi sogni?”.
Mi confermi che anche in quei mesi avevi continuato a ridere nei sogni in barba alla tua depressione.
“Vedi? Tu non capisci nulla, ma il tuo inconscio capisce e cerca... Fai quello che devi, io rimango ad aspettarti”.
Con un sorriso tenero e una ritrovata intimità rispondi: “Forse è vero che il mio inconscio ne sa più di me, ma non riesco a dargli retta”.
Dopo l’affidamento al medico e i relativi saluti, riflettevo su quel tuo movimento. Mi avevi cercato sì, ma al Ser.T.
‘Mi è venuto a cercare nella casa del padre - pensavo - Lui ci può anche tornare, ma io lo devo aspettare fuori. Non posso mollare, qualsiasi cedimento da parte mia lo ucciderebbe perché verrebbe interpretato come un segnale di incurabilità’. Sapevo d’altra parte del valido rapporto costruito con il medico, per cui non rischiavi nulla. Con il ritorno alla “casa del padre”, negate le traiettorie della cura, la roulette della casualità riprendeva a girare. Quando mi capitava di incontrarti nella sala della somministrazione, mi bastava un rapido sguardo per capire: quando le cose non andavano bene non mi guardavi neppure e ti amalgamavi così tanto agli altri pazienti che mi riusciva a volte quasi difficile riconoscerti. Sentivo il tuo dolore, ma sentivo anche che non mollavi.
Nel mese di aprile, sempre per caso, vengo a sapere dalla tua terapeuta di Comunità che tua madre era morta un mese prima; incredibilmente i miei colleghi del Ser.T non me ne avevano parlato! Ancora una volta decido di entrare nel tuo privato chiamandoti sul cellulare: mi hai già riconosciuta mentre ti porgo, con il nome, il rammarico per non avere potuto partecipare da vicino al tuo dolore. La tua voce da nasale si fa calda e, come un fiume che scavalca lentamente gli argini, mi racconti degli ultimi giorni della malattia di lei, di come l’hai assistita giorno e notte. Mi chiedi se, al tuo ritorno a Roma, ci possiamo incontrare.
“Ho saputo delle cose importanti e mi piacerebbe poterne parlare insieme”.
Acconsento mentre la percezione della tua gioia nell’avermi ritrovata mi rievoca la telefonata alla psicoterapeuta di Comunità quando, con un entusiasmo davvero inusuale per te, le avevi parlato del nostro primo incontro e della mia proposta di lavorare insieme.
Quando ci siamo visti, un mese dopo, tra le tante cose ci tieni a dirmi che i tuoi genitori non facevano l’amore ormai da anni: l’avevi saputo dalla psicologa che aveva accompagnato tua madre alla morte, la stessa che aveva voluto conoscermi perché, a suo dire, ti avevo restituito al tuo sorriso. Quel negarsi di tua madre sembrava quasi giustificare ai tuoi occhi la scelta di tuo padre.
“Anche io ho chiuso le porte alla terapia individuale, ma tu hai delle precise responsabilità in proposito”. Annuisci con un lieve rossore del volto.
Rabbrividisco mentre racconti che sei stato in Sicilia con lui e hai sentito la contentezza di potertene occupare. Questa vicinanza non era una buona cosa per te, ma rimango in silenzio ad ascoltare quel dolore potentissimo che ti espone al nulla di sempre.
Nel mese di luglio chiedi un nuovo incontro a cui ti presenti completamente fatto di un mix di eroina e cocaina che poco lascia all’immaginazione... e alla parola: vuoi lasciare la musica e partire per il Sudamerica a rifarti una vita. Mi sento indignata.
“Vattene. Cercami quando dirai meno stronzate”. Dopo qualche giorno mi chiami a studio per scusarti e per comunicarmi che lasci Roma per tornare a vivere con tuo padre (il che equivaleva a partire per il Sudamerica e abbandonare la musica): “Ci tenevo molto a salutarti bene”. ‘Ecco il perché del tuo acting disperato, non sapevi come dirmelo!’, penso.
Nell’incontro ti dico accorata che questo ritorno alla casa del padre è un suicidio: “È come andare a vivere con lo spacciatore che ti espone alla delusione di sempre”. Annuisci con il capo chino, ma la malattia ha deciso per te. Forse vuoi essere fermato fisicamente dato che mi viene l’immagine di pararmi davanti alla porta, ma anche quella è una trappola estrema. ‘Posso accettare la sua scelta senza condividerla e senza cadere in un ruolo genitoriale’. Ti esorto a non mollare il lavoro psicoterapeutico, ma una grande pena mi assale quando chiudo la porta. ‘Mi sta costringendo ad assistere impotente ad un errore che può essergli fatale’, penso mentre mi tornavano alla mente spezzoni di frasi: “Quando passo a Roma - tanto ci capito spesso - posso passare a salutarti?”. “Certo”. Il nostro rapporto tornava nell’ambito della stessa casualità di partenza da cui, per un attimo, un lungo attimo, era uscito. Il giro della ruota continuava solo per inerzia e la pallina saltava impazzita da un numero all’altro prima di posarsi definitivamente su quel numero che decreta vincitori e vinti.
E mentre le scelte della mia vita personale e professionale tracciavano il passaggio ardito dalle linee alle traiettorie, il tuo silenzio mi esponeva a mantenere la memoria e la coerenza della nostra storia: non erano forse rimaste impresse nella “Porta d’Oriente” che parlava di un altro possibile te, quello che, uscendo dalla casa devastata del sogno, trovava una donna ad aspettarlo? Per un curioso sincronismo, nella mia vita personale come in quella professionale, l’allontanamento da due musicisti mi poneva nella situazione di ritrovarmi in solitudine.
Dopo un anno arriva una tua e-mail.
“Ciao Concetta,
ti ho cercata e ti ho trovata. Solo oggi dopo mesi ce l'ho fatta. Sono stato molto male. Ora va meglio. Stasera non posso, ma se ti va in questi giorni ti scrivo per raccontarti un po’. Adesso vivo in campagna in una casa su due piani dove mi sto facendo un piccolo studio. È un paesino di pochi abitanti selvaggio e incontaminato. Avevo bisogno di un po’ di spazio per i miei dischi e ho ripreso possesso del mio pianoforte. Ora devo andare. A presto...”.
“Ciao G.,
sono contenta di avere tue notizie e mi fa piacere continuare a riceverne. Io non amo comunicare via computer, se non in casi eccezionali, ma se mi mandi il tuo indirizzo - intendo quello vero, quello della tua casa a due piani immersa nella campagna, con tanto di pianoforte - ti scriverò volentieri. Sarà un caso? Da una quindicina di giorni mi capitava di pensarti spesso. È bello questo tuo ritorno”.
Mi scrivi una seconda e-mail, accompagnata da un tuo primo piano fatto con l’autoscatto dove mi guardi dritto (si fa per dire, visto che sei leggermente strabico) negli occhi con un sorriso tenero e nudo.
“Ciao Concetta,
dove abito adesso non c'è ancora una linea veloce così non ho ancora accesso a Internet, forse la mettono in questi giorni. A me serve molto per lavoro e per curiosare, ma neanche io l'ho mai usato molto per comunicare e, tra l'altro, quando l'ho fatto me ne sono spesso pentito, cosa che vale anche per gli sms. Mi viene in mente quel tuo discorso sul vinile... chissà che non si possa applicare anche alla scrittura... a ogni contenuto il suo mezzo. ...Per curiosare... curioso che quando a Roma avevo Internet aperto tutto il giorno non mi sia mai venuto in mente di cercare il tuo sito, curioso che tu non me l'abbia mai segnalato: ora capisco meglio perché “musicalificio”. Oggi stesso cercherò “L'orecchio e la voce”.
Ti scrivo questa mail da casa di mio padre a Torino, così come la volta scorsa. Ero qui perché il giorno dopo ho preso un treno per Bologna per assistere alla presentazione di un documentario […] di cui ho curato il montaggio del suono adattando alcune delle mie migliori musiche: questo lavoro mi ha molto coinvolto emotivamente per diversi motivi. Appena l'avrò te ne manderò una copia; credo che potrebbe interessarti. Io ti penso molto e mi piacerebbe molto rivederti e parlare un po’ con te. Sono di nuovo fuggito da Roma, non ce la facevo proprio più, non ce l'ho fatta più: la seconda volta si fa più fatica, molta più fatica, troppa... Mi stavo dimenticando che abbiamo deciso di scrivere a penna. Tra l'altro nel giro di una settimana dovrei scendere a Roma per un documentario”.
Non mi hai scritto più. Anche quando, passando per Sciacca e vedendo una strada intitolata ad un musicista con il tuo stesso nome, ti mandai una cartolina, non ci fu risposta alcuna.
Mentre le notizie su Internet dicevano che continuavi a comporre musica, arrivarono nuove decisioni: chiudere L’ArcoAcrobata e, in successione, due traslochi, uno nella mia vita professionale e l’altro in quella personale. L’attesa feconda aveva tracciato nuove... traiettorie di ricerca e tra cose vecchie che andavano via e cose nuove che sbocciavano solleticate da quelle prime brezze di quando entra la primavera in mare, arrivò un pensiero solitario spuntato da non so dove: ‘Non verrà più’. Non avevo pensato mai niente del genere nei confronti di alcuna persona partecipe dell’avventura terapeutica “aperta” che conduco da anni, ma qualcosa di indefinito mi impediva di soffermarmi troppo su questo punto e sul fatto che ti pensavo in un modo diverso, come se tutto si fosse appiattito su un unico tempo e quel tempo era il passato.
Cominciarono in quel periodo i malesseri del corpo e una sensazione continua di stanchezza. ‘Saranno i due traslochi’, pensavo e d’altra parte occasioni per essere triste e affaticata in quel periodo non sono certamente mancate. Data la persistenza dei sintomi, a luglio decisi di fare degli accertamenti: fu in quei giorni che, pensando alla morte, mi resi conto che quel pensiero in quei mesi più e più volte si era affacciato, seppure in modo molto sottile, e non mi aveva abbandonato neppure in occasione di una dolce vacanza all’isola del Giglio. Ricordo ancora quando, in quell’infuocato pomeriggio di luglio, uscita da uno studio radiologico, telefonai immediatamente al mio omeopata che tirò con me un sospiro di sollievo. Fu quella vicinanza calda e riservata a farmi affiorare nitidamente un languore che persisteva da qualche tempo alla base del mio vivere: non era la prima volta che accadeva, ma in questo caso tutto era stato sommerso dal vortice delle trasformazioni in corso.
‘Sta succedendo qualcosa a qualcuno che mi è vicino’, pensai e mi sovvenne quel pensiero solitario e strano. Sbirciando su Internet le notizie erano sempre le stesse, eppure non ero tranquilla. ‘Troppa staticità’, pensavo, e così cominciai a fare una cosa che non avevo mai fatto prima di quel momento: non c’era giorno che non cercassi tue notizie... finché una mattina...
... Era fine luglio. Mi trovavo al Ser.T, per fortuna in una sede dove ho una stanza tutta per me, e cliccando sul solito sito, ho trovato questa frase: “Nuovo Premio indetto per commemorare…….”. ‘Commemorare? Che significa commemorare?’. La mente non riusciva più a dare il significato a quella parola, mentre il mio cuore, che aveva capito benissimo, era rimbalzato nel corpo fino a schiantarsi sul diaframma. Ero senza fiato e senza cuore mentre i miei occhi si facevano strada tra le lacrime alla ricerca affannosa di altre notizie. ‘Non è possibile! Non è possibile!’, ripetevo... poi... la conferma della tua morte avvenuta in realtà a fine febbraio, anche se solo da quel giorno la notizia aveva cominciato a viaggiare via Internet. Il dolore per quella notizia lo sentivo ancora di più proprio per quello sfasamento temporale. Mi sembrava un oltraggio.
In quello stesso giorno ho saputo della morte di Alice Miller.
Frammenti di arcobaleno
Quell’estate è trascorsa tra le fatiche del cuore. Strano a dirsi, ma così come tu sei morto in punta di piedi, con la delicatezza che ti ha sempre contraddistinto, allo stesso modo io sono stata dimenticata da coloro che si sono occupati di te. Nessuno mi aveva avvertito e nessuno continuava a dirmi alcunché per quella morte, come se io fossi estranea alla tua vita. Soltanto quando finalmente ho trovato un medico della Comunità che conoscevo, tra mille scuse, mi ha raccontato di te e della tua morte.
Da oltre un anno eri tornato a vivere con tuo padre, ma lui aveva avuto un ictus e tu lo avevi assistito, assistito a tua volta dalle stupefacenti polverine di sempre. Poi, per volere dei tuoi fratelli che ti accusavano un po’ di tutto, lui era stato ricoverato in un ospizio e tu eri rimasto da solo. Sarebbe stato troppo per chiunque. Ti hanno trovato nella casa di tuo padre una mattina, la stessa in cui avresti dovuto fare l’accoglienza per entrare una seconda volta in Comunità, come concordato con la tua psicoterapeuta di sempre. Mi tornavano le parole della tua e-mail: “La seconda volta si fa più fatica, molta più fatica, troppa...”. Avevi tentato l’ultimo giro di ruota e poi... la morte per arresto cardiaco.
Il mio cuore gonfio affondava nelle sabbie mobili della tristezza mentre cercavo nel silenzio il gorgoglio della vita. Fu così che nella quiete di un parco liberty in prossimità del mare la penna sembrò quasi reclamare la mia mano dolente... per scrivere... Scrivevo e ripercorrevo la nostra storia sorprendendomi di ricordare così tanto e in modo tanto dettagliato. Anche quando affrontavo altri scritti, non ti perdevo mai di vista.
Mi tornava in continuazione l’immagine della roulette, di quando viene fermata dal croupier ma la pallina continua a girare e saltare per l’accelerazione impressa. Pensavo che, nell’attimo in cui la ruota smette di girare, fosse già impresso il destino di quella pallina, il punto in cui si sarebbe fermata. E mi chiedevo quando la roulette avesse smesso di girare, quando si fosse depositato l’uovo del serpente. Forse era già accaduto prima che ci conoscessimo e il mio intervento era stato solo una manovra disperata, cosa che accade con taluni pazienti in cui il destino sembra scritto a caratteri cubitali e... indelebili: un destino scritto dalla malattia e da chi l’ha determinata. Eppure ero certa che quella psicosi non ti apparteneva, ma non sapevo bene quanto tu non appartenessi a quella storia di follia di cui le lamentazioni profuse erano un funesto segnale, come il film Requiem for a dream. Ma se così era, perché non ti avevo lasciato alla tua storia? Avevo forse peccato anche io di onnipotenza? No, quella fragilità colta al primo sguardo sembrava comunque reclamare altro e io ho risposto senza pensare al domani: è come far conoscere il mondo ad un condannato a morte.
Ma non siamo tutti dei condannati a morire? E quello che fa la differenza non è forse come arriviamo a quel momento?
Indubbiamente la scelta di tornare nella casa del padre fu scellerata e... senza ritorno, ma a pensarci bene restare a Roma o tornare nella città del padre era sempre stata “la” questione. Mi tornavano alla mente le parole del mio primo Professore di Psicoterapia Dinamica, per una curiosa coincidenza morto più o meno nello stesso periodo: “Quando si interviene bisogna essere pronti a tutto. Intervenire è l’unico modo che abbiamo per tentare di mettere in crisi un sistema. Non è detto che questo ci riesca sempre”.
Le immagini si affollavano come le fronde degli alberi di una foresta che lacerano la pelle e oscurano il sentiero. Arrancavo con il corpo alla ricerca del caldo e della luce e ogni tanto mi fermavo in qualche radura a riposarmi. A rifocillarmi ci pensava il mio omeopata che sembrava comprendere a fondo le fatiche fisiche del dolore psichico. E intanto mettevo insieme gli eventi.
Per una strana coincidenza tu morivi nello stesso periodo in cui cadevano altre due persone fondamentali per la mia vita e in tutti e tre i casi avevo saputo la notizia... per caso. Del decesso di Alice Miller ho già raccontato. Avevo saputo della morte del mio Professore nel corso di una lezione di Psichiatria Dinamica che tenevo in una Scuola di Psicoterapia. Quando ero una giovane specializzanda in Psichiatria, lui era stato il primo a farmi vedere nuove prospettive e ad alimentare la mia sete di conoscenza: per anni avevo ascoltato in silenzio le sue splendide lezioni del mercoledì mattina e quando poi era capitata l’occasione di aprire un centro di psicoterapia psicoanalitica all’Università, ero stata tra le prime ad accettare con entusiasmo. Si era appena formato un gruppo di lavoro affiatato, quando arrivò un drappello di medici provenienti dall’Analisi Collettiva che sembrava più interessato al potere universitario che alla ricerca. Lui non difese quello spazio di ricerca novello e io me ne andai, suggellando quella separazione con un viaggio solitario nell’isola di Creta: ‘Quale posto migliore per nascere?’, mi dicevo. Sciolti i legami con il passato mi rimaneva da affrontare il rapporto diretto con Massimo Fagioli. Lo feci e quella scelta trasformò la mia vita. Alice Miller e il bel Professore dagli occhi blu rimanevano nella mia storia.
Cosa univa queste morti? La casa del padre forse? Riflettevo... Alice Miller in fondo si era fermata alla stazione della testimonianza partecipe e il Professore negli ultimi anni aveva cominciato a criticare radicalmente, sebbene sempre dall’esterno, gli assiomi dell’Analisi Collettiva: eppure in entrambi il linguaggio tradiva l’ancoraggio alla casa del padre, mentre in Massimo Fagioli sentivo distintamente la ricerca di un nuovo linguaggio, disarticolato dai tempi della razionalità. Questo andavo pensando mentre riflettevo che avevo accettato la docenza di Psichiatria Dinamica pochi mesi dopo avere cominciato a seguirti in psicoterapia. Ero stata molto incerta sull’accettare o meno quell’incarico perché una Scuola di Psicoterapia Strategica non si confaceva alle mie scelte teoriche. Tuttavia mi sembrava una occasione per raccontare a giovani dottori in formazione, di un altro modo di intendere la cura della malattia mentale.
Le separazioni da Alice e dal bel Professore accadevano nel ’90. Venti anni dopo, anziché tornare a casa come Ulisse, mi sono trovata nella condizione di ribadire la scelta di continuare la mia avventura in mare aperto: aprire La Bottega, lasciare la docenza giusto in tempo per evitare l’incontro con vecchi morti viventi e... affrontare la morte fisica di coloro che hanno lottato per non cadere nella morte psichica. ‘Un giovane uomo in bicicletta che viene travolto da un pirata della strada mentre faticosamente guadagna l’ambulatorio della sua ricostruzione interna; un ragazzo sbruffoncello che sfida la vita nel momento in cui la vita è per la prima volta nelle sue mani; un ragazzone dagli occhi tristi che torna dopo otto anni nel luogo della speranza della cura giusto in tempo “per morire” a causa di un accidente vascolare’. È stata proprio la morte di questi guerrieri, un po’ audaci e un po’ maldestri, a permettermi di ripensare alla tua morte.
Quando ho avuto la tragica notizia, sapere che eri morto proprio come temevo, in solitudine, mi aveva colmato di un dolore particolare: non sopportavo l’idea che potessi essere morto disperato. Non è la stessa cosa se una persona muore nella speranza oppure no. Eppure, proprio scrivendo della nostra storia e raccogliendo le spine di tutte quelle morti, ho cominciato a cambiare la mia percezione.
Più scrivevo e più avevo la certezza di essere rimasta viva in te fino alla fine, a parlarti della speranza della ricerca artistica. Tutto questo è venuto dopo la domanda più amara: non ero intervenuta in qualche punto del percorso pur avendone avuto l’occasione? Ti avevo forse tradito in qualche modo? Ma più cercavo dentro di me e nella nostra storia e più trovavo la limpidezza di un dolore senza colpe.
A cosa avevo risposto? Sicuramente al tuo dissenso: allo scompigliarti i capelli come risposta ad una madre che te li straziava, o al modo di chiudere gli occhi a fessura ed esibire il sorrisetto sferzante della tua intelligenza nel tentativo di mettere a fuoco le mille questioni che ti confondevano, o alle lunghissime sciarpe avvolte più e più volte intorno al collo nel tentativo di avere un calore laddove i tuoi vestiti erano sempre troppo leggeri e poi... quel modo di appoggiarti la mano sulla fronte quando non riuscivi a collocare una questione, segnale evidente che la suddetta scardinava le tue convinzioni più radicate.
Ecco, io ho risposto a tutto questo che reclamava una speranza, una possibilità. C’era un cuore in attesa che si esprimeva attraverso quelle forme e io ho risposto senza pensare, senza pensare al futuro. Forse un futuro non ce l’avevamo. Ma nel presente ascoltavi attento e silenzioso nel mentre ti nutrivi di un confronto artistico che ti era stato sempre negato nel timore dei più che tu riuscissi ad arrivare pienamente alla tua arte e divenire Artista. “Gli artisti fanno sempre una brutta fine, si sa!”. Non è forse questo il monito che continuamente riporta l’Arte ad una dimensione di buon artigianato?
Ebbene sì, per tutto questo ero disposta a lasciarmi trafiggere il cuore e la ferita si è rimarginata con i tempi dovuti del dolore.
A dicembre, partendo in aereo verso una capitale del nord Europa, il corpo mi ha nuovamente parlato. Nel momento in cui l’aereo si staccava da terra ho avvertito che ti lasciavo andare via: io volavo in cielo con quell’aereo e tu restavi da qualche parte nella terra o in fondo al mare. In quel brandello di infinito, “ove per poco il cor non si spaura” ho sentito il dolore lancinante di quando viene tolto un frammento dalle carni. Un urlo silenzioso e le lacrime negli occhi quando... in quello stesso momento... l’uomo che mi era accanto, il musicista, mi ha preso delicatamente una mano per tenermi nella vita. Si era accorto, senza potermi vedere, di quel moto del cuore che mi riportava alla vita: era sempre stato lì, vigile e silenzioso, ad aspettare quel momento... e ho compreso una volta di più il senso della Storia.
“E mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e’l suon di lei...”. Da adolescente mi nutrivo di questa passione poetica, la stessa che mi faceva ritenere che sarei morta giovane - ‘Non supererò i trenta anni’ dicevo pensando che proprio non ce l’avrei fatta a sostenere i dolori del cuore. ‘Tutto mi tocca’, dicevo allora spaventata e dolente; ‘Tutto mi tocca’, dico ancora tra i palpiti del cuore che segnano il ritmo della vita. E anche se molti anni sono trascorsi, la mia adolescenza con le sue speranze e le sue passioni, rimane indelebile. Anzi. La speranza ora è diventata certezza: la certezza della ricerca e delle trasformazioni possibili. E questo diventa il luogo del ritorno... sempre; è il mare interno che raccoglie tutto ciò che viene a mancare per erigere quelle sculture di corallo che danno forma all’oblio.
È esigenza umana costruire un luogo in cui tornare. Tu questo luogo ce l’avevi e, anche se non hai fatto in tempo a tornare, questo fa la differenza del vivere e del morire. Ho sempre pensato che nel momento in cui morirò i fogli sparsi dell’ultimo scritto si spargeranno nell’aria come i pollini a primavera. Quello è il mio luogo.
A conferma di questa doppia risonanza dello sguardo e della voce, il corpo si muoveva portandosi dietro il paradosso del tentativo di nascondersi nella impossibilità di farlo. Quando ti vidi per la prima volta entrare da quella porta piccola e fatiscente, la tua figura per un attimo la colmò completamente nel suo essere eretta, per poi richiudersi in un battibaleno annunciando una depressione da tempo portata sulle spalle. Tutto di te parlava di una presenza appena vagheggiata... e rimembravo: “Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi da queste finestre scintillanti, e parlar con voi dalle finestre di questo albergo ove abitai fanciullo, e delle gioie mie vidi la fine”...
“E delle gioie mie vidi la fine”... Ecco, era come se ti portassi sempre dietro, nelle tasche dei pantaloni dove spesso affondavi le mani, questa frase che era il requiem su cui si infrangeva ogni possibile sogno; dove la tua capacità di stupirti doveva lasciare il via libera ad ogni... stupefacente polverina. Stupefacente e seduttiva... proprio come la tua iniziale richiesta, portata avanti con sguardo ammiccante, di essere seguito fuori dal Ser.T.
Avevo risposto infastidita: “Non ne vedo il motivo. Il mio modo di lavorare non cambia, senza contare che non è mia abitudine portare i pazienti dal pubblico al privato”.
Ti era già capitato di “sedurre” una psicoterapeuta ultra blasonata e non ti aveva fatto per niente bene.
“Ma fa male!”, fu la tua esclamazione un giorno guardandomi negli occhi mentre grandi lacrime scavavano le risapute strade su quelle guance divenute un po’ pienotte: loro scendevano e il busto si piegava in avanti mentre gli avambracci facevano perno sulla scrivania e le mani si intrecciavano a forza come per trattenere una reazione esplosiva. Mi avevi guardato come fanno talvolta gli adulti quando, con lo sguardo bambino, non sanno capacitarsi dei moti invisibili e violenti dell’assenza; forse per questo non ridevi quasi mai e le rare volte in cui accadeva le tue mani premevano l’una contro l’altra come ad arginare un moto da dentro che poteva pervadere la tua decisione di sempre. A quel dolore così straziante e conosciuto rispondevo con il silenzio, per risparmiarti le parole “utili” e vuote della consolazione che da sempre ti motivavano ad ogni tipo di delega.
A dire il vero la nostra storia, che era sotto la spada di Damocle di un tempo stabilito da altri (nello specifico la Casa di Produzione che pagava la tua permanenza a Roma), è stata costellata proprio di quelle cose che tu tanto temevi: i colpi di testa e... le risate. Come quando, ritornando a visita dopo il nostro primo incontro, mi avevi detto che ti eri sentito talmente bene da avere ritrovato la voglia di fare l’amore con la tua ragazza. Oppure quando, in preda ad un blocco creativo, non riuscendo a trovare la strada per comporre quella musica da film che ti aveva portato a Roma, avevi seguito il mio suggerimento.
“Perché non chiude tutto e se ne va qualche giorno al mare con la sua ragazza? La creatività mica può timbrare il cartellino!”.
Così ti avevo detto, e tu, dopo aver vomitato - scuotendo ripetutamente la testa - che la mia proposta era una follia e che sembrava proprio non mi rendessi conto della mole dei tuoi impegni, avevi accettato, mi avevi seguito “senza una ragione, come un ragazzo segue un aquilone”. Appena sbarcato a Ventotene (per una strana coincidenza il luogo da me scelto anni prima per sposarmi), avevi buttato quegli anfibi che serravano i tuoi piedi e i tuoi pensieri; quel gesto facile, accompagnato da un sorriso lieve, ti aveva fatto ritrovare la strada della composizione musicale. Da allora non ti ho più visto con gli anfibi.
Quell’evento aveva aperto uno squarcio e, anche se continuavi a non guardarmi durante le sedute se non di passaggio da una posizione all’altra del corpo - devo dire che ti muovevi molto! -, era chiara la vicinanza del nostro sentire come pure la lontananza dei nostri punti di vista soprattutto rispetto alla creatività e alla musica.
“Quando la smetterà di utilizzare la musica per consolarsi e consolare?”, ti chiedevo provocatoriamente. Quando poi me la ridevo per certe tue rigidità mi guardavi di traverso e una volta, prendendo il coraggio a quattro mani, arrivasti a dire: “Mi dico spesso che cazzo ha da ridere?!... Ma poi... è così disarmante la sua risata!”.
Il mio ridere irriverente ti rasserenava nonostante le sempre tantissime questioni materiali che ti attanagliavano: nessuno prima di allora ti aveva riso in faccia mentre esponevi minuziosamente le tue lamentazioni per le fatiche inenarrabili che dovevi sostenere. La giovane psicoterapeuta con cui avevi lavorato fino al momento della partenza ti aveva abituato in altro modo eppure... un giorno, a proposito del rapporto con le donne, avevi osato una affermazione curiosa.
“Si possono amare due donne contemporaneamente. È la prima volta che penso questo”.
La cura poteva iniziare a trovare una pacifica convivenza dentro di te. A onor del vero c’era stata una “rivista galeotta”, con un articolo sulle dipendenze patologiche di cui ero coautrice: ti era piaciuta talmente tanto da comprare le copie residue da Feltrinelli per spedirne una alla tua terapeuta e l’altra alla Responsabile di Comunità (colei che ti aveva seguito inizialmente prima di ripudiarla a causa della sua presenza altalenante). Con la tua giovane terapeuta ti eri trovato bene anche perché l’avevi un po’ allevata.
“Con me si è fatta un nome. Ero un caso molto difficile”.
Questa frase uscì alla chetichella tra le maglie di un sorrisetto beffardo mentre guardavi me che, pur avendo un’aria da giovinetta, non ero esattamente di primo pelo: con me potevi mettere insieme l’immagine di ragazza da condurre con quella della donna da cui lasciarsi condurre.
Ci capitava di fare lunghe discussioni sui film, tu per mestiere e io per passione: essendo entrambi estimatori della settima arte, essa divenne il nostro terreno di comunicazione privilegiato. A dire il vero eri sempre “un po’ incazzato” quando mi permettevo di fare degli apprezzamenti che esulavano dal tuo campo di pensabilità, ed effettivamente un po’ mi divertivo a punzecchiarti per sgonfiare la tua onnipotenza. Tu borbottavi ma lasciavi fare: un senso di profonda fiducia e... di qualcosa d’altro... si fece strada dopo neppure sei mesi.
“Ho fatto un sogno. Ero in strada, forse inizialmente con la mia ragazza. Era una strada di città. Mi avvicino alla vetrina di un negozio per guardare qualcosa quando improvvisamente vedo riflessa sulla vetrina la mia immagine e quella di una ragazza che so essere mia sorella...”.
Poi, guardandomi dritto negli occhi: “Ma io non ce l’ho una sorella!”.
“Forse il suo inconscio l’ha trovata una sorella”, dico.
E tu, con la tua guizzante intelligenza: “Ah, sarebbe lei la sorella?”, con il tono spavaldo di chi è abituato a combattere la timidezza.
“Credo proprio di si”.
Non c’era altro da dire... quando nasce la fiducia non c’è mai molto da dire. Tu sorridevi quieto sorseggiando il silenzio e io ero con te mentre sfilavano le immagini risvegliate dal tuo racconto.
La prima pausa estiva fu condita con il veleno delle tue lamentazioni estenuanti mescolate a richieste di prescrizioni farmacologiche: le pretese malate del tuo usurpatore interno mascheravano, nei giorni dell’abbandono, i vissuti insostenibili della impotenza. Quell’estate usciva un film di cui avevi curato la musica: bello e triste il film, bella e triste anche la tua musica, forse un po’ di mestiere.
Il nostro rapporto psicoterapeutico “con contratto a termine”, così amavo chiamarlo, continuava a farsi strada nel tempo intermedio dell’attesa feconda: il termine era legato a quando tu avresti lasciato Roma per tornare nella tua città dopo la conclusione di questo film, opera prima di una giovane regista con cui avevi fatto l’Accademia. Consideravo il nostro lavoro più un accompagnamento terapeutico che una vera e propria psicoterapia del profondo, perché non vi era stata una tua richiesta o scelta in grado di togliere quel rapporto dalla casualità di un incontro: il mio compito era di traghettarti senza scosse in quel periodo romano che doveva essere breve come quegli amori estivi che finiscono con il ritorno a casa. Ero stata io a proporti il mio aiuto, contravvenendo ad ogni mia regola, perché dietro la tua supponenza decisamente antipatica avevo colto la fragilità e la sensibilità del tuo essere, qualità che ti esponevano ad un rischio di cui neppure tu eri consapevole, tronfio come eri del percorso comunitario fatto e delle tue arti manipolatorie.
C’era dell’altro: avevo visto in te una parte di me, la stessa che tu avevi colto col “sogno della sorella”, e non potevo proprio disinteressarmene. Sta di fatto che il nostro lavoro proseguì dopo l’estate perché questo film non riusciva a trovare la via della fine.
Ogni tanto col fare indagatore dello sguardo dicevi di volere rimanere a Roma, ma la mia risposta - “Vedremo!” - ti lasciava in mezzo alle tue menzogne. In realtà stavi meglio perché più naturalmente trovavi la strada del sorriso... e della musica.
Sia chiaro, non erano tutte rose e fiori! Come quella volta, ad esempio che venisti in seduta entusiasta per avere visto un film (Big Fish) - per me orrido! - imperniato sul rapporto padre-figlio. In particolare avevi trovato commovente la scena finale in cui il figlio esce dall’acqua portando il corpo esanime del padre tuffatosi per l’ennesima volta alla ricerca del Grande Pesce: che fosse grande sogno o grande illusione sembrava avere poca importanza per te. Trattare la speranza e l’illusione allo stesso modo è cosa molto pericolosa, di quelle che fanno ammalare psichicamente; per questo non potevo tacere l’invisibile veleno di quella scena violenta dove vi era l’invito silente alla accettazione dell’assenza, ovvero l’invito all’oltraggioso buonismo che, giustificando ogni cosa, produce identificazioni senza identità. Te lo dissi e in quel preciso istante ti furono chiari i limiti della tua comprensione: oh quale terribile colpo inferto alla tua intelligenza supponente!
La volta successiva arrivò una telefonata in cui mi comunicavi che eri stato invitato ad un festival di musica da film; quel filo trasportò la mia risata sorniona mentre dicevo: “Va bene, ci vediamo la prossima settimana”. Al tuo ritorno mi raccontasti della bellissima esperienza vissuta: finalmente avevi potuto suonare il basso insieme con altri musicisti direttamente sulle immagini “senza avere in mezzo questi cazzo di registi”. Proprio non riuscii a trattenere le risate.
“Che si ride?”, fu la tua domanda curiosa e divertita, come a dire ‘Voglio proprio vedere dove va a parare!’.
“Beh, evidentemente ha sentito la mia interpretazione del film come un’opera di regia troppo forte, se non addirittura invadente, per la sua identità... Beh, accetto la critica, ma ribadisco l‘interpretazione”.
I temi dell’odio e dell’invidia non erano al momento praticabili; d’altra parte non avevo tenuto per me l’interpretazione più profonda del “sogno della sorella”, quella collegata alla diversità che innesca il desiderio? L’immagine riflessa sulla vetrina non reclamava forse a gran voce Quell’oscuro oggetto del desiderio, con le due donne in una, la bionda e la mora, una da amare per le somiglianze e l’altra da desiderare per le differenze? Tu volevi l’amore, per di più consolatorio - ‘E d’altra parte esiste un amore che non lo sia?’ - e io ti rispondevo picche... Come quella volta in cui avevi cominciato la seduta sfoggiando i tuoi più terribili lai e ti dissi scocciata che non avevo alcuna intenzione di ascoltarti.
“Lei deve ascoltarmi”, insistendo sul “deve”.
“Io non le devo niente. Io voglio, e sottolineo voglio, ascoltarla, ma non sono qui per subire passivamente la sua violenza”, risposi con veemenza. Mi guardavi trasecolato e senza parole mentre, schienato sulla poltrona, delineavo i confini della cura da quelli della assistenza consolatoria.
Arrivò il periodo di Natale con i relativi compiti per le vacanze... ovviamente per me! Poco tempo prima ti avevo prescritto di vedere (e ascoltare) Il favoloso mondo di Amelie e ora eri tu a suggerirmi Requiem for a dream, un film spietato sulla tossicodipendenza con cui sembravi voler ribadire che non c’erano vie di uscita dalla malattia psichica. Mi chiedevo se questo film fosse la risposta rabbiosa alla pausa invernale - una sorta di intimidazione davanti ad una separazione che parlava di una mia libertà - oppure una comunicazione spietata e dolorosa che esprimeva un senso di appartenenza, perfino di possessione, a quella storia di similitudini violente. Probabilmente erano entrambe le cose, me lo dovevo ricordare.
Durante quelle vacanze avevi conosciuto il padre della tua ragazza e ti eri reso conto di come (il quanto già lo sapevi) la vostra relazione fosse malata: lei, che ti aveva seguito a Roma in quella avventura cinematografica, andava a rinforzare la tua onnipotenza a causa della sua giovane età e della dipendenza affettiva. In fondo avevi cresciuto anche lei, proprio come avevi fatto con la tua terapeuta!
Fu allora che arrivò la scelta di mollare il peso della “azione terapeutica” a qualcun altro che non fossi tu: anche lei aveva l’esigenza di una psicoterapia per combattere la sua passività che ti collocava costantemente in una posizione di “doverosa responsabilità” nei suoi confronti - esattamente quello che ti appesantiva la vita - anche se tu coattivamente la ricercavi per un silenzio orribile di cui ti eri fatto carico fin da quando tuo fratello più piccolo, ancora bambino, aveva tentato il suicidio. Non se ne era più parlato all’interno della famiglia - non se ne doveva più parlare! - e tutto aveva ripreso a funzionare come se nulla fosse: lui era diventato architetto... tu musicista... ed era sempre lui che ti veniva a riprendere dagli effetti delle tue intemperanze... stupefacenti, in silenzio... Tornava sempre quel maledetto silenzio.
Galoppammo con leggerezza verso una nuova estate che ti vide protagonista, in qualità di compositore, di un film duro dove due ragazzi delle periferie annegano nelle loro esistenze senza vita. Bella e sentita la tua musica, capace di portare verso la tridimensionalità degli affetti: eri stato meno di mestiere, forse perché il tema della madre era lacerazione viva senza ancora la possibilità della parola; possibilità che venne nei mesi successivi quando cominciammo ad affrontare quel dolore scoperto che bruciava la pelle e gli occhi. La tua era una madre arrabbiata, spigolosa, che si portava dietro la tristezza di una Sicilia lasciata dietro le spalle insieme con le sue storie di sale e di sangue.
‘Due giovani siciliani, un uomo e una donna, decidono di trasferirsi nel Nord portando con loro un sogno o una fuga, forse entrambe le cose. La periferia di un piccolo centro li divide sempre più profondamente e la donna perde il sorriso... per sempre. Depressioni e malesseri del corpo cominciano a parlare di un tradimento perpetrato: lui si allontana verso altre donne, lei rimane chiusa in un sogno arrugginito che si fa delirio’.
Andavi scoprendo la donna dietro la madre e se quest’ultima non poteva essere in alcun modo perdonabile, la donna sì: aveva patito per una perdita di cui il marito - tuo padre - forse non si era neppure accorto, andando a sancire la lacerazione sanguinante che alimentava la rabbia... e tu eri rimasto intrappolato tra loro a recitare la messa da requiem per un sogno... solo che questo sogno non era tuo... e neppure la messa da requiem.
Tua era la sensibilità, la gentilezza, la timidezza, la fervida intelligenza e anche la algida e sfuggevole arroganza. Fatto è che, come mi è capitato spesso di constatare nel mio lavoro, mentre tu miglioravi tua madre si ammalava sempre di più nel corpo: una stranissima fibrosi polmonare tagliava lentamente il suo respiro. La stranezza era legata al fatto che in genere questo tipo di patologia rappresenta l’esito di malattie professionali legate alla esposizione continua a sostanze inalate che si depositano nei polmoni. Chissà quali tossicità dell’animo avevano trovato la via del corpo determinando quella sclerosi del polmone che, di pari passo con l’irrigidimento nelle sue posizioni, aveva portato a escludere l’amore una volta per tutte dalla sua vita! Tutti gli uomini dovevano essere esclusi, perfino i figli. Tu stavi meglio e lei peggiorava... bisognava pure che qualcuno tenesse il testimone dell’assistenzialismo! Una volta ti dissi che avevi trovato un modo davvero inusuale di fare l’infermiere.
“Costringe gli altri ad occuparsi di lei”.
Ti tirasti indietro con il busto sollevando le braccia conserte così com’erano, come fossero un blocco unico, dalla scrivania.
“Qualcuno potrebbe pensare che è pazzesco ciò che dice!”, fu la tua esclamazione.
“Qualcuno... ma non lei”, risposi.
Sorridesti teneramente guardando di lato e un po’ in basso mentre dicevi che, anche se era pazzesco, da qualche parte sentivi del vero in quel che dicevo. Tempo dopo tua madre ti scrisse una lunga e bella lettera incrinando l’immagine univoca di quella donna ostile che da bambino ti pettinava con forza i capelli strappandoli e facendoti male ogni volta.
La riappacificazione interiore con tua madre, priva di scusanti nei confronti delle sue evidenti manchevolezze, ci diede il “la” per il fatale salto: era arrivato il momento dello svezzamento dalla sostanza sostitutiva assunta al Ser.T. Quello diventava il momento della verità oltre le parole. Conoscevo bene la tua convinzione di non riuscire a stare lontano dalle sostanze senza una stampella farmacologica, degradando di conseguenza ogni intervento psicologico ad un sostegno consolatorio ad oltranza per quella ideologia dell’incurabilità che era penetrata nelle carni. Ti proposi di ritualizzare questo passaggio con un ricovero in clinica e decidemmo per le festività natalizie che ti vedevano più tranquillo dagli impegni professionali e vedevano me un po’ più libera e disponibile per le visite nella struttura.
I primi giorni furono difficili anche se non rinunciavi ad una certa teatralità giocata soprattutto nei confronti dei giovani medici. Sorridevo nel vedere come ti trastullavi nel ruolo di malato: ti trovavo sempre con una elegante veste da camera indossata sopra un pigiama ugualmente elegante e ai piedi delle pantofole ricercate che erano in realtà dei sandali comprati anni prima in occasione di un viaggio in Marocco di cui non mi hai mai raccontato. Ti eri portato della buona musica e, fra i libri, il primo numero de L’ArcoAcrobata che ti avevo regalato per l’occasione: il primo giorno in cui venni a trovarti in clinica - era di pomeriggio - ti trovai sdraiato sul letto, frastornato e assonnato dagli psicofarmaci, con la rivista aperta a metà sopra il tuo corpo, come fosse una coperta.
Grande intimità costruita così semplicemente in quei giorni! Era la prima volta che facevi un’astinenza in ambiente protetto e non da solo tra i tremiti di freddo, i crampi e i vomiti violenti. In genere quando venivo a trovarti rimanevo un paio d’ore e, se te la sentivi, ti portavo fuori dal reparto chiuso di psichiatria per regalarti una ventata di sanità. Facevamo passeggiate nel parco anche se brevi perché ti stancavi facilmente; per lo più preferivi stare seduto ai tavolini esterni del bar, esposto alle fredde temperature invernali - proprio tu che eri così freddoloso! - a sorseggiare bevande calde e a fumare qualche sigaretta di troppo mentre con gli occhi a fessura sicuramente non ti potevano sfuggire le mie mani che si facevano livide per il freddo. Ho sempre pensato che volessi mettere alla prova la mia resistenza... anche quella fisica. E comunque eri sempre tu a chiedere di rientrare.
Era piacevole parlare con te perché conoscevi più di quanto fossi disposto a mostrare. In realtà sentivo il tuo piacere sottile nello scardinare gli stereotipi che le persone hanno sui tossicodipendenti. Potevi in alcuni momenti vestirti anche da reietto, ma questo nulla toglieva alla grande cultura, e non solo musicale, che possedevi. Anche quello fu un banco di prova... ovviamente per me.
Un giorno al bar interno della Clinica Universitaria, andando a finire non so come sul tema di una mia ricerca sul rapporto tra suono e cura, nominai i tarantolati: fu allora che ti avvicinasti fin quasi a sovrastarmi fisicamente. Non arretrai davanti alla potenza di quel fuoco e seppi così che anni prima eri stato chiamato come fonico a girare un film nel Salento su questo argomento; eri partito per quella avventura con la tua ragazza d’allora, ma avevate entrambi ceduto all’eroina, come se la potenza di quella ricerca vi avesse messo in discussione dal profondo. Avevate letteralmente frantumato quell’amore, probabilmente per sgretolare quella possibilità e Roma era stato lo scenario ultimo di quel fallimento.
“Ma chissà se era amore... lei era anoressica. Con le donne ci sono sempre tanti casini!”.
Poi, guardando in lontananza: “Ho lasciato qualcosa di importante lì”.
E ancora... “Non ce l’ho fatta!”.
Ascoltai con indicibile pena quel grumo d’angoscia e sentivo con tristezza le mie parole rimbalzare sorde mentre ti dicevo che era possibile andare a riprendersi quel qualcosa.
Ti vidi arretrare impercettibilmente e poi accadde davvero mentre dicevi distrattamente: “Forse... è possibile!”.
Il ricovero si prolungò per un mese e io venni a trovarti regolarmente.
Il panda e le sue brame
Le prime settimane “da lucido”, difficili di per sé, furono devastate da complicazioni lavorative che ti facevano vacillare dall’ansia all’angoscia più pura: nessun rapporto (compreso il nostro) sembrava in grado di contenere quello stato, nessuno psicofarmaco si rivelava efficace (figurarsi l’omeopatia!), nessun consiglio sul lavoro era adeguato. Si materializzava nel rapporto l’immagine del panda che si era già affacciata impunemente tra le maglie dei tuoi movimenti: un animale in via di estinzione che, con la sua tenera faccia da pagliaccio, divora con tenace lentezza intere foreste di bambù... fino a sterminarle!
E mentre la voracità del panda imperversava, il mancato riconoscimento di te ad opera di te stesso ti faceva toccare la depressione più nera, là dove lo spazio del nostro lavoro veniva continuamente ingoiato (proprio come il bambù!) dalle questioni materiali. Ti agitavi a più non posso in quel mare in tempesta - assediato come eri dalle follie condivise e dalle invidie individuali - dove per te era molto difficile discriminare quanto le richieste della Produzione fossero lecite oppure no, e per me sapere quanti e quali rischi corressi veramente. Ero preoccupata; sapevo che tu esasperavi la situazione, ma ero preoccupata lo stesso.
‘Seppure il panda è a rischio di estinzione, anche le foreste di bambù hanno i loro diritti!?’, mi dicevo.
Fu allora che feci una cosa che un “bravo” terapeuta proprio non deve fare: dopo avere consultato una persona a me molto cara (anch’egli musicista) il quale mi diede il nominativo di un compositore che avresti potuto contattare a suo nome, ti telefonai. La tua voce era un misto di stupore e gratitudine mentre ti dicevo della possibilità di confrontarti con un compositore noto nel settore ma estraneo alle dinamiche folli che ti circondavano dove, tanto per cambiare, tutti finivano per nascondersi dietro la tua tossicodipendenza; precisai di non conoscere la persona in questione, quindi potevi sentirti libero di fare qualsiasi cosa. L’incontro andò bene perché quella persona sconosciuta ti aveva dato quel riconoscimento che quelli che ti conoscevano continuavano a negarti.
Accadde così che i confini della realtà che stavi pericolosamente varcando fossero ritrovati anche se certamente quel mio movimento, lo sapevo fin troppo bene, esponeva il nostro rapporto alle rappresaglie della tua malattia: potevi interpretarlo come un cedimento alle tue manipolazioni di sempre, o peggio ancora come una mia manovra di seduzione. Questo rischio lo conoscevo... ed ero pronta ad affrontarlo.
E infatti... le tue lamentazioni si fecero più aspre e le tue assenze cominciarono a mietere il sapore della morte mentre emergeva dallo sfondo l’entità della tua depressione, quella che avevo sentito fin dal primo momento. È vero, il contesto lavorativo si faceva più difficile e avevi la sensazione di avere dei consiglieri più interessati ad affondarti che a sostenerti, ma ti legavi strumentalmente a quanto ti andava accadendo materialmente per ribadire la tua impossibilità. Mi strattonavi con gli aspetti materiali che affondavano i desideri più profondi, ma sapevo di dover tenere fermo il timone sulle questioni “interne”.
Un pomeriggio, arrivata in ambulatorio, mi dissero che una ragazza mi voleva parlare. Non la potevo ricevere in quel momento, ma l’infermiera ritornò dopo qualche minuto con una lettera di quella sconosciuta che misi di fretta nell’agenda riservandomi di leggerla dopo, tra una seduta e l’altra. Quel pomeriggio me lo ricordo bene! Parlavi senza dire nulla ed eri tornato a fuggire lo sguardo: questa volta però eri tu a non volere che io incontrassi il tuo sguardo di pietra. Sentivo la coltre di neve pesare sul cuore fino a fargli perdere il ritmo per poi recuperarlo con un balzo alla gola: conosco bene quei moti del cuore, di quando l’altro porta una negazione nella relazione! Percepivo il tuo senso di vergogna e una pena lancinante in quel tuo fuggire nel silenzio omertoso dell’assenza come dallo sguardo.
Continuavo a guardarti in un silenzio triste finché: “Ma che cosa ha da guardarmi?”.
E io: “La guardo... semplicemente... perché sento quanto è esasperato... e disperato”.
Avevi capito che avevo capito, ma il dire (come il non dire) era una tua scelta che, condivisibile o no, io accettavo. Mentre ti guardavo andare via alla chetichella come un ladro che ha rubato un’opera d’arte ad un Museo e non sa cosa farsene, ricordavo le frantumaglie disperate di quell’incontro: “Questo film non uscirà e non mi pagheranno... non riuscirò a completare la colonna sonora... forse ha ragione la Responsabile di Comunità quando dice che la musica mi ucciderà”.
Quando finalmente si chiuse la porta dietro di te, rimasi sola in quella stanza fatiscente che, colma del tuo dolore, mi sembrò ancora più desolata. Lo so, è una mia precisa scelta accettare quello che un paziente vuole dirmi - ‘Le dinamiche si devono svolgere’ -, ma quanto era pesante in quel momento quella scelta! Mentre camminavo avanti e indietro per superare l’inedia dell’assenza, mi ritornò alla mente la lettera della sconosciuta. Nel leggerla capii che a scriverla era stata la tua ragazza: mi comunicava che avevi ricominciato a ‘farti’ e si sentiva disperata per questo. Nella seduta successiva ti raccontai l’accaduto e ti consegnai due lettere: quella della tua ragazza e una mia per lei. Quest’ultima te la lessi.
“Comprendo la sua preoccupazione, tuttavia è una libertà del suo ragazzo quella di raccontarsi come meglio crede, perché il dire o il non dire come stanno le cose ha a che fare con un livello di fiducia particolare, quello che può andare oltre la paura di deludere l’altro. Faccia la fidanzata e non la madre o la poliziotta! Ne parli con il suo terapeuta, così come il suo ragazzo avrà occasione, quando lo riterrà opportuno, di fare con me. Le auguro un buon lavoro... e, per favore, non mi cerchi più”.
Poi la tua domanda: “Lo aveva capito, vero?”.
“Si, sono rimasta molto dispiaciuta!”.
E tu, tirandoti indietro con il busto, sempre trascinandoti il monoblocco delle braccia conserte, con un tono vagamente trionfante: “Ecco... l’ho delusa... - scuotendo la testa col tono falsamente dimesso di chi ha l’asso nella manica - ... è arrabbiata perché l’ho delusa!”.
“Non ha capito proprio niente. Non sono delusa perché non ho aspettative nei suoi confronti... Non sarà una sua libertà, ma è certamente un suo diritto deludere chicchessia. Proprio non comprende che le aspettative degli altri, presunte o reali, sono una violenza?”.
“Non ha aspettative nei miei confronti?!... Ma... ma così... è disarmante!”, fu la tua incredula esclamazione.
Ti guardavo dritto negli occhi mentre continuavo con veemenza sotto il tuo sguardo fattosi interrogativo.
“Eppure è così, se ne faccia una ragione. Non ho aspettative, ho solo pretese... - sorridendo - ...e quello che pretendo in un rapporto è la presenza: poteva dirmi semplicemente come stavano le cose, ma questo è evidentemente molto difficile per lei perché ci tiene troppo a fare il “bravo” paziente”.
Mi guardavi sorpreso mentre sembravi contento e incazzato allo stesso tempo: contento perché - ne convenivi - non eri tenuto a comportarti bene, incazzato... per lo stesso motivo! Quel giorno vidi una leggerezza nuova e una espressione dolce del volto che certamente non ti era usuale.
‘Mi farà vedere i sorci verdi’, pensai sorridendo.
Continuarono le turbolenze e lo scontro con i “cinematografari” divenne continuo. Eppure... continuavi a scrivere la colonna sonora e avevi preso un nuovo appartamentino, questa volta pagato da te e non dalla Casa di Produzione. Questa nuova casa non solo era il tuo laboratorio di lavoro, ma stava diventando uno spazio dove accoglievi alcuni musicisti per suonare tutti insieme. Perfino la tua ragazza, che da qualche tempo aveva cominciato a prendere lezioni di violoncello, vi partecipava con grande piacere. Certo, con lei c’erano sempre questioni importanti da affrontare che esulavano dalla tua tossicodipendenza: sembrava invidiosa della tua creatività e faceva di tutto per mettersi in competizione con te, probabilmente nel tentativo di svincolarsi dai propri livelli di dipendenza affettiva. In ogni modo anche lei partecipava attivamente a quel tormentone di non lasciarti comporre in tranquillità.
Per la prima volta stavi pensando seriamente alla possibilità di rimanere a Roma per portare avanti la psicoterapia, ma l’attacco possente che sferravi al nostro lavoro era altrettanto feroce nel ribadire che non vi erano modi alternativi per affrontare le questioni del mondo. Fu così che quella tiepida primavera si fece rovente sotto i tuoi colpi inferti nel vano tentativo di forzare le regole del setting. Ti facevi e ti assentavi - avvertendomi!!? - quando una mattina arrivò una tua telefonata.
“La mia ragazza mi sta lasciando. La sto perdendo! Proprio non ce la faccio a venire in terapia con la mia vita che va in pezzi”. Eri in lacrime.
Con quello sarebbe stato il terzo incontro mancato e sapevi bene che saltare quell’incontro avrebbe comportato l’interruzione “d’ufficio” del nostro lavoro psicoterapeutico: era una delle regole che ti avevo illustrato all’inizio.
“Se salta l’appuntamento di oggi perderà anche me”.
Arrivò un lamento inusitato: “Ma non ce la faccio! Proprio non capisce?”.
“Provi”, fu la mia laconica risposta.
Riuscisti a venire quel giorno e anche nelle settimane successive: “Ho sentito la sua determinazione”.
La mia determinazione era stata... determinante per il superamento della crisi nera. Ti proposi dieci colloqui per rinegoziare il nostro lavoro e aiutarti a superare quel momento difficile.
“Glielo devo... perché si sta impegnando molto”, ti dissi.
Qualsiasi altra decisione sul proseguio del lavoro si rinviava a fine estate, dopo la conclusione del film che ormai era imminente.
In quel periodo ci fu anche un tuo breve viaggio di lavoro nei Balcani per fare le prove di orchestrazione di alcune parti della colonna sonora. Fu per te una esperienza straordinaria perché lavorare con artisti del tuo livello ti faceva ritrovare quelle capacità e un desiderio di fare che in Italia, negli ambienti che frequentavi, venivano sistematicamente risucchiati. Avevi conosciuto anche una giovane cantante con una voce straordinaria con cui avevi trovato una immediata sintonia.
“Avrei potuto fare meglio, se solo avessi ultimato a suo tempo gli studi di orchestrazione!”, avevi detto con disappunto.
“Beh, è sempre in tempo a ultimare quegli studi e a diventare sempre più indipendente nella sua espressione musicale”.
“È vero! Lo posso fare... magari da settembre”, sollevato.
La porta d’Oriente
Ti dedicasti al lavoro, sia del film che al nostro, con grande impegno. Nonostante la paura della solitudine ti avesse sempre atterrito, non eri poi così smarrito davanti alla scelta della tua ragazza. Anzi. Per la prima volta nutrivi nei suoi confronti una forma di rispetto perché sapevi quanto per lei fosse difficile quella scelta. In realtà in quella benefica solitudine cominciavi a mettere dei confini e stavi perfino completando la colonna sonora nonostante avessi capito che quel film non sarebbe mai uscito: eri incappato in una di quelle produzioni che cominciano i film solo per avere i finanziamenti dallo Stato e a “quei banditi”, come li chiamavi, non interessava altro. Quel lavoro era comunque una occasione per cimentarsi e per capire il rapporto con la tua creatività continuamente prigioniera di quegli aspetti materiali che, seppur reali (i banditi non pagavano, tuo padre non ti aiutava, la tua ragazza da lontano continuava a prendersela con te), erano solo una copertura per non affrontare a viso aperto il tuo valore.
Un giorno, verso la fine di quella complicata primavera, come ciliegina sulla torta arrivò una telefonata della Responsabile di Comunità - la Grande Madre, come amavo chiamarla tra me e me - la quale mi chiese la disponibilità per aiutare un regista alle prese con una sceneggiatura nascente, guarda caso, su una ragazza anoressica. Tu avevi lavorato con lui anni prima, ma poi, ufficialmente a causa della tua tossicodipendenza, eri stato estromesso dal giro sebbene tutti sapessero quanto fossi bravo. Quando ti comunicai la cosa per decidere insieme il da farsi, la sorpresa si mescolò all’incazzatura: non era la prima volta che quella donna si comportava in modo “curioso” e poi... eri geloso, geloso di me! Ti chiesi di lasciare svolgere la dinamica e di provare a fidarti. Da parte mia non avevo alcuna mira personale, ma qui era in gioco la possibilità per te di comprendere cosa si agita di fronte ad una persona creativa di cui si ha il sentore dell’artista. La tua curiosità prevalse e quando incontrai quel regista gli dissi che il romanzo su cui lui intendeva costruire la sceneggiatura mistificava il discorso sulla cura della malattia mentale. “Per quello che mi riguarda il film può iniziare solo dove il libro, peraltro brutto, finisce. È l’unico modo per dare una autentica possibilità alla giovane protagonista”. Fece finta di non capire o forse non capì davvero, per questo gli regalai un numero de L'ArcoAcrobata. Avremmo dovuto incontrarci una settimana dopo, ma mi fece recapitare una lettera dove, tra mille ringraziamenti, annullava - non uso il termine a caso - l’appuntamento perché, avendo una personalità troppo spiccata, avrei interferito con il percorso, professionale e non, che stava facendo (anche lui era in psicoterapia).
Quando ne parlammo riuscisti a comprendere bene le dinamiche invidiose di quel regista e anche quelle di controllo della Grande Madre: d’altra parte non era lei che scuotendo l’aria con le lunghe maniche nere, come una novella Crudelia Demon, ti aveva detto che avresti dovuto lasciare la musica altrimenti ti avrebbe portato alla morte? E pensare che in occasione del nostro primo incontro ti avevo detto esattamente il contrario: dovevi salvare la musica per guarire.
‘È l’unico modo in cui riesce a tenere la speranza dell’amore per la madre... dell’amore per la vita’, avevo pensato.
C’era un tuo valore che si rendeva finalmente evidente ai tuoi occhi e... tu eri per la prima volta in grado di proteggerlo. Forse per questo la nostra coppia terapeutica doveva essere tenuta a bada! Poteva scuotere fin dalle fondamenta certi presupposti teorici collegati più all’adattamento che alla cura... e la vera arte, come forse il regista aveva subodorato, nulla ha a che fare con l’adattamento.
Nel mese di giugno arrivò la tua colonna sonora.
“Voglio sapere cosa ne pensa. Ci tengo molto al suo giudizio...”. Eri calmo e sereno, evidentemente soddisfatto del tuo lavoro.
Quel giorno, tornata a casa, mi precipitai ad ascoltare quel CD... e fui travolta. In quella musica era scomparsa ogni forma di mestiere e per di più vi era qualcosa di mai sentito prima in altri tuoi pezzi: la durezza del rock si mescolava con un sound etnico di grande respiro che conferiva alla musica una sessualità e una gioiosità nuova, oltre la potenza e la tenerezza di sempre. Quella era la colonna sonora del nostro rapporto ed era bellissima.
“È talmente viva e bella che quando la ascolto mi viene un nome... Porta d’Oriente”.
‘Se mi viene di darle il nome, vuol dire che è una nascita’, pensavo mentre tu esclamavi:“Bello! Posso utilizzarlo?”.
Eri contento, lo sguardo era tenero come la tua voce. Ne avevi mandato una copia anche a quel regista e lui era rimasto tramortito: “Da dove è venuta fuori questa musica? Non sembra neppure la tua”, aveva detto astioso. E invece era proprio tua. Ce la ridemmo di gusto di fronte alle reazioni più disparate per quella tua realizzazione. A tua madre quella musica era piaciuta moltissimo; la giovane regista del film, “la matta” come amavi chiamarla, era addirittura entusiasta. La tua battaglia l’avevi vinta: la tua tossicodipendenza non poteva essere il parafulmine delle assenze degli altri. La capacità di arrivare al tuo valore aveva svelato la delinquenza e l’invidia dei più.
È in questo momento di grazia che si colloca un episodio davvero carino che ti vide protagonista.
La tua ragazza, da quando ti aveva lasciato, si era appoggiata in casa di un tuo amico e si era portata via la tua macchina come pegno per dei soldi che lei riteneva tu le dovessi restituire. Era evidentemente solo un pretesto e questa cosa ti dava un gran fastidio. Un giorno arrivasti in seduta con l’aria più sorniona del solito e...
“Ieri sera ero solo in casa ed ero incazzato perché proprio non riuscivo a capire il motivo per cui dovessi rinunciare alla mia macchina. Le questioni di denaro non c’entrano, perché da quando siamo a Roma ho sempre sostenuto io le spese di casa e le ho dato anche l’occasione di lavorare nel cinema e di guadagnare. Beh, ieri notte rimuginavo e camminavo avanti e indietro per la casa pensando che proprio non era giusto, quando, ad un certo punto, ho avuto l’impulso di prendere la moto e di andare sotto casa del mio ex-amico che la ospita. Ho cercato la mia, e sottolineo mia, macchina, l’ho trovata e con le seconde chiavi me la sono portata via. Poi tra mille palpitazioni sono tornato quatto quatto a riprendere la moto e ho guadagnato casa nel cuore della notte”.
“Meraviglioso!”, dissi ridendo.
“Lo sapevo che le sarebbe piaciuto!”, fu il tuo commento accompagnato da una sonora risata.
“Aspetti, non ho finito. Quando poi lei mi ha chiamato con la coda tra le gambe per dirmi che la macchina era stata rubata, non solo sono stato muto come un pesce, ma ho anche fatto finta di arrabbiarmi per la incuria evidente con cui aveva tenuto l’auto... Non avrò esagerato?”.
“Fantastico!”, fu il mio commento.
Qualche giorno dopo la invitasti a casa per sciogliere l’arcano, ma lei si arrabbiò moltissimo e se ne andò in preda al delirio, sotto i tuoi occhi che la guardavano con amore.
“Mi sono rivisto e avrei voluto fermarla... ma poi l’ho lasciata andare”.
Ti rassicurai perché era in buone mani sul piano psicoterapico e poi... forse lei doveva mettersi in una nuova posizione per potere comprendere ed accettare quel tuo movimento da fidanzato geloso. Quella “bella botta di sanità”, come la chiamai, fu l’occasione per te di rivisitare il nostro rapporto terapeutico e per me di rilanciare una nuova sfida. Ma andiamo con ordine...
Un caldo pomeriggio estivo, stringendoti le mani una contro l’altra, arrivò inattesa la dichiarazione.
“La devo proprio ringraziare”. Ti guardai in modo interrogativo e rimasi in silenzio in attesa. “Se non ci fosse stata lei sarei impazzito”.
Rimasi di sasso per due motivi: perché me lo dicevi e perché... era terribilmente vero. Risposi che il nostro lavoro aveva solo messo a fuoco le tue capacità: quella fu l’unica cosa che dissi anche se da tempo andavo pensando che la decisione della Comunità di mandarti a Roma in una situazione emotiva ancora così aperta era stata estremamente pericolosa. Nella tua storia Roma si collegava ad un fallimento affettivo e professionale e una ricaduta avrebbe potuto compromettere per sempre il tuo rapporto con la musica.
“Ho pensato anche che il suo è un bel lavoro. Ci vuole creatività”.
“Esattamente come il suo”, risposi.
Provavi riconoscenza nei miei confronti, ma per te era sempre molto difficile accettare di divenire pietra da scolpire. Questa era la questione e questo dovevi affrontare: quindi ti proposi di passare dopo l’estate in un contesto terapeutico allargato. Sapevo di avere osato molto, ma per affrontare e risolvere una volta per tutte la tua onnipotenza ti dovevo mettere in un contesto in grado di sorprendere e contenere al contempo.
Ci congedammo per la pausa estiva, mentre già i tuoi sogni portavano immagini nuove, folle di persone e bagni al mare, come anteprime di quella nuova situazione che si sarebbe aperta a settembre.
Quella era la porta d’Oriente che io offrivo a te.
Le risate
Seconda settimana di settembre. Alla ripresa del gruppo aperto che da diversi anni ha preso il nome di Organismo, arriva sul filo di lana la scampanellata delle 20.00. Ti presenti vestito di tutto punto, cosa un po’ inusuale per te. Annusi l’atmosfera e, quando la rilassatezza ti prende, ti metti a cavalcioni sulla sedia in modo da appoggiare il solito monoblocco delle braccia conserte unite per le mani. Ogni tanto ti sbircio con la coda dell’occhio e vedo che te la ridi abbassando la testa per non essere visto. La tua emozione si miscela con quella degli altri nella attesa trepidante che si scioglie quando ti chiamo.
“Si sente che c’è una storia in questa storia, a partire dal linguaggio. Non capisco molto, ma va bene”. Metti le parole in modo tale da evitare di darmi del tu, come avviene nell’Organismo. Ne approfitto per dire di quando il linguaggio si libera dalla identificazione con i padri. Le quattro ore scorrono lievi e alla fine sei l’ultimo ad uscire. Nel corridoio ti affacci nella piccola stanza del pianoforte bianco.
“Anche io da ragazzino avevo un pianoforte bianco. È tuo?”. Annuisco. Ci ritroviamo ancora una volta... come sempre.
La settimana dopo porti un sogno.
“Stavo uscendo dalle rovine di una casa devastata. Ci sono altre persone, ma mi accorgo in particolare di un uomo, sconosciuto. Ci allontaniamo dalle macerie seguendo un sentiero di terra e alla fine del sentiero l‘altro uomo trova una donna ad attenderlo. Li vedo allontanarsi insieme mentre io rimango solo. Nessuna donna aspetta me e mi sento uno sfigato”.
Entrare nell’Organismo era l’occasione per uscire una volta per tutte dalla casa del padre, quella delle identificazioni obbligate di cui riconoscevi la violenta devastazione, ma questo comportava affrontare l’abbandono da parte della madre che ti lasciava esposto a sostenere in solitudine, e senza amore, la differenza con gli altri.
“Una parte di te ritiene che non ci siano donne in grado di aspettarti. È una negazione che porti nel rapporto, un a priori che ti intossica. Ma è realmente un tuo pensiero oppure è il frutto avvelenato di una identificazione che ti impedisce di essere?”.
‘Ecco l’ostacolo più grande alla sua espressione creativa - pensavo - più si differenzia e più sente la solitudine come abbandono. Non è la musica a portarlo alla morte, è il pensiero ingannevole che tutto ciò che lo porta verso una originalità lo lascia inesorabilmente solo: ecco il perché della simbiosi!’, mi dicevo. La simbiosi quindi offriva il vantaggio di ripararti dall’annosa questione dell’odio e dell’invidia, provati e subiti.
La volta successiva porti un secondo sogno.
“C’erano dei bambini che mi inseguivano facendo una grande cagnara. Era una sorta di banda, ma non sapevo che cosa volessero da me. Ad un certo punto mi prendono e, pigiando le loro dita, mi strappano la pelle dei polpastrelli delle mani. Non provo dolore, è come un gioco dove tutti ridono. Nell’immagine successiva mi trovo a guidare un pullman pieno di bambini”.
“Qui è in ballo la trasformazione e non un cambiamento!”, dico.
Avevi compreso che venire all’Organismo significava strappare via le identificazioni di sempre... e lo facevano dei bambini! E mentre il tuo inconscio riprendeva la questione della identità libera dalle identificazioni, ricompariva il guizzo onnipotente, seppur giocoso, che ti portava a guidare tu le situazioni.
“Insomma, smettila di fare il salvatore! Lo vuoi capire o no che qui a condurre sono io?”, dico ridendo.
La depressione impotente era il contenuto silente e velenoso di quella onnipotenza che andava anche oltre la tua autentica curiosità nei confronti degli altri.
Poi... salti un incontro e lasci te stesso nelle mani del feroce divoratore per sancire con l’assenza fisica anche quella psichica.
La volta successiva all’incontro mancato porti i primi morsi della depressione anche se nei tuoi sogni “stranamente” ridevi.
“Io mi fido del tuo inconscio... tu neppure lo ascolti”, dico mentre l’inerzia prende il sopravvento. Tuttavia, la presenza degli altri non ti permette le lamentazioni di sempre.
Dopo quegli incontri non sei più venuto, con grande dispiacere di tutti. Una immagine è rimasta indelebile: tu che ti allontani in punta di piedi, così come eri entrato, serrando in un abbraccio tutte le riviste de L’ArcoAcrobata mentre dici contento “Vado a studiare”.
“Rien ne va plus”
Sapevo quanto fosse importante e delicata quella scelta: decidere di continuare il percorso di cura voleva dire affrontare le identificazioni moleste e separarti dalla violenza del padre come dall’impotenza della madre; voleva dire pensare alla tua vita creativa senza dovere dare più i resti ad alcuno. Era presente inoltre un sentimento di vergogna rispetto ai tuo livelli di violenza, oltre che un senso di protezione nei confronti miei e di quella storia per cui nutrivi un profondo rispetto. Di una cosa ero certa: ti avrei rivisto. E infatti...
Una mattina di gennaio, subito dopo le feste, affacciandomi nel piccolo atrio del Servizio incontro il tuo sguardo impacciato.
“Che ci fai qui?”, chiedo sorridente mentre con un colpo d’occhio raccolgo la tua eleganza e il tuo imbarazzo. Ti porto al bar per parlare in modo informale e, seduti davanti a due tazze di tè fumanti, mi dici che sei stato molto male in quei mesi.
“Non mi alzavo neppure più dal letto. Ricordi quando ti parlavo del padre della mia ragazza? Peggio, molto peggio. Sono diventato un barbone in casa e ad un certo punto non ce l’ho fatta più: ho ricominciato a farmi. Sono venuto qui perché non sapevo cosa altro fare”.
Ti rispondo che hai fatto bene a chiedere aiuto e quella stessa mattina avrei parlato con il tuo medico di riferimento.
“Per quello che mi riguarda io rimango ad aspettarti nell’Organismo. Mi sembrerebbe di negarti qualcosa se ti offrissi nuovamente un lavoro individuale... e io non voglio negarti nulla. Puoi guarire: ricordi le risate dei tuoi sogni?”.
Mi confermi che anche in quei mesi avevi continuato a ridere nei sogni in barba alla tua depressione.
“Vedi? Tu non capisci nulla, ma il tuo inconscio capisce e cerca... Fai quello che devi, io rimango ad aspettarti”.
Con un sorriso tenero e una ritrovata intimità rispondi: “Forse è vero che il mio inconscio ne sa più di me, ma non riesco a dargli retta”.
Dopo l’affidamento al medico e i relativi saluti, riflettevo su quel tuo movimento. Mi avevi cercato sì, ma al Ser.T.
‘Mi è venuto a cercare nella casa del padre - pensavo - Lui ci può anche tornare, ma io lo devo aspettare fuori. Non posso mollare, qualsiasi cedimento da parte mia lo ucciderebbe perché verrebbe interpretato come un segnale di incurabilità’. Sapevo d’altra parte del valido rapporto costruito con il medico, per cui non rischiavi nulla. Con il ritorno alla “casa del padre”, negate le traiettorie della cura, la roulette della casualità riprendeva a girare. Quando mi capitava di incontrarti nella sala della somministrazione, mi bastava un rapido sguardo per capire: quando le cose non andavano bene non mi guardavi neppure e ti amalgamavi così tanto agli altri pazienti che mi riusciva a volte quasi difficile riconoscerti. Sentivo il tuo dolore, ma sentivo anche che non mollavi.
Nel mese di aprile, sempre per caso, vengo a sapere dalla tua terapeuta di Comunità che tua madre era morta un mese prima; incredibilmente i miei colleghi del Ser.T non me ne avevano parlato! Ancora una volta decido di entrare nel tuo privato chiamandoti sul cellulare: mi hai già riconosciuta mentre ti porgo, con il nome, il rammarico per non avere potuto partecipare da vicino al tuo dolore. La tua voce da nasale si fa calda e, come un fiume che scavalca lentamente gli argini, mi racconti degli ultimi giorni della malattia di lei, di come l’hai assistita giorno e notte. Mi chiedi se, al tuo ritorno a Roma, ci possiamo incontrare.
“Ho saputo delle cose importanti e mi piacerebbe poterne parlare insieme”.
Acconsento mentre la percezione della tua gioia nell’avermi ritrovata mi rievoca la telefonata alla psicoterapeuta di Comunità quando, con un entusiasmo davvero inusuale per te, le avevi parlato del nostro primo incontro e della mia proposta di lavorare insieme.
Quando ci siamo visti, un mese dopo, tra le tante cose ci tieni a dirmi che i tuoi genitori non facevano l’amore ormai da anni: l’avevi saputo dalla psicologa che aveva accompagnato tua madre alla morte, la stessa che aveva voluto conoscermi perché, a suo dire, ti avevo restituito al tuo sorriso. Quel negarsi di tua madre sembrava quasi giustificare ai tuoi occhi la scelta di tuo padre.
“Anche io ho chiuso le porte alla terapia individuale, ma tu hai delle precise responsabilità in proposito”. Annuisci con un lieve rossore del volto.
Rabbrividisco mentre racconti che sei stato in Sicilia con lui e hai sentito la contentezza di potertene occupare. Questa vicinanza non era una buona cosa per te, ma rimango in silenzio ad ascoltare quel dolore potentissimo che ti espone al nulla di sempre.
Nel mese di luglio chiedi un nuovo incontro a cui ti presenti completamente fatto di un mix di eroina e cocaina che poco lascia all’immaginazione... e alla parola: vuoi lasciare la musica e partire per il Sudamerica a rifarti una vita. Mi sento indignata.
“Vattene. Cercami quando dirai meno stronzate”. Dopo qualche giorno mi chiami a studio per scusarti e per comunicarmi che lasci Roma per tornare a vivere con tuo padre (il che equivaleva a partire per il Sudamerica e abbandonare la musica): “Ci tenevo molto a salutarti bene”. ‘Ecco il perché del tuo acting disperato, non sapevi come dirmelo!’, penso.
Nell’incontro ti dico accorata che questo ritorno alla casa del padre è un suicidio: “È come andare a vivere con lo spacciatore che ti espone alla delusione di sempre”. Annuisci con il capo chino, ma la malattia ha deciso per te. Forse vuoi essere fermato fisicamente dato che mi viene l’immagine di pararmi davanti alla porta, ma anche quella è una trappola estrema. ‘Posso accettare la sua scelta senza condividerla e senza cadere in un ruolo genitoriale’. Ti esorto a non mollare il lavoro psicoterapeutico, ma una grande pena mi assale quando chiudo la porta. ‘Mi sta costringendo ad assistere impotente ad un errore che può essergli fatale’, penso mentre mi tornavano alla mente spezzoni di frasi: “Quando passo a Roma - tanto ci capito spesso - posso passare a salutarti?”. “Certo”. Il nostro rapporto tornava nell’ambito della stessa casualità di partenza da cui, per un attimo, un lungo attimo, era uscito. Il giro della ruota continuava solo per inerzia e la pallina saltava impazzita da un numero all’altro prima di posarsi definitivamente su quel numero che decreta vincitori e vinti.
E mentre le scelte della mia vita personale e professionale tracciavano il passaggio ardito dalle linee alle traiettorie, il tuo silenzio mi esponeva a mantenere la memoria e la coerenza della nostra storia: non erano forse rimaste impresse nella “Porta d’Oriente” che parlava di un altro possibile te, quello che, uscendo dalla casa devastata del sogno, trovava una donna ad aspettarlo? Per un curioso sincronismo, nella mia vita personale come in quella professionale, l’allontanamento da due musicisti mi poneva nella situazione di ritrovarmi in solitudine.
Dopo un anno arriva una tua e-mail.
“Ciao Concetta,
ti ho cercata e ti ho trovata. Solo oggi dopo mesi ce l'ho fatta. Sono stato molto male. Ora va meglio. Stasera non posso, ma se ti va in questi giorni ti scrivo per raccontarti un po’. Adesso vivo in campagna in una casa su due piani dove mi sto facendo un piccolo studio. È un paesino di pochi abitanti selvaggio e incontaminato. Avevo bisogno di un po’ di spazio per i miei dischi e ho ripreso possesso del mio pianoforte. Ora devo andare. A presto...”.
“Ciao G.,
sono contenta di avere tue notizie e mi fa piacere continuare a riceverne. Io non amo comunicare via computer, se non in casi eccezionali, ma se mi mandi il tuo indirizzo - intendo quello vero, quello della tua casa a due piani immersa nella campagna, con tanto di pianoforte - ti scriverò volentieri. Sarà un caso? Da una quindicina di giorni mi capitava di pensarti spesso. È bello questo tuo ritorno”.
Mi scrivi una seconda e-mail, accompagnata da un tuo primo piano fatto con l’autoscatto dove mi guardi dritto (si fa per dire, visto che sei leggermente strabico) negli occhi con un sorriso tenero e nudo.
“Ciao Concetta,
dove abito adesso non c'è ancora una linea veloce così non ho ancora accesso a Internet, forse la mettono in questi giorni. A me serve molto per lavoro e per curiosare, ma neanche io l'ho mai usato molto per comunicare e, tra l'altro, quando l'ho fatto me ne sono spesso pentito, cosa che vale anche per gli sms. Mi viene in mente quel tuo discorso sul vinile... chissà che non si possa applicare anche alla scrittura... a ogni contenuto il suo mezzo. ...Per curiosare... curioso che quando a Roma avevo Internet aperto tutto il giorno non mi sia mai venuto in mente di cercare il tuo sito, curioso che tu non me l'abbia mai segnalato: ora capisco meglio perché “musicalificio”. Oggi stesso cercherò “L'orecchio e la voce”.
Ti scrivo questa mail da casa di mio padre a Torino, così come la volta scorsa. Ero qui perché il giorno dopo ho preso un treno per Bologna per assistere alla presentazione di un documentario […] di cui ho curato il montaggio del suono adattando alcune delle mie migliori musiche: questo lavoro mi ha molto coinvolto emotivamente per diversi motivi. Appena l'avrò te ne manderò una copia; credo che potrebbe interessarti. Io ti penso molto e mi piacerebbe molto rivederti e parlare un po’ con te. Sono di nuovo fuggito da Roma, non ce la facevo proprio più, non ce l'ho fatta più: la seconda volta si fa più fatica, molta più fatica, troppa... Mi stavo dimenticando che abbiamo deciso di scrivere a penna. Tra l'altro nel giro di una settimana dovrei scendere a Roma per un documentario”.
Non mi hai scritto più. Anche quando, passando per Sciacca e vedendo una strada intitolata ad un musicista con il tuo stesso nome, ti mandai una cartolina, non ci fu risposta alcuna.
Mentre le notizie su Internet dicevano che continuavi a comporre musica, arrivarono nuove decisioni: chiudere L’ArcoAcrobata e, in successione, due traslochi, uno nella mia vita professionale e l’altro in quella personale. L’attesa feconda aveva tracciato nuove... traiettorie di ricerca e tra cose vecchie che andavano via e cose nuove che sbocciavano solleticate da quelle prime brezze di quando entra la primavera in mare, arrivò un pensiero solitario spuntato da non so dove: ‘Non verrà più’. Non avevo pensato mai niente del genere nei confronti di alcuna persona partecipe dell’avventura terapeutica “aperta” che conduco da anni, ma qualcosa di indefinito mi impediva di soffermarmi troppo su questo punto e sul fatto che ti pensavo in un modo diverso, come se tutto si fosse appiattito su un unico tempo e quel tempo era il passato.
Cominciarono in quel periodo i malesseri del corpo e una sensazione continua di stanchezza. ‘Saranno i due traslochi’, pensavo e d’altra parte occasioni per essere triste e affaticata in quel periodo non sono certamente mancate. Data la persistenza dei sintomi, a luglio decisi di fare degli accertamenti: fu in quei giorni che, pensando alla morte, mi resi conto che quel pensiero in quei mesi più e più volte si era affacciato, seppure in modo molto sottile, e non mi aveva abbandonato neppure in occasione di una dolce vacanza all’isola del Giglio. Ricordo ancora quando, in quell’infuocato pomeriggio di luglio, uscita da uno studio radiologico, telefonai immediatamente al mio omeopata che tirò con me un sospiro di sollievo. Fu quella vicinanza calda e riservata a farmi affiorare nitidamente un languore che persisteva da qualche tempo alla base del mio vivere: non era la prima volta che accadeva, ma in questo caso tutto era stato sommerso dal vortice delle trasformazioni in corso.
‘Sta succedendo qualcosa a qualcuno che mi è vicino’, pensai e mi sovvenne quel pensiero solitario e strano. Sbirciando su Internet le notizie erano sempre le stesse, eppure non ero tranquilla. ‘Troppa staticità’, pensavo, e così cominciai a fare una cosa che non avevo mai fatto prima di quel momento: non c’era giorno che non cercassi tue notizie... finché una mattina...
... Era fine luglio. Mi trovavo al Ser.T, per fortuna in una sede dove ho una stanza tutta per me, e cliccando sul solito sito, ho trovato questa frase: “Nuovo Premio indetto per commemorare…….”. ‘Commemorare? Che significa commemorare?’. La mente non riusciva più a dare il significato a quella parola, mentre il mio cuore, che aveva capito benissimo, era rimbalzato nel corpo fino a schiantarsi sul diaframma. Ero senza fiato e senza cuore mentre i miei occhi si facevano strada tra le lacrime alla ricerca affannosa di altre notizie. ‘Non è possibile! Non è possibile!’, ripetevo... poi... la conferma della tua morte avvenuta in realtà a fine febbraio, anche se solo da quel giorno la notizia aveva cominciato a viaggiare via Internet. Il dolore per quella notizia lo sentivo ancora di più proprio per quello sfasamento temporale. Mi sembrava un oltraggio.
In quello stesso giorno ho saputo della morte di Alice Miller.
Frammenti di arcobaleno
Quell’estate è trascorsa tra le fatiche del cuore. Strano a dirsi, ma così come tu sei morto in punta di piedi, con la delicatezza che ti ha sempre contraddistinto, allo stesso modo io sono stata dimenticata da coloro che si sono occupati di te. Nessuno mi aveva avvertito e nessuno continuava a dirmi alcunché per quella morte, come se io fossi estranea alla tua vita. Soltanto quando finalmente ho trovato un medico della Comunità che conoscevo, tra mille scuse, mi ha raccontato di te e della tua morte.
Da oltre un anno eri tornato a vivere con tuo padre, ma lui aveva avuto un ictus e tu lo avevi assistito, assistito a tua volta dalle stupefacenti polverine di sempre. Poi, per volere dei tuoi fratelli che ti accusavano un po’ di tutto, lui era stato ricoverato in un ospizio e tu eri rimasto da solo. Sarebbe stato troppo per chiunque. Ti hanno trovato nella casa di tuo padre una mattina, la stessa in cui avresti dovuto fare l’accoglienza per entrare una seconda volta in Comunità, come concordato con la tua psicoterapeuta di sempre. Mi tornavano le parole della tua e-mail: “La seconda volta si fa più fatica, molta più fatica, troppa...”. Avevi tentato l’ultimo giro di ruota e poi... la morte per arresto cardiaco.
Il mio cuore gonfio affondava nelle sabbie mobili della tristezza mentre cercavo nel silenzio il gorgoglio della vita. Fu così che nella quiete di un parco liberty in prossimità del mare la penna sembrò quasi reclamare la mia mano dolente... per scrivere... Scrivevo e ripercorrevo la nostra storia sorprendendomi di ricordare così tanto e in modo tanto dettagliato. Anche quando affrontavo altri scritti, non ti perdevo mai di vista.
Mi tornava in continuazione l’immagine della roulette, di quando viene fermata dal croupier ma la pallina continua a girare e saltare per l’accelerazione impressa. Pensavo che, nell’attimo in cui la ruota smette di girare, fosse già impresso il destino di quella pallina, il punto in cui si sarebbe fermata. E mi chiedevo quando la roulette avesse smesso di girare, quando si fosse depositato l’uovo del serpente. Forse era già accaduto prima che ci conoscessimo e il mio intervento era stato solo una manovra disperata, cosa che accade con taluni pazienti in cui il destino sembra scritto a caratteri cubitali e... indelebili: un destino scritto dalla malattia e da chi l’ha determinata. Eppure ero certa che quella psicosi non ti apparteneva, ma non sapevo bene quanto tu non appartenessi a quella storia di follia di cui le lamentazioni profuse erano un funesto segnale, come il film Requiem for a dream. Ma se così era, perché non ti avevo lasciato alla tua storia? Avevo forse peccato anche io di onnipotenza? No, quella fragilità colta al primo sguardo sembrava comunque reclamare altro e io ho risposto senza pensare al domani: è come far conoscere il mondo ad un condannato a morte.
Ma non siamo tutti dei condannati a morire? E quello che fa la differenza non è forse come arriviamo a quel momento?
Indubbiamente la scelta di tornare nella casa del padre fu scellerata e... senza ritorno, ma a pensarci bene restare a Roma o tornare nella città del padre era sempre stata “la” questione. Mi tornavano alla mente le parole del mio primo Professore di Psicoterapia Dinamica, per una curiosa coincidenza morto più o meno nello stesso periodo: “Quando si interviene bisogna essere pronti a tutto. Intervenire è l’unico modo che abbiamo per tentare di mettere in crisi un sistema. Non è detto che questo ci riesca sempre”.
Le immagini si affollavano come le fronde degli alberi di una foresta che lacerano la pelle e oscurano il sentiero. Arrancavo con il corpo alla ricerca del caldo e della luce e ogni tanto mi fermavo in qualche radura a riposarmi. A rifocillarmi ci pensava il mio omeopata che sembrava comprendere a fondo le fatiche fisiche del dolore psichico. E intanto mettevo insieme gli eventi.
Per una strana coincidenza tu morivi nello stesso periodo in cui cadevano altre due persone fondamentali per la mia vita e in tutti e tre i casi avevo saputo la notizia... per caso. Del decesso di Alice Miller ho già raccontato. Avevo saputo della morte del mio Professore nel corso di una lezione di Psichiatria Dinamica che tenevo in una Scuola di Psicoterapia. Quando ero una giovane specializzanda in Psichiatria, lui era stato il primo a farmi vedere nuove prospettive e ad alimentare la mia sete di conoscenza: per anni avevo ascoltato in silenzio le sue splendide lezioni del mercoledì mattina e quando poi era capitata l’occasione di aprire un centro di psicoterapia psicoanalitica all’Università, ero stata tra le prime ad accettare con entusiasmo. Si era appena formato un gruppo di lavoro affiatato, quando arrivò un drappello di medici provenienti dall’Analisi Collettiva che sembrava più interessato al potere universitario che alla ricerca. Lui non difese quello spazio di ricerca novello e io me ne andai, suggellando quella separazione con un viaggio solitario nell’isola di Creta: ‘Quale posto migliore per nascere?’, mi dicevo. Sciolti i legami con il passato mi rimaneva da affrontare il rapporto diretto con Massimo Fagioli. Lo feci e quella scelta trasformò la mia vita. Alice Miller e il bel Professore dagli occhi blu rimanevano nella mia storia.
Cosa univa queste morti? La casa del padre forse? Riflettevo... Alice Miller in fondo si era fermata alla stazione della testimonianza partecipe e il Professore negli ultimi anni aveva cominciato a criticare radicalmente, sebbene sempre dall’esterno, gli assiomi dell’Analisi Collettiva: eppure in entrambi il linguaggio tradiva l’ancoraggio alla casa del padre, mentre in Massimo Fagioli sentivo distintamente la ricerca di un nuovo linguaggio, disarticolato dai tempi della razionalità. Questo andavo pensando mentre riflettevo che avevo accettato la docenza di Psichiatria Dinamica pochi mesi dopo avere cominciato a seguirti in psicoterapia. Ero stata molto incerta sull’accettare o meno quell’incarico perché una Scuola di Psicoterapia Strategica non si confaceva alle mie scelte teoriche. Tuttavia mi sembrava una occasione per raccontare a giovani dottori in formazione, di un altro modo di intendere la cura della malattia mentale.
Le separazioni da Alice e dal bel Professore accadevano nel ’90. Venti anni dopo, anziché tornare a casa come Ulisse, mi sono trovata nella condizione di ribadire la scelta di continuare la mia avventura in mare aperto: aprire La Bottega, lasciare la docenza giusto in tempo per evitare l’incontro con vecchi morti viventi e... affrontare la morte fisica di coloro che hanno lottato per non cadere nella morte psichica. ‘Un giovane uomo in bicicletta che viene travolto da un pirata della strada mentre faticosamente guadagna l’ambulatorio della sua ricostruzione interna; un ragazzo sbruffoncello che sfida la vita nel momento in cui la vita è per la prima volta nelle sue mani; un ragazzone dagli occhi tristi che torna dopo otto anni nel luogo della speranza della cura giusto in tempo “per morire” a causa di un accidente vascolare’. È stata proprio la morte di questi guerrieri, un po’ audaci e un po’ maldestri, a permettermi di ripensare alla tua morte.
Quando ho avuto la tragica notizia, sapere che eri morto proprio come temevo, in solitudine, mi aveva colmato di un dolore particolare: non sopportavo l’idea che potessi essere morto disperato. Non è la stessa cosa se una persona muore nella speranza oppure no. Eppure, proprio scrivendo della nostra storia e raccogliendo le spine di tutte quelle morti, ho cominciato a cambiare la mia percezione.
Più scrivevo e più avevo la certezza di essere rimasta viva in te fino alla fine, a parlarti della speranza della ricerca artistica. Tutto questo è venuto dopo la domanda più amara: non ero intervenuta in qualche punto del percorso pur avendone avuto l’occasione? Ti avevo forse tradito in qualche modo? Ma più cercavo dentro di me e nella nostra storia e più trovavo la limpidezza di un dolore senza colpe.
A cosa avevo risposto? Sicuramente al tuo dissenso: allo scompigliarti i capelli come risposta ad una madre che te li straziava, o al modo di chiudere gli occhi a fessura ed esibire il sorrisetto sferzante della tua intelligenza nel tentativo di mettere a fuoco le mille questioni che ti confondevano, o alle lunghissime sciarpe avvolte più e più volte intorno al collo nel tentativo di avere un calore laddove i tuoi vestiti erano sempre troppo leggeri e poi... quel modo di appoggiarti la mano sulla fronte quando non riuscivi a collocare una questione, segnale evidente che la suddetta scardinava le tue convinzioni più radicate.
Ecco, io ho risposto a tutto questo che reclamava una speranza, una possibilità. C’era un cuore in attesa che si esprimeva attraverso quelle forme e io ho risposto senza pensare, senza pensare al futuro. Forse un futuro non ce l’avevamo. Ma nel presente ascoltavi attento e silenzioso nel mentre ti nutrivi di un confronto artistico che ti era stato sempre negato nel timore dei più che tu riuscissi ad arrivare pienamente alla tua arte e divenire Artista. “Gli artisti fanno sempre una brutta fine, si sa!”. Non è forse questo il monito che continuamente riporta l’Arte ad una dimensione di buon artigianato?
Ebbene sì, per tutto questo ero disposta a lasciarmi trafiggere il cuore e la ferita si è rimarginata con i tempi dovuti del dolore.
A dicembre, partendo in aereo verso una capitale del nord Europa, il corpo mi ha nuovamente parlato. Nel momento in cui l’aereo si staccava da terra ho avvertito che ti lasciavo andare via: io volavo in cielo con quell’aereo e tu restavi da qualche parte nella terra o in fondo al mare. In quel brandello di infinito, “ove per poco il cor non si spaura” ho sentito il dolore lancinante di quando viene tolto un frammento dalle carni. Un urlo silenzioso e le lacrime negli occhi quando... in quello stesso momento... l’uomo che mi era accanto, il musicista, mi ha preso delicatamente una mano per tenermi nella vita. Si era accorto, senza potermi vedere, di quel moto del cuore che mi riportava alla vita: era sempre stato lì, vigile e silenzioso, ad aspettare quel momento... e ho compreso una volta di più il senso della Storia.
“E mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e’l suon di lei...”. Da adolescente mi nutrivo di questa passione poetica, la stessa che mi faceva ritenere che sarei morta giovane - ‘Non supererò i trenta anni’ dicevo pensando che proprio non ce l’avrei fatta a sostenere i dolori del cuore. ‘Tutto mi tocca’, dicevo allora spaventata e dolente; ‘Tutto mi tocca’, dico ancora tra i palpiti del cuore che segnano il ritmo della vita. E anche se molti anni sono trascorsi, la mia adolescenza con le sue speranze e le sue passioni, rimane indelebile. Anzi. La speranza ora è diventata certezza: la certezza della ricerca e delle trasformazioni possibili. E questo diventa il luogo del ritorno... sempre; è il mare interno che raccoglie tutto ciò che viene a mancare per erigere quelle sculture di corallo che danno forma all’oblio.
È esigenza umana costruire un luogo in cui tornare. Tu questo luogo ce l’avevi e, anche se non hai fatto in tempo a tornare, questo fa la differenza del vivere e del morire. Ho sempre pensato che nel momento in cui morirò i fogli sparsi dell’ultimo scritto si spargeranno nell’aria come i pollini a primavera. Quello è il mio luogo.
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Werner Herzog e l’umanità perduta. SOGNARE UN IMPOSSIBILE SOGNO di Claudia Amato. Anno 2014
SOGNARE UN IMPOSSIBILE SOGNO
Claudia Amato
“Chi sogna può spostare le montagne”.
Claudia Amato
“Chi sogna può spostare le montagne”.
Immagine tratta dal film Fitzcarraldo di Werner Herzog
Di ritorno da un viaggio a ritroso nella memoria mi trovo a continuare quella ricerca che mi porta verso uno specchio d’acqua lambito da una chiglia, fin sotto le onde e ben oltre queste, per scoprire che le imbarcazioni non solcano solo i mari e non servono semplicemente a navigare. Cerco l’inizio di questo buio fitto, comincio a scendere e subito mi sento leggera: il respiro si fa più ampio, il cuore batte piano e cadenzato, le vene pulsano mentre il sangue fluisce. Il silenzio avvolge tutto ed è vivo. Sola con me stessa, in questo strato d’acqua e di sogno, vedo fondi di navi passare sopra di me, imbarcazioni piccole e grandi striare la superficie, pesci di ogni forma e tipo; vorrei seguirli, ma qualcuno mi costringe ad avviarmi per un sentiero di sabbia marina che, attraverso una lunga grotta, conduce sulla terraferma.
Mi inoltro per raggiungere un luogo dove il blu e l’azzurro lasciano il posto a un verde fitto, variegato e popolato. La luce è intensa ma ciclicamente tende ad attenuarsi, il vento soffia leggero ma va cambiando con l’alternarsi del giorno e della notte. Una pioggia tropicale cade quasi incessantemente. Mi incammino per una striscia di terra inizialmente ampia che si restringe fino a confondersi con la radura. Sono nella foresta vergine che si increspa fino a profondità inimmaginabili, dove lo sguardo si perde ed iniziano le visioni... i demoni dell’oscurità iniziano a correre sconnessi tra i rami degli alberi... e i sogni, levandosi dalle fiamme di fuochi ardenti nel cuore della radura, portano a...
... Manaus... foresta Amazzonica... primi del Novecento. Un uomo e una donna sono su una barca, nel buio della notte; da Iquitos hanno percorso milleduecento miglia d’acqua. Giungono trafelati davanti al Teatro dell’Opera dove canta il grande Caruso. L’uomo è Fitzcarraldo, un avventuriero che ha tentato di creare una linea ferroviaria transandina e una fabbrica di ghiaccio nel cuore della foresta; la sua compagna Molly gestisce una casa di ragazze indie, dopo averle strappate alla miseria delle loro vite. Qualcuno all’entrata del teatro tenta invano di sbarrare loro la strada. Fitzcarraldo non si lascia fermare: “Ho remato per due giorni e due notti per vedere Caruso almeno una volta nella vita. Costruirò a Iquitos un Teatro d’Opera e Caruso lo inaugurerà. Sarà il Teatro d’Opera più grande che la giungla abbia mai visto! ”. Sono le parole ardenti di un sognatore, dietro il quale è il regista della storia, Werner Herzog. Vuole dire qualcosa... parla attraverso le sue visioni e mi lascia entrare nel sogno restando rannicchiato dietro la sua macchina da presa. Mostra la veemenza di Fitzcarraldo, lo scontro continuo con quella ideologia dell’impossibile che è anche sua: come semi in un campo senza confini egli è il vento che agita i papaveri verdi, lasciando trapelare la sua disperazione, la convinzione di un’irrecuperabilità che non dà tregua, togliendo il respiro e la vita stessa.
Questi pensieri tagliati alle radici risuonano con l’ammasso di legni quasi marci che cozzano l’uno contro l’altro, mentre Fitzcarraldo e Molly tornano a Iquitos. La città pullula di squallide baracche di legno sgangherate, abitate da uomini sfiniti: regnano sovrane sporcizia e melma, stanchezza e disillusione, solitudine e miseria, su uno sfondo di rifiuti pieni di avvoltoi in cerca di carcasse, dove un mattatoio è pronto a sancire statico, la ripetitività di un sordo sterminio che urla tutto il suo dissenso di fronte al perenne movimento di donne che allattano e di bambini scalzi che giocano. Fitzcarraldo abita sul fiume, in una casa di legno senza mura perimetrali: questo è il luogo lontano in cui egli difende i propri sogni e dove il suo pubblico di bambini lo ama incondizionatamente proprio per questo. I bambini, con il suono del loro violino, sostengono Fitzcarraldo e il suo sogno e lui risponde con la musica del grammofono, con le belle arie cantate da Caruso: in questo nutrimento onirico e sonoro scambievole, i bambini possono riprendere la via del sogno, forse perché condividono la purezza che è alla base della bellezza e della libertà con cui Fitzcarraldo vive il desiderio.
... Un pipistrello sbatte le ali con ritmo cadenzato, in uno sfondo di ombre. Non c’è purezza, libertà o bellezza in una possibilità negata. Quando l’oscurità si dissolve fino a diventare neve, emerge il terrore vissuto nella continua convinzione che la degradazione del desiderio di un uomo, diventando avidità cieca, possa distruggere sé stesso e l’altro. Odo l’urlo lacerante di una donna nel cuore della notte. Chiudo gli occhi ed entro in un regno notturno dove una musica lugubre unita ai battiti di un cuore che pompa, aprono il sentiero di un bosco di terrore in cui un velo cade lento su una regione misteriosa popolata dai lupi e abitata da gente che crede agli spiriti. L’avvertimento ad avere paura e fuggire, finché si è in tempo, viene dagli zingari, popolo legato alla natura e misteriosamente affine alla creatura della notte.
Prati sconfinati, monti selvaggi, stretti cunicoli nelle viscere della terra, rocce e ruscelli che scorrono, nebbia che avvolge e che nasconde segreti insondabili... oscurati da una musica cupa, solenne, quasi primordiale che tende al raggiungimento di una conoscenza che solo pochi hanno e che costa la vita. Il vampiro, come un’ombra che lo specchio non riflette, vive nella solitudine del suo castello. Egli ha la conoscenza, ma per sopravvivere deve succhiare la vitalità dell’altro fino all’ultima goccia. Condannato all’immortalità, è costretto dalla sua natura di inestinto, affamato di vita, a trascinare un insopportabile fardello: l’impossibilità di amare. Quando incontra Lucy, la sete inarrestabile nei confronti dell’oggetto del suo desiderio diventa troppo forte per non essere vissuta fino in fondo e, prima del giungere dell’alba, Nosferatu non rinuncia: si riempie della donna, pur sapendo che il raggio di sole, ormai prossimo, lo trafiggerà, rendendo inevitabile il suo annientamento.
La stessa luce del mattino inonda pian piano l’aria, che si posa in un soffio leggero sulle acque di Iquitos, dove Don Aquilino, “barone del caucciù”, si mostra disponibile verso Fitzcarraldo per la realizzazione di una grande impresa. Lungo il fiume Ucayali esiste una foresta estesa e inesplorata di alberi di caucciù, anche se le pericolose rapide del Pongo das Mortes rappresentano un ostacolo al raggiungimento del prezioso materiale. Ma Fitzcarraldo vede ciò che Don Aquilino non sa vedere: parallelamente all’Ucayali scorre un altro fiume, il Pachitea, pieno di Indios cacciatori di teste, e i due fiumi, dopo avere delimitato un grande spazio, vanno l’uno verso l’altro fin quasi a sfiorarsi in un punto. Solo Fitzcarraldo vede il canale del parto, la via d’uscita da cui nasce l’idea per la realizzazione del suo sogno: nel punto di restringimento egli trasporterà una nave sulla montagna e, da una sponda all’altra dei due fiumi, sarà portato il caucciù per essere condotto sul Pachitea, attraverso cui giungerà fino a Iquitos: con i proventi delle vendite potrà finalmente portare il Teatro dell’Opera nella foresta. Malgrado la sua posizione di uomo bianco che vive dello sfruttamento di un territorio e della sua popolazione, Don Aquilino, come Herzog, offre a Fitzcarraldo la possibilità di dare vita al suo sogno, partecipando al sogno dell’altro: non viene negata l’occasione a colui che è in grado di entrare nel mare e di prendere il largo...
Vedo un uomo, soprannominato Cobra Verde dalla gente che ne ha paura. Vorrebbe fuggire dalla miseria che lo circonda, dalle ingiustizie subìte, dalla sofferenza e dalla solitudine che invadono il suo cuore; vorrebbe andare altrove, cambiare vita. Guarda il mare, ma di fronte all’infinita linea dell’orizzonte si ferma e non riesce a prendere il largo. È la natura degradata dei suoi pensieri a bloccarlo: “Come descrivere questa mia stupida esistenza? Vorrei vivere nella terra del ghiaccio... il caldo ti scorre dentro come una febbre eppure, nonostante ciò, il mio cuore si fa ogni giorno più freddo...”. Crede che dal mare abbia origine la neve, crede che la schiavitù sia un inganno e un crimine: “È un elemento del cuore umano per la nostra rovina...”. Pensiero sciancato che non lo lascia, come l’uomo deforme che a quattro zampe lo segue sulla spiaggia e assiste al suo vano e disperato tentativo di trascinare da solo la barca in acqua. Cobra Verde non ce la fa e annega nella sua impossibilità, mentre una ragazzetta canta e sorride: immagine di un volto incontaminato, non ancora irreversibilmente deformato dall’orgia del potere. La nascita degli esseri umani parla di una sanità iniziale, ma quando la sanità è perduta, non c’è niente da fare, dice Herzog.
Fitzcarraldo sembra portare in sé l’immagine di quella ragazzetta, proprio come Molly, sicura che il suo uomo costruirà il teatro per Caruso, perché “solo i sognatori possono spostare intere montagne”. E questa è l’energia più importante che mette a disposizione per difendere Fitzcarraldo dagli uomini ricchi e ottusi, “gli uomini morti”: la sua decisione di finanziare materialmente l’impresa è poca cosa rispetto alla fiducia che ha nel sognatore e nel suo sogno. Herzog sembra quasi accarezzare il suo personaggio, Fitzcarraldo, che ha la sua donna ed il suo sogno, ma... quanto riesce a lasciarsi innamorare, tanto da alimentare la speranza di un cambiamento possibile?
... Si aprono le sbarre di una cella, ne esce un uomo di nome Bruno Stroszek che spera e tenta di ricominciare una nuova vita. Sceglie accanto a sé una donna anche lei disperata che cerca invano di sottrarsi a un vissuto di sfruttamento. La loro partenza in America è solo una fuga dai violenti persecutori di un passato buio. Presto si accorgono che nel nuovo continente resta tutto uguale a prima, perché nulla può e deve cambiare. “Chi lo sa cosa mi riserva il futuro, il carcere è sempre aperto... quando un uomo è disperato e ha bisogno di amore, proprio allora non lo trova... è sempre così”. Il destino è segnato e senza via d’uscita...
... Una voce di donna giunge dalla casa semplice e poco illuminata di un villaggio: “Sono proprio una donna cattiva, dovrei ammazzarmi”. Lei ha tradito il suo uomo, un soldato di nome Woyzeck: maltrattato dal suo superiore e sfruttato da un medico per i suoi esperimenti, lei ed il loro bambino sono, per lui, il solo conforto della sua vita, popolata da visioni improvvise e da neri presagi. Quando viene a conoscenza del tradimento della sua donna, cerca disperatamente su di lei i segni della perduta innocenza: “Eppure non si vede niente, un peccato dovrebbe restare come un marchio sulla carne... no, si dovrebbe vedere qualcosa, gli uomini sono come degli abissi, ti gira la testa se provi a guardarci dentro... ma l’innocenza deve avere il segno di riconoscimento, dov’è? Dov’è? lo non lo vedo!”. Le voci che Woyzeck sente provenire dalla terra sono lampi di una follia omicida e suicida che sanciscono ancora una volta l’impossibilità di una corrispondenza di immagini, di un incontro fra un uomo e una donna, di un rapporto creativo che renda possibile la realizzazione di un sogno comune, capace di far trovare un tesoro...
... come la nave che Fitzcarraldo e Molly trovano, un vecchio battello a vapore ricoperto di ruggine e con qualche falla sotto la linea di galleggiamento. Solo le linee sinuose rimangono a reclamare una immagine e un nome: diventerà Molly Aida. Fitzcarraldo ancora una volta sa vedere oltre le apparenze: lo stato di abbandono di un involucro malconcio può nascondere una sostanza plasmabile, una realtà possibile. I suoi sensi fanno da supporto all’intuizione che dietro una carcassa abbandonata, che pochi penserebbero di veder navigare ancora, si cela un tesoro, una verità: una barca torna a navigare...
... Vedo un universo remoto, piovuto in un altro tempo. Mi lascio inondare da una natura in cui la luce è intima e viva, come le fiamme che ardono nel fuoco della notte, riflettendo spazi che assistono impetuosi a un inevitabile mutamento. Il vento soffia sul paesaggio avvolto nella nebbia che sfuma i contorni e può nascondere ogni cosa. Nella luce della foresta un uomo cammina, Hias. Egli si distingue dagli altri perché “vede” e sarà testimone dell’irrompere del caos tra gli uomini del villaggio che vogliono riappropriarsi di un segreto perduto, la fabbricazione del favoloso vetro rubino. “Il vetro ha un’anima fragile, è limpido, senza macchia... Il sangue, la vita, ogni cosa è in quel vetro, in quel rosso, in quel colore... manderemo il vetro nel mare, il mare si tingerà di rosso”.
La legge del rubino se n’è andata via per sempre e di fronte all’impossibilità di riprendersi ciò che non esiste più, dilagano nella comunità follia e morte. Soltanto Hias non è travolto da quella pazzia e torna nel bosco per cercare altri essere umani. “Nella foresta vedi una fiammella, speri sia un uomo...”, invece sono alberi che come braccia protese spuntano da una terra ferita di solitudine: “Sono davvero l’ultimo? Sono l’ultimo rimasto?”. Eppure, in questa solitudine ha la visione del mare: vede un lembo di terra emersa e uno sperone di roccia accanto, dove ci sono uomini senza nome. Sono senza identità poiché non sanno che la terra è rotonda e sono convinti che l’oceano precipiti in un abisso senza fine. Ma un uomo, lontano da loro, fissa il mare e osa mettere in dubbio la credenza dei più; il tempo corre e altri tre uomini sono ora con lui a guardare l’orizzonte, per cogliere i nuovi confini del mondo. Le antiche ballate si accordano con lo scorrere delle onde, mentre gli uomini scandiscono la partenza verso una nuova terra con il movimento dei remi nell’acqua: se ne vanno senza voltarsi, senza un minimo gesto, accompagnati dal volo dei gabbiani e...
... come la Molly Aida che salpa dal molo diretta sul Pachitea, guidata dal suo capitano, scelto da Fitzcarraldo perché, anche se non ci vede più bene, sente nell’aria il pericolo: “La giungla è piena di illusioni, di inganni, di sogni, di miraggi e demoni. Gli anni mi hanno aiutato a distinguere tra realtà e allucinazione”.
L’equipaggio non sa e neppure intuisce il senso dell’impresa e il suo collegamento al sogno. In contrapposizione, “... Gli Indios della foresta pensano che la vita non esista e che sia soltanto un’illusione, dietro la quale si nasconde la realtà dei sogni”. Contrapposizione di mondi e in mezzo Fitzcarraldo, il quale risale il fiume, tra i tam tam della foresta che non cessano di rullare minacciosi. Un silenzio ancora più minaccioso è la risposta al lancio incauto di una miccia... poi un segnale di morte e il tam tam riprende ancora più frenetico. Fitzcarraldo mantiene la calma perché conosce il segreto della musica: glielo hanno insegnato i bambini! Porta il suo grammofono sul punto più alto della nave e il canto di Caruso riempie l’aria e la irrora, come acqua che cade in un deserto. I tamburi smettono di rullare: tutta la foresta vergine è in ascolto.
Quel silenzio narra il mito degli Indios: essi lasciarono, trecento anni prima, il cuore del Brasile per spingersi nella foresta e cercare il dio bianco, sul grande battello, che li avrebbe condotti verso una terra dove non esistevano dolore e morte. E ora il battello bianco è lì, davanti a loro. I tamburi rispondono e la foresta assiste incredula all’incontro tra un mito e un sogno: gli indigeni si materializzano improvvisamente sul fiume e con le loro canoe seguono la nave musicale. Quando salgono a bordo, lentamente sfiorano la mano di Fitzcarraldo, lo esplorano, mentre lui non si sottrae e li lascia fare. Ora la foresta sa che gli Indios seguiranno il loro dio, finalmente ritrovato, per tutto il viaggio. II sogno non può diventare schiavo del mito. Sul ponte di comando, Fitzcarraldo è piegato sulle carte geografiche: sono arrivati al punto fatidico, quello in cui i due fiumi si avvicinano fin quasi a toccarsi. Gli uomini scendono a terra per vedere la montagna che li separa. Fitzcarraldo rivela finalmente i particolari del suo progetto: la nave oltrepasserà il monte con gli argani, le funi e la forza degli Indios. II mito si incontra con il sogno e si mette al suo servizio: il capo tribù dà il suo assenso.
... In un altro punto lontano della foresta, una natura ostile si apre a una visione ben differente: il fuoco di un cannone sputa il suo odio contro la natura ferita in cui degli Indios, schiavi di un manipolo di spagnoli, seguono impotenti un destino insidioso. Questa volta i bianchi senza sogni inseguono il mito di El Dorado, il paese dell’oro situato lungo le inaccessibili paludi, alle sorgenti del Rio delle Amazzoni. Sono pronti a sacrificare la propria vita per il prezioso materiale, con lo scopo ‘ufficiale’ di portare la parola di Dio tra i selvaggi, civilizzandoli: “Per la gloria di Nostro Signore, la Chiesa deve sempre stare dalla parte del più forte”. Lungo il fiume, nel gruppo, c’è Aguirre, con la sua pretesa di dominare il mondo: “I miei uomini misurano tutto con l’oro ma per me conta solo il potere, l’oro lo lascio ai servi... Sono il furore di Dio, la terra che io calpesto mi vede e trema; chi seguirà me e il fiume, avrà grandi onori e ricchezze, ma chi diserterà...”. Eppure la terra non trema e la natura non si piega dinanzi alla violenza e alla follia di un uomo senza sogni. Anzi, agirà la rivincita attraverso il suo popolo: “Ora sei tu uomo bianco a essere schiavo, perché non uscirai vivo da questa foresta!”. Sulla zattera, lungo il fiume, i pochi bianchi rimasti, vengono uccisi dalle frecce, uno ad uno, mentre Aguirre resta solo, con la sua pazzia, circondato dalle scimmie, immagini del suo mondo violento e malato.
La foresta assiste impassibile al compiersi degli eventi: alcuni Indios muoiono durante il tentativo di trasportare il battello via terra. Il vento agita i capelli arruffati di Fitzcarraldo mentre siede su di un tronco d’albero, scoraggiato, avvilito, perché sente fin nelle ossa la fragilità umana di fronte alla maestosità della natura. Alza lo sguardo verso la radura e cerca il legame tra il suo sogno e il bosco fitto: dovrà lasciare quegli uomini nella terra di nessuno? Cerca febbrilmente intorno a sé liane robuste per uscire dall’abisso. Tre visioni si fanno strada...
... Mi lascio condurre in un deserto di sabbia australiano, sconfinato e inondato da un canto lirico sulle cui note alcuni aborigeni sono in attesa: “Noi sorvegliamo questo posto, non ci saranno scavi e non ci saranno mine, questo è il posto dove sognano le formiche verdi. Se distruggerete una terra sacra, distruggerete anche le formiche verdi che non torneranno mai più su questa terra... Voi bianchi siete perduti, voi non potete capire la terra, non avete un senso, uno scopo, una direzione”. La credenza è che man mano che spariscono i luoghi fisici, spariscano anche le tracce culturali di un popolo: i superstiti di una tribù estinta sono condannati a non parlare perché non compresi più da nessuno. Nonostante gli enormi sforzi del popolo aborigeno per evitare la distruzione degli antichi tesori, anche a costo della vita di alcuni, le trivelle predominano, stuprando la terra e affermando con la forza una civilizzazione accecata, un’educazione imposta, un indottrinamento volto a strappare una purezza...
... come quella di Kaspar Hauser, vissuto rinchiuso in un luogo buio, isolato dal mondo esterno sin dai primordi della sua vita. Non è mai stato seduto a un tavolo, non è mai stato diritto, non sa parlare, né leggere, né scrivere, è come un uccellino in gabbia che, una volta fuori, viene catapultato, senza chiederlo, nell’abisso degli uomini civilizzati. I suoi educatori vogliono erudirlo e imporre il mondo della logica su quello delle rappresentazioni inconsce che quella strana presenza va proponendo. Anche Kaspar non ce la fa... perché quando si impone il pensiero della definitiva perdita dell’innocenza, la strada della trasformazione viene sbarrata dall’oscurantismo della ragione... . Sembra sopraggiungere un po’ di luce, la visione sfuma fino ad assumere toni in bianco e nero. Le dimensioni delle immagini si rimpiccioliscono, fino a diventare dei... nani che, sulle note di una musica indigena, ancora una volta vanno a rappresentare la disperata ineluttabilità degli eventi: in un oscuro istituto, dei nani si ribellano al loro educatore tiranno, perché stanchi dei soprusi che da sempre subiscono. “Quando siamo bravi nessuno se ne accorge, ma se sbagliamo, non lo dimenticate mai. Ne abbiamo abbastanza della lotta eterna contro la bestia che si annida dentro di noi!”.
Ogni frammento della rivolta contiene in sé l’incessante tormento, derivante da un continuo senso di impotenza. La rivolta dei piccoli obbedienti sembra mettere a nudo una deformità psichica che viene considerata connaturata all’uomo, come è organico il danno legato all’essere un nano: i nani non sono destinati ad aumentare la propria altezza. La rabbia cieca dell’impossibilità diventa strumento violento di vendetta per una possibilità che non viene loro riconosciuta. Braccati, schiacciano ogni possibilità di nascita e di divenire, restituendo quanto è stato loro dato: si susseguono, in un crescendo di vandalismi, atti di crudeltà, uccisioni di tutto ciò che è vitale, per rappresentare come, in un tempo lontano, è stata distrutta la loro innocenza. Come il camioncino gira continuamente in cerchio senza possibilità alcuna di cambiare direzione, allo stesso modo a Hombre non resta altro che la sua risata allucinata, di fronte a un dromedario in ginocchio, come a dover chiedere perdono per qualcosa che non ha mai commesso. La sua voce metallica sembra prolungarsi meccanicamente all’infinito e dissolversi nel nero della disperazione di un uomo per il quale non è possibile superare un’ingiustizia, una perdita, un danno subìto.
Ritorno al mio sgabello e Fitzcarraldo mi sorride con i suoi occhi di luna. Ha visto e sentito: è ancora un po’ piegato su sé stesso e le mani tremano, ma il cuore ha ritrovato la calma. Mentre riprendo a scrivere, anche lui si alza e calmo raggiunge i suoi compagni. Forse abbiamo una certezza in comune: i sentieri impervi e accidentati sono necessari per inventare un modo nuovo di procedere, per trovare tracce, spiragli di luce nella boscaglia. Sopraggiunge in modo così naturale l’idea geniale! Impiegare la forza della nave stessa per trascinarla in cima alla montagna, farla scivolare sulle rotaie lasciando che sia il motore a far girare l’argano dell’àncora. L’impresa riprende il suo corso, attingendo la forza proprio da quello che, fino a un attimo prima, veniva considerato il problema. Il canto di Caruso accompagna la navigazione della Molly Aida lungo la montagna fino alla vetta, sul mare della ritrovata creatività. Solo in quel momento, proprio quando i bianchi sentono di avercela fatta, gli Indios si dipingono il volto di nero, il colore che li rende invisibili durante le azioni di caccia o di guerra. Quando la sera i bianchi festeggiano ebbri la riuscita con danze e canti, il capo tribù osserva in silenzio perché conosce il rituale, sa che nel cuore della notte verranno tagliate le grosse cime che ancorano l’imbarcazione alla sponda, per donarla alle acque del fiume e placare finalmente l’ira degli spiriti maligni.
La mattina seguente Fitzcarraldo si sveglia sulla nave alla deriva sull’Ucayali: il Pongo das Mortes, spaventoso e impetuoso, travolge il battello e, con la sua forza, lo sballotta da una roccia all’altra. La Molly Aida si lascia accompagnare in questa danza tra le rapide dalle note liriche che calano sulla foresta in un’atmosfera di sogno. È il momento del trapasso, con la nave che, avvolta dai flutti, segue il ritmo delle miriadi di gocce che si accalcano lungo le fiancate. Gli Indios sono lì, testimoni silenziosi di un passaggio. Essi sono il presente, il legante per l’azione: con la loro vitalità primordiale rappresentano la memoria di una terra che si lascia nutrire, proprio come fa un neonato con la propria madre. Seguendo la corrente del fiume, sulla scia del mito che incontra il sogno, si sono affidati al sognatore... e il sognatore non li ha traditi, neppure quando loro hanno chiesto qualcosa di più che regalava a lui l’opportunità di una nascita inaspettata. E così l’imbarcazione-sogno, con il suo sognatore, partecipano a un meraviglioso rito iniziatico che non è più nella salita della nave sulla montagna, ma nel suo ritorno all’acqua, quando l’affrontare le rapide allude all’ineluttabilità della nascita. Anche un sogno può rimanere ancorato al cordone ombelicale se non tiene conto di come la realtà interna venga continuamente rimodellata da quanto andiamo vivendo. In questo darsi reciproco, il sogno alimenta il mito e il mito dà la spinta per costruire nuovi sogni.
Dopo il buio calato come un manto su tutte le cose, la luce, decisa, rischiara i contorni. Nel nuovo giorno Fitzcarraldo incontra Don Aquilino e gli racconta di un altro uomo: “Quando il Nord America era ancora sconosciuto, ci fu un solitario, un francese, che partì da Montreal verso ovest. Fu il primo bianco che vide la maestosità delle Cascate del Niagara. Quando tornò, raccontò che le cascate erano così incredibilmente grandi che superavano ogni umana immaginazione... ma nessuno gli credette, anzi lo presero per matto. Volevano delle prove... lui rispondeva - la prova è nei miei occhi, nella mia memoria, la prova è la mia presenza”. La prova è nella nuova identità acquisita, a prescindere dalle prove materiali conquistate per sostenerla. Fitzcarraldo è riuscito nell’impresa di riportare il sogno al mito e il mito al sogno e la memoria di questo passaggio dell’umanità è impresso nel suo sguardo, nella sua voce, nei suoi movimenti. Ed è forse per questo dono che Don Aquilino riacquista la Molly Aida, suscitando in Fitzcarraldo una nuova scintilla onirica: è giunta in città una compagnia italiana di opera lirica. Caruso è lì.
Ecco che, per uno strano gioco temporale, il momento che si va vivendo diventa la sintesi di un passato che si rivolge al futuro: non è più lui che deve costruire un teatro per Caruso, ma la presenza stessa di Caruso reclama una nuova soluzione. Fitzcarraldo fa il suo ingresso in città con la nave trasformata per l’occasione in un Teatro dell’Opera dove la compagnia lirica e Caruso fanno la loro rappresentazione: questo è il dono per Molly... e per gli abitanti della foresta... e anche per noi che l’abbiamo seguito nelle sue peripezie. Le acque si aprono al nuovo sogno, diventato una realtà in movimento che fende il fiume, lo accarezza dolcemente, mentre un uomo e una donna si tengono per mano. Sono diretti verso il punto in cui i corsi d’acqua si incontrano per diventare un’unica via che, al suono della musica, porta al Mare.
Mi trovo anch’io su questa nave che giunge al mare insieme con Fitzcarraldo e Molly e, voltando lo sguardo... vedo gli aborigeni seguiti dalle formiche verdi che non sono più scomparse dalla terra sacra e continuano a sognare... vedo i nani che rubano la macchina per partire, tutti, per Parigi... vedo Aguirre che balbetta la lingua degli Indios dopo che uno di loro lo ha liberato dalle scimmie... e ancora Kaspar Hauser che ritrova la sua innocenza perché decide senza nessuna logica di seguire Hias nella ricerca di una nuova terra, dove Stroszek e Woyzeck si sono stabiliti lasciandosi guidare dal desiderio delle proprie donne... e ancora Nosferatu e Lucy a cavallo lungo le bianche scogliere perché Cobra Verde riesce a prendere il largo con la sua barca andando incontro all’Oceano, insieme alla ragazzetta indigena che canta a prua.
E vedo la Luna, coi raggi argentati che si posavano sempre su di me quando scrivevo, quando sognavo storie diverse per questi personaggi e per tutti gli uomini perduti... quando mi dannavo, da sola, davanti ai film, cercando risposte alla sofferenza sorda di un essere umano che trascina il suo segreto. Aveva perduto l’innocenza, diceva che era per sempre... perciò si disperava. Poi ha incontrato un compagno di viaggio che con la sua corporeità ha rappresentato e dato vita al suo cinema, mettendo le vele e gonfiandole di vento. Regista e attore: due immagini contrastanti unite da gigantesche liti risolte con intense riappacificazioni ed un bellissimo film dove nel finale un uomo segue il volo di una farfalla mentre si posa sul suo corpo. Due immagini complementari, maschile e femminile, l’una statica e votata all’impossibilità, l’altra vivida di sussulti come frecce d’arco teso.
Non ho scelto di affrontare questa avventura, come Fitzcarraldo non ha scelto di affrontare le rapide del fiume. Anche a me sembrava impossibile affrontare Herzog. In questa discesa agli Inferi ho ascoltato le sue parole: “La vita negli oceani dev’essere un inferno, un enorme e spietato inferno, dove il pericolo è immediato e permanente. Ed è un tale inferno che molte specie nel corso della loro evoluzione - compreso l’essere umano - si sono messe a nuotare, fuggendo verso piccoli continenti di terraferma, dove le Lezioni di Oscurità continuano”. Forse, dovevo cimentarmi con tutto questo, per imparare a dire ciò che già sapevo: la realizzazione di un sogno non è la violenza del sogno stesso, nel momento in cui esso diventa costrizione a essere e a rappresentare, tenendo conto della realtà fecondante dell’altro.
Forse anch’io, come Fitzcarraldo, volevo continuare a sognare di luoghi belli dove portare i miei sogni. Ho scoperto invece che un sogno ha una sua strada sconosciuta, un suo sentiero che si può incontrare con altri, per disegnare un sogno finalmente nomade nel suo essere e nel suo continuo divenire. Vedo in lontananza un movimento sconosciuto, qualcuno si avvicina piano e fa cenno di seguirlo. Lascio cadere una volta per tutte il pelo scuro e pesante sul fondo sabbioso e con una voce nuova vado via.
Mi inoltro per raggiungere un luogo dove il blu e l’azzurro lasciano il posto a un verde fitto, variegato e popolato. La luce è intensa ma ciclicamente tende ad attenuarsi, il vento soffia leggero ma va cambiando con l’alternarsi del giorno e della notte. Una pioggia tropicale cade quasi incessantemente. Mi incammino per una striscia di terra inizialmente ampia che si restringe fino a confondersi con la radura. Sono nella foresta vergine che si increspa fino a profondità inimmaginabili, dove lo sguardo si perde ed iniziano le visioni... i demoni dell’oscurità iniziano a correre sconnessi tra i rami degli alberi... e i sogni, levandosi dalle fiamme di fuochi ardenti nel cuore della radura, portano a...
... Manaus... foresta Amazzonica... primi del Novecento. Un uomo e una donna sono su una barca, nel buio della notte; da Iquitos hanno percorso milleduecento miglia d’acqua. Giungono trafelati davanti al Teatro dell’Opera dove canta il grande Caruso. L’uomo è Fitzcarraldo, un avventuriero che ha tentato di creare una linea ferroviaria transandina e una fabbrica di ghiaccio nel cuore della foresta; la sua compagna Molly gestisce una casa di ragazze indie, dopo averle strappate alla miseria delle loro vite. Qualcuno all’entrata del teatro tenta invano di sbarrare loro la strada. Fitzcarraldo non si lascia fermare: “Ho remato per due giorni e due notti per vedere Caruso almeno una volta nella vita. Costruirò a Iquitos un Teatro d’Opera e Caruso lo inaugurerà. Sarà il Teatro d’Opera più grande che la giungla abbia mai visto! ”. Sono le parole ardenti di un sognatore, dietro il quale è il regista della storia, Werner Herzog. Vuole dire qualcosa... parla attraverso le sue visioni e mi lascia entrare nel sogno restando rannicchiato dietro la sua macchina da presa. Mostra la veemenza di Fitzcarraldo, lo scontro continuo con quella ideologia dell’impossibile che è anche sua: come semi in un campo senza confini egli è il vento che agita i papaveri verdi, lasciando trapelare la sua disperazione, la convinzione di un’irrecuperabilità che non dà tregua, togliendo il respiro e la vita stessa.
Questi pensieri tagliati alle radici risuonano con l’ammasso di legni quasi marci che cozzano l’uno contro l’altro, mentre Fitzcarraldo e Molly tornano a Iquitos. La città pullula di squallide baracche di legno sgangherate, abitate da uomini sfiniti: regnano sovrane sporcizia e melma, stanchezza e disillusione, solitudine e miseria, su uno sfondo di rifiuti pieni di avvoltoi in cerca di carcasse, dove un mattatoio è pronto a sancire statico, la ripetitività di un sordo sterminio che urla tutto il suo dissenso di fronte al perenne movimento di donne che allattano e di bambini scalzi che giocano. Fitzcarraldo abita sul fiume, in una casa di legno senza mura perimetrali: questo è il luogo lontano in cui egli difende i propri sogni e dove il suo pubblico di bambini lo ama incondizionatamente proprio per questo. I bambini, con il suono del loro violino, sostengono Fitzcarraldo e il suo sogno e lui risponde con la musica del grammofono, con le belle arie cantate da Caruso: in questo nutrimento onirico e sonoro scambievole, i bambini possono riprendere la via del sogno, forse perché condividono la purezza che è alla base della bellezza e della libertà con cui Fitzcarraldo vive il desiderio.
... Un pipistrello sbatte le ali con ritmo cadenzato, in uno sfondo di ombre. Non c’è purezza, libertà o bellezza in una possibilità negata. Quando l’oscurità si dissolve fino a diventare neve, emerge il terrore vissuto nella continua convinzione che la degradazione del desiderio di un uomo, diventando avidità cieca, possa distruggere sé stesso e l’altro. Odo l’urlo lacerante di una donna nel cuore della notte. Chiudo gli occhi ed entro in un regno notturno dove una musica lugubre unita ai battiti di un cuore che pompa, aprono il sentiero di un bosco di terrore in cui un velo cade lento su una regione misteriosa popolata dai lupi e abitata da gente che crede agli spiriti. L’avvertimento ad avere paura e fuggire, finché si è in tempo, viene dagli zingari, popolo legato alla natura e misteriosamente affine alla creatura della notte.
Prati sconfinati, monti selvaggi, stretti cunicoli nelle viscere della terra, rocce e ruscelli che scorrono, nebbia che avvolge e che nasconde segreti insondabili... oscurati da una musica cupa, solenne, quasi primordiale che tende al raggiungimento di una conoscenza che solo pochi hanno e che costa la vita. Il vampiro, come un’ombra che lo specchio non riflette, vive nella solitudine del suo castello. Egli ha la conoscenza, ma per sopravvivere deve succhiare la vitalità dell’altro fino all’ultima goccia. Condannato all’immortalità, è costretto dalla sua natura di inestinto, affamato di vita, a trascinare un insopportabile fardello: l’impossibilità di amare. Quando incontra Lucy, la sete inarrestabile nei confronti dell’oggetto del suo desiderio diventa troppo forte per non essere vissuta fino in fondo e, prima del giungere dell’alba, Nosferatu non rinuncia: si riempie della donna, pur sapendo che il raggio di sole, ormai prossimo, lo trafiggerà, rendendo inevitabile il suo annientamento.
La stessa luce del mattino inonda pian piano l’aria, che si posa in un soffio leggero sulle acque di Iquitos, dove Don Aquilino, “barone del caucciù”, si mostra disponibile verso Fitzcarraldo per la realizzazione di una grande impresa. Lungo il fiume Ucayali esiste una foresta estesa e inesplorata di alberi di caucciù, anche se le pericolose rapide del Pongo das Mortes rappresentano un ostacolo al raggiungimento del prezioso materiale. Ma Fitzcarraldo vede ciò che Don Aquilino non sa vedere: parallelamente all’Ucayali scorre un altro fiume, il Pachitea, pieno di Indios cacciatori di teste, e i due fiumi, dopo avere delimitato un grande spazio, vanno l’uno verso l’altro fin quasi a sfiorarsi in un punto. Solo Fitzcarraldo vede il canale del parto, la via d’uscita da cui nasce l’idea per la realizzazione del suo sogno: nel punto di restringimento egli trasporterà una nave sulla montagna e, da una sponda all’altra dei due fiumi, sarà portato il caucciù per essere condotto sul Pachitea, attraverso cui giungerà fino a Iquitos: con i proventi delle vendite potrà finalmente portare il Teatro dell’Opera nella foresta. Malgrado la sua posizione di uomo bianco che vive dello sfruttamento di un territorio e della sua popolazione, Don Aquilino, come Herzog, offre a Fitzcarraldo la possibilità di dare vita al suo sogno, partecipando al sogno dell’altro: non viene negata l’occasione a colui che è in grado di entrare nel mare e di prendere il largo...
Vedo un uomo, soprannominato Cobra Verde dalla gente che ne ha paura. Vorrebbe fuggire dalla miseria che lo circonda, dalle ingiustizie subìte, dalla sofferenza e dalla solitudine che invadono il suo cuore; vorrebbe andare altrove, cambiare vita. Guarda il mare, ma di fronte all’infinita linea dell’orizzonte si ferma e non riesce a prendere il largo. È la natura degradata dei suoi pensieri a bloccarlo: “Come descrivere questa mia stupida esistenza? Vorrei vivere nella terra del ghiaccio... il caldo ti scorre dentro come una febbre eppure, nonostante ciò, il mio cuore si fa ogni giorno più freddo...”. Crede che dal mare abbia origine la neve, crede che la schiavitù sia un inganno e un crimine: “È un elemento del cuore umano per la nostra rovina...”. Pensiero sciancato che non lo lascia, come l’uomo deforme che a quattro zampe lo segue sulla spiaggia e assiste al suo vano e disperato tentativo di trascinare da solo la barca in acqua. Cobra Verde non ce la fa e annega nella sua impossibilità, mentre una ragazzetta canta e sorride: immagine di un volto incontaminato, non ancora irreversibilmente deformato dall’orgia del potere. La nascita degli esseri umani parla di una sanità iniziale, ma quando la sanità è perduta, non c’è niente da fare, dice Herzog.
Fitzcarraldo sembra portare in sé l’immagine di quella ragazzetta, proprio come Molly, sicura che il suo uomo costruirà il teatro per Caruso, perché “solo i sognatori possono spostare intere montagne”. E questa è l’energia più importante che mette a disposizione per difendere Fitzcarraldo dagli uomini ricchi e ottusi, “gli uomini morti”: la sua decisione di finanziare materialmente l’impresa è poca cosa rispetto alla fiducia che ha nel sognatore e nel suo sogno. Herzog sembra quasi accarezzare il suo personaggio, Fitzcarraldo, che ha la sua donna ed il suo sogno, ma... quanto riesce a lasciarsi innamorare, tanto da alimentare la speranza di un cambiamento possibile?
... Si aprono le sbarre di una cella, ne esce un uomo di nome Bruno Stroszek che spera e tenta di ricominciare una nuova vita. Sceglie accanto a sé una donna anche lei disperata che cerca invano di sottrarsi a un vissuto di sfruttamento. La loro partenza in America è solo una fuga dai violenti persecutori di un passato buio. Presto si accorgono che nel nuovo continente resta tutto uguale a prima, perché nulla può e deve cambiare. “Chi lo sa cosa mi riserva il futuro, il carcere è sempre aperto... quando un uomo è disperato e ha bisogno di amore, proprio allora non lo trova... è sempre così”. Il destino è segnato e senza via d’uscita...
... Una voce di donna giunge dalla casa semplice e poco illuminata di un villaggio: “Sono proprio una donna cattiva, dovrei ammazzarmi”. Lei ha tradito il suo uomo, un soldato di nome Woyzeck: maltrattato dal suo superiore e sfruttato da un medico per i suoi esperimenti, lei ed il loro bambino sono, per lui, il solo conforto della sua vita, popolata da visioni improvvise e da neri presagi. Quando viene a conoscenza del tradimento della sua donna, cerca disperatamente su di lei i segni della perduta innocenza: “Eppure non si vede niente, un peccato dovrebbe restare come un marchio sulla carne... no, si dovrebbe vedere qualcosa, gli uomini sono come degli abissi, ti gira la testa se provi a guardarci dentro... ma l’innocenza deve avere il segno di riconoscimento, dov’è? Dov’è? lo non lo vedo!”. Le voci che Woyzeck sente provenire dalla terra sono lampi di una follia omicida e suicida che sanciscono ancora una volta l’impossibilità di una corrispondenza di immagini, di un incontro fra un uomo e una donna, di un rapporto creativo che renda possibile la realizzazione di un sogno comune, capace di far trovare un tesoro...
... come la nave che Fitzcarraldo e Molly trovano, un vecchio battello a vapore ricoperto di ruggine e con qualche falla sotto la linea di galleggiamento. Solo le linee sinuose rimangono a reclamare una immagine e un nome: diventerà Molly Aida. Fitzcarraldo ancora una volta sa vedere oltre le apparenze: lo stato di abbandono di un involucro malconcio può nascondere una sostanza plasmabile, una realtà possibile. I suoi sensi fanno da supporto all’intuizione che dietro una carcassa abbandonata, che pochi penserebbero di veder navigare ancora, si cela un tesoro, una verità: una barca torna a navigare...
... Vedo un universo remoto, piovuto in un altro tempo. Mi lascio inondare da una natura in cui la luce è intima e viva, come le fiamme che ardono nel fuoco della notte, riflettendo spazi che assistono impetuosi a un inevitabile mutamento. Il vento soffia sul paesaggio avvolto nella nebbia che sfuma i contorni e può nascondere ogni cosa. Nella luce della foresta un uomo cammina, Hias. Egli si distingue dagli altri perché “vede” e sarà testimone dell’irrompere del caos tra gli uomini del villaggio che vogliono riappropriarsi di un segreto perduto, la fabbricazione del favoloso vetro rubino. “Il vetro ha un’anima fragile, è limpido, senza macchia... Il sangue, la vita, ogni cosa è in quel vetro, in quel rosso, in quel colore... manderemo il vetro nel mare, il mare si tingerà di rosso”.
La legge del rubino se n’è andata via per sempre e di fronte all’impossibilità di riprendersi ciò che non esiste più, dilagano nella comunità follia e morte. Soltanto Hias non è travolto da quella pazzia e torna nel bosco per cercare altri essere umani. “Nella foresta vedi una fiammella, speri sia un uomo...”, invece sono alberi che come braccia protese spuntano da una terra ferita di solitudine: “Sono davvero l’ultimo? Sono l’ultimo rimasto?”. Eppure, in questa solitudine ha la visione del mare: vede un lembo di terra emersa e uno sperone di roccia accanto, dove ci sono uomini senza nome. Sono senza identità poiché non sanno che la terra è rotonda e sono convinti che l’oceano precipiti in un abisso senza fine. Ma un uomo, lontano da loro, fissa il mare e osa mettere in dubbio la credenza dei più; il tempo corre e altri tre uomini sono ora con lui a guardare l’orizzonte, per cogliere i nuovi confini del mondo. Le antiche ballate si accordano con lo scorrere delle onde, mentre gli uomini scandiscono la partenza verso una nuova terra con il movimento dei remi nell’acqua: se ne vanno senza voltarsi, senza un minimo gesto, accompagnati dal volo dei gabbiani e...
... come la Molly Aida che salpa dal molo diretta sul Pachitea, guidata dal suo capitano, scelto da Fitzcarraldo perché, anche se non ci vede più bene, sente nell’aria il pericolo: “La giungla è piena di illusioni, di inganni, di sogni, di miraggi e demoni. Gli anni mi hanno aiutato a distinguere tra realtà e allucinazione”.
L’equipaggio non sa e neppure intuisce il senso dell’impresa e il suo collegamento al sogno. In contrapposizione, “... Gli Indios della foresta pensano che la vita non esista e che sia soltanto un’illusione, dietro la quale si nasconde la realtà dei sogni”. Contrapposizione di mondi e in mezzo Fitzcarraldo, il quale risale il fiume, tra i tam tam della foresta che non cessano di rullare minacciosi. Un silenzio ancora più minaccioso è la risposta al lancio incauto di una miccia... poi un segnale di morte e il tam tam riprende ancora più frenetico. Fitzcarraldo mantiene la calma perché conosce il segreto della musica: glielo hanno insegnato i bambini! Porta il suo grammofono sul punto più alto della nave e il canto di Caruso riempie l’aria e la irrora, come acqua che cade in un deserto. I tamburi smettono di rullare: tutta la foresta vergine è in ascolto.
Quel silenzio narra il mito degli Indios: essi lasciarono, trecento anni prima, il cuore del Brasile per spingersi nella foresta e cercare il dio bianco, sul grande battello, che li avrebbe condotti verso una terra dove non esistevano dolore e morte. E ora il battello bianco è lì, davanti a loro. I tamburi rispondono e la foresta assiste incredula all’incontro tra un mito e un sogno: gli indigeni si materializzano improvvisamente sul fiume e con le loro canoe seguono la nave musicale. Quando salgono a bordo, lentamente sfiorano la mano di Fitzcarraldo, lo esplorano, mentre lui non si sottrae e li lascia fare. Ora la foresta sa che gli Indios seguiranno il loro dio, finalmente ritrovato, per tutto il viaggio. II sogno non può diventare schiavo del mito. Sul ponte di comando, Fitzcarraldo è piegato sulle carte geografiche: sono arrivati al punto fatidico, quello in cui i due fiumi si avvicinano fin quasi a toccarsi. Gli uomini scendono a terra per vedere la montagna che li separa. Fitzcarraldo rivela finalmente i particolari del suo progetto: la nave oltrepasserà il monte con gli argani, le funi e la forza degli Indios. II mito si incontra con il sogno e si mette al suo servizio: il capo tribù dà il suo assenso.
... In un altro punto lontano della foresta, una natura ostile si apre a una visione ben differente: il fuoco di un cannone sputa il suo odio contro la natura ferita in cui degli Indios, schiavi di un manipolo di spagnoli, seguono impotenti un destino insidioso. Questa volta i bianchi senza sogni inseguono il mito di El Dorado, il paese dell’oro situato lungo le inaccessibili paludi, alle sorgenti del Rio delle Amazzoni. Sono pronti a sacrificare la propria vita per il prezioso materiale, con lo scopo ‘ufficiale’ di portare la parola di Dio tra i selvaggi, civilizzandoli: “Per la gloria di Nostro Signore, la Chiesa deve sempre stare dalla parte del più forte”. Lungo il fiume, nel gruppo, c’è Aguirre, con la sua pretesa di dominare il mondo: “I miei uomini misurano tutto con l’oro ma per me conta solo il potere, l’oro lo lascio ai servi... Sono il furore di Dio, la terra che io calpesto mi vede e trema; chi seguirà me e il fiume, avrà grandi onori e ricchezze, ma chi diserterà...”. Eppure la terra non trema e la natura non si piega dinanzi alla violenza e alla follia di un uomo senza sogni. Anzi, agirà la rivincita attraverso il suo popolo: “Ora sei tu uomo bianco a essere schiavo, perché non uscirai vivo da questa foresta!”. Sulla zattera, lungo il fiume, i pochi bianchi rimasti, vengono uccisi dalle frecce, uno ad uno, mentre Aguirre resta solo, con la sua pazzia, circondato dalle scimmie, immagini del suo mondo violento e malato.
La foresta assiste impassibile al compiersi degli eventi: alcuni Indios muoiono durante il tentativo di trasportare il battello via terra. Il vento agita i capelli arruffati di Fitzcarraldo mentre siede su di un tronco d’albero, scoraggiato, avvilito, perché sente fin nelle ossa la fragilità umana di fronte alla maestosità della natura. Alza lo sguardo verso la radura e cerca il legame tra il suo sogno e il bosco fitto: dovrà lasciare quegli uomini nella terra di nessuno? Cerca febbrilmente intorno a sé liane robuste per uscire dall’abisso. Tre visioni si fanno strada...
... Mi lascio condurre in un deserto di sabbia australiano, sconfinato e inondato da un canto lirico sulle cui note alcuni aborigeni sono in attesa: “Noi sorvegliamo questo posto, non ci saranno scavi e non ci saranno mine, questo è il posto dove sognano le formiche verdi. Se distruggerete una terra sacra, distruggerete anche le formiche verdi che non torneranno mai più su questa terra... Voi bianchi siete perduti, voi non potete capire la terra, non avete un senso, uno scopo, una direzione”. La credenza è che man mano che spariscono i luoghi fisici, spariscano anche le tracce culturali di un popolo: i superstiti di una tribù estinta sono condannati a non parlare perché non compresi più da nessuno. Nonostante gli enormi sforzi del popolo aborigeno per evitare la distruzione degli antichi tesori, anche a costo della vita di alcuni, le trivelle predominano, stuprando la terra e affermando con la forza una civilizzazione accecata, un’educazione imposta, un indottrinamento volto a strappare una purezza...
... come quella di Kaspar Hauser, vissuto rinchiuso in un luogo buio, isolato dal mondo esterno sin dai primordi della sua vita. Non è mai stato seduto a un tavolo, non è mai stato diritto, non sa parlare, né leggere, né scrivere, è come un uccellino in gabbia che, una volta fuori, viene catapultato, senza chiederlo, nell’abisso degli uomini civilizzati. I suoi educatori vogliono erudirlo e imporre il mondo della logica su quello delle rappresentazioni inconsce che quella strana presenza va proponendo. Anche Kaspar non ce la fa... perché quando si impone il pensiero della definitiva perdita dell’innocenza, la strada della trasformazione viene sbarrata dall’oscurantismo della ragione... . Sembra sopraggiungere un po’ di luce, la visione sfuma fino ad assumere toni in bianco e nero. Le dimensioni delle immagini si rimpiccioliscono, fino a diventare dei... nani che, sulle note di una musica indigena, ancora una volta vanno a rappresentare la disperata ineluttabilità degli eventi: in un oscuro istituto, dei nani si ribellano al loro educatore tiranno, perché stanchi dei soprusi che da sempre subiscono. “Quando siamo bravi nessuno se ne accorge, ma se sbagliamo, non lo dimenticate mai. Ne abbiamo abbastanza della lotta eterna contro la bestia che si annida dentro di noi!”.
Ogni frammento della rivolta contiene in sé l’incessante tormento, derivante da un continuo senso di impotenza. La rivolta dei piccoli obbedienti sembra mettere a nudo una deformità psichica che viene considerata connaturata all’uomo, come è organico il danno legato all’essere un nano: i nani non sono destinati ad aumentare la propria altezza. La rabbia cieca dell’impossibilità diventa strumento violento di vendetta per una possibilità che non viene loro riconosciuta. Braccati, schiacciano ogni possibilità di nascita e di divenire, restituendo quanto è stato loro dato: si susseguono, in un crescendo di vandalismi, atti di crudeltà, uccisioni di tutto ciò che è vitale, per rappresentare come, in un tempo lontano, è stata distrutta la loro innocenza. Come il camioncino gira continuamente in cerchio senza possibilità alcuna di cambiare direzione, allo stesso modo a Hombre non resta altro che la sua risata allucinata, di fronte a un dromedario in ginocchio, come a dover chiedere perdono per qualcosa che non ha mai commesso. La sua voce metallica sembra prolungarsi meccanicamente all’infinito e dissolversi nel nero della disperazione di un uomo per il quale non è possibile superare un’ingiustizia, una perdita, un danno subìto.
Ritorno al mio sgabello e Fitzcarraldo mi sorride con i suoi occhi di luna. Ha visto e sentito: è ancora un po’ piegato su sé stesso e le mani tremano, ma il cuore ha ritrovato la calma. Mentre riprendo a scrivere, anche lui si alza e calmo raggiunge i suoi compagni. Forse abbiamo una certezza in comune: i sentieri impervi e accidentati sono necessari per inventare un modo nuovo di procedere, per trovare tracce, spiragli di luce nella boscaglia. Sopraggiunge in modo così naturale l’idea geniale! Impiegare la forza della nave stessa per trascinarla in cima alla montagna, farla scivolare sulle rotaie lasciando che sia il motore a far girare l’argano dell’àncora. L’impresa riprende il suo corso, attingendo la forza proprio da quello che, fino a un attimo prima, veniva considerato il problema. Il canto di Caruso accompagna la navigazione della Molly Aida lungo la montagna fino alla vetta, sul mare della ritrovata creatività. Solo in quel momento, proprio quando i bianchi sentono di avercela fatta, gli Indios si dipingono il volto di nero, il colore che li rende invisibili durante le azioni di caccia o di guerra. Quando la sera i bianchi festeggiano ebbri la riuscita con danze e canti, il capo tribù osserva in silenzio perché conosce il rituale, sa che nel cuore della notte verranno tagliate le grosse cime che ancorano l’imbarcazione alla sponda, per donarla alle acque del fiume e placare finalmente l’ira degli spiriti maligni.
La mattina seguente Fitzcarraldo si sveglia sulla nave alla deriva sull’Ucayali: il Pongo das Mortes, spaventoso e impetuoso, travolge il battello e, con la sua forza, lo sballotta da una roccia all’altra. La Molly Aida si lascia accompagnare in questa danza tra le rapide dalle note liriche che calano sulla foresta in un’atmosfera di sogno. È il momento del trapasso, con la nave che, avvolta dai flutti, segue il ritmo delle miriadi di gocce che si accalcano lungo le fiancate. Gli Indios sono lì, testimoni silenziosi di un passaggio. Essi sono il presente, il legante per l’azione: con la loro vitalità primordiale rappresentano la memoria di una terra che si lascia nutrire, proprio come fa un neonato con la propria madre. Seguendo la corrente del fiume, sulla scia del mito che incontra il sogno, si sono affidati al sognatore... e il sognatore non li ha traditi, neppure quando loro hanno chiesto qualcosa di più che regalava a lui l’opportunità di una nascita inaspettata. E così l’imbarcazione-sogno, con il suo sognatore, partecipano a un meraviglioso rito iniziatico che non è più nella salita della nave sulla montagna, ma nel suo ritorno all’acqua, quando l’affrontare le rapide allude all’ineluttabilità della nascita. Anche un sogno può rimanere ancorato al cordone ombelicale se non tiene conto di come la realtà interna venga continuamente rimodellata da quanto andiamo vivendo. In questo darsi reciproco, il sogno alimenta il mito e il mito dà la spinta per costruire nuovi sogni.
Dopo il buio calato come un manto su tutte le cose, la luce, decisa, rischiara i contorni. Nel nuovo giorno Fitzcarraldo incontra Don Aquilino e gli racconta di un altro uomo: “Quando il Nord America era ancora sconosciuto, ci fu un solitario, un francese, che partì da Montreal verso ovest. Fu il primo bianco che vide la maestosità delle Cascate del Niagara. Quando tornò, raccontò che le cascate erano così incredibilmente grandi che superavano ogni umana immaginazione... ma nessuno gli credette, anzi lo presero per matto. Volevano delle prove... lui rispondeva - la prova è nei miei occhi, nella mia memoria, la prova è la mia presenza”. La prova è nella nuova identità acquisita, a prescindere dalle prove materiali conquistate per sostenerla. Fitzcarraldo è riuscito nell’impresa di riportare il sogno al mito e il mito al sogno e la memoria di questo passaggio dell’umanità è impresso nel suo sguardo, nella sua voce, nei suoi movimenti. Ed è forse per questo dono che Don Aquilino riacquista la Molly Aida, suscitando in Fitzcarraldo una nuova scintilla onirica: è giunta in città una compagnia italiana di opera lirica. Caruso è lì.
Ecco che, per uno strano gioco temporale, il momento che si va vivendo diventa la sintesi di un passato che si rivolge al futuro: non è più lui che deve costruire un teatro per Caruso, ma la presenza stessa di Caruso reclama una nuova soluzione. Fitzcarraldo fa il suo ingresso in città con la nave trasformata per l’occasione in un Teatro dell’Opera dove la compagnia lirica e Caruso fanno la loro rappresentazione: questo è il dono per Molly... e per gli abitanti della foresta... e anche per noi che l’abbiamo seguito nelle sue peripezie. Le acque si aprono al nuovo sogno, diventato una realtà in movimento che fende il fiume, lo accarezza dolcemente, mentre un uomo e una donna si tengono per mano. Sono diretti verso il punto in cui i corsi d’acqua si incontrano per diventare un’unica via che, al suono della musica, porta al Mare.
Mi trovo anch’io su questa nave che giunge al mare insieme con Fitzcarraldo e Molly e, voltando lo sguardo... vedo gli aborigeni seguiti dalle formiche verdi che non sono più scomparse dalla terra sacra e continuano a sognare... vedo i nani che rubano la macchina per partire, tutti, per Parigi... vedo Aguirre che balbetta la lingua degli Indios dopo che uno di loro lo ha liberato dalle scimmie... e ancora Kaspar Hauser che ritrova la sua innocenza perché decide senza nessuna logica di seguire Hias nella ricerca di una nuova terra, dove Stroszek e Woyzeck si sono stabiliti lasciandosi guidare dal desiderio delle proprie donne... e ancora Nosferatu e Lucy a cavallo lungo le bianche scogliere perché Cobra Verde riesce a prendere il largo con la sua barca andando incontro all’Oceano, insieme alla ragazzetta indigena che canta a prua.
E vedo la Luna, coi raggi argentati che si posavano sempre su di me quando scrivevo, quando sognavo storie diverse per questi personaggi e per tutti gli uomini perduti... quando mi dannavo, da sola, davanti ai film, cercando risposte alla sofferenza sorda di un essere umano che trascina il suo segreto. Aveva perduto l’innocenza, diceva che era per sempre... perciò si disperava. Poi ha incontrato un compagno di viaggio che con la sua corporeità ha rappresentato e dato vita al suo cinema, mettendo le vele e gonfiandole di vento. Regista e attore: due immagini contrastanti unite da gigantesche liti risolte con intense riappacificazioni ed un bellissimo film dove nel finale un uomo segue il volo di una farfalla mentre si posa sul suo corpo. Due immagini complementari, maschile e femminile, l’una statica e votata all’impossibilità, l’altra vivida di sussulti come frecce d’arco teso.
Non ho scelto di affrontare questa avventura, come Fitzcarraldo non ha scelto di affrontare le rapide del fiume. Anche a me sembrava impossibile affrontare Herzog. In questa discesa agli Inferi ho ascoltato le sue parole: “La vita negli oceani dev’essere un inferno, un enorme e spietato inferno, dove il pericolo è immediato e permanente. Ed è un tale inferno che molte specie nel corso della loro evoluzione - compreso l’essere umano - si sono messe a nuotare, fuggendo verso piccoli continenti di terraferma, dove le Lezioni di Oscurità continuano”. Forse, dovevo cimentarmi con tutto questo, per imparare a dire ciò che già sapevo: la realizzazione di un sogno non è la violenza del sogno stesso, nel momento in cui esso diventa costrizione a essere e a rappresentare, tenendo conto della realtà fecondante dell’altro.
Forse anch’io, come Fitzcarraldo, volevo continuare a sognare di luoghi belli dove portare i miei sogni. Ho scoperto invece che un sogno ha una sua strada sconosciuta, un suo sentiero che si può incontrare con altri, per disegnare un sogno finalmente nomade nel suo essere e nel suo continuo divenire. Vedo in lontananza un movimento sconosciuto, qualcuno si avvicina piano e fa cenno di seguirlo. Lascio cadere una volta per tutte il pelo scuro e pesante sul fondo sabbioso e con una voce nuova vado via.
Questo scritto è una rielaborazione del precedente scritto “Sognare un sogno impossibile” in L’ArcoAcrobata, Rivista di Scienze Umane ed Arte, Anno III, n.5, Musicalificio Grande Blu Ed., Roma 2004. Vai nella sezione Archivio della Homepage.
BIBLIOGRAFIA
F. GROSOLl, E. REITER (a cura di), Werner Herzog, Editrice Il Castoro, Milano 2000.
W. HERZOG, Fitzcarraldo, Ugo Guanda Ed., Parma 1997.
P. MEREGHETTI (a cura di), Dizionario dei film 2004, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano 2003.
W. HERZOG, Fitzcarraldo, Ugo Guanda Ed., Parma 1997.
P. MEREGHETTI (a cura di), Dizionario dei film 2004, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano 2003.
"Non so cosa sia la paura"
Intervista a W.Herzog, 13 Novembre 2014
Intervista a W.Herzog, 13 Novembre 2014
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Composizioni originali. L’URLO DEL CONTRABBASSO di Sebastiano Dessany. Anno 2014
L’URLO DEL CONTRABBASSO
Sebastiano Dessanay
Introduzione
The Cry of the Double Bass (traducibile come ‘L’urlo del contrabbasso’ ma anche, grazie alla sinteticità della lingua inglese, come ‘Il pianto del contrabbasso’) è un’opera di musica contemporanea che parla di arte, di contrabbasso e delle vicende umane di un artista anonimo. Nel racconto del duro viaggio dall’infanzia fino al diventare un musicista professionista, viene esplorato il rapporto tra il protagonista e la musica, il contrabbasso, mentre egli combatte per appagare il desiderio innato nel suo animo. Altamente simbolica e narrata con il sapore di una storia popolare, l’opera mescola commedia e dramma, mentre affronta tematiche alle quali molti artisti si sentiranno vicini.
L’opera è il risultato finale del mio dottorato di ricerca (Ph.D.) al Birmingham Conservatoire in Inghilterra, concluso nel 2013, ma anche il risultato della mia esperienza pluriennale di contrabbassista e compositore. Questo articolo descrive come il mio lato di esecutore, unito ad un processo creativo, abbia dato luogo alla composizione di un’opera che esplora e risolve alcune problematiche musicali ed extra-musicali. Mettendo la pratica strumentale al centro della mia ricerca, ho cercato di ristabilire una connessione tra i ruoli di esecutore e compositore, storicamente separati per alcuni secoli. È stato infatti all’inizio dell’Ottocento che l’essere ‘musicista’ ha iniziato a differire dall’essere ‘compositore’, e nel XX secolo questa divisione si è ulteriormente accentuata. Soltanto nella musica etnica e popolare i due ruoli hanno continuato a coesistere nella stessa persona fino ad oggi.
Il mio approccio alla composizione è stato simile a quello di un cantautore, strettamente legato all’esperienza diretta del suono tramite l’esplorazione del proprio strumento. Questo tipo di ricerca basato sulla pratica strumentale e la riflessione personale ha dato luogo ad un processo creativo del tutto originale, dove il nuovo materiale musicale scaturisce e viene sviluppato dall'analisi di problematiche tecniche e musicali sullo strumento, ma in seguito viene elaborato ed esteso ad un intero ensemble musicale. Il risultato finale contiene dunque tracce delle problematiche strumentali iniziali, ma nel processo è stato arricchito dall'esperienza di compositore, in grado di sviluppare il materiale musicale in maniera creativa, e trasformare quello che inizialmente era causa di frustrazione in un lavoro originale.
Infine la ricerca compositiva è stata influenzata fortemente anche dalla mia esperienza di ascoltatore. L’estrema complessità di certa musica contemporanea ha creato una barriera tra i compositori e il pubblico, e ha inoltre creato nuove problematiche tra gli esecutori. La composizione di The Cry of the Double Bass è stato per me un atto creativo catartico, tramite il quale le problematiche del compositore-esecutore e la loro risoluzione attraverso una nuova composizione possono essere trasmessi a un pubblico. Questa esperienza narrativa può infatti venire rivissuta e reinterpretata da ciascuno in maniera personale, dove la musica e il testo servano a stimolare la riflessione e possibilmente a fornire delle risposte alla ricerca personale e spirituale di ognuno.
Il mio ruolo di compositore e contrabbassista è servito da catalizzatore per innescare questo processo risolutivo.
Background
Tre importanti punti sono stati alla base della mia ricerca: prima di tutto la necessità come esecutore di affrontare e risolvere alcuni problemi tecnici e musicali sullo strumento. Avendo iniziato a studiare il contrabbasso classico ad una non più giovane età, ho affrontato l’impresa con grande determinazione. Tuttavia il percorso è stato arduo e spesso disseminato di numerosi ostacoli e quindi causa di frustrazione: per esempio alcune difficoltà fisiche sfociate in una tendinite, oppure le continue voci (sia interne che esterne) di critica o di dubbio. La perenne domanda, ‘Come posso migliorare come esecutore?’, mi ha fatto riflettere molto sugli aspetti tecnici dello strumento e mi ha fatto riconsiderare il concetto di virtuosismo. Piuttosto che affrontare i problemi strumentali con lo studio ossessivo di certo repertorio solista, ho deciso di isolare il materiale musicale causa di alcuni problemi tecnici e di ampliarlo sotto forma di nuove composizioni, dove il virtuosismo fisico lascia spazio ad un virtuosismo dell'intelletto. L'esecutore è dunque colui che genera il nuovo materiale musicale, che viene quasi 'customizzato' sull'individuo, non solo a livello fisico ma anche a livello di gusti musicali.
Il secondo punto importante è stato la necessità di creare un lavoro rilevante nel quale i risultati della mia ricerca come esecutore fossero messi in luce. L’altra perenne domanda, ‘Come posso migliorare come compositore?’, mi ha spinto a studiare e analizzare musiche del passato, a volte prendendo in prestito e rimescolando il materiale sotto forma di nuove composizioni.
Il terzo punto riguarda la necessità come ascoltatore di essere coinvolto in maniera emozionale in un lavoro musicale. Ho riflettuto sulle musiche che mi hanno influenzato fin da piccolo e che hanno plasmato il mio essere musicale, e ho cercato di trasmettere ciò nel mio lavoro finale. The Cry of the Double Bass racchiude dunque la mia storia come esecutore, compositore e ascoltatore sotto forma di unica composizione coerente.
Il monodramma Il Contrabbasso (Der Kontrabass) di Patrick Süskind è stato di fondamentale importanza per chiarire questi punti importanti della mia ricerca musicale. “Un compositore che si rispetti non scrive per il contrabbasso, ha troppo buon gusto per farlo. E se scrive per il contrabbasso lo fa per divertirsi”. Questa citazione da Il Contrabbasso non solo contiene l’opinione personale del protagonista sullo strumento ed il suo repertorio, ma riflette una tendenza comune che si ha nel vedere il contrabbasso come uno strumento goffo, tendenza che spesso ha dissuaso compositori del passato dallo scrivere per esso. Spesso i luminari del contrabbasso erano “contrabbassisti che hanno cominciato a comporre per pura disperazione”. La narrazione di Süskind è inoltre pervasa da un costante senso di frustrazione spesso noto ai musicisti, che nasce da problematiche tecniche, dal rapporto del musicista con la musica di oggi e del passato, e dall’ambiente lavorativo e sociale in cui si opera.
Dall’analisi di queste tematiche, sia inerenti il contrabbasso, che più generiche, a livello musicale e non, sono scaturite nuove idee che hanno dato luogo a nuovo materiale musicale. Quest’ultimo è stato sviluppato dapprima in alcune composizioni preliminari, per poi essere incluso in molte sezioni della mia opera.
Genesi del libretto
Il mio progetto iniziale era quello di mettere in musica il monodramma di Süskind. Non avendo ottenuto il permesso degli editori per utilizzare il testo in combinazione con la mia musica originale, decisi di commissionare un nuovo libretto, nel quale l’elemento principale doveva essere sempre il contrabbasso. Non essendo più legato al testo di Süskind, ho potuto includere nel lavoro altri aspetti della mia esperienza personale che volevo affrontare. La versione finale del libretto è dello scrittore e regista teatrale inglese Mike Carter, insieme al quale ho lavorato assiduamente per più di un anno prima di arrivare ad una stesura quasi definitiva del testo. Insieme abbiamo studiato gli aspetti della mia ricerca, usando il testo di Süskind come spunto iniziale ma sviluppando poi dei nuovi contenuti, avendo trovato nuova ispirazione nelle nostre esperienze personali di artisti. Quello che rimane di Süskind è nel titolo dell’opera (riferito al momento in cui il contrabbassista urla il nome dell’amato soprano "SARAH!"), che tuttavia acquisisce nella mia opera un nuovo significato.
La stesura della versione finale del libretto è stata un processo lungo e a volte difficile. Si è presentato il vecchio dilemma espresso da due personaggi dell’opera Capriccio di Richard Strauss: “‘Prima la musica, dopo le parole’, come dice il compositore o ‘Prima le parole, dopo la musica’, come insiste il poeta?”. Non avendo esperienza nello scrivere un’opera, ma avendo sempre considerato la maggior parte dei libretti d’opera scadenti a livello letterario, decisi di commissionare un libretto che avesse una certa qualità letteraria ad uno scrittore di teatro. La collaborazione si è rivelata difficile ma positiva per il risultato finale (al contrario di molte collaborazioni tra scrittori e compositori che finirono male, per esempio tra Mozart, Verdi e Puccini e alcuni dei loro librettisti!)
Struttura, personaggi e trama
L’opera è divisa in un Prologo, tre Atti (in 29 episodi) e un Epilogo. L’Atto Primo descrive l’infanzia di un BAMBINO (soprano) concentrandosi sul conflitto tra la realizzazione dei suoi sogni musicali e le deboli aspettative della famiglia e della società. Ambientato anni dopo, l’Atto Secondo descrive gli anni del RAGAZZO (baritono) come studente universitario, concentrandosi sulla decisione che lo porterà dall’assenza di musica nella sua vita alla ripresa degli studi musicali. L’ultimo, Atto Terzo, rappresenta il RAGAZZO che lotta contro le difficoltà che comporta l’essere studente di musica ad una non più giovane età, fino alla conclusione che lo porterà ad affermarsi come strumentista e compositore.
Intorno alla vita del protagonista ruotano gli altri personaggi principali: la MADRE (mezzo soprano), estremamente apprensiva e ansiosa nei riguardi delle sorti del figlio; il PADRE e DOTTORE (attore), figura molto distaccata e cinica; il NONNO (basso), contrabbassista e unico alleato del BAMBINO; la FIDANZATA (soprano); l’immaginario GRANDE C (attore-ballerino), il cattivo della storia, nemico della creatività e voce critica interiore; infine il MAESTRO di contrabbasso (basso). Altri personaggi secondari sono il PRETE (baritono) e l’INSEGNANTE (soprano) nell’Atto Primo, un CAMERIERE nell’Atto Secondo, la PADRONA DI CASA, il BOSS, l’AMANTE e un ANZIANO nell’Atto Terzo.
Tematiche
La maggior parte dei temi presenti nell’opera deriva dalla mia esperienza personale e dall’analisi di alcuni aspetti presenti nel monodramma di Süskind. Fin dall’inizio ho voluto affrontare degli aspetti che raramente si trovano in un contesto operistico. Nonostante esistano opere liriche con personaggi musicisti, l’enfasi viene sempre posta su eventi personali quali amore, tradimenti, omicidi e tanti altri, e raramente su aspetti specifici legati alla musica. Un caso interessante è Richard Strauss, il quale in alcune opere (Ariadne auf Naxos, Intermezzo e Capriccio) descrive le vicende di un compositore con molti momenti dedicati all’atto dello scrivere musica o del provare il materiale, ma il tema principale dell’opera rimane sempre un altro. Ancora più raro è l’esempio che narra le vicende di uno strumentista. Bisogna tornare indietro all’Orfeo di Monteverdi per trovare un compositore-strumentista come protagonista e ‘La Musica’ come altro personaggio.
Motivato da tali ‘assenze’ decisi di caratterizzare The Cry of the Double Bass con le vicende di un musicista, legate agli aspetti più intimi e pratici del mestiere. Ispirato dal testo di Süskind, ho voluto esplorare tematiche di frustrazione e difficoltà relative allo studio e all’esecuzione della musica. Barry Green nel suo libro The Inner Game of Music descrive bene molte di queste problematiche e come affrontarle. Ispirato anche da questo testo, ho affrontato nella mia opera temi come la ‘lezione di musica’, o il ‘concerto solista’. Altre tematiche emerse dal libretto di Mike Carter sono quelle della composizione e della creatività, che acquisisce maggior significato durante la narrazione, o ancora il modo in cui la società considera i musicisti, e come spesso le voci interiori negative che esprimono dubbi e paure possano prevenire i musicisti dall’ottenere prestazioni ottimali.
The Cry of the Double Bass descrive la ricerca personale e spirituale, spesso affrontata in solitudine, e le indicazioni scenografiche suggeriscono l’uso di spazi ristretti quali una stanza, un’aula, una grotta, quasi ad indicare il senso di costrizione di cui molti artisti risentono.
Strumentazione e simbolismo
Il Contrabbasso di Süskind è stato determinante anche nella scelta della strumentazione della mia opera. Il punto di vista del protagonista sul problema delle gerarchie orchestrali e sulla importanza della musica da camera ha guidato la mia scelta di scrivere per ensemble piuttosto che per orchestra. Inoltre il mio gusto personale mi ha indirizzato verso la scelta di strumenti dal registro basso e dal suono caldo. Inizialmente ho optato per un quartetto d’archi costituito da violino, viola, violoncello e contrabbasso, a cui si contrappone un quartetto di fiati costituito da flauto, clarinetto, corno e bassotuba.
Ne Il Contrabbasso di Süskind viene costantemente presentata la contrapposizione tra il soprano (di cui il protagonista è innamorato) e il contrabbasso. Ho utilizzato questa costante allegoria tra l’alto e il basso in fase di composizione, per esempio orchestrando per coppie di strumenti alti e bassi, violino e violoncello, viola e contrabbasso oppure flauto e corno, clarinetto e tuba, ma anche violino e tuba o flauto e contrabbasso. Lo stesso concetto è stato applicato alla scelta dei cantanti: un soprano e un mezzo soprano contrapposti ad un baritono e ad un basso. Ho deciso di non utilizzare il tenore in quanto abusato nella tradizione operistica italiana spesso nel ruolo di eroe o ‘macho’.
Il triplo-quartetto archi-fiati-voci è stato successivamente esteso con l’inserimento di percussioni, del pianoforte (e di un piano giocattolo che verrà utilizzato da alcuni personaggi), da un ulteriore soprano e da due attori di teatro.
Un altro importante aspetto è la variabilità delle sezioni archi durante l’opera. Come già accennato, ho utilizzato come base quello che io considero il ‘vero’ quartetto d’archi, ovvero con i quattro strumenti della famiglia, dove il suono aperto e squillante del violino e del violoncello è bilanciato dal suono più cupo e sobrio della viola e del contrabbasso. Inoltre, vista la centralità del contrabbasso nell’opera, in una sorta di provocazione ho esteso la sezione archi nell’ultimo atto dell’opera in maniera inversa, ossia utilizzando un violino, due viole, tre violoncelli e quattro contrabbassi!
Un ulteriore contrabbasso viene usato come oggetto da alcuni personaggi ma mai suonato dal vivo. È il contrabbasso del NONNO, dapprima messo da parte, per poi divenire oggetto del desiderio, ed infine riunito al legittimo proprietario, il RAGAZZO, per essere suonato di nuovo.
In The Cry of the Double Bass la musica e gli strumenti vengono trattati come dei personaggi, e di conseguenza sono variabili nel corso della narrazione e si adattano agli eventi in maniera simbolica e a volte in maniera imprevedibile. La struttura dell’opera e la strumentazione sono strettamente connessi, così come l’associazione strumento-personaggio. In più la posizione dell’ensemble (o parti di esso) è variabile: in alcune sezioni i musicisti sono sul palco mentre in altre sono in buca o nel backstage. Questa variabilità viene usata metaforicamente per seguire la narrazione.
Nell’Atto Primo la versione ridotta dell’ensemble (con gli archi in formazione 1-1-1-1 e senza pianoforte) è sul palco e rappresenta la fantasia musicale del BAMBINO, che interagisce con l’ensemble fin dalle prime note: egli è altamente stimolato dagli eventi musicali mentre i suoi genitori non ne vengono influenzati. Il pianoforte giocattolo in questo atto funge da mezzo espressivo del BAMBINO, ma viene suonato anche dalla MADRE, rivelando alcuni aspetti del suo passato. I timpani vengono utilizzati come strumento solista in corrispondenza degli episodi del GRANDE C e spesso aggiungono tensione ad altri momenti che esprimono frustrazione.
Nell’Atto Secondo l’ensemble ha lasciato il palco. La musica non è più parte della vita del BAMBINO, cresciuto come RAGAZZO, e il pianoforte giocattolo viene simbolicamente rimpiazzato dal pianoforte come unico strumento accompagnatore sul palco. Questa scelta introduce una nuova sonorità, più scarna e intima, lontana dalle dense sonorità dell’Atto Primo, con due eccezioni: due piccoli ensemble strumentali entrano sul palco in due episodi distinti di musica diegetica (cioè facente parte della narrazione e quindi udibile dai personaggi). È solo alla fine dell’atto che l’ensemble riprenderà a suonare in formazione allargata (cioè con gli archi 1-2-3-4), per rappresentare simbolicamente il ritorno della musica nella vita del RAGAZZO.
Nell’Atto Terzo l’ensemble è di nuovo sul palco per rappresentare il nuovo mondo musicale del RAGAZZO. Il contrabbasso in questo atto è di fondamentale importanza, a partire dal quartetto di contrabbassi che apre l’atto, per continuare con la sezione archi in formazione inversa, fino al finale d’atto dove il contrabbasso diventa protagonista nel recital finale, che riunisce il RAGAZZO allo strumento del NONNO. In quest’ultimo atto inoltre il RAGAZZO ritrova alcuni aspetti della sua infanzia, incontrando il BAMBINO e il pianoforte giocattolo, che utilizzerà per comporre il brano che verrà eseguito nel recital. Nel finale i musicisti lasciano lentamente il palco, come se una performance sia appena terminata. Come anche all’inizio dell’opera, quando salgono sul palco e iniziano ad accordare, i musicisti sono parte integrale della narrazione.
Linguaggio musicale
Durante la composizione di The Cry of the Double Bass mi sono scontrato diverse volte col problema della coerenza stilistica. Voglio qui riportare una frase del famoso architetto Renzo Piano: “Sono molto diffidente verso la parola stile. Questo, non solo per gli architetti ma anche per scrittori, artisti e musicisti, è una specie di gabbia dorata, rischi di rimanerci intrappolato dentro e di dover ripeterti sempre uguale come un timbro”. Ispirato da queste parole decisi di non abbracciare un unico stile musicale nella composizione ma di utilizzarne diversi, pur cercando di mantenere una certa coerenza.
Un’importante motivazione verso questa scelta è stata il mio desiderio di studiare a fondo una serie di compositori di svariati periodi della storia della musica. Negli ultimi anni la mia ricerca si era incentrata soprattutto su autori quali György Ligeti, Luciano Berio e autori contemporanei inglesi quali Oliver Knussen e George Benjamin, anche se durante la composizione dell’opera ho iniziato a riflettere su tutta la musica che ha avuto una certa influenza su di me fin da bambino, dalla musica popolare fino al jazz, includendo anche l’opera italiana che per tanti anni avevo ripudiato, ed in particolare la musica di Puccini. Inoltre ho ripreso anche lo studio di alcuni autori quali J.S.Bach, Arnold Schoenberg, Béla Bartók, Alban Berg e Dmitri Shostakovich.
Con l'intenzione di non aderire ad uno specifico stile, le mie scelte sono state guidate principalmente dalla natura del testo, dove la stessa musica diventa un personaggio e perciò può variare comportamento a seconda delle diverse situazioni e dell'interazione con i diversi personaggi. Ad esempio uno stile ritmicamente e armonicamente complesso, influenzato da alcuni autori contemporanei, può presentarsi in corrispondenza di personaggi complessi oppure per descrivere situazioni complicate o con un ritmo veloce, mentre uno stile più semplice, più consonante e melodico e influenzato da autori classici può presentarsi in corrispondenza di momenti più lenti e per descrivere gli stati d'animo di alcuni personaggi. Ho anche utilizzato uno stile molto sperimentale per delle brevi sezioni che dipingono alcuni momenti di frustrazione, mentre il altre sezioni ho fatto uso di citazioni di altri autori (Puccini, Mozart, Lennon-McCartney) o di pastiche (per esempio mischiando elementi della musica di Puccini a elementi originali).
La composizione ha avuto origine quasi sempre dalla scrittura delle linee vocali, quasi sempre melodiche e fedeli al testo, piuttosto che frammentarie. La narrativa e le curve di tensione drammatica hanno quasi sempre guidato la scelta del materiale. Inoltre per alcuni personaggi sono stati scritti dei frammenti melodici riconoscibili (dei mini leitmotif), che spesso ricorrono in associazione con delle situazioni legate allo specifico personaggio (ad esempio il motivo del BAMBINO, o di riflessione della MADRE, oppure il motivo del NONNO).
L'armonia è stata trattata come un personaggio, oscillante tra stati di consonanza o dissonanza a seconda delle diverse situazioni. Nell'Atto Primo ad esempio c'è una costante alternanza tra consonanza e dissonanza che descrive la tensione tra l'innocenza del BAMBINO e l'avversione delle persone intorno a lui. Nell'Atto Secondo l'armonia diventa più ambigua, a significare i dubbi del RAGAZZO, mentre diventa più consonante nel drammatico finale dell'atto. L'Atto Terzo invece inizia con del materiale dissonante che riflette le difficoltà del RAGAZZO fino ad arrivare ad un'armonia più consonante nel finale dell'opera.
La stessa logica è stata utilizzata anche nell'utilizzo dei ritmi e dei tempi. Situazioni complesse o animate, oppure dialoghi concitati, o personaggi nevrotici sono spesso descritti da ritmi molto articolati e complessi, mentre situazioni più stabili o emotive sono accompagnate da ritmi più semplici e tempi più lenti. In corrispondenza del GRANDE C ad esempio viene sempre utilizzata la stessa ossessiva figura ritmica suonata dai timpani (tratta dalla parte di timpani del terzo movimento del concerto per pianoforte n.6 di Beethoven), mentre al BAMBINO è associato un ritmo di fanfara, che riflette entusiasmo e sottolinea momenti gioiosi.
Conclusioni
Il fulcro della mia ricerca musicale è stato il contrabbasso, come l’esplorazione di alcuni suoi aspetti tecnici e musicali hanno stimolato la mia creatività e come da ciò ne è scaturito un nuovo mondo di idee musicali. I conflitti creati nell’esecutore da una nuova concezione di virtuosismo, e la loro risoluzione, vengono utilizzati in maniera costruttiva e sono alla base del mio lavoro, la cui caratteristica principale diventa la ricerca personale dell’artista.
Il mio ruolo di compositore ha facilitato la comprensione e la risoluzione di alcune problematiche esecutive: l'affrontare e risolvere in maniera distaccata certi problemi strumentali è stato come un atto 'composizionale' catartico. The Cry of the Double Bass esprime questo processo quasi di redenzione, e l'esecuzione dell'opera davanti ad un pubblico dovrebbe far rivivere le stesse esperienze liberatorie da eventuali sensi di frustrazione.
Quest'opera è anche la mia risposta a Il Contrabbasso di Patrick Süskind, dove sono riuscito a far convergere tutte le influenze musicali che hanno plasmato la mia vita musicale di esecutore, compositore, ed ascoltatore utilizzando diversi stili, e riadattandoli ad un linguaggio contemporaneo personale e coerente.
L’opera è il risultato finale del mio dottorato di ricerca (Ph.D.) al Birmingham Conservatoire in Inghilterra, concluso nel 2013, ma anche il risultato della mia esperienza pluriennale di contrabbassista e compositore. Questo articolo descrive come il mio lato di esecutore, unito ad un processo creativo, abbia dato luogo alla composizione di un’opera che esplora e risolve alcune problematiche musicali ed extra-musicali. Mettendo la pratica strumentale al centro della mia ricerca, ho cercato di ristabilire una connessione tra i ruoli di esecutore e compositore, storicamente separati per alcuni secoli. È stato infatti all’inizio dell’Ottocento che l’essere ‘musicista’ ha iniziato a differire dall’essere ‘compositore’, e nel XX secolo questa divisione si è ulteriormente accentuata. Soltanto nella musica etnica e popolare i due ruoli hanno continuato a coesistere nella stessa persona fino ad oggi.
Il mio approccio alla composizione è stato simile a quello di un cantautore, strettamente legato all’esperienza diretta del suono tramite l’esplorazione del proprio strumento. Questo tipo di ricerca basato sulla pratica strumentale e la riflessione personale ha dato luogo ad un processo creativo del tutto originale, dove il nuovo materiale musicale scaturisce e viene sviluppato dall'analisi di problematiche tecniche e musicali sullo strumento, ma in seguito viene elaborato ed esteso ad un intero ensemble musicale. Il risultato finale contiene dunque tracce delle problematiche strumentali iniziali, ma nel processo è stato arricchito dall'esperienza di compositore, in grado di sviluppare il materiale musicale in maniera creativa, e trasformare quello che inizialmente era causa di frustrazione in un lavoro originale.
Infine la ricerca compositiva è stata influenzata fortemente anche dalla mia esperienza di ascoltatore. L’estrema complessità di certa musica contemporanea ha creato una barriera tra i compositori e il pubblico, e ha inoltre creato nuove problematiche tra gli esecutori. La composizione di The Cry of the Double Bass è stato per me un atto creativo catartico, tramite il quale le problematiche del compositore-esecutore e la loro risoluzione attraverso una nuova composizione possono essere trasmessi a un pubblico. Questa esperienza narrativa può infatti venire rivissuta e reinterpretata da ciascuno in maniera personale, dove la musica e il testo servano a stimolare la riflessione e possibilmente a fornire delle risposte alla ricerca personale e spirituale di ognuno.
Il mio ruolo di compositore e contrabbassista è servito da catalizzatore per innescare questo processo risolutivo.
Background
Tre importanti punti sono stati alla base della mia ricerca: prima di tutto la necessità come esecutore di affrontare e risolvere alcuni problemi tecnici e musicali sullo strumento. Avendo iniziato a studiare il contrabbasso classico ad una non più giovane età, ho affrontato l’impresa con grande determinazione. Tuttavia il percorso è stato arduo e spesso disseminato di numerosi ostacoli e quindi causa di frustrazione: per esempio alcune difficoltà fisiche sfociate in una tendinite, oppure le continue voci (sia interne che esterne) di critica o di dubbio. La perenne domanda, ‘Come posso migliorare come esecutore?’, mi ha fatto riflettere molto sugli aspetti tecnici dello strumento e mi ha fatto riconsiderare il concetto di virtuosismo. Piuttosto che affrontare i problemi strumentali con lo studio ossessivo di certo repertorio solista, ho deciso di isolare il materiale musicale causa di alcuni problemi tecnici e di ampliarlo sotto forma di nuove composizioni, dove il virtuosismo fisico lascia spazio ad un virtuosismo dell'intelletto. L'esecutore è dunque colui che genera il nuovo materiale musicale, che viene quasi 'customizzato' sull'individuo, non solo a livello fisico ma anche a livello di gusti musicali.
Il secondo punto importante è stato la necessità di creare un lavoro rilevante nel quale i risultati della mia ricerca come esecutore fossero messi in luce. L’altra perenne domanda, ‘Come posso migliorare come compositore?’, mi ha spinto a studiare e analizzare musiche del passato, a volte prendendo in prestito e rimescolando il materiale sotto forma di nuove composizioni.
Il terzo punto riguarda la necessità come ascoltatore di essere coinvolto in maniera emozionale in un lavoro musicale. Ho riflettuto sulle musiche che mi hanno influenzato fin da piccolo e che hanno plasmato il mio essere musicale, e ho cercato di trasmettere ciò nel mio lavoro finale. The Cry of the Double Bass racchiude dunque la mia storia come esecutore, compositore e ascoltatore sotto forma di unica composizione coerente.
Il monodramma Il Contrabbasso (Der Kontrabass) di Patrick Süskind è stato di fondamentale importanza per chiarire questi punti importanti della mia ricerca musicale. “Un compositore che si rispetti non scrive per il contrabbasso, ha troppo buon gusto per farlo. E se scrive per il contrabbasso lo fa per divertirsi”. Questa citazione da Il Contrabbasso non solo contiene l’opinione personale del protagonista sullo strumento ed il suo repertorio, ma riflette una tendenza comune che si ha nel vedere il contrabbasso come uno strumento goffo, tendenza che spesso ha dissuaso compositori del passato dallo scrivere per esso. Spesso i luminari del contrabbasso erano “contrabbassisti che hanno cominciato a comporre per pura disperazione”. La narrazione di Süskind è inoltre pervasa da un costante senso di frustrazione spesso noto ai musicisti, che nasce da problematiche tecniche, dal rapporto del musicista con la musica di oggi e del passato, e dall’ambiente lavorativo e sociale in cui si opera.
Dall’analisi di queste tematiche, sia inerenti il contrabbasso, che più generiche, a livello musicale e non, sono scaturite nuove idee che hanno dato luogo a nuovo materiale musicale. Quest’ultimo è stato sviluppato dapprima in alcune composizioni preliminari, per poi essere incluso in molte sezioni della mia opera.
Genesi del libretto
Il mio progetto iniziale era quello di mettere in musica il monodramma di Süskind. Non avendo ottenuto il permesso degli editori per utilizzare il testo in combinazione con la mia musica originale, decisi di commissionare un nuovo libretto, nel quale l’elemento principale doveva essere sempre il contrabbasso. Non essendo più legato al testo di Süskind, ho potuto includere nel lavoro altri aspetti della mia esperienza personale che volevo affrontare. La versione finale del libretto è dello scrittore e regista teatrale inglese Mike Carter, insieme al quale ho lavorato assiduamente per più di un anno prima di arrivare ad una stesura quasi definitiva del testo. Insieme abbiamo studiato gli aspetti della mia ricerca, usando il testo di Süskind come spunto iniziale ma sviluppando poi dei nuovi contenuti, avendo trovato nuova ispirazione nelle nostre esperienze personali di artisti. Quello che rimane di Süskind è nel titolo dell’opera (riferito al momento in cui il contrabbassista urla il nome dell’amato soprano "SARAH!"), che tuttavia acquisisce nella mia opera un nuovo significato.
La stesura della versione finale del libretto è stata un processo lungo e a volte difficile. Si è presentato il vecchio dilemma espresso da due personaggi dell’opera Capriccio di Richard Strauss: “‘Prima la musica, dopo le parole’, come dice il compositore o ‘Prima le parole, dopo la musica’, come insiste il poeta?”. Non avendo esperienza nello scrivere un’opera, ma avendo sempre considerato la maggior parte dei libretti d’opera scadenti a livello letterario, decisi di commissionare un libretto che avesse una certa qualità letteraria ad uno scrittore di teatro. La collaborazione si è rivelata difficile ma positiva per il risultato finale (al contrario di molte collaborazioni tra scrittori e compositori che finirono male, per esempio tra Mozart, Verdi e Puccini e alcuni dei loro librettisti!)
Struttura, personaggi e trama
L’opera è divisa in un Prologo, tre Atti (in 29 episodi) e un Epilogo. L’Atto Primo descrive l’infanzia di un BAMBINO (soprano) concentrandosi sul conflitto tra la realizzazione dei suoi sogni musicali e le deboli aspettative della famiglia e della società. Ambientato anni dopo, l’Atto Secondo descrive gli anni del RAGAZZO (baritono) come studente universitario, concentrandosi sulla decisione che lo porterà dall’assenza di musica nella sua vita alla ripresa degli studi musicali. L’ultimo, Atto Terzo, rappresenta il RAGAZZO che lotta contro le difficoltà che comporta l’essere studente di musica ad una non più giovane età, fino alla conclusione che lo porterà ad affermarsi come strumentista e compositore.
Intorno alla vita del protagonista ruotano gli altri personaggi principali: la MADRE (mezzo soprano), estremamente apprensiva e ansiosa nei riguardi delle sorti del figlio; il PADRE e DOTTORE (attore), figura molto distaccata e cinica; il NONNO (basso), contrabbassista e unico alleato del BAMBINO; la FIDANZATA (soprano); l’immaginario GRANDE C (attore-ballerino), il cattivo della storia, nemico della creatività e voce critica interiore; infine il MAESTRO di contrabbasso (basso). Altri personaggi secondari sono il PRETE (baritono) e l’INSEGNANTE (soprano) nell’Atto Primo, un CAMERIERE nell’Atto Secondo, la PADRONA DI CASA, il BOSS, l’AMANTE e un ANZIANO nell’Atto Terzo.
Tematiche
La maggior parte dei temi presenti nell’opera deriva dalla mia esperienza personale e dall’analisi di alcuni aspetti presenti nel monodramma di Süskind. Fin dall’inizio ho voluto affrontare degli aspetti che raramente si trovano in un contesto operistico. Nonostante esistano opere liriche con personaggi musicisti, l’enfasi viene sempre posta su eventi personali quali amore, tradimenti, omicidi e tanti altri, e raramente su aspetti specifici legati alla musica. Un caso interessante è Richard Strauss, il quale in alcune opere (Ariadne auf Naxos, Intermezzo e Capriccio) descrive le vicende di un compositore con molti momenti dedicati all’atto dello scrivere musica o del provare il materiale, ma il tema principale dell’opera rimane sempre un altro. Ancora più raro è l’esempio che narra le vicende di uno strumentista. Bisogna tornare indietro all’Orfeo di Monteverdi per trovare un compositore-strumentista come protagonista e ‘La Musica’ come altro personaggio.
Motivato da tali ‘assenze’ decisi di caratterizzare The Cry of the Double Bass con le vicende di un musicista, legate agli aspetti più intimi e pratici del mestiere. Ispirato dal testo di Süskind, ho voluto esplorare tematiche di frustrazione e difficoltà relative allo studio e all’esecuzione della musica. Barry Green nel suo libro The Inner Game of Music descrive bene molte di queste problematiche e come affrontarle. Ispirato anche da questo testo, ho affrontato nella mia opera temi come la ‘lezione di musica’, o il ‘concerto solista’. Altre tematiche emerse dal libretto di Mike Carter sono quelle della composizione e della creatività, che acquisisce maggior significato durante la narrazione, o ancora il modo in cui la società considera i musicisti, e come spesso le voci interiori negative che esprimono dubbi e paure possano prevenire i musicisti dall’ottenere prestazioni ottimali.
The Cry of the Double Bass descrive la ricerca personale e spirituale, spesso affrontata in solitudine, e le indicazioni scenografiche suggeriscono l’uso di spazi ristretti quali una stanza, un’aula, una grotta, quasi ad indicare il senso di costrizione di cui molti artisti risentono.
Strumentazione e simbolismo
Il Contrabbasso di Süskind è stato determinante anche nella scelta della strumentazione della mia opera. Il punto di vista del protagonista sul problema delle gerarchie orchestrali e sulla importanza della musica da camera ha guidato la mia scelta di scrivere per ensemble piuttosto che per orchestra. Inoltre il mio gusto personale mi ha indirizzato verso la scelta di strumenti dal registro basso e dal suono caldo. Inizialmente ho optato per un quartetto d’archi costituito da violino, viola, violoncello e contrabbasso, a cui si contrappone un quartetto di fiati costituito da flauto, clarinetto, corno e bassotuba.
Ne Il Contrabbasso di Süskind viene costantemente presentata la contrapposizione tra il soprano (di cui il protagonista è innamorato) e il contrabbasso. Ho utilizzato questa costante allegoria tra l’alto e il basso in fase di composizione, per esempio orchestrando per coppie di strumenti alti e bassi, violino e violoncello, viola e contrabbasso oppure flauto e corno, clarinetto e tuba, ma anche violino e tuba o flauto e contrabbasso. Lo stesso concetto è stato applicato alla scelta dei cantanti: un soprano e un mezzo soprano contrapposti ad un baritono e ad un basso. Ho deciso di non utilizzare il tenore in quanto abusato nella tradizione operistica italiana spesso nel ruolo di eroe o ‘macho’.
Il triplo-quartetto archi-fiati-voci è stato successivamente esteso con l’inserimento di percussioni, del pianoforte (e di un piano giocattolo che verrà utilizzato da alcuni personaggi), da un ulteriore soprano e da due attori di teatro.
Un altro importante aspetto è la variabilità delle sezioni archi durante l’opera. Come già accennato, ho utilizzato come base quello che io considero il ‘vero’ quartetto d’archi, ovvero con i quattro strumenti della famiglia, dove il suono aperto e squillante del violino e del violoncello è bilanciato dal suono più cupo e sobrio della viola e del contrabbasso. Inoltre, vista la centralità del contrabbasso nell’opera, in una sorta di provocazione ho esteso la sezione archi nell’ultimo atto dell’opera in maniera inversa, ossia utilizzando un violino, due viole, tre violoncelli e quattro contrabbassi!
Un ulteriore contrabbasso viene usato come oggetto da alcuni personaggi ma mai suonato dal vivo. È il contrabbasso del NONNO, dapprima messo da parte, per poi divenire oggetto del desiderio, ed infine riunito al legittimo proprietario, il RAGAZZO, per essere suonato di nuovo.
In The Cry of the Double Bass la musica e gli strumenti vengono trattati come dei personaggi, e di conseguenza sono variabili nel corso della narrazione e si adattano agli eventi in maniera simbolica e a volte in maniera imprevedibile. La struttura dell’opera e la strumentazione sono strettamente connessi, così come l’associazione strumento-personaggio. In più la posizione dell’ensemble (o parti di esso) è variabile: in alcune sezioni i musicisti sono sul palco mentre in altre sono in buca o nel backstage. Questa variabilità viene usata metaforicamente per seguire la narrazione.
Nell’Atto Primo la versione ridotta dell’ensemble (con gli archi in formazione 1-1-1-1 e senza pianoforte) è sul palco e rappresenta la fantasia musicale del BAMBINO, che interagisce con l’ensemble fin dalle prime note: egli è altamente stimolato dagli eventi musicali mentre i suoi genitori non ne vengono influenzati. Il pianoforte giocattolo in questo atto funge da mezzo espressivo del BAMBINO, ma viene suonato anche dalla MADRE, rivelando alcuni aspetti del suo passato. I timpani vengono utilizzati come strumento solista in corrispondenza degli episodi del GRANDE C e spesso aggiungono tensione ad altri momenti che esprimono frustrazione.
Nell’Atto Secondo l’ensemble ha lasciato il palco. La musica non è più parte della vita del BAMBINO, cresciuto come RAGAZZO, e il pianoforte giocattolo viene simbolicamente rimpiazzato dal pianoforte come unico strumento accompagnatore sul palco. Questa scelta introduce una nuova sonorità, più scarna e intima, lontana dalle dense sonorità dell’Atto Primo, con due eccezioni: due piccoli ensemble strumentali entrano sul palco in due episodi distinti di musica diegetica (cioè facente parte della narrazione e quindi udibile dai personaggi). È solo alla fine dell’atto che l’ensemble riprenderà a suonare in formazione allargata (cioè con gli archi 1-2-3-4), per rappresentare simbolicamente il ritorno della musica nella vita del RAGAZZO.
Nell’Atto Terzo l’ensemble è di nuovo sul palco per rappresentare il nuovo mondo musicale del RAGAZZO. Il contrabbasso in questo atto è di fondamentale importanza, a partire dal quartetto di contrabbassi che apre l’atto, per continuare con la sezione archi in formazione inversa, fino al finale d’atto dove il contrabbasso diventa protagonista nel recital finale, che riunisce il RAGAZZO allo strumento del NONNO. In quest’ultimo atto inoltre il RAGAZZO ritrova alcuni aspetti della sua infanzia, incontrando il BAMBINO e il pianoforte giocattolo, che utilizzerà per comporre il brano che verrà eseguito nel recital. Nel finale i musicisti lasciano lentamente il palco, come se una performance sia appena terminata. Come anche all’inizio dell’opera, quando salgono sul palco e iniziano ad accordare, i musicisti sono parte integrale della narrazione.
Linguaggio musicale
Durante la composizione di The Cry of the Double Bass mi sono scontrato diverse volte col problema della coerenza stilistica. Voglio qui riportare una frase del famoso architetto Renzo Piano: “Sono molto diffidente verso la parola stile. Questo, non solo per gli architetti ma anche per scrittori, artisti e musicisti, è una specie di gabbia dorata, rischi di rimanerci intrappolato dentro e di dover ripeterti sempre uguale come un timbro”. Ispirato da queste parole decisi di non abbracciare un unico stile musicale nella composizione ma di utilizzarne diversi, pur cercando di mantenere una certa coerenza.
Un’importante motivazione verso questa scelta è stata il mio desiderio di studiare a fondo una serie di compositori di svariati periodi della storia della musica. Negli ultimi anni la mia ricerca si era incentrata soprattutto su autori quali György Ligeti, Luciano Berio e autori contemporanei inglesi quali Oliver Knussen e George Benjamin, anche se durante la composizione dell’opera ho iniziato a riflettere su tutta la musica che ha avuto una certa influenza su di me fin da bambino, dalla musica popolare fino al jazz, includendo anche l’opera italiana che per tanti anni avevo ripudiato, ed in particolare la musica di Puccini. Inoltre ho ripreso anche lo studio di alcuni autori quali J.S.Bach, Arnold Schoenberg, Béla Bartók, Alban Berg e Dmitri Shostakovich.
Con l'intenzione di non aderire ad uno specifico stile, le mie scelte sono state guidate principalmente dalla natura del testo, dove la stessa musica diventa un personaggio e perciò può variare comportamento a seconda delle diverse situazioni e dell'interazione con i diversi personaggi. Ad esempio uno stile ritmicamente e armonicamente complesso, influenzato da alcuni autori contemporanei, può presentarsi in corrispondenza di personaggi complessi oppure per descrivere situazioni complicate o con un ritmo veloce, mentre uno stile più semplice, più consonante e melodico e influenzato da autori classici può presentarsi in corrispondenza di momenti più lenti e per descrivere gli stati d'animo di alcuni personaggi. Ho anche utilizzato uno stile molto sperimentale per delle brevi sezioni che dipingono alcuni momenti di frustrazione, mentre il altre sezioni ho fatto uso di citazioni di altri autori (Puccini, Mozart, Lennon-McCartney) o di pastiche (per esempio mischiando elementi della musica di Puccini a elementi originali).
La composizione ha avuto origine quasi sempre dalla scrittura delle linee vocali, quasi sempre melodiche e fedeli al testo, piuttosto che frammentarie. La narrativa e le curve di tensione drammatica hanno quasi sempre guidato la scelta del materiale. Inoltre per alcuni personaggi sono stati scritti dei frammenti melodici riconoscibili (dei mini leitmotif), che spesso ricorrono in associazione con delle situazioni legate allo specifico personaggio (ad esempio il motivo del BAMBINO, o di riflessione della MADRE, oppure il motivo del NONNO).
L'armonia è stata trattata come un personaggio, oscillante tra stati di consonanza o dissonanza a seconda delle diverse situazioni. Nell'Atto Primo ad esempio c'è una costante alternanza tra consonanza e dissonanza che descrive la tensione tra l'innocenza del BAMBINO e l'avversione delle persone intorno a lui. Nell'Atto Secondo l'armonia diventa più ambigua, a significare i dubbi del RAGAZZO, mentre diventa più consonante nel drammatico finale dell'atto. L'Atto Terzo invece inizia con del materiale dissonante che riflette le difficoltà del RAGAZZO fino ad arrivare ad un'armonia più consonante nel finale dell'opera.
La stessa logica è stata utilizzata anche nell'utilizzo dei ritmi e dei tempi. Situazioni complesse o animate, oppure dialoghi concitati, o personaggi nevrotici sono spesso descritti da ritmi molto articolati e complessi, mentre situazioni più stabili o emotive sono accompagnate da ritmi più semplici e tempi più lenti. In corrispondenza del GRANDE C ad esempio viene sempre utilizzata la stessa ossessiva figura ritmica suonata dai timpani (tratta dalla parte di timpani del terzo movimento del concerto per pianoforte n.6 di Beethoven), mentre al BAMBINO è associato un ritmo di fanfara, che riflette entusiasmo e sottolinea momenti gioiosi.
Conclusioni
Il fulcro della mia ricerca musicale è stato il contrabbasso, come l’esplorazione di alcuni suoi aspetti tecnici e musicali hanno stimolato la mia creatività e come da ciò ne è scaturito un nuovo mondo di idee musicali. I conflitti creati nell’esecutore da una nuova concezione di virtuosismo, e la loro risoluzione, vengono utilizzati in maniera costruttiva e sono alla base del mio lavoro, la cui caratteristica principale diventa la ricerca personale dell’artista.
Il mio ruolo di compositore ha facilitato la comprensione e la risoluzione di alcune problematiche esecutive: l'affrontare e risolvere in maniera distaccata certi problemi strumentali è stato come un atto 'composizionale' catartico. The Cry of the Double Bass esprime questo processo quasi di redenzione, e l'esecuzione dell'opera davanti ad un pubblico dovrebbe far rivivere le stesse esperienze liberatorie da eventuali sensi di frustrazione.
Quest'opera è anche la mia risposta a Il Contrabbasso di Patrick Süskind, dove sono riuscito a far convergere tutte le influenze musicali che hanno plasmato la mia vita musicale di esecutore, compositore, ed ascoltatore utilizzando diversi stili, e riadattandoli ad un linguaggio contemporaneo personale e coerente.
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