Vademecum della Salute
“ADHD-Rush Hour” di Stella Savino.
CHE TIPO DI SOCIETÀ STIAMO COSTRUENDO? Shelly Bisirri, Filippo Paoli, Cinzia Sersante, Concetta Turchi. Anno 2014
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COSÌ IL DIGIUNO CI ALLUNGHERÀ LA VITA. Anno 2014
Alfred Tomatis. TRA DISLESSIA E EDUCAZIONE UNA PROSPETTIVA SONORA di Cinzia Sersante. Anno 2011
BIBLIOGRAFIA
R.D. DAVIS, Il dono della dislessia, Armando Ed., Roma 2003.
M. MELONI, N. GALVAN, N. SPONZA,D. SOLA, Dislessia: strumenti compensativi, Libri Liberi S.r.l., Firenze 2004.
E. SIMONETTA, La dislessia, Edizioni Carlo Amore, Roma 2004.
A. TOMATIS, Dalla Comunicazione intrauterina al linguaggio umano, Ibis Ed., Como-Pavia 1993.
A. TOMATIS, Educazione e dislessia, Omega-Torino Ed., Torino 1977.
A. TOMATIS, L’orecchio e il linguaggio, Ibis Ed., Como-Pavia 1995.
A. TOMATIS, L’orecchio e la vita, Baldini & Castoldi Ed., Milano 2002.
A. TOMATIS, L’orecchio e la voce, Baldini & Castoldi Ed., Milano 1993.
C. TURCHI, M. MORTILLARO, Dalla sensazione alla percezione e alla recettività: il cammino verso l’ascolto, sul sito: www.traiettorieblu.it
C. TURCHI, “Ricordi in chiave di violino”, in L’ArcoAcrobata, Rivista di Scienze Umane ed Arte, III, 5, Associazione Musicalificio Grande Blu Ed., Roma 2004 (la versione rivisitata è consultabile nell’archivio 2002-2008 della sezione ArteScienza).
C. VIO, C. TOSO, Dislessia Evolutiva: dall’identificazione del disturbo all’intervento, Carocci Ed., Roma 2007.</div>
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Hulda Clark. UNA RICERCA SULLE ORIGINI DEL CANCRO di Shelly Bisirri. Anno 2012.
Intervista a Tullio Simoncini. Il CORAGGIO DELLA DIFFERENZA di Shelly Bisirri. Anno 2012
BIBLIOGRAFIA
H.R. Clark, The cure for all advanced cancers, New Century Press, Chula Vista - CA 2004
H.R. Clark, La prevenzione di tutti i cancri, “Biblioteca del Benessere”, Macro Ed., Diegaro di Cesena - FC 2004
H.R. Clark, Cure and prevention of all cancers, New Century Press, Chula Vista - CA 2010
H.R. Clark, The Cure for All Diseases, B. Jain Publishers (P) LTD., New Delhi 2011
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SITI CONSULTATI
http://digitaljournal.com/article/323645
www.repubblica.it del 27 settembre 2010
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CHE TIPO DI SOCIETÀ STIAMO COSTRUENDO? Shelly Bisirri, Filippo Paoli, Cinzia Sersante, Concetta Turchi. Anno 2014
CHE TIPO DI SOCIETÀ STIAMO COSTRUENDO?
Shelly Bisirri, Filippo Paoli, Cinzia Sersante, Concetta Turchi
“E se ci stessimo sbagliando?”. La domanda che appare come sottotitolo al film di Stella Savino ADHD-Rush Hour (ora di punta) esprime il senso profondo che ha mosso la regista nella realizzazione di questa pellicola sui bambini affetti da Sindrome da iperattività e deficit dell’attenzione. Decine di milioni di bambini sono attualmente considerati affetti da questa patologia e vengono trattati con il Ritalin o l’Adderall, sostanze anfetamino-simili classificate nello stesso gruppo dei narcotici insieme all’eroina, alla cocaina e alla morfina; quando non vengono trattati con la Atomoxetina che provoca allucinazioni, danni epatici e tendenze suicide. Ma dove porta la strada della prescrizione di farmaci psicoattivi a bambini di pochi anni sulla base di una diagnosi spesso fatta negli USA dagli stessi insegnati osservando semplicemente il loro comportamento in classe? Siamo sicuri che la strada intrapresa da un certo tipo di Psichiatria sia corretta per affrontare in modo efficace quella che è ritenuta una patologia? E dov’è il limite tra patologia e diversità di comportamento legato ai vari passaggi delle fasi evolutive?
I bambini che non stanno fermi, giocherellano con le mani e i piedi, non riescono a stare seduti sulle sedie, corrono, si arrampicano, parlano continuamente: si tratta presumibilmente di bambini vivaci. Ma se a tutto questo si aggiunge la difficoltà a giocare, l’impossibilità ad ascoltare quando gli si parla, l’interruzione coatta e iterativa delle loro azioni e di quelle altrui, l’impossibilità di stare nel silenzio e di poggiare lo sguardo: in questo caso noi stiamo parlando sicuramente di un bambino iperattivo. Peccato che il Manuale Diagnostico dei Disordini Mentali (DSM) non faccia questa differenza. Secondo questo manuale diagnostico americano utilizzato in tutto il pianeta bastano sei di tutti questi criteri per porre diagnosi: questo significa che un bambino vivace potrebbe rientrare facilmente nella diagnosi di ADHD. Ed è esattamente quello che succede.
Questa differenziazione diagnostica serve davvero a qualcosa visto che la “soluzione” sembra essere unicamente quella farmacologica? D’altra parta se si considera questa malattia una “anormalità chimica geneticamente determinata” sembrano inutili gli approfondimenti psicologici, come tra l’altro sostiene nel film la madre di Armando, un 19enne romano che assume i farmaci da 9 anni, ancora prima che in Italia fossero autorizzati (tanto che la madre se li procurava in Svizzera); lei sostiene l’inutilità di una cura psicologica “perché se il cervello ha dimenticato ci sarà pure un motivo” e poi “se per essere uguale agli altri è necessaria la pasticca” ben venga la pasticca. Armando d’altro canto ha imparato a utilizzare i farmaci psicoattivi solo nel periodo scolastico per avere quei risultati tanto agognati dalla madre. Poco importa se paga tutto questo con la sensazione di appiattimento creativo: “Quando prendo i farmaci sono più freddo, più contenuto, come se non fossi io in realtà, come se avessi la sensazione di essere diviso in due”... e continua raccontando di come sia stato “necessario” il trattamento con il Ritalin per fermare i comportamenti che gli erano indispensabili per mantenere l’attenzione in classe, ma che disturbavano gli altri ragazzi.
Il film documentario pone l’attenzione su questo tema senza dare giudizi affrettati o facili soluzioni, osservando tutta la complessa ‘vicenda ADHD’ con uno sguardo obiettivo: c’è da dire però che il film rimane incatenato ad un pregiudizio sulla diagnosi senza dare risalto a quella relazione per cui la diagnosi è indispensabile per la scelta della cura da adottare. Seguendo il percorso del film apprendiamo che l’incidenza dell’ADHD varia da Paese a Paese: dall’11 per cento degli Stati Uniti (è la seconda malattia dell’infanzia dopo l’asma) all’1 per cento dei paesi europei, inclusa l’Italia. Questo dipende esclusivamente dai criteri diagnostici adottati. Rimane il fatto che solo negli USA sono 11 milioni i bambini cronicamente dipendenti da anfetamine come conseguenza della cura farmacologica dell’Attention Deficit Hyperactivity Disorder, ADHD appunto.
DHD-Rush Hour è stato completato nel 2011 dopo tre anni di lavorazione e ha raccolto le testimonianze dirette di genitori, bambini e medici negli USA, in Europa e in Italia. Come la storia di Zachary, bambino di 10 anni di Miami, a cui viene diagnosticata l’ADHD al primo anno di asilo; da quel momento gli vengono somministrati farmaci psicoattivi così come accade all’80 per cento dei bambini che negli USA vengono ritenuti affetti da questa patologia. Insieme alle storie di questi bambini e ragazzi e dei loro genitori, il film-documentario offre le testimonianze dei medici specialisti coinvolti a vario titolo con l’ADHD. In particolare alcuni psichiatri scandinavi hanno parlato dei dati raccolti a proposito della presunta diffusione della patologia in vari Paesi e degli interessi di chi sentenzia l’esistenza della stessa e la necessità di produrre delle pillole per “guarire il comportamento”. Così sappiamo che l’incidenza della malattia è maggiore nei Paesi anglosassoni (USA e Inghilterra) dove il sistema scolastico è caratterizzato da una forte competizione. Eppure, secondo Richard Saul, luminare della neurologia di Chicago e autore del libro "ADHD does not exist", la famigerata sindrome non esiste, come recita il titolo stesso. E con quella di Saul, hanno iniziato a farsi sentire anche altre voci di dissenso. Mailyn Wedge, psicoterapeuta che si batte contro la somministrazione dei farmaci, ha notato che il 56 per cento degli specialisti che hanno inserito l’ADHD nel manuale diagnostico americano (DSM), hanno legami con le case farmaceutiche che traggono benefici economici diretti dalla rapida espansione di diagnosi quali la stessa ADHD (e non solo) dal momento che hanno reso disponibile la ‘pasticca magica’… ma guarda un po’!! Come a dire che bisogna pompare una patologia utilizzando dei criteri sempre più restrittivi che sconfinano nella normalità per avere più profitto.
E mentre scorrono sullo schermo queste storie raccolte dalla regista negli anni, si fa sempre più forte la sua domanda: e se ci stessimo sbagliando? Se quei bambini non fossero iperattivi e non avessero un deficit dell’attenzione? E se anche così fosse, l’unica risposta deve essere necessariamente quella farmacologica? Perché non iniziare chiedendosi cosa fanno quei bambini durante le loro giornate, quanto tempo trascorrono con i genitori, che cosa mangiano, che cosa ascoltano? Vedendo le riprese fatte durante il Summer Treatment Program, speciale campo estivo americano per bambini ritenuti affetti da ADHD durate il quale gli insegnati danno o tolgono punteggi ai ragazzi in base all’osservazione del loro comportamento (cioè, un campo rieducativo basato sulla competizione), viene da chiedersi se non siamo di fronte ad un tentativo di controllare i bambini e i loro comportamenti tipici dell’infanzia, facendoli diventare patologici e per di più tossicodipendenti.
Durante la preparazione del film, Stella Savino aveva parlato anche con il neuropsichiatra infantile Giovanni Bollea – scomparso nel 2011 – che gli aveva confidato di aver curato il 90 per cento dei bambini iperattivi mandandoli in bici con il papà… e i risultati erano stati ottimi. Evidentemente questo specialista correlava il disturbo presentato dal bambino con una disattenzione da parte delle figure genitoriali. E allora ci si può porre la domanda: perché un bambino è costretto a esprimere attraverso l’iperattività il suo malessere dovuto ad una mancanza di accudimento affettivo da parte dei genitori? Voi capite che una domanda come questa apre a tutt’altre questioni, in particolare a cosa fa ammalare psichicamente: è la carenza originaria di una supposta sostanza chimica all’interno del nostro cervello, oppure la carenza della suddetta provocata da una mancata risposta affettiva da parte dell’ambiente che circonda il bambino? Ma questa è solo una delle questioni. In realtà quello che la regista non tocca, anche perché non viene supportata dagli psichiatri italiani intervistati, è la questione della importanza della diagnosi. I bambini iperattivi esistono e la presenza di iperattività e di deficit dell’attenzione sono dei sintomi presenti in diverse patologie dell’infanzia e dell’adolescenza o in diverse fasi dello sviluppo del bambino: nel film la presenza di questo disturbo è ben rappresentata dalla bimba (Lauren) che, alla fine del film, rimane sola sdraiata a terra al di qua del cancello, come fosse uno straccio. Quella bambina esprime forse la nostra resa rispetto all’impegno e alla presenza del medico di porre una diagnosi funzionale, che pone l’accento su come funziona la sua psiche al di là del comportamento manifesto? Per noi questa è la questione fondamentale su cui il film scivola. Per noi è una questione etica differenziare la sanità dalla normalità e dalla patologia: spesso i bambini che vengono impropriamente definiti iperattivi sono bambini molto creativi e intelligenti che soffrono degli ambienti limitati e limitanti degli adulti e degli altri bambini “normali”, cioè già adattati alle regole degli adulti. Bisogna correggere tali bambini per questo? E, soprattutto, con farmaci psicoattivi che, oltre a dare dipendenza, ottundono con i comportamenti anche il libero pensiero? Che tipo di società stiamo costruendo? Questa per noi è la vera questione.
I bambini che non stanno fermi, giocherellano con le mani e i piedi, non riescono a stare seduti sulle sedie, corrono, si arrampicano, parlano continuamente: si tratta presumibilmente di bambini vivaci. Ma se a tutto questo si aggiunge la difficoltà a giocare, l’impossibilità ad ascoltare quando gli si parla, l’interruzione coatta e iterativa delle loro azioni e di quelle altrui, l’impossibilità di stare nel silenzio e di poggiare lo sguardo: in questo caso noi stiamo parlando sicuramente di un bambino iperattivo. Peccato che il Manuale Diagnostico dei Disordini Mentali (DSM) non faccia questa differenza. Secondo questo manuale diagnostico americano utilizzato in tutto il pianeta bastano sei di tutti questi criteri per porre diagnosi: questo significa che un bambino vivace potrebbe rientrare facilmente nella diagnosi di ADHD. Ed è esattamente quello che succede.
Questa differenziazione diagnostica serve davvero a qualcosa visto che la “soluzione” sembra essere unicamente quella farmacologica? D’altra parta se si considera questa malattia una “anormalità chimica geneticamente determinata” sembrano inutili gli approfondimenti psicologici, come tra l’altro sostiene nel film la madre di Armando, un 19enne romano che assume i farmaci da 9 anni, ancora prima che in Italia fossero autorizzati (tanto che la madre se li procurava in Svizzera); lei sostiene l’inutilità di una cura psicologica “perché se il cervello ha dimenticato ci sarà pure un motivo” e poi “se per essere uguale agli altri è necessaria la pasticca” ben venga la pasticca. Armando d’altro canto ha imparato a utilizzare i farmaci psicoattivi solo nel periodo scolastico per avere quei risultati tanto agognati dalla madre. Poco importa se paga tutto questo con la sensazione di appiattimento creativo: “Quando prendo i farmaci sono più freddo, più contenuto, come se non fossi io in realtà, come se avessi la sensazione di essere diviso in due”... e continua raccontando di come sia stato “necessario” il trattamento con il Ritalin per fermare i comportamenti che gli erano indispensabili per mantenere l’attenzione in classe, ma che disturbavano gli altri ragazzi.
Il film documentario pone l’attenzione su questo tema senza dare giudizi affrettati o facili soluzioni, osservando tutta la complessa ‘vicenda ADHD’ con uno sguardo obiettivo: c’è da dire però che il film rimane incatenato ad un pregiudizio sulla diagnosi senza dare risalto a quella relazione per cui la diagnosi è indispensabile per la scelta della cura da adottare. Seguendo il percorso del film apprendiamo che l’incidenza dell’ADHD varia da Paese a Paese: dall’11 per cento degli Stati Uniti (è la seconda malattia dell’infanzia dopo l’asma) all’1 per cento dei paesi europei, inclusa l’Italia. Questo dipende esclusivamente dai criteri diagnostici adottati. Rimane il fatto che solo negli USA sono 11 milioni i bambini cronicamente dipendenti da anfetamine come conseguenza della cura farmacologica dell’Attention Deficit Hyperactivity Disorder, ADHD appunto.
DHD-Rush Hour è stato completato nel 2011 dopo tre anni di lavorazione e ha raccolto le testimonianze dirette di genitori, bambini e medici negli USA, in Europa e in Italia. Come la storia di Zachary, bambino di 10 anni di Miami, a cui viene diagnosticata l’ADHD al primo anno di asilo; da quel momento gli vengono somministrati farmaci psicoattivi così come accade all’80 per cento dei bambini che negli USA vengono ritenuti affetti da questa patologia. Insieme alle storie di questi bambini e ragazzi e dei loro genitori, il film-documentario offre le testimonianze dei medici specialisti coinvolti a vario titolo con l’ADHD. In particolare alcuni psichiatri scandinavi hanno parlato dei dati raccolti a proposito della presunta diffusione della patologia in vari Paesi e degli interessi di chi sentenzia l’esistenza della stessa e la necessità di produrre delle pillole per “guarire il comportamento”. Così sappiamo che l’incidenza della malattia è maggiore nei Paesi anglosassoni (USA e Inghilterra) dove il sistema scolastico è caratterizzato da una forte competizione. Eppure, secondo Richard Saul, luminare della neurologia di Chicago e autore del libro "ADHD does not exist", la famigerata sindrome non esiste, come recita il titolo stesso. E con quella di Saul, hanno iniziato a farsi sentire anche altre voci di dissenso. Mailyn Wedge, psicoterapeuta che si batte contro la somministrazione dei farmaci, ha notato che il 56 per cento degli specialisti che hanno inserito l’ADHD nel manuale diagnostico americano (DSM), hanno legami con le case farmaceutiche che traggono benefici economici diretti dalla rapida espansione di diagnosi quali la stessa ADHD (e non solo) dal momento che hanno reso disponibile la ‘pasticca magica’… ma guarda un po’!! Come a dire che bisogna pompare una patologia utilizzando dei criteri sempre più restrittivi che sconfinano nella normalità per avere più profitto.
E mentre scorrono sullo schermo queste storie raccolte dalla regista negli anni, si fa sempre più forte la sua domanda: e se ci stessimo sbagliando? Se quei bambini non fossero iperattivi e non avessero un deficit dell’attenzione? E se anche così fosse, l’unica risposta deve essere necessariamente quella farmacologica? Perché non iniziare chiedendosi cosa fanno quei bambini durante le loro giornate, quanto tempo trascorrono con i genitori, che cosa mangiano, che cosa ascoltano? Vedendo le riprese fatte durante il Summer Treatment Program, speciale campo estivo americano per bambini ritenuti affetti da ADHD durate il quale gli insegnati danno o tolgono punteggi ai ragazzi in base all’osservazione del loro comportamento (cioè, un campo rieducativo basato sulla competizione), viene da chiedersi se non siamo di fronte ad un tentativo di controllare i bambini e i loro comportamenti tipici dell’infanzia, facendoli diventare patologici e per di più tossicodipendenti.
Durante la preparazione del film, Stella Savino aveva parlato anche con il neuropsichiatra infantile Giovanni Bollea – scomparso nel 2011 – che gli aveva confidato di aver curato il 90 per cento dei bambini iperattivi mandandoli in bici con il papà… e i risultati erano stati ottimi. Evidentemente questo specialista correlava il disturbo presentato dal bambino con una disattenzione da parte delle figure genitoriali. E allora ci si può porre la domanda: perché un bambino è costretto a esprimere attraverso l’iperattività il suo malessere dovuto ad una mancanza di accudimento affettivo da parte dei genitori? Voi capite che una domanda come questa apre a tutt’altre questioni, in particolare a cosa fa ammalare psichicamente: è la carenza originaria di una supposta sostanza chimica all’interno del nostro cervello, oppure la carenza della suddetta provocata da una mancata risposta affettiva da parte dell’ambiente che circonda il bambino? Ma questa è solo una delle questioni. In realtà quello che la regista non tocca, anche perché non viene supportata dagli psichiatri italiani intervistati, è la questione della importanza della diagnosi. I bambini iperattivi esistono e la presenza di iperattività e di deficit dell’attenzione sono dei sintomi presenti in diverse patologie dell’infanzia e dell’adolescenza o in diverse fasi dello sviluppo del bambino: nel film la presenza di questo disturbo è ben rappresentata dalla bimba (Lauren) che, alla fine del film, rimane sola sdraiata a terra al di qua del cancello, come fosse uno straccio. Quella bambina esprime forse la nostra resa rispetto all’impegno e alla presenza del medico di porre una diagnosi funzionale, che pone l’accento su come funziona la sua psiche al di là del comportamento manifesto? Per noi questa è la questione fondamentale su cui il film scivola. Per noi è una questione etica differenziare la sanità dalla normalità e dalla patologia: spesso i bambini che vengono impropriamente definiti iperattivi sono bambini molto creativi e intelligenti che soffrono degli ambienti limitati e limitanti degli adulti e degli altri bambini “normali”, cioè già adattati alle regole degli adulti. Bisogna correggere tali bambini per questo? E, soprattutto, con farmaci psicoattivi che, oltre a dare dipendenza, ottundono con i comportamenti anche il libero pensiero? Che tipo di società stiamo costruendo? Questa per noi è la vera questione.
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COSÌ IL DIGIUNO CI ALLUNGHERÀ LA VITA. Anno 2014
OGNI MESE UNA PAUSA DI QUATTRO GIORNI
COSÌ IL DIGIUNO CI ALLUNGHERÀ LA VITA
Da Il Corriere della Sera
COSÌ IL DIGIUNO CI ALLUNGHERÀ LA VITA
Da Il Corriere della Sera
Segnaliamo un articolo uscito sul Corriere della Sera in merito ad una ricerca condotta in California da un ricercatore italiano sulle potenzialità terapeutiche del digiuno, in particolare per la rigenerazione cellulare. Sono rare, anche se sempre più frequenti, ricerche del genere e i media che ne parlano. Ve lo proponiamo perchè conferma l'importanza per la nostra salute di ciò che mangiamo e avvalora, su basi scientifiche, una alternativa a quanto comunemente proposto dalla medicina tradizionale. Contiamo di proporre a breve un nostro articolo esaustivo sull'argomento.
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Alfred Tomatis. TRA DISLESSIA E EDUCAZIONE UNA PROSPETTIVA SONORA di Cinzia Sersante. Anno 2011
TRA DISLESSIA E EDUCAZIONE UNA PROSPETTIVA SONORA
Cinzia Sersante
Cinzia Sersante
Punte sonore di Cinzia Sersante
La diagnosi di dislessia aveva originariamente il solo significato di difficoltà nell’apprendimento della lettura. Tale disturbo è stato riconosciuto grazie al processo di alfabetizzazione e la sua incidenza nella popolazione infantile si è evidenziata quando l’istruzione è divenuta obbligatoria (in Italia nel 1877). Prima di allora, infatti, i bambini che manifestavano problemi di apprendimento venivano ritirati dalla scuola e scaraventati nel mondo del lavoro al quale pregiudizialmente si riteneva appartenessero. La questione era dunque liquidata semplicemente considerando questi giovani alunni come disinteressati alle attività scolastiche.
Più complicato è stato, ed è, il percorso di ricerca dell’origine del disturbo. Inizialmente i bambini dislessici erano considerati come soggetti con un deficit intellettivo su base organica, anche se James Kerr fin dal 1896 aveva affermato che l’intelligenza di questi bambini, negli altri aspetti dell’apprendimento, era del tutto nella norma: questo concetto venne confermato dall’introduzione delle prime scale di misurazione dell’intelligenza. Nella impossibilità scientificamente data di considerare il dislessico come “handicappato”, egli venne etichettato come pigro o svogliato, con una responsabilità del tutto personale del proprio insuccesso. Solo con gli studi della Psicologia relativi ai processi evolutivi del bambino, è stata messa in evidenza l’influenza della vita affettiva e relazionale sullo sviluppo cognitivo. Nel bambino dislessico in particolare si palesava la difficoltà o il blocco dello sviluppo affettivo determinato dalle relazioni familiari.
Oggi l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), includendo la dislessia tra i Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA), la definisce come una “disabilità per cui non è possibile apprendere la lettura, la scrittura o il calcolo aritmetico nei normali tempi e con i normali metodi di insegnamento”. Da precisare che solo in assenza di un quadro organico (ritardo mentale, deficit neurologici e/o sensoriali) è possibile porre la diagnosi di dislessia. Eppure ancora oggi la dislessia viene considerata per lo più un disturbo di origine neurobiologica e quindi migliorabile, ma non curabile. Lo dimostra il fatto che molti materiali didattici, elaborati al fine di agevolare nel bambino i percorsi conoscitivi, hanno la caratteristica di essere compensativi della specifica difficoltà dell'alunno, così come alcuni metodi di trattamento: d’altra parte porsi nell’ottica di una compensazione non fornisce lo stimolo adeguato per lo sviluppo della funzione, segnale evidente di un pregiudizio sull’origine organica che travalica gli studi più recenti della Psicologia Evolutiva. Come se gli psicologi esperti di dislessia fossero loro stessi dislessici rispetto alla lettura di una tale manifestazione, mettendo in evidenza i processi cognitivi coinvolti nell’apprendimento svincolandoli dagli aspetti psicologici che precedono l’evidenziarsi del sintomo nell’impatto con le attività scolastiche come segnale di una difficoltà pregressa.
Questa dissociazione porta ad approfondimenti di tipo tecnicistico volti allo studio dei processi che sono alla base della lettura e differenziano le forme di dislessia in merito alla prevalenza di deficit nei processi visuopercettivi, o deficit inerenti i processi linguistici e fonologici; altri studi classificano le forme di dislessia in base alla velocità di decodifica del numero di sillabe al secondo, in rapporto agli errori effettuati. È evidente che queste classificazioni masturbatorie occultano il vuoto metodologico nell’affrontare alterazioni neuropsicologiche su base funzionale.
Le moderne tecniche d’insegnamento scolastico sono, al pari della nostra “cultura” scientifica e non, prevalentemente centrate sulla visione e trascurano l’importanza della funzione di ascolto nella relazione del bambino con il mondo. Ancora una volta la techné orientata sulla visione prende il sopravvento sulla psiché centrata sull’ascolto delle interiorità: la scuola finisce con l’essere la mano armata del pregiudizio.
Alfred Tomatis, medico otorinolaringoiatra francese morto nel 2001, offre una prospettiva clinica innovativa nella comprensione dell'origine del disturbo dislessico e quindi pone le basi per la cura. La sua ricerca è fondata sulla inscindibilità della unità psicocorporea dell’essere umano, e attraverso questa prospettiva giunge a chiarire i processi che generano il disturbo. Egli pone l’accento sul ruolo determinante dell’ascolto nella vita dell’essere umano ed in particolar modo nell’apprendimento di quella capacità esclusivamente umana che è il linguaggio. Infatti, solo quando il bambino ha ottenuto una sufficiente integrazione del linguaggio verbale, è possibile procedere all’insegnamento della lettura e della scrittura.
L’ascolto umano coincide solo in parte con la funzione uditiva svolta dall’orecchio (“la raccolta e la decodifica dello stimolo sonoro con scopi difensivi”); avendo superato la condizione animale, l’uomo ha sviluppato una funzione energetica legata alle relazioni (la ricarica corticale per mezzo dei suoni acuti emessi o immessi) e la funzione dell’equilibrio per regolare la messa in ascolto (in relazione “alla verticalità ed al movimento del corpo nello spazio”). “L’ascolto quindi è una funzione complessa dovuta all’integrazione di queste funzioni” e, a differenza dell’udito, “è una funzione attiva e volontaria legata al desiderio di comunicare che coinvolge l'intera complessità psicosomatica umana”. Su questi concetti di psiconeurofisiologia Tomatis ha fondato l’Audiopsicofonologia che studia i nessi tra ascolto, postura, voce ed evoluzione psicofisica dell’essere umano.
Ascolto e linguaggio
L’evoluzione della funzione d'ascolto consente al bambino di acquisire il linguaggio in tutta la sua complessità. Lo stimolo sonoro che lo raggiunge nel mentre genera una prima sensazione che viene tradotta nella percezione uditiva, attiva quella messa in ascolto come atto volontario per raggiungere quel livello di integrazione e di assimilazione che lo porterà ad una attribuzione di senso tale da consentirgli di memorizzarlo e di riprodurlo volontariamente. L’integrazione può essere definita “come l’acquisizione del potere di riprodurre a piacere una catena sonora, dotata di senso”. È all’interno delle relazioni umane che il bambino sviluppa la sua capacità d’ascolto e quindi il suo desiderio di comunicare.
Le radici della comunicazione si ritrovano fin dalla vita intrauterina quando, intorno al quarto mese e mezzo di gravidanza, il feto è in grado di ricevere la sensazione acustica relativa alla voce materna e le reazioni corporee che questa genera in lui costituiscono la base di quel linguaggio intimo, inscritto nel corpo, che continuerà tra i due dopo il parto. I primi suoni emessi dal neonato sono rivolti esclusivamente alla madre e il suo cicaleggio (fase fonica) è la traduzione fedele della comunicazione intrauterina fatta dei suoi movimenti per raccogliere al meglio la voce materna. La presenza sonora della madre ad ogni suono emesso dal neonato permette un continuo aggiustamento fonico che perfeziona il suo sistema audiofonatorio. Su questo scambio sonoro e affettivo, dove appunto il suono della madre veicola la sua affettività e la sua capacità di accettazione del figlio, si comincia a strutturare una asimmetria funzionale degli emisferi cerebrali, specifica del linguaggio, in cui compare un barlume di intenzionalità.
Infatti, nella fase sillabica il bambino produce un balbettio fatto di sillabe a ripetizione che restituiscono alla madre quella carica affettiva che lei gli ha donato. In questa sicurezza affettiva il neonato può iniziare a sperimentare in termini vocali ciò che il corpo sta acquisendo in termini neurofisiologici: si sviluppa la lateralità corporea che, se da una parte costruisce una asimmetria sonora nel balbettio, dall’altra apre un dialogo tra un Io che percepisce e un Sé che si percepisce: attraverso il suono e le informazioni propriocettive derivate, il neonato costruisce una “immagine - oggetto (me) del corpo visceralmente vissuto collocato al centro del mondo di cui (...) desidera impadronirsi unicamente per comunicare con l’altro”. Sperimentando all’unisono queste variazioni sonore e il gioco rudimentale tra l’Io e il Sé, il bimbo comincia a sviluppare un’intenzionalità nell’uso espressivo del suono. “Cominciano a spuntare due intenzioni che si vanno individuando e distanziando man mano che le cariche affettive e psicologiche si collocano sull’uno o sull’altro dei due lati”. I sintagmi (parole che rappresentano intere frasi) sono la risultante dell'iniziale dialogo fra i due emicorpi che porterà gradualmente ad una definizione della lateralità corporea e quindi all’integrazione corticale delle strutture linguistiche.
Il processo di lateralizzazione, implicato nella conquista della postura eretta e della “presa” del mondo, permette al bambino di ampliare il proprio campo esplorativo e relazionale, fino ad includere il padre. Tale passaggio è indispensabile affinché il bambino non rimanga imprigionato nella primordiale dipendenza dalla madre, facendo in modo che anche il linguaggio non rimanga rivolto esclusivamente a lei ma diventi capace di accordarsi col mondo umano. Il padre introduce quell’elemento essenziale di diversità di rapporto, non più basato sulla corporeità intima come quello con la madre, ma proponendo un linguaggio codificato socialmente. Sarà proprio l’evoluzione della lateralità a veicolare la trasformazione del linguaggio in questa direzione.
Nella fase linguistica propriamente detta, mentre si procede verso lo stabilizzarsi della lateralità corporea e uditiva a destra, si definisce ancora di più l’Io soggetto dell’azione da un Io-me corporeo complemento oggetto, determinando il passaggio dall’”io penso” all’“io mi penso”, ove il ‘me corporeo’ coincide con il Sé. È in questo passaggio che per la prima volta l’Io si rende conto dell’esistenza del Sé, quale aspetto autoriflessivo che consente di sperimentarsi come un nucleo centrale coeso nel tempo, collegato all’inconscio e alla sfera intima affettiva. L’Io è l’istanza psichica relativa al rapporto con la realtà ed il costante dialogo con il Sé assicura un rapporto creativo con il mondo in cui si vive. Questo dialogo interno è essenziale per la vita psichica di ogni essere umano.
Con la comparsa dell’Io “tutto si soggettivizza e complementarizza” ed il bambino diviene capace di utilizzare i diversi elementi per formulare il pensiero, dando vita alla grammatica. Mentre il ‘me corporeo’ è collegato all’emisfero destro, l’emisfero sinistro, relativo all’’io pensante-verbalizzante’, è l’esecutore dello strumento-corpo offerto dall’emisfero destro. Quindi partendo dal linguaggio che suona il corpo come uno strumento musicale, il pensiero si impadronisce del corpo memore della affettività del rapporto con la madre, che si rende strumento della grammatica della lingua sociale.
In realtà la grammatica, con le sue regole, si struttura in un “insieme di processi neuronici (…) e di feed back” che portano alla costruzione di un immagine verbalizzata dello strumento-corpo, messa a disposizione del pensiero. Questa immagine corporea che nasce dal linguaggio ed evolve dal ‘me corporeo’ è fondamentale affinché l''io pensante' possa suonare consapevolmente lo strumento-corpo. In questa evoluzione che porta l’uomo dall’immagine corporea alla costruzione dell’immagine del Sé in cui la dimensione psichica plasma lo stesso strumento, è in ogni momento essenziale che il bambino desideri suonare il proprio strumento per comunicare con l’altro. In caso contrario egli può comunque sviluppare un linguaggio che però risulta povero in termini di qualità sonore, espressione di un pensiero chiuso che rispecchia la povertà del dialogo interno.
Poiché l’ascolto di un bambino si sviluppa entro lo spazio sonoro delimitato dalla capacità d’ascolto dei genitori, le difficoltà di questi ultimi ne comprometteranno lo sviluppo. Quando il rapporto simbiotico tra madre e figlio va oltre i termini temporali dettati dalla fisiologia, il bambino non ha la possibilità di sviluppare il senso di fiducia nelle proprie capacità e quindi costruire la propria autonomia. Questo si esprimerà con una dominanza dell’orecchio sinistro che sarà alla base del blocco evolutivo in cui il bambino rimane confinato. Rimanendo prigioniero nell’orbita materna, non potrà procedere verso il padre e verso il nuovo linguaggio che questi propone (non vi è il passaggio fisiologico alla lateralità destrorsa). Il bambino rimane così legato all’aspetto materiale del ‘me corporeo’ al centro del suo mondo che va a costruire la prigione dei bisogni materiali e l’unica che può soddisfarli resta per sempre la madre.
Nella ricerca di Tomatis il bambino dislessico, costantemente fissato nel rapporto simbiotico con la madre, presenta una compromissione dello sviluppo psicocorporeo prima di trovarsi di fronte alla lettera scritta: egli è in difficoltà nella lettura della realtà da conoscere che viene filtrata in modo rigido, si trova in difficoltà nel passaggio dal ‘me corporeo’ all’’io pensante’, nel dialogo tra Io e Sé. È quindi la strada che porta alla costruzione dell’identità ad essere ostacolata.
L’evoluzione psicolinguistica del bambino procede quindi per tappe e ogni passaggio alla tappa successiva è segnato dal superamento per separazione dalle strutture di rapporto precedenti. In questa prospettiva Tomatis propone una rilettura dell’Edipo freudiano, dove l’Eroe deve passare attraverso le trappole imposte dalle regole genitoriali e sociali, per conquistare la sua capacità di ascolto. Ad ogni trappola corrisponde una tappa dello sviluppo dell’ascolto umano. La prima tappa (stadio dell’Edipo incatenato) corrisponde al tentativo materno di vivere la gravidanza come un fatto esclusivamente privato: sua è la gravidanza e suo è il nascituro. Isola l’esistenza della coppia simbiotica dal contesto del divenire umano. Già nella vita intrauterina imprime nel corpo del bambino le tracce di un vissuto ambivalente in cui mentre si prepara a dare la vita separandosi fisicamente dal nascituro, lo trattiene a sé come una proprietà bloccando il suo divenire psichico. L’impedimento ad evolvere è tale da legargli i piedi e infatti Edipo significa “quello con i piedi legati”. È con i piedi legati che il neonato affronta il rapporto con la madre e conosce la propria dipendenza da lei (stadio di Labdaco). Il cicaleggio tra i due esprime il rapporto simbiotico da cui il padre è estromesso. In questo primo letto incestuoso egli lascia il linguaggio della madre per rivolgersi a quello del padre Laio (il balbuziente) già con la catena di un legame simbiotico nella memoria familiare. Come potere vivere, dati questi presupposti, la dipendenza fisiologica dei primi mesi di vita in cui lo scambio sonoro tra madre e figlio costituisce la base affettiva senza la quale sarebbe precluso il successivo sviluppo? In questa terza tappa (stadio di Laio), come Edipo in fuga da Corinto, il bambino si trova davanti a un crocevia neurofisiologicamente dato e deve scegliere quale strada percorrere. La differenziazione espressiva all’interno delle sillabe permette di cogliere questo passaggio: la lateralità uditiva a sinistra collegata all’emisfero cerebrale destro è la strada già percorsa e conosciuta nel rapporto con la madre; la lateralità uditiva a destra collegata all’emisfero sinistro è la strada nuova che esprime la spinta evolutiva verso il linguaggio sociale portato dal padre, ossia l’apertura verso l’altro. Egli può quindi rimanere bloccato nel legame materno con la dominanza stabile dell’orecchio a sinistra (vedi bambino autistico), oppure rimanere all’incrocio delle vie in cui non vi è una dominanza stabile, ma la continua oscillazione della lateralità a destra e a sinistra, come accade nel balbuziente e nel dislessico. Edipo uccide senza saperlo il padre e si mette al suo posto: la mancanza di consapevolezza legata a questo evento fa sì che il suo linguaggio rimanga un linguaggio identificato con il potere. Lo stadio dell’Edipo re si riferisce al momento in cui il bambino ha conquistato la postura eretta, è pronto per separarsi dalla madre e questa gioca la carta della madre-sposa rispondendo orgogliosa al nuovo linguaggio del bambino per fargli credere che si tratta sempre della lingua materna e tenerlo fermo nella sua orbita. Ella lo rende Re della sua casa come lo è dentro di lei. Gli individui che non affrontano questo nuovo livello di separazione vivono una falsa autonomia, mentre il linguaggio e il pensiero divengono espressione di una esistenza ripetitiva e priva di creatività. Infatti, dopo la felicità dell’incoronazione di Edipo tutto si spegne e il regno viene attaccato da una malattia che spenge la vita. Per potersi liberare egli deve separarsi dalla madre-sposa. Nell’ultima tappa (stadio di Edipo da Tebe a Colono) Edipo si libera dalle relazioni di un passato paralizzante e dai ricordi fissati nel corpo per affrontare il dolore e liberare la memoria. Egli deve accecarsi per poter accedere ad una nuova visione fondata sull’ascolto, che lo renderà veggente.
In ogni tappa c’è la morte di una forma di linguaggio e di pensiero e ogni linguaggio che il bambino deve lasciare nelle varie tappe è padre del linguaggio che verrà. È necessario però che, per la sua crescita, egli si separi anche dalla lingua del padre che, vittima della sua stessa educazione, vuole esprimere il suo potere nell’assoggettare il bambino alle stesse regole che egli subisce. In realtà la funzione paterna è quella di aiutare il bambino a essere sé stesso al di là degli a priori imposti dalla società. “Il vero padre dell’uomo è l’umano”.
Meccanismi della lettura e dislessia
Nella sua ricerca con più di 12000 bambini dislessici Tomatis giunge a ritenere che la dislessia sia originata da un disturbo della funzione d'ascolto che si palesa con la lettura perché la lettera scritta è il simbolo grafico di un suono da riprodurre. Quando leggiamo o scriviamo, così come quando pensiamo, c’è sempre il suono della nostra voce che accompagna lo sguardo, o che dirige il gesto della mano guidato dall’occhio.
La lettura è un compito tutt’altro che facile da apprendere anche da un punto di vista strettamente neurofisiologico: prevede, infatti, l’integrazione del sistema visivo che permette di percepire il segno scritto, con il sistema uditivo che lo collega al suono consentendo l’attribuzione di senso. Una sequenza di segni non ha alcun senso per il bambino se non è in grado di effettuare un’analisi acustica che lo porta a distinguere ogni singolo suono e collegarlo al singolo segno, per poi costruire l’insieme significante costituito dalla parola. L’orecchio è dunque “l’organo del leggere”,ma non solo: nella scrittura l’orecchio si accorda all’apparato fonatorio per poter tradurre il suono in segno scritto, utilizzando la visione per dirigere il movimento della mano. Ogni individuo dovrebbe raggiungere una specializzazione tale della funzione d’ascolto che gli permetta di trasformare il segno in suono e viceversa.
Sia nella scrittura che nella lettura è l’evocazione della forma sonora che rischia di sfuggire quando vi sono delle turbe della funzione d'ascolto. Tutti quei processi che portano ad un linguaggio mal acquisito, alla lateralità uditiva fissata a sinistra o mal stabilizzata a destra, e quindi ad un’immagine corporea mal elaborata e ad una mancata integrazione, sono alla base della dislessia come disturbo che li rivela. Tale disturbo esprime un atteggiamento di chiusura nei confronti delle relazioni umane. Essere lateralizzati a destra, infatti, significa poter esprimere sé stessi in divenire nel confronto con la società umana, quando l’orecchio sinistro che raccoglie la storia affettiva dell’individuo non lo imprigiona in un passato cristallizzato, ma coopera con l’orecchio destro legato alla realtà attuale.
Ovviamente l’occhio è fondamentale nello scorrimento del treno grafico-sonoro, perciò non sorprende che la maggior parte delle ricerche si siano concentrate sull’elemento visivo, infatti la rapidità di scorrimento assicura la continuità del discorso e la sua comprensione. Questo è però possibile solo se vi è la immediata sovrapposizione immagine-suono. Per essere in grado di evocare i suoni che compongono la parola è necessario che i processi di analisi e sintesi suono-immagine divengano sempre più rapidi e automatici. Quando non è possibile l’integrazione suono-immagine, il segno è indecifrabile e senza senso perciò la dislessia è totale; se invece avviene troppo lentamente l’apparizione di gruppi di lettere non si realizza, e la lettura procede a stento. Quando funziona il circuito che permette la sovrapposizione suono-immagine ma i tempi di montaggio nello scorrimento del treno sonoro-grafico non sono corretti, possono esserci degli slittamenti che portano a confusione nella decifrazione di alcune lettere all’interno di un gruppo, oppure è l’accoppiamento dei suoni che risulta confuso nella relativa rappresentazione grafica.
Anche se l’occhio sa individuare i segni grafici è l’evocazione sonora ad essere incerta quando lo scorrimento dell’immagine acustica è troppo veloce rispetto a quella visiva e perciò l’occhio eliderà delle sillabe; oppure se è l’occhio a procedere troppo velocemente rispetto all’evocazione del suono, è costretto a tornare indietro invertendo le sillabe o rovesciandole nelle sue componenti. Alcune problematiche possono derivare non tanto dai meccanismi di integrazione suono-immagine, quanto dalla confusione che nasce dal mancato ascolto e riconoscimento di alcune frequenze per cui anche i segni sono difficili da decodificare esattamente come i suoni.
L’Audiopsicofonologia come intervento primario nella dislessia
La dislessia, come evidenziano le ricerche più recenti basate sul concetto della multifattorialità, può essere accompagnata a discalculia (collegata alla formazione del simbolo come nel linguaggio), disturbi relativi all'attenzione, alla memoria, all'equilibrio e al movimento del corpo (disprassia e iperattività), tutte collegate alla funzionalità dell'orecchio (uditiva, energetica e dell’equilibrio). L’Audiopsicofonologia propone una prospettiva in cui i vari aspetti considerati nella ricerca sul disturbo dislessico risultano integrati da un unico principio organizzatore: la funzione d’ascolto. Attraverso una modalità d’intervento centrata sulla rieducazione all’ascolto si propone il recupero della funzione d’ascolto.
Come abbiamo visto questa evolve all’interno delle relazioni umane ed è intimamente connessa con lo sviluppo psichico del bambino, tenendo presente che la psiche non può essere scissa dal corpo, così come l’aspetto cognitivo da quello affettivo. Relazioni familiari problematiche si traducono sempre in una risposta psicofisica del bambino, che come difesa tende a chiudersi all’ascolto. La postura che una persona assume esprime l’apertura o la chiusura al mondo sonoro ed umano che lo circonda, può quindi porsi come una antenna pronta ad accogliere l’altro o ripiegarsi su sé stesso chiudendo l’orecchio e l’ascolto alla dimensione comunicativa profonda, continuando solo ad udire. Contemporaneamente anche le qualità vocali trasmettono i contenuti affettivi e la presenza della persona nel rapporto con l’altro, oppure la voce può esprimere l’assenza dell’intenzione di comunicare per cui risulta piatta, povera di armonici e di vitalità, ossia una voce udibile pur essendo in senso profondo muta. La voce dei bambini dislessici, che utilizzano prevalentemente il circuito audiofonatorio sinistro, ha appunto queste caratteristiche.
Tomatis ha scoperto come questa chiusura si traduca in un irrigidimento difensivo del sistema di accomodamento dell’orecchio medio. Ha così strutturato un intervento di rieducazione all’ascolto attraverso l’Orecchio Elettronico che consente di restituire flessibilità al sistema di accomodazione dell’orecchio medio, dinamizzando la risposta psicofisiologica al suono, e di favorire lo spostamento evolutivo della lateralizzazione a destra. La rieducazione all'ascolto riattiva il funzionamento dei circuiti neuropsicofisiologici che pure sono a disposizione del bambino restituendo all’orecchio destro la sua funzione, ed innesca un processo evolutivo rendendo possibile superare la dislessia e i correlati psicofisiologici. Se non si interviene ripristinando la funzione d'ascolto gli interventi pure validi che sono stati studiati per aiutare il bambino finiscono per essere forme di addestramento.
Ripartendo dall’ascolto intrauterino, il desiderio di comunicare può ritrovare la sua strada rendendo nuovamente possibile all’Edipo incatenato di riprendere la via delle separazioni senza uccisioni e accecamenti.
Più complicato è stato, ed è, il percorso di ricerca dell’origine del disturbo. Inizialmente i bambini dislessici erano considerati come soggetti con un deficit intellettivo su base organica, anche se James Kerr fin dal 1896 aveva affermato che l’intelligenza di questi bambini, negli altri aspetti dell’apprendimento, era del tutto nella norma: questo concetto venne confermato dall’introduzione delle prime scale di misurazione dell’intelligenza. Nella impossibilità scientificamente data di considerare il dislessico come “handicappato”, egli venne etichettato come pigro o svogliato, con una responsabilità del tutto personale del proprio insuccesso. Solo con gli studi della Psicologia relativi ai processi evolutivi del bambino, è stata messa in evidenza l’influenza della vita affettiva e relazionale sullo sviluppo cognitivo. Nel bambino dislessico in particolare si palesava la difficoltà o il blocco dello sviluppo affettivo determinato dalle relazioni familiari.
Oggi l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), includendo la dislessia tra i Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA), la definisce come una “disabilità per cui non è possibile apprendere la lettura, la scrittura o il calcolo aritmetico nei normali tempi e con i normali metodi di insegnamento”. Da precisare che solo in assenza di un quadro organico (ritardo mentale, deficit neurologici e/o sensoriali) è possibile porre la diagnosi di dislessia. Eppure ancora oggi la dislessia viene considerata per lo più un disturbo di origine neurobiologica e quindi migliorabile, ma non curabile. Lo dimostra il fatto che molti materiali didattici, elaborati al fine di agevolare nel bambino i percorsi conoscitivi, hanno la caratteristica di essere compensativi della specifica difficoltà dell'alunno, così come alcuni metodi di trattamento: d’altra parte porsi nell’ottica di una compensazione non fornisce lo stimolo adeguato per lo sviluppo della funzione, segnale evidente di un pregiudizio sull’origine organica che travalica gli studi più recenti della Psicologia Evolutiva. Come se gli psicologi esperti di dislessia fossero loro stessi dislessici rispetto alla lettura di una tale manifestazione, mettendo in evidenza i processi cognitivi coinvolti nell’apprendimento svincolandoli dagli aspetti psicologici che precedono l’evidenziarsi del sintomo nell’impatto con le attività scolastiche come segnale di una difficoltà pregressa.
Questa dissociazione porta ad approfondimenti di tipo tecnicistico volti allo studio dei processi che sono alla base della lettura e differenziano le forme di dislessia in merito alla prevalenza di deficit nei processi visuopercettivi, o deficit inerenti i processi linguistici e fonologici; altri studi classificano le forme di dislessia in base alla velocità di decodifica del numero di sillabe al secondo, in rapporto agli errori effettuati. È evidente che queste classificazioni masturbatorie occultano il vuoto metodologico nell’affrontare alterazioni neuropsicologiche su base funzionale.
Le moderne tecniche d’insegnamento scolastico sono, al pari della nostra “cultura” scientifica e non, prevalentemente centrate sulla visione e trascurano l’importanza della funzione di ascolto nella relazione del bambino con il mondo. Ancora una volta la techné orientata sulla visione prende il sopravvento sulla psiché centrata sull’ascolto delle interiorità: la scuola finisce con l’essere la mano armata del pregiudizio.
Alfred Tomatis, medico otorinolaringoiatra francese morto nel 2001, offre una prospettiva clinica innovativa nella comprensione dell'origine del disturbo dislessico e quindi pone le basi per la cura. La sua ricerca è fondata sulla inscindibilità della unità psicocorporea dell’essere umano, e attraverso questa prospettiva giunge a chiarire i processi che generano il disturbo. Egli pone l’accento sul ruolo determinante dell’ascolto nella vita dell’essere umano ed in particolar modo nell’apprendimento di quella capacità esclusivamente umana che è il linguaggio. Infatti, solo quando il bambino ha ottenuto una sufficiente integrazione del linguaggio verbale, è possibile procedere all’insegnamento della lettura e della scrittura.
L’ascolto umano coincide solo in parte con la funzione uditiva svolta dall’orecchio (“la raccolta e la decodifica dello stimolo sonoro con scopi difensivi”); avendo superato la condizione animale, l’uomo ha sviluppato una funzione energetica legata alle relazioni (la ricarica corticale per mezzo dei suoni acuti emessi o immessi) e la funzione dell’equilibrio per regolare la messa in ascolto (in relazione “alla verticalità ed al movimento del corpo nello spazio”). “L’ascolto quindi è una funzione complessa dovuta all’integrazione di queste funzioni” e, a differenza dell’udito, “è una funzione attiva e volontaria legata al desiderio di comunicare che coinvolge l'intera complessità psicosomatica umana”. Su questi concetti di psiconeurofisiologia Tomatis ha fondato l’Audiopsicofonologia che studia i nessi tra ascolto, postura, voce ed evoluzione psicofisica dell’essere umano.
Ascolto e linguaggio
L’evoluzione della funzione d'ascolto consente al bambino di acquisire il linguaggio in tutta la sua complessità. Lo stimolo sonoro che lo raggiunge nel mentre genera una prima sensazione che viene tradotta nella percezione uditiva, attiva quella messa in ascolto come atto volontario per raggiungere quel livello di integrazione e di assimilazione che lo porterà ad una attribuzione di senso tale da consentirgli di memorizzarlo e di riprodurlo volontariamente. L’integrazione può essere definita “come l’acquisizione del potere di riprodurre a piacere una catena sonora, dotata di senso”. È all’interno delle relazioni umane che il bambino sviluppa la sua capacità d’ascolto e quindi il suo desiderio di comunicare.
Le radici della comunicazione si ritrovano fin dalla vita intrauterina quando, intorno al quarto mese e mezzo di gravidanza, il feto è in grado di ricevere la sensazione acustica relativa alla voce materna e le reazioni corporee che questa genera in lui costituiscono la base di quel linguaggio intimo, inscritto nel corpo, che continuerà tra i due dopo il parto. I primi suoni emessi dal neonato sono rivolti esclusivamente alla madre e il suo cicaleggio (fase fonica) è la traduzione fedele della comunicazione intrauterina fatta dei suoi movimenti per raccogliere al meglio la voce materna. La presenza sonora della madre ad ogni suono emesso dal neonato permette un continuo aggiustamento fonico che perfeziona il suo sistema audiofonatorio. Su questo scambio sonoro e affettivo, dove appunto il suono della madre veicola la sua affettività e la sua capacità di accettazione del figlio, si comincia a strutturare una asimmetria funzionale degli emisferi cerebrali, specifica del linguaggio, in cui compare un barlume di intenzionalità.
Infatti, nella fase sillabica il bambino produce un balbettio fatto di sillabe a ripetizione che restituiscono alla madre quella carica affettiva che lei gli ha donato. In questa sicurezza affettiva il neonato può iniziare a sperimentare in termini vocali ciò che il corpo sta acquisendo in termini neurofisiologici: si sviluppa la lateralità corporea che, se da una parte costruisce una asimmetria sonora nel balbettio, dall’altra apre un dialogo tra un Io che percepisce e un Sé che si percepisce: attraverso il suono e le informazioni propriocettive derivate, il neonato costruisce una “immagine - oggetto (me) del corpo visceralmente vissuto collocato al centro del mondo di cui (...) desidera impadronirsi unicamente per comunicare con l’altro”. Sperimentando all’unisono queste variazioni sonore e il gioco rudimentale tra l’Io e il Sé, il bimbo comincia a sviluppare un’intenzionalità nell’uso espressivo del suono. “Cominciano a spuntare due intenzioni che si vanno individuando e distanziando man mano che le cariche affettive e psicologiche si collocano sull’uno o sull’altro dei due lati”. I sintagmi (parole che rappresentano intere frasi) sono la risultante dell'iniziale dialogo fra i due emicorpi che porterà gradualmente ad una definizione della lateralità corporea e quindi all’integrazione corticale delle strutture linguistiche.
Il processo di lateralizzazione, implicato nella conquista della postura eretta e della “presa” del mondo, permette al bambino di ampliare il proprio campo esplorativo e relazionale, fino ad includere il padre. Tale passaggio è indispensabile affinché il bambino non rimanga imprigionato nella primordiale dipendenza dalla madre, facendo in modo che anche il linguaggio non rimanga rivolto esclusivamente a lei ma diventi capace di accordarsi col mondo umano. Il padre introduce quell’elemento essenziale di diversità di rapporto, non più basato sulla corporeità intima come quello con la madre, ma proponendo un linguaggio codificato socialmente. Sarà proprio l’evoluzione della lateralità a veicolare la trasformazione del linguaggio in questa direzione.
Nella fase linguistica propriamente detta, mentre si procede verso lo stabilizzarsi della lateralità corporea e uditiva a destra, si definisce ancora di più l’Io soggetto dell’azione da un Io-me corporeo complemento oggetto, determinando il passaggio dall’”io penso” all’“io mi penso”, ove il ‘me corporeo’ coincide con il Sé. È in questo passaggio che per la prima volta l’Io si rende conto dell’esistenza del Sé, quale aspetto autoriflessivo che consente di sperimentarsi come un nucleo centrale coeso nel tempo, collegato all’inconscio e alla sfera intima affettiva. L’Io è l’istanza psichica relativa al rapporto con la realtà ed il costante dialogo con il Sé assicura un rapporto creativo con il mondo in cui si vive. Questo dialogo interno è essenziale per la vita psichica di ogni essere umano.
Con la comparsa dell’Io “tutto si soggettivizza e complementarizza” ed il bambino diviene capace di utilizzare i diversi elementi per formulare il pensiero, dando vita alla grammatica. Mentre il ‘me corporeo’ è collegato all’emisfero destro, l’emisfero sinistro, relativo all’’io pensante-verbalizzante’, è l’esecutore dello strumento-corpo offerto dall’emisfero destro. Quindi partendo dal linguaggio che suona il corpo come uno strumento musicale, il pensiero si impadronisce del corpo memore della affettività del rapporto con la madre, che si rende strumento della grammatica della lingua sociale.
In realtà la grammatica, con le sue regole, si struttura in un “insieme di processi neuronici (…) e di feed back” che portano alla costruzione di un immagine verbalizzata dello strumento-corpo, messa a disposizione del pensiero. Questa immagine corporea che nasce dal linguaggio ed evolve dal ‘me corporeo’ è fondamentale affinché l''io pensante' possa suonare consapevolmente lo strumento-corpo. In questa evoluzione che porta l’uomo dall’immagine corporea alla costruzione dell’immagine del Sé in cui la dimensione psichica plasma lo stesso strumento, è in ogni momento essenziale che il bambino desideri suonare il proprio strumento per comunicare con l’altro. In caso contrario egli può comunque sviluppare un linguaggio che però risulta povero in termini di qualità sonore, espressione di un pensiero chiuso che rispecchia la povertà del dialogo interno.
Poiché l’ascolto di un bambino si sviluppa entro lo spazio sonoro delimitato dalla capacità d’ascolto dei genitori, le difficoltà di questi ultimi ne comprometteranno lo sviluppo. Quando il rapporto simbiotico tra madre e figlio va oltre i termini temporali dettati dalla fisiologia, il bambino non ha la possibilità di sviluppare il senso di fiducia nelle proprie capacità e quindi costruire la propria autonomia. Questo si esprimerà con una dominanza dell’orecchio sinistro che sarà alla base del blocco evolutivo in cui il bambino rimane confinato. Rimanendo prigioniero nell’orbita materna, non potrà procedere verso il padre e verso il nuovo linguaggio che questi propone (non vi è il passaggio fisiologico alla lateralità destrorsa). Il bambino rimane così legato all’aspetto materiale del ‘me corporeo’ al centro del suo mondo che va a costruire la prigione dei bisogni materiali e l’unica che può soddisfarli resta per sempre la madre.
Nella ricerca di Tomatis il bambino dislessico, costantemente fissato nel rapporto simbiotico con la madre, presenta una compromissione dello sviluppo psicocorporeo prima di trovarsi di fronte alla lettera scritta: egli è in difficoltà nella lettura della realtà da conoscere che viene filtrata in modo rigido, si trova in difficoltà nel passaggio dal ‘me corporeo’ all’’io pensante’, nel dialogo tra Io e Sé. È quindi la strada che porta alla costruzione dell’identità ad essere ostacolata.
L’evoluzione psicolinguistica del bambino procede quindi per tappe e ogni passaggio alla tappa successiva è segnato dal superamento per separazione dalle strutture di rapporto precedenti. In questa prospettiva Tomatis propone una rilettura dell’Edipo freudiano, dove l’Eroe deve passare attraverso le trappole imposte dalle regole genitoriali e sociali, per conquistare la sua capacità di ascolto. Ad ogni trappola corrisponde una tappa dello sviluppo dell’ascolto umano. La prima tappa (stadio dell’Edipo incatenato) corrisponde al tentativo materno di vivere la gravidanza come un fatto esclusivamente privato: sua è la gravidanza e suo è il nascituro. Isola l’esistenza della coppia simbiotica dal contesto del divenire umano. Già nella vita intrauterina imprime nel corpo del bambino le tracce di un vissuto ambivalente in cui mentre si prepara a dare la vita separandosi fisicamente dal nascituro, lo trattiene a sé come una proprietà bloccando il suo divenire psichico. L’impedimento ad evolvere è tale da legargli i piedi e infatti Edipo significa “quello con i piedi legati”. È con i piedi legati che il neonato affronta il rapporto con la madre e conosce la propria dipendenza da lei (stadio di Labdaco). Il cicaleggio tra i due esprime il rapporto simbiotico da cui il padre è estromesso. In questo primo letto incestuoso egli lascia il linguaggio della madre per rivolgersi a quello del padre Laio (il balbuziente) già con la catena di un legame simbiotico nella memoria familiare. Come potere vivere, dati questi presupposti, la dipendenza fisiologica dei primi mesi di vita in cui lo scambio sonoro tra madre e figlio costituisce la base affettiva senza la quale sarebbe precluso il successivo sviluppo? In questa terza tappa (stadio di Laio), come Edipo in fuga da Corinto, il bambino si trova davanti a un crocevia neurofisiologicamente dato e deve scegliere quale strada percorrere. La differenziazione espressiva all’interno delle sillabe permette di cogliere questo passaggio: la lateralità uditiva a sinistra collegata all’emisfero cerebrale destro è la strada già percorsa e conosciuta nel rapporto con la madre; la lateralità uditiva a destra collegata all’emisfero sinistro è la strada nuova che esprime la spinta evolutiva verso il linguaggio sociale portato dal padre, ossia l’apertura verso l’altro. Egli può quindi rimanere bloccato nel legame materno con la dominanza stabile dell’orecchio a sinistra (vedi bambino autistico), oppure rimanere all’incrocio delle vie in cui non vi è una dominanza stabile, ma la continua oscillazione della lateralità a destra e a sinistra, come accade nel balbuziente e nel dislessico. Edipo uccide senza saperlo il padre e si mette al suo posto: la mancanza di consapevolezza legata a questo evento fa sì che il suo linguaggio rimanga un linguaggio identificato con il potere. Lo stadio dell’Edipo re si riferisce al momento in cui il bambino ha conquistato la postura eretta, è pronto per separarsi dalla madre e questa gioca la carta della madre-sposa rispondendo orgogliosa al nuovo linguaggio del bambino per fargli credere che si tratta sempre della lingua materna e tenerlo fermo nella sua orbita. Ella lo rende Re della sua casa come lo è dentro di lei. Gli individui che non affrontano questo nuovo livello di separazione vivono una falsa autonomia, mentre il linguaggio e il pensiero divengono espressione di una esistenza ripetitiva e priva di creatività. Infatti, dopo la felicità dell’incoronazione di Edipo tutto si spegne e il regno viene attaccato da una malattia che spenge la vita. Per potersi liberare egli deve separarsi dalla madre-sposa. Nell’ultima tappa (stadio di Edipo da Tebe a Colono) Edipo si libera dalle relazioni di un passato paralizzante e dai ricordi fissati nel corpo per affrontare il dolore e liberare la memoria. Egli deve accecarsi per poter accedere ad una nuova visione fondata sull’ascolto, che lo renderà veggente.
In ogni tappa c’è la morte di una forma di linguaggio e di pensiero e ogni linguaggio che il bambino deve lasciare nelle varie tappe è padre del linguaggio che verrà. È necessario però che, per la sua crescita, egli si separi anche dalla lingua del padre che, vittima della sua stessa educazione, vuole esprimere il suo potere nell’assoggettare il bambino alle stesse regole che egli subisce. In realtà la funzione paterna è quella di aiutare il bambino a essere sé stesso al di là degli a priori imposti dalla società. “Il vero padre dell’uomo è l’umano”.
Meccanismi della lettura e dislessia
Nella sua ricerca con più di 12000 bambini dislessici Tomatis giunge a ritenere che la dislessia sia originata da un disturbo della funzione d'ascolto che si palesa con la lettura perché la lettera scritta è il simbolo grafico di un suono da riprodurre. Quando leggiamo o scriviamo, così come quando pensiamo, c’è sempre il suono della nostra voce che accompagna lo sguardo, o che dirige il gesto della mano guidato dall’occhio.
La lettura è un compito tutt’altro che facile da apprendere anche da un punto di vista strettamente neurofisiologico: prevede, infatti, l’integrazione del sistema visivo che permette di percepire il segno scritto, con il sistema uditivo che lo collega al suono consentendo l’attribuzione di senso. Una sequenza di segni non ha alcun senso per il bambino se non è in grado di effettuare un’analisi acustica che lo porta a distinguere ogni singolo suono e collegarlo al singolo segno, per poi costruire l’insieme significante costituito dalla parola. L’orecchio è dunque “l’organo del leggere”,ma non solo: nella scrittura l’orecchio si accorda all’apparato fonatorio per poter tradurre il suono in segno scritto, utilizzando la visione per dirigere il movimento della mano. Ogni individuo dovrebbe raggiungere una specializzazione tale della funzione d’ascolto che gli permetta di trasformare il segno in suono e viceversa.
Sia nella scrittura che nella lettura è l’evocazione della forma sonora che rischia di sfuggire quando vi sono delle turbe della funzione d'ascolto. Tutti quei processi che portano ad un linguaggio mal acquisito, alla lateralità uditiva fissata a sinistra o mal stabilizzata a destra, e quindi ad un’immagine corporea mal elaborata e ad una mancata integrazione, sono alla base della dislessia come disturbo che li rivela. Tale disturbo esprime un atteggiamento di chiusura nei confronti delle relazioni umane. Essere lateralizzati a destra, infatti, significa poter esprimere sé stessi in divenire nel confronto con la società umana, quando l’orecchio sinistro che raccoglie la storia affettiva dell’individuo non lo imprigiona in un passato cristallizzato, ma coopera con l’orecchio destro legato alla realtà attuale.
Ovviamente l’occhio è fondamentale nello scorrimento del treno grafico-sonoro, perciò non sorprende che la maggior parte delle ricerche si siano concentrate sull’elemento visivo, infatti la rapidità di scorrimento assicura la continuità del discorso e la sua comprensione. Questo è però possibile solo se vi è la immediata sovrapposizione immagine-suono. Per essere in grado di evocare i suoni che compongono la parola è necessario che i processi di analisi e sintesi suono-immagine divengano sempre più rapidi e automatici. Quando non è possibile l’integrazione suono-immagine, il segno è indecifrabile e senza senso perciò la dislessia è totale; se invece avviene troppo lentamente l’apparizione di gruppi di lettere non si realizza, e la lettura procede a stento. Quando funziona il circuito che permette la sovrapposizione suono-immagine ma i tempi di montaggio nello scorrimento del treno sonoro-grafico non sono corretti, possono esserci degli slittamenti che portano a confusione nella decifrazione di alcune lettere all’interno di un gruppo, oppure è l’accoppiamento dei suoni che risulta confuso nella relativa rappresentazione grafica.
Anche se l’occhio sa individuare i segni grafici è l’evocazione sonora ad essere incerta quando lo scorrimento dell’immagine acustica è troppo veloce rispetto a quella visiva e perciò l’occhio eliderà delle sillabe; oppure se è l’occhio a procedere troppo velocemente rispetto all’evocazione del suono, è costretto a tornare indietro invertendo le sillabe o rovesciandole nelle sue componenti. Alcune problematiche possono derivare non tanto dai meccanismi di integrazione suono-immagine, quanto dalla confusione che nasce dal mancato ascolto e riconoscimento di alcune frequenze per cui anche i segni sono difficili da decodificare esattamente come i suoni.
L’Audiopsicofonologia come intervento primario nella dislessia
La dislessia, come evidenziano le ricerche più recenti basate sul concetto della multifattorialità, può essere accompagnata a discalculia (collegata alla formazione del simbolo come nel linguaggio), disturbi relativi all'attenzione, alla memoria, all'equilibrio e al movimento del corpo (disprassia e iperattività), tutte collegate alla funzionalità dell'orecchio (uditiva, energetica e dell’equilibrio). L’Audiopsicofonologia propone una prospettiva in cui i vari aspetti considerati nella ricerca sul disturbo dislessico risultano integrati da un unico principio organizzatore: la funzione d’ascolto. Attraverso una modalità d’intervento centrata sulla rieducazione all’ascolto si propone il recupero della funzione d’ascolto.
Come abbiamo visto questa evolve all’interno delle relazioni umane ed è intimamente connessa con lo sviluppo psichico del bambino, tenendo presente che la psiche non può essere scissa dal corpo, così come l’aspetto cognitivo da quello affettivo. Relazioni familiari problematiche si traducono sempre in una risposta psicofisica del bambino, che come difesa tende a chiudersi all’ascolto. La postura che una persona assume esprime l’apertura o la chiusura al mondo sonoro ed umano che lo circonda, può quindi porsi come una antenna pronta ad accogliere l’altro o ripiegarsi su sé stesso chiudendo l’orecchio e l’ascolto alla dimensione comunicativa profonda, continuando solo ad udire. Contemporaneamente anche le qualità vocali trasmettono i contenuti affettivi e la presenza della persona nel rapporto con l’altro, oppure la voce può esprimere l’assenza dell’intenzione di comunicare per cui risulta piatta, povera di armonici e di vitalità, ossia una voce udibile pur essendo in senso profondo muta. La voce dei bambini dislessici, che utilizzano prevalentemente il circuito audiofonatorio sinistro, ha appunto queste caratteristiche.
Tomatis ha scoperto come questa chiusura si traduca in un irrigidimento difensivo del sistema di accomodamento dell’orecchio medio. Ha così strutturato un intervento di rieducazione all’ascolto attraverso l’Orecchio Elettronico che consente di restituire flessibilità al sistema di accomodazione dell’orecchio medio, dinamizzando la risposta psicofisiologica al suono, e di favorire lo spostamento evolutivo della lateralizzazione a destra. La rieducazione all'ascolto riattiva il funzionamento dei circuiti neuropsicofisiologici che pure sono a disposizione del bambino restituendo all’orecchio destro la sua funzione, ed innesca un processo evolutivo rendendo possibile superare la dislessia e i correlati psicofisiologici. Se non si interviene ripristinando la funzione d'ascolto gli interventi pure validi che sono stati studiati per aiutare il bambino finiscono per essere forme di addestramento.
Ripartendo dall’ascolto intrauterino, il desiderio di comunicare può ritrovare la sua strada rendendo nuovamente possibile all’Edipo incatenato di riprendere la via delle separazioni senza uccisioni e accecamenti.
BIBLIOGRAFIA
R.D. DAVIS, Il dono della dislessia, Armando Ed., Roma 2003.
M. MELONI, N. GALVAN, N. SPONZA,D. SOLA, Dislessia: strumenti compensativi, Libri Liberi S.r.l., Firenze 2004.
E. SIMONETTA, La dislessia, Edizioni Carlo Amore, Roma 2004.
A. TOMATIS, Dalla Comunicazione intrauterina al linguaggio umano, Ibis Ed., Como-Pavia 1993.
A. TOMATIS, Educazione e dislessia, Omega-Torino Ed., Torino 1977.
A. TOMATIS, L’orecchio e il linguaggio, Ibis Ed., Como-Pavia 1995.
A. TOMATIS, L’orecchio e la vita, Baldini & Castoldi Ed., Milano 2002.
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C. TURCHI, M. MORTILLARO, Dalla sensazione alla percezione e alla recettività: il cammino verso l’ascolto, sul sito: www.traiettorieblu.it
C. TURCHI, “Ricordi in chiave di violino”, in L’ArcoAcrobata, Rivista di Scienze Umane ed Arte, III, 5, Associazione Musicalificio Grande Blu Ed., Roma 2004 (la versione rivisitata è consultabile nell’archivio 2002-2008 della sezione ArteScienza).
C. VIO, C. TOSO, Dislessia Evolutiva: dall’identificazione del disturbo all’intervento, Carocci Ed., Roma 2007.</div>
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Hulda Clark. UNA RICERCA SULLE ORIGINI DEL CANCRO di Shelly Bisirri. Anno 2012.
Intervista a Tullio Simoncini. Il CORAGGIO DELLA DIFFERENZA di Shelly Bisirri. Anno 2012
UNA RICERCA SULLE ORIGINI DEL CANCRO
Shelly Bisirri
Shelly Bisirri
“Entrate in un mondo nuovo. Un mondo senza malattie croniche.
Uscite dal vecchio mondo. Un mondo che vi ha tenuto prigionieri.
Provate qualcosa di nuovo. La prigione non ha muri, ma solo linee.
Linee che delimitano il terreno attorno a voi.
All’interno delle linee ci sono le vostre vecchie idee.
Fuori ci sono le nuove idee che vi invitano ad uscire e a fuggire dalla vostra prigione”.
Hulda R.Clark
Uscite dal vecchio mondo. Un mondo che vi ha tenuto prigionieri.
Provate qualcosa di nuovo. La prigione non ha muri, ma solo linee.
Linee che delimitano il terreno attorno a voi.
All’interno delle linee ci sono le vostre vecchie idee.
Fuori ci sono le nuove idee che vi invitano ad uscire e a fuggire dalla vostra prigione”.
Hulda R.Clark
La cosa di Valeria Amato
Lavorando nel campo delle cure palliative ho scoperto con mia grande sorpresa che gli specialisti oncologi hanno una scarsa conoscenza della eziopatogenesi del cancro. La curiosità mi ha spinto a cercare chi invece ha fatto delle ricerche in merito e sostenuto delle ipotesi, proponendo anche delle cure diverse dalla chemioterapia o radioterapia, proprio come risultato dei loro studi. Sono arrivata in questo modo alla Dott.ssa Hulda Clark.
Hulda Regehr Clark (1928-2009), naturopata e biologa canadese, nella sua ricerca ha focalizzato l’attenzione sulla eziopatogenesi delle malattie, cioè cosa fa ammalare e in che modo. I suoi studi, in particolare sul cancro, sono basati sulla raccolta di dati istopatologici di persone affette da tale patologia.
Il primo postulato della sua ricerca afferma che “gole o che sia un sarcoma o un carcinoma, che sia una specie molto rara o la più comune - ha sempre inizio in una piccola zona del cervello”. Questa zona è l’ipotalamo. Clark descrive come in questa ghiandola avvengano delle “esplosioni”, per cui alcune sue cellule vengono proiettate nei liquidi circostanti: sangue, linfa, liquor cerebrospinale e saliva. Teoricamente queste cellule, essendo lontane dall’organo di appartenenza, dovrebbero morire e invece galleggiano indisturbate nei suddetti mezzi liquidi; poiché rimangono in vita non vengono fagocitate dai linfociti, deputati alle difese immunitarie, che le mangerebbero solo se morte. Nella foto accanto vediamo come a breve distanza dall’ipotalamo è sita un’altra ghiandola: la pituitaria o ipofisi. Questa appare come una piccola biglia che pende dall’ipotalamo tramite un peduncolo; anche qui avvengono delle esplosioni del tessuto, indipendenti da quelle dell’ipotalamo. Anche le cellule della ghiandola pituitaria una volta proiettate nei liquidi circostanti non muoiono e quindi non vengono fagocitate dai linfociti. Notiamo come a due organi vicini sul piano anatomico accada la stessa strana cosa: si liberano cellule che vengono trasportate via attraverso i fluidi dell’organismo (sangue, linfa e saliva).
L’unica arma che possiede l’organismo contro queste cellule dislocate è il complemento C3, una divisione del nostro sistema immunitario a base proteica. Il complemento C3 identifica le cellule vaganti dell’ipotalamo e della pituitaria e vi si lega per poi ucciderle. Quando sangue, saliva e linfa sembrano essere state ripulite dalle cellule vaganti, ecco arrivarne delle altre. Per le molecole del complemento C3 diventa un lavoro impegnativo poiché una volta che le suddette proteine hanno svolto il loro lavoro non sono più riutilizzabili, quindi l’organismo è costretto a produrne delle nuove. In tal caso la richiesta di molecole proteiche del complemento C3 è maggiore rispetto ad una normale produzione, mettendo così l’organismo in seria difficoltà rispetto alla richiesta, mentre le cellule vaganti galleggeranno l’una accanto all’altra indisturbate. Le suddette due cellule, seppure di origini diverse, sembrano avere un’attrazione reciproca per cui si formano dei duplex, coppie di cellule derivanti dall’ipotalamo e dalla pituitaria che si fondono tra di loro. Ora in circolo avremo sia cellule singole che duplex e aumenterà il lavoro per il complemento C3.
Nell’addome, appena sopra la zona ombelicale, un po’ verso destra rispetto alla linea mediana, troviamo la testa del pancreas il cui corpo si allunga verso sinistra. Anche il pancreas è una ghiandola e vi ritroviamo le stesse esplosioni di cui sopra, per cui anche le cellule della testa del pancreas vagano libere nei fluidi dell’organismo. I duplex le incontrano e si fondono con esse formando dei triplet. Questo processo avviene con un ordine preciso: le cellule dell’ipotalamo si legano esclusivamente a quelle della pituitaria, che a loro volta sono legate solo a quelle pancreatiche.
Il costituirsi dei triplet aumenta ancora il lavoro del complemento C3. In questo caso subentra per fare pulizia un’arma chimica, l’ossido nitrico, che entra in azione proprio nei confronti di queste cellule (singole, duplex o triplet) che si sono immerse nella matrice che circonda i vari organi; la matrice è un reticolo di fibre che avvolge le cellule degli organi con la funzione di tenere tutto saldamente al suo posto e di rallentare il movimento delle suddette cellule per favorire l’azione dell’ossido nitrico.
Di fronte a tutto ciò Clark rileva che prima o poi vi sarà un quarto organo a subire le esplosioni di cui sopra, per cui vi saranno altre cellule vaganti che si uniranno ai duplex o triplet: si potrà trattare della prostata, di un seno, o di qualsiasi altro organo. La particolarità di questo quarto organo, rispetto ai primi tre, è la sua produzione di sostanze appiccicose come la fibronectina, la laminina e la caderina E: queste sostanze collose trasudano dall’organo nella matrice e costituiscono delle autentiche trappole per le cellule vaganti. I triplet si troveranno ad essere rallentati da queste tele di ragno e aderiranno all’organo in questione, si uniranno alle sue cellule vaganti formando così dei quadruplet o quad. I fluidi dell’organismo saranno invasi dai quad, anche se la maggioranza rimarrà aderente alla matrice del quarto organo, dove si formerà il tumore primario. Secondo gli studi di Clark ogni tumore primario, da lei analizzato, presenta sempre lo stesso nucleo con cellule disposte nello stesso ordine di cui abbiamo parlato. Da evidenziare che una quantità di produzione di sostanza collosa è fisiologica, ma sembra che quando vicino all’organo in questione vi siano dei parassiti (Fascicola e Ascaris) la produzione aumenti. Ogni volta che si forma un nucleo tumorale, a breve se ne formeranno altri, aggregandosi tra loro, dando l’idea di essere frutto di una sola cellula; invece i nuclei tumorali sono sempre numerosi e solo in un secondo tempo si uniscono prendendo la forma di un grappolo. Questa unione sancisce l’origine della fase intermedia in cui il tumore cresce: solo a questo punto secondo la Clark diventa difficile per il nostro sistema immunitario intervenire in modo risolutivo.
Qual è la causa delle esplosioni di cui abbiamo parlato? Nell’ipotalamo, nella pituitaria o nel pancreas, si possono accumulare sostanze chimiche regolarmente presenti nell’organismo e che le stesse ghiandole sono fisiologicamente in grado di smaltire, a meno che non ve ne sia una quantità tale da intasarne sia la struttura che la funzione. In quest’ultimo caso le ghiandole, per reazione, provocano delle esplosioni liberando le cellule nei fluidi corporei.
Gli studi di Clark evidenziano che tutti i malati di cancro presentano in circolo un accumulo di acido clorogenico, un noto composto vegetale considerato un antigene, quindi fattore allergenico soprattutto delle vie respiratorie. Esso è naturalmente contenuto negli alimenti come le patate, il latte vaccino e tutti i derivati, i peperoni, la frutta acerba, il thè e il caffè. Anche la modalità di cottura dei cibi può condizionare la presenza di questa sostanza, poiché le cotture più lente la distruggono. Evitare questi cibi può aiutare a non accumularne una quantità nociva per l’organismo.
La sostanza chimica che invece tende ad accumularsi nella ghiandola pituitaria è la florizina, un fenolo che si trova nei cibi anch’essi allergenici. Si sa già che la florizina è associata al cancro nell’80 per cento dei casi, ed è anche la causa del diabete alimentare.I cibi che la contengono naturalmente sono le mele - eccetto le deliziose rosse e gialle (mature) -, il maiale e tutti gli affettati; la soya e i suoi derivati, la frutta acerba - soprattutto le banane -, i cavolfiori, le rape, le zucchine scure, gli anacardi, l’amaranto e il miglio non cotti.
Responsabile delle esplosioni del pancreas è l’acido gallico, anch’esso presente in quantità eccessiva nel pancreas di tutti i pazienti affetti da cancro. E poiché questa sostanza chimica è presente in tutti i tipi di cereali trattati, è la più temibile. A differenza dei casi precedenti, l’acido gallico non è naturalmente presente nei cereali, ma ce lo mette l’uomo aggiungendo conservanti, antimuffa, e antiossidanti. Si trova anche nell’olio di produzione industriale, nel latte vaccino, nel pollame e nelle uova, sempre a causa dei trattamenti fatti agli animali o ai cibi con cui vengono nutriti (il pollame spesso è pieno di tumori). Tra l’altro l’acido gallico è anche un forte fattore allergenico.
Clark ha denotato un particolare tropismo di queste sostanza chimiche nei confronti delle tre ghiandole:
Quando vi sono cellule singole, duplex, triplet o quad in circolazione, le suddette sostanze una volta ingerite raggiungeranno direttamente la ghiandola prediletta, by-passando il filtro epatico e renale, con tempi inferiori al minuto.
La presenza di parassiti all’interno e all’esterno del corpo umano è parte di un equilibrio naturale, mentre il loro prosperare è dovuto all’indebolimento del sistema immunitario. Ogni organo ha il suo parassita. Le fasciole in fase adulta somigliano a delle sanguisughe che una volta raggiunto l’ospite primario si preoccupano solo di nutrirsi e produrre uova in grande quantità; per lo più si localizzano nel fegato, nel polmone e nel pancreas. I nematodi somigliano a dei lombrichi: quelli più comuni nel corpo umano sono gli Ascaris (causa di ascessi, eczema, malattie polmonari e del semplice raffreddore), gli Stronyloides (causa dell’emicrania) e le Dirofilarie (causa delle malattie cardiache). I filamenti delle filarie sono presenti nei fluidi dei nostri occhi, nei polmoni e nei loro fluidi linfatici, oltre che nel liquido peritoneale: questi filamenti se riescono a sfuggire al sistema immunitario cominciano a crescere in lunghezza formando dei grovigli che saranno il punto di partenza del linfoma di Hodgkin, di masse tumorali addominali e del morbo di Alzheimer.
Ora analizziamo più attentamente il rapporto tra le sostanze chimiche, le ghiandole e i parassiti. Abbiamo visto come l’acido clorogenico quando va direttamente all’ipotalamo, by-passando il filtro renale ed epatico, viene usualmente detossificato ed eliminato in un tempo che oscilla tra i 5 ed i 20 minuti. La presenza dello Stronyloides stercoralis (vedi foto a destra) nei dintorni dell’ipotalamo interferisce con la rimozione dell’acido clorogenico. Questo parassita, appartenente alla famiglia dei nematodi, ha la forma di un verme le cui fasi larvali presentano una serie di mutazioni che producono delle particolari sostanze chimiche. Sembra che sia proprio una di queste sostanze a essere responsabile della interferenza con la funzione di rimozione dell’acido clorogenico da parte dell’ipotalamo. Lo Stronyloides stercoralis necessita dell’acido clorogenico per le sue mutazioni.
Anche la florizina quando va diretta alla ghiandola pituitaria, vi rimane per qualche minuto prima di essere eliminata. Essa risulta costantemente presente solo qualora vi sia la presenza della comune fasciola epatica umana, Clonorchis sinesi, un piccolo parassita poco più lungo di mezzo centimetro. L’allergene alimentare che si accumula nel pancreas è l’acido gallico, e in questo caso la responsabilità sembra essere dell’Eurytrema pancreaticum, lo stesso parassita responsabile del diabete. Esso è molto comune e contenuto in grandi quantità sotto forma di uova o larve nel latte vaccino e nei suoi derivati, soprattutto se non ben sterilizzato.
In sintesi abbiamo tre parassiti, tre allergeni e tre organi bersaglio coinvolti nella eziopatogenesi del cancro:
Clark sostiene che dobbiamo evitare i cibi contenenti gli allergeni, ma dovremmo anche distruggere i parassiti responsabili del processo di formazione dei duplex, triplet e quad. Ricordo ancora una volta che questi parassiti convivono naturalmente nel nostro organismo e che solo quando le difese immunitarie si abbassano aumenta la loro quantità determinando gli effetti nocivi descritti dalla ricercatrice. Cosa accade ai suddetti organi quando, attraverso l’alimentazione assumiamo le sostanze allergeniche? Tutti e tre reagiscono producendo la prostaglandina E2 - PGE2. La presenza di PGE2 determina una lassità delle maglie della matrice e quindi dei tessuti dell’organo: le cellule, non riescondo più a rimanere ben unite, si fanno vagabonde e i tessuti perdono densità, forse perché in tali circostanze sono costrette a diffondere i loro enzimi, fra cui la collagenasi. La perdita di densità rende l’organo più facilmente penetrabile dai parassiti e le cellule libere si legano ad altre cellule libere, come abbiamo già visto. Intanto i parassiti ricevono il loro cibo necessario o preferito, gli allergeni, e cominciano a vagare da un organo all’altro alla ricerca di altro cibo, favoriti dalla lassità dei tessuti. Una delle prime indicazioni date da Clark in caso di cancro, e come prevenzione nei confronti delle malattie, è quella di “affamare i parassiti” smettendo di mangiare i cibi contenenti gli allergeni di cui abbiamo parlato.
Una volta costituitosi il nucleo tumorale che si fonde con un organo, il cancro attacca il corpo e il parassita platelminta Fasciolopsis buski (foto accanto) raggiunge l’organo colpito stimolando la produzione di OPT (orto-fosfo-tirosina), uno stimolante mitotico, fattore di crescita primario del cancro stesso. Non solo, poiché il Fasciolopsis buski ospita a sua volta un batterio, il Bacillus cereus, produttore di tiramina destrogira, quest’ultima modifica la forma levogira degli amminoacidi rendendoli destrogiri, inutilizzabili per l’organismo. Ciò crea uno status di emergenza per i tessuti poiché l’ormone tiroideo, l-tiroxina, modificato in d-tiroxina, non è metabolizzabile: si attiva la produzione di PGE2 come mezzo per combattere l’allergene che causa la modificazione della l-tiroxina. Ovviamente la situazione peggiora con un’alimentazione ricca di amminoacidi di forma destrogira: ecco il motivo dell’importanza di assumere cibi freschi, caratterizzati sempre da una forma levogira.
Concludendo, si è evidenziato come il Fasciolopsis buski sia un catalizzatore dell’esplosione allergica, attraverso i suoi batteri, esplosione che produce infiammazioni causate dalle stesse PGE2, aprendo così la strada a virus e batteri tra cui anche gli oncovirus e la formazione conseguente di metastasi del cancro.
Clark sostiene la proprietà di auto-guarigione di tutto ciò che è vivente, proprio come la riparazione cicatriziale nel caso di una ferita. È come se le nostre cellule sapessero che per guarire devono riprodursi per poi avere cellule giovani e sane capaci di sopperire alla mancata funzione delle cellule malate ed inefficienti. Così si può ipotizzare che le cellule tumorali tentino di guarire riproducendosi e determinando in questo modo la crescita veloce del tumore. Di fatto le cellule tumorali, a differenza di quelle sane, non svolgono alcuna funzione utile all’organismo: per esempio, non generano energia. I produttori di energia delle cellule, i mitocondri, in questi casi appaiono avvizziti, deformati e scarsi a causa della presenza di acido malonico e della scarsità o inefficienza dell’ormone tiroideo modificato (d-tiroxina e non l-tiroxina). L’organo ospite tenta di sopperire alla inefficienza e inattività delle cellule tumorali mettendo in atto un meccanismo di riparazione nei loro confronti: viene così prodotto l’Ormone della crescita HGH, normalmente prodotto dalla ipofisi. La produzione di questo ormone è regolato dal corrispondente Ormone di rilascio RGH secreto dall’ipotalamo, anch’esso sempre coinvolto, come l’ipofisi, nella formazione del nucleo tumorale. L’ipotalamo e la pituitaria sono due ghiandole fondamentali che hanno la funzione di controllare la crescita e rispondere alle esigenze degli organi. Le cellule tumorali di queste due ghiandole, una volta dissociatesi dall’organo di origine, non ricevono più istruzioni dal cervello circa la produzione dei rispettivi ormoni. Una volta formatisi il duplex, triplet o quad queste cellule fanno ogni cosa insieme entrando in un circolo vizioso fatto di continua produzione di entrambi gli ormoni in modo sconsiderato.
Inoltre bisogna considerare l’apoptosi, cioè la capacità che ha una cellula di riprodursi di fronte ad una cellula morta. Le cellule di un organo sano sono connesse l’una all’altra e lavorano alacremente per circa dieci giorni, alcune al massimo per un mese, dopodiché invecchiano e muoiono. A questo punto vengono smantellate ordinatamente in modo da riutilizzare ciò che è riciclabile ed assicurarsi che nulla di tossico rimanga in circolo. Lì dove è morta una cellula si crea un vuoto che verrà prontamente riempito da una cellula nuova: se questo non accadesse l’organo rimpicciolirebbe sempre più. La riproduzione di cellule è dovuta alle cellule staminali di riserva che si attivano proprio grazie all’RCH prodotto dall’ipotalamo. Quando le cellule dell’ipotalamo fanno parte del nucleo tumorale, producono senza regola l’Ormone di rilascio che sicuramente raggiungerà le cellule staminali poste vicino all’organo ove il nucleo tumorale si è impiantato. Così queste ultime potrebbero far parte dello stesso tumore e non diventare mai mature, cioè differenziate, e quindi non trasformarsi in cellule adulte che perdono la loro attitudine a dividersi continuamente cioè a riprodursi, proprio per la caratteristica di inoperatività funzionale del tumore.
Clark ha ipotizzato che anche la cellula pancreatica che fa parte della triade tumorale originaria, sia responsabile dell’incapacità dell’organismo di frenare la spinta proliferativa del nucleo tumorale. Nelle cellule pancreatiche presenti nel cancro Clark ha trovato gli Oncovirus SV 40 (vedi foto accanto), e non solo. Attaccati ad essi vi è anche una lunga serie di altri oncovirus che si tengono per mano l’uno con l’altro, di cui alcuni equiparabili a normali virus come quello dell’influenza o della parotite. Questi virus, che si potenziano a vicenda, usualmente vengono uccisi e fagocitati dai nostri linfociti, ma quando i linfociti sono carenti di sostanze minerali organiche come il selenio, il germanio e la vitamina C (quest’ultima è particolarmente efficace anche contro gli inquinanti radioattivi), non sono efficienti nella loro funzione, proprio come accade ai linfociti di un malato di cancro i cui minerali organici siano ossidati. Perché gli SV 40 divengano virulenti necessitano di acido gallico, la stessa sostanza allergenica per il pancreas, che stimola il virus ad uscire dalla Fasciola pancreatica e formare delle vere e proprie bande di virus in grado di stimolare l’infinita crescita delle cellule cancerose e rendere i batteri particolarmente resistenti. Ogni oncovirus ha il relativo parassita di appartenenza e quando si fa diagnosi di cancro ci possono essere cinque o sei parassiti con i relativi oncovirus, che aumentano con il progredire della malattia.
Come fermare la crescita della massa tumorale? Per Clark il primo passo è bloccare le esplosioni dell’ipotalamo e della ipofisi con una alimentazione che tenga conto dei fattori allergenici, quindi uccidere i diversi microrganismi patogeni responsabili in vario modo della crescita tumorale (attraverso la combinazione di erbe specifiche). L’obiettivo primario è da una parte ridare ai globuli bianchi la massima efficienza, dall’altra aiutare i reni a riassumere in toto la loro funzione di filtro. Solo allora le tossine ingerite non si dirigeranno più verso organi bersaglio, ma andranno direttamente ai reni che le filtrerà per poi espellerle attraverso le urine. Altro elemento importante è il ripristino della funzionalità intestinale ed epatica come detossificatori fondamentali del nostro organismo. Gli interventi proposti da Clark sono molteplici e capillari e, a detta di molti, efficaci.
Queste nozioni sono frutto di una vita dedicata allo studio sul cancro, e magari alcune sono solo delle ipotesi da approfondire. Se si dedicassero più fondi… e non solo materiali (inteso come pensabilità), allo studio dell’eziopatogenesi del cancro e alla ricerca di punti di connessione fra le diverse teorie sviluppate da più ricercatori, sarebbe più semplice trovare una soluzione. D’altra parte una cura è possibile solo quando si scopre l’eziopatogenesi di una malattia ed è davvero singolare che la Medicina Ufficiale abbia dimenticato questa verità dedicandosi solo alla soppressione dei sintomi, spesso l’unico segnale non riconosciuto della attivazione della capacità di autoguarigione.
Hulda Regehr Clark (1928-2009), naturopata e biologa canadese, nella sua ricerca ha focalizzato l’attenzione sulla eziopatogenesi delle malattie, cioè cosa fa ammalare e in che modo. I suoi studi, in particolare sul cancro, sono basati sulla raccolta di dati istopatologici di persone affette da tale patologia.
Il primo postulato della sua ricerca afferma che “gole o che sia un sarcoma o un carcinoma, che sia una specie molto rara o la più comune - ha sempre inizio in una piccola zona del cervello”. Questa zona è l’ipotalamo. Clark descrive come in questa ghiandola avvengano delle “esplosioni”, per cui alcune sue cellule vengono proiettate nei liquidi circostanti: sangue, linfa, liquor cerebrospinale e saliva. Teoricamente queste cellule, essendo lontane dall’organo di appartenenza, dovrebbero morire e invece galleggiano indisturbate nei suddetti mezzi liquidi; poiché rimangono in vita non vengono fagocitate dai linfociti, deputati alle difese immunitarie, che le mangerebbero solo se morte. Nella foto accanto vediamo come a breve distanza dall’ipotalamo è sita un’altra ghiandola: la pituitaria o ipofisi. Questa appare come una piccola biglia che pende dall’ipotalamo tramite un peduncolo; anche qui avvengono delle esplosioni del tessuto, indipendenti da quelle dell’ipotalamo. Anche le cellule della ghiandola pituitaria una volta proiettate nei liquidi circostanti non muoiono e quindi non vengono fagocitate dai linfociti. Notiamo come a due organi vicini sul piano anatomico accada la stessa strana cosa: si liberano cellule che vengono trasportate via attraverso i fluidi dell’organismo (sangue, linfa e saliva).
L’unica arma che possiede l’organismo contro queste cellule dislocate è il complemento C3, una divisione del nostro sistema immunitario a base proteica. Il complemento C3 identifica le cellule vaganti dell’ipotalamo e della pituitaria e vi si lega per poi ucciderle. Quando sangue, saliva e linfa sembrano essere state ripulite dalle cellule vaganti, ecco arrivarne delle altre. Per le molecole del complemento C3 diventa un lavoro impegnativo poiché una volta che le suddette proteine hanno svolto il loro lavoro non sono più riutilizzabili, quindi l’organismo è costretto a produrne delle nuove. In tal caso la richiesta di molecole proteiche del complemento C3 è maggiore rispetto ad una normale produzione, mettendo così l’organismo in seria difficoltà rispetto alla richiesta, mentre le cellule vaganti galleggeranno l’una accanto all’altra indisturbate. Le suddette due cellule, seppure di origini diverse, sembrano avere un’attrazione reciproca per cui si formano dei duplex, coppie di cellule derivanti dall’ipotalamo e dalla pituitaria che si fondono tra di loro. Ora in circolo avremo sia cellule singole che duplex e aumenterà il lavoro per il complemento C3.
Nell’addome, appena sopra la zona ombelicale, un po’ verso destra rispetto alla linea mediana, troviamo la testa del pancreas il cui corpo si allunga verso sinistra. Anche il pancreas è una ghiandola e vi ritroviamo le stesse esplosioni di cui sopra, per cui anche le cellule della testa del pancreas vagano libere nei fluidi dell’organismo. I duplex le incontrano e si fondono con esse formando dei triplet. Questo processo avviene con un ordine preciso: le cellule dell’ipotalamo si legano esclusivamente a quelle della pituitaria, che a loro volta sono legate solo a quelle pancreatiche.
Il costituirsi dei triplet aumenta ancora il lavoro del complemento C3. In questo caso subentra per fare pulizia un’arma chimica, l’ossido nitrico, che entra in azione proprio nei confronti di queste cellule (singole, duplex o triplet) che si sono immerse nella matrice che circonda i vari organi; la matrice è un reticolo di fibre che avvolge le cellule degli organi con la funzione di tenere tutto saldamente al suo posto e di rallentare il movimento delle suddette cellule per favorire l’azione dell’ossido nitrico.
Di fronte a tutto ciò Clark rileva che prima o poi vi sarà un quarto organo a subire le esplosioni di cui sopra, per cui vi saranno altre cellule vaganti che si uniranno ai duplex o triplet: si potrà trattare della prostata, di un seno, o di qualsiasi altro organo. La particolarità di questo quarto organo, rispetto ai primi tre, è la sua produzione di sostanze appiccicose come la fibronectina, la laminina e la caderina E: queste sostanze collose trasudano dall’organo nella matrice e costituiscono delle autentiche trappole per le cellule vaganti. I triplet si troveranno ad essere rallentati da queste tele di ragno e aderiranno all’organo in questione, si uniranno alle sue cellule vaganti formando così dei quadruplet o quad. I fluidi dell’organismo saranno invasi dai quad, anche se la maggioranza rimarrà aderente alla matrice del quarto organo, dove si formerà il tumore primario. Secondo gli studi di Clark ogni tumore primario, da lei analizzato, presenta sempre lo stesso nucleo con cellule disposte nello stesso ordine di cui abbiamo parlato. Da evidenziare che una quantità di produzione di sostanza collosa è fisiologica, ma sembra che quando vicino all’organo in questione vi siano dei parassiti (Fascicola e Ascaris) la produzione aumenti. Ogni volta che si forma un nucleo tumorale, a breve se ne formeranno altri, aggregandosi tra loro, dando l’idea di essere frutto di una sola cellula; invece i nuclei tumorali sono sempre numerosi e solo in un secondo tempo si uniscono prendendo la forma di un grappolo. Questa unione sancisce l’origine della fase intermedia in cui il tumore cresce: solo a questo punto secondo la Clark diventa difficile per il nostro sistema immunitario intervenire in modo risolutivo.
Qual è la causa delle esplosioni di cui abbiamo parlato? Nell’ipotalamo, nella pituitaria o nel pancreas, si possono accumulare sostanze chimiche regolarmente presenti nell’organismo e che le stesse ghiandole sono fisiologicamente in grado di smaltire, a meno che non ve ne sia una quantità tale da intasarne sia la struttura che la funzione. In quest’ultimo caso le ghiandole, per reazione, provocano delle esplosioni liberando le cellule nei fluidi corporei.
Gli studi di Clark evidenziano che tutti i malati di cancro presentano in circolo un accumulo di acido clorogenico, un noto composto vegetale considerato un antigene, quindi fattore allergenico soprattutto delle vie respiratorie. Esso è naturalmente contenuto negli alimenti come le patate, il latte vaccino e tutti i derivati, i peperoni, la frutta acerba, il thè e il caffè. Anche la modalità di cottura dei cibi può condizionare la presenza di questa sostanza, poiché le cotture più lente la distruggono. Evitare questi cibi può aiutare a non accumularne una quantità nociva per l’organismo.
La sostanza chimica che invece tende ad accumularsi nella ghiandola pituitaria è la florizina, un fenolo che si trova nei cibi anch’essi allergenici. Si sa già che la florizina è associata al cancro nell’80 per cento dei casi, ed è anche la causa del diabete alimentare.I cibi che la contengono naturalmente sono le mele - eccetto le deliziose rosse e gialle (mature) -, il maiale e tutti gli affettati; la soya e i suoi derivati, la frutta acerba - soprattutto le banane -, i cavolfiori, le rape, le zucchine scure, gli anacardi, l’amaranto e il miglio non cotti.
Responsabile delle esplosioni del pancreas è l’acido gallico, anch’esso presente in quantità eccessiva nel pancreas di tutti i pazienti affetti da cancro. E poiché questa sostanza chimica è presente in tutti i tipi di cereali trattati, è la più temibile. A differenza dei casi precedenti, l’acido gallico non è naturalmente presente nei cereali, ma ce lo mette l’uomo aggiungendo conservanti, antimuffa, e antiossidanti. Si trova anche nell’olio di produzione industriale, nel latte vaccino, nel pollame e nelle uova, sempre a causa dei trattamenti fatti agli animali o ai cibi con cui vengono nutriti (il pollame spesso è pieno di tumori). Tra l’altro l’acido gallico è anche un forte fattore allergenico.
Clark ha denotato un particolare tropismo di queste sostanza chimiche nei confronti delle tre ghiandole:
Quando vi sono cellule singole, duplex, triplet o quad in circolazione, le suddette sostanze una volta ingerite raggiungeranno direttamente la ghiandola prediletta, by-passando il filtro epatico e renale, con tempi inferiori al minuto.
La presenza di parassiti all’interno e all’esterno del corpo umano è parte di un equilibrio naturale, mentre il loro prosperare è dovuto all’indebolimento del sistema immunitario. Ogni organo ha il suo parassita. Le fasciole in fase adulta somigliano a delle sanguisughe che una volta raggiunto l’ospite primario si preoccupano solo di nutrirsi e produrre uova in grande quantità; per lo più si localizzano nel fegato, nel polmone e nel pancreas. I nematodi somigliano a dei lombrichi: quelli più comuni nel corpo umano sono gli Ascaris (causa di ascessi, eczema, malattie polmonari e del semplice raffreddore), gli Stronyloides (causa dell’emicrania) e le Dirofilarie (causa delle malattie cardiache). I filamenti delle filarie sono presenti nei fluidi dei nostri occhi, nei polmoni e nei loro fluidi linfatici, oltre che nel liquido peritoneale: questi filamenti se riescono a sfuggire al sistema immunitario cominciano a crescere in lunghezza formando dei grovigli che saranno il punto di partenza del linfoma di Hodgkin, di masse tumorali addominali e del morbo di Alzheimer.
Ora analizziamo più attentamente il rapporto tra le sostanze chimiche, le ghiandole e i parassiti. Abbiamo visto come l’acido clorogenico quando va direttamente all’ipotalamo, by-passando il filtro renale ed epatico, viene usualmente detossificato ed eliminato in un tempo che oscilla tra i 5 ed i 20 minuti. La presenza dello Stronyloides stercoralis (vedi foto a destra) nei dintorni dell’ipotalamo interferisce con la rimozione dell’acido clorogenico. Questo parassita, appartenente alla famiglia dei nematodi, ha la forma di un verme le cui fasi larvali presentano una serie di mutazioni che producono delle particolari sostanze chimiche. Sembra che sia proprio una di queste sostanze a essere responsabile della interferenza con la funzione di rimozione dell’acido clorogenico da parte dell’ipotalamo. Lo Stronyloides stercoralis necessita dell’acido clorogenico per le sue mutazioni.
Anche la florizina quando va diretta alla ghiandola pituitaria, vi rimane per qualche minuto prima di essere eliminata. Essa risulta costantemente presente solo qualora vi sia la presenza della comune fasciola epatica umana, Clonorchis sinesi, un piccolo parassita poco più lungo di mezzo centimetro. L’allergene alimentare che si accumula nel pancreas è l’acido gallico, e in questo caso la responsabilità sembra essere dell’Eurytrema pancreaticum, lo stesso parassita responsabile del diabete. Esso è molto comune e contenuto in grandi quantità sotto forma di uova o larve nel latte vaccino e nei suoi derivati, soprattutto se non ben sterilizzato.
In sintesi abbiamo tre parassiti, tre allergeni e tre organi bersaglio coinvolti nella eziopatogenesi del cancro:
Clark sostiene che dobbiamo evitare i cibi contenenti gli allergeni, ma dovremmo anche distruggere i parassiti responsabili del processo di formazione dei duplex, triplet e quad. Ricordo ancora una volta che questi parassiti convivono naturalmente nel nostro organismo e che solo quando le difese immunitarie si abbassano aumenta la loro quantità determinando gli effetti nocivi descritti dalla ricercatrice. Cosa accade ai suddetti organi quando, attraverso l’alimentazione assumiamo le sostanze allergeniche? Tutti e tre reagiscono producendo la prostaglandina E2 - PGE2. La presenza di PGE2 determina una lassità delle maglie della matrice e quindi dei tessuti dell’organo: le cellule, non riescondo più a rimanere ben unite, si fanno vagabonde e i tessuti perdono densità, forse perché in tali circostanze sono costrette a diffondere i loro enzimi, fra cui la collagenasi. La perdita di densità rende l’organo più facilmente penetrabile dai parassiti e le cellule libere si legano ad altre cellule libere, come abbiamo già visto. Intanto i parassiti ricevono il loro cibo necessario o preferito, gli allergeni, e cominciano a vagare da un organo all’altro alla ricerca di altro cibo, favoriti dalla lassità dei tessuti. Una delle prime indicazioni date da Clark in caso di cancro, e come prevenzione nei confronti delle malattie, è quella di “affamare i parassiti” smettendo di mangiare i cibi contenenti gli allergeni di cui abbiamo parlato.
Una volta costituitosi il nucleo tumorale che si fonde con un organo, il cancro attacca il corpo e il parassita platelminta Fasciolopsis buski (foto accanto) raggiunge l’organo colpito stimolando la produzione di OPT (orto-fosfo-tirosina), uno stimolante mitotico, fattore di crescita primario del cancro stesso. Non solo, poiché il Fasciolopsis buski ospita a sua volta un batterio, il Bacillus cereus, produttore di tiramina destrogira, quest’ultima modifica la forma levogira degli amminoacidi rendendoli destrogiri, inutilizzabili per l’organismo. Ciò crea uno status di emergenza per i tessuti poiché l’ormone tiroideo, l-tiroxina, modificato in d-tiroxina, non è metabolizzabile: si attiva la produzione di PGE2 come mezzo per combattere l’allergene che causa la modificazione della l-tiroxina. Ovviamente la situazione peggiora con un’alimentazione ricca di amminoacidi di forma destrogira: ecco il motivo dell’importanza di assumere cibi freschi, caratterizzati sempre da una forma levogira.
Concludendo, si è evidenziato come il Fasciolopsis buski sia un catalizzatore dell’esplosione allergica, attraverso i suoi batteri, esplosione che produce infiammazioni causate dalle stesse PGE2, aprendo così la strada a virus e batteri tra cui anche gli oncovirus e la formazione conseguente di metastasi del cancro.
Clark sostiene la proprietà di auto-guarigione di tutto ciò che è vivente, proprio come la riparazione cicatriziale nel caso di una ferita. È come se le nostre cellule sapessero che per guarire devono riprodursi per poi avere cellule giovani e sane capaci di sopperire alla mancata funzione delle cellule malate ed inefficienti. Così si può ipotizzare che le cellule tumorali tentino di guarire riproducendosi e determinando in questo modo la crescita veloce del tumore. Di fatto le cellule tumorali, a differenza di quelle sane, non svolgono alcuna funzione utile all’organismo: per esempio, non generano energia. I produttori di energia delle cellule, i mitocondri, in questi casi appaiono avvizziti, deformati e scarsi a causa della presenza di acido malonico e della scarsità o inefficienza dell’ormone tiroideo modificato (d-tiroxina e non l-tiroxina). L’organo ospite tenta di sopperire alla inefficienza e inattività delle cellule tumorali mettendo in atto un meccanismo di riparazione nei loro confronti: viene così prodotto l’Ormone della crescita HGH, normalmente prodotto dalla ipofisi. La produzione di questo ormone è regolato dal corrispondente Ormone di rilascio RGH secreto dall’ipotalamo, anch’esso sempre coinvolto, come l’ipofisi, nella formazione del nucleo tumorale. L’ipotalamo e la pituitaria sono due ghiandole fondamentali che hanno la funzione di controllare la crescita e rispondere alle esigenze degli organi. Le cellule tumorali di queste due ghiandole, una volta dissociatesi dall’organo di origine, non ricevono più istruzioni dal cervello circa la produzione dei rispettivi ormoni. Una volta formatisi il duplex, triplet o quad queste cellule fanno ogni cosa insieme entrando in un circolo vizioso fatto di continua produzione di entrambi gli ormoni in modo sconsiderato.
Inoltre bisogna considerare l’apoptosi, cioè la capacità che ha una cellula di riprodursi di fronte ad una cellula morta. Le cellule di un organo sano sono connesse l’una all’altra e lavorano alacremente per circa dieci giorni, alcune al massimo per un mese, dopodiché invecchiano e muoiono. A questo punto vengono smantellate ordinatamente in modo da riutilizzare ciò che è riciclabile ed assicurarsi che nulla di tossico rimanga in circolo. Lì dove è morta una cellula si crea un vuoto che verrà prontamente riempito da una cellula nuova: se questo non accadesse l’organo rimpicciolirebbe sempre più. La riproduzione di cellule è dovuta alle cellule staminali di riserva che si attivano proprio grazie all’RCH prodotto dall’ipotalamo. Quando le cellule dell’ipotalamo fanno parte del nucleo tumorale, producono senza regola l’Ormone di rilascio che sicuramente raggiungerà le cellule staminali poste vicino all’organo ove il nucleo tumorale si è impiantato. Così queste ultime potrebbero far parte dello stesso tumore e non diventare mai mature, cioè differenziate, e quindi non trasformarsi in cellule adulte che perdono la loro attitudine a dividersi continuamente cioè a riprodursi, proprio per la caratteristica di inoperatività funzionale del tumore.
Clark ha ipotizzato che anche la cellula pancreatica che fa parte della triade tumorale originaria, sia responsabile dell’incapacità dell’organismo di frenare la spinta proliferativa del nucleo tumorale. Nelle cellule pancreatiche presenti nel cancro Clark ha trovato gli Oncovirus SV 40 (vedi foto accanto), e non solo. Attaccati ad essi vi è anche una lunga serie di altri oncovirus che si tengono per mano l’uno con l’altro, di cui alcuni equiparabili a normali virus come quello dell’influenza o della parotite. Questi virus, che si potenziano a vicenda, usualmente vengono uccisi e fagocitati dai nostri linfociti, ma quando i linfociti sono carenti di sostanze minerali organiche come il selenio, il germanio e la vitamina C (quest’ultima è particolarmente efficace anche contro gli inquinanti radioattivi), non sono efficienti nella loro funzione, proprio come accade ai linfociti di un malato di cancro i cui minerali organici siano ossidati. Perché gli SV 40 divengano virulenti necessitano di acido gallico, la stessa sostanza allergenica per il pancreas, che stimola il virus ad uscire dalla Fasciola pancreatica e formare delle vere e proprie bande di virus in grado di stimolare l’infinita crescita delle cellule cancerose e rendere i batteri particolarmente resistenti. Ogni oncovirus ha il relativo parassita di appartenenza e quando si fa diagnosi di cancro ci possono essere cinque o sei parassiti con i relativi oncovirus, che aumentano con il progredire della malattia.
Come fermare la crescita della massa tumorale? Per Clark il primo passo è bloccare le esplosioni dell’ipotalamo e della ipofisi con una alimentazione che tenga conto dei fattori allergenici, quindi uccidere i diversi microrganismi patogeni responsabili in vario modo della crescita tumorale (attraverso la combinazione di erbe specifiche). L’obiettivo primario è da una parte ridare ai globuli bianchi la massima efficienza, dall’altra aiutare i reni a riassumere in toto la loro funzione di filtro. Solo allora le tossine ingerite non si dirigeranno più verso organi bersaglio, ma andranno direttamente ai reni che le filtrerà per poi espellerle attraverso le urine. Altro elemento importante è il ripristino della funzionalità intestinale ed epatica come detossificatori fondamentali del nostro organismo. Gli interventi proposti da Clark sono molteplici e capillari e, a detta di molti, efficaci.
Queste nozioni sono frutto di una vita dedicata allo studio sul cancro, e magari alcune sono solo delle ipotesi da approfondire. Se si dedicassero più fondi… e non solo materiali (inteso come pensabilità), allo studio dell’eziopatogenesi del cancro e alla ricerca di punti di connessione fra le diverse teorie sviluppate da più ricercatori, sarebbe più semplice trovare una soluzione. D’altra parte una cura è possibile solo quando si scopre l’eziopatogenesi di una malattia ed è davvero singolare che la Medicina Ufficiale abbia dimenticato questa verità dedicandosi solo alla soppressione dei sintomi, spesso l’unico segnale non riconosciuto della attivazione della capacità di autoguarigione.
BIBLIOGRAFIA
H.R. Clark, The cure for all advanced cancers, New Century Press, Chula Vista - CA 2004
H.R. Clark, La prevenzione di tutti i cancri, “Biblioteca del Benessere”, Macro Ed., Diegaro di Cesena - FC 2004
H.R. Clark, Cure and prevention of all cancers, New Century Press, Chula Vista - CA 2010
H.R. Clark, The Cure for All Diseases, B. Jain Publishers (P) LTD., New Delhi 2011
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Il CORAGGIO DELLA DIFFERENZA
Shelly Bisirri
Shelly Bisirri
Orchidea nera di Claudia Amato
Il bicarbonato di sodio è un sale che trova svariate indicazione nell’uso domestico quotidiano. Estratto un tempo dalle ceneri delle piante, nell’antico Egitto, insieme con un miscuglio di carbonati veniva usato durante l’imbalsamazione, oltre che in altri mille usi come la produzione del vetro e del sapone, la pulizia e la tintura dei tessuti. Solo alla fine del XVIII secolo il bicarbonato cominciò ad essere estratto dal sale e dal calcare, e nel 1863 Ernest Solvay ne rivisitò e migliorò il processo evitando la formazione di scorie tossiche. Questo prodotto così facile da trovare e così economico è divenuto centrale per un medico nella terapia del cancro. Tullio Simoncini, così si chiama questo medico, si avvale della soluzione perfusionale di sodio bicarbonato a diverse percentuali per curare varie tipologie di cancro, scatenando forti reazioni da parte della medicina accademica e delle case farmaceutiche.
Incontro personalmente Simoncini per saperne di più sul piano scientifico e per farmi un’idea più precisa delle qualità umane della persona che ha avuto il coraggio di sfidare i diktat della medicina tradizionale a tal punto da non farsi fermare né dalla radiazione dall’Ordine dei Medici in Italia, né dalle condanne per omicidio colposo. Tra l’altro negli ultimi anni sempre più spesso si leggono resoconti scientifici internazionali sull’utilizzo del bicarbonato nella terapia del cancro, in linea con le ricerche cliniche sicuramente poco ortodosse di Simoncini.
Mi avvio verso il cancello della sua abitazione alche minuto prima dell’appuntamento e mentre cerco il suo nome sul citofono, lo vedo uscire dal vialetto e lo riconosco, avendo visto i suoi video sul Web. I nostri sguardi si incontrano e gli chiedo: ”Il dottor Tullio Simoncini?”. Si presenta e mi chiede quasi con sorpresa chi sono. “Si sarà dimenticato del nostro appuntamento?”, mi chiedo. Di fatto torna indietro facendomi entrare in casa. Mi porta in un piccolo studio dove mi colpisce la presenza di un pianoforte.
”È suo?”, domando.
“Sì, ma ora lo suono poco”, risponde.
Il nostro incontro inizia in un’atmosfera calda e disponibile anche se lui mi appare a tratti imbarazzato: in fondo non sa neanche chi sono.
Comincia a raccontare degli anni del liceo e di quando sognava di fare il musicista: suonava la chitarra classica, il basso elettrico e il pianoforte ed aveva una band chiamata gli Scorpions che si esibiva nella scuola del liceo. Era anche appassionato di calcio e faceva parte della squadra della scuola: esprime grande entusiasmo per la vittoria del torneo regionale conseguita in quegli anni. In famiglia era soprannominato “Ivan il terribile” per il suo carattere vulcanico e sempre ricco di energia. Terminato il liceo non segue nessuna di queste due passioni, complice il padre che lo esortava a non correre dietro ad una palla per tutta la vita: “Meglio fare medicina per essere in grado di curarsi, perché i medici ti ammaccano”, diceva. Frequenta così la facoltà di medicina della Università di Roma “La Sapienza”, incappando in una realtà che lo sconvolge. Racconta dell’impatto durissimo con l’organizzazione universitaria dove dominava la presunzione e di fatto nessuno si curava di nessuno.
Baldanzoso nella sua giovinezza, si scontra con un baronismo che definisce “pauroso”. Frequenta le lezioni di istologia medica del prof. Quintarelli che, alla prima lezione, esordisce con una frase che rimane indelebile dentro di lui: “Il tumore è il mistero del secolo”; la rinuncia alla ricerca che avverte in quella frase impatta con la sua grande vitalità. Per reagire all’annullamento che sente in quella affermazione, cambia corso di istologia, ma soprattutto comincia a sviluppare un forte senso critico nei confronti della “gestione” della scienza medica. È in quegli anni che si struttura l’idea di avere una marcia in più, poiché nessuno degli altri studenti criticava o contestava quella affermazione. In parallelo comincia ad avere la fobia di ammalarsi di tumore prima di riuscire a laurearsi: era troppo forte il sentimento di annichilimento rispetto alla rinuncia della ricerca e della cura da parte del mondo accademico. Forse il fatto di non aver scelto medicina “con uno scopo salvifico nei confronti dell’umanità”, come racconta, lo ha portato ad essere così autonomamente critico nei confronti di ciò che gli veniva insegnato.
L’emergere di questo carattere autonomo e vitale lo porta a fare delle scelte precise come studente prima e come medico poi. ”Ero segnalato bene per fare pediatria”, specialità su cui aveva fatto la tesi di laurea, “ma subito dopo la tesi, frequentando il professore, ho avuto una crisi perché avevo capito che per andare avanti bisognava fare i salottieri. Non condanno le raccomandazioni che considero una modalità insita nella cultura italiana, però ne suggerisco una razionalizzazione per dare spazio a tutti: 30% ai raccomandati, altri 30% per merito e 30% li facciamo entrare a sorte. Non sopporto i falsi moralismi”. Non approfondisco su quel 10% mancante all’appello… chissà! In ogni caso Simoncini rinuncia alla specializzazione in pediatria per buttarsi “in un dettato kantiano, in uno studio più profondo dei meccanismi del corpo umano. Quindi mi sono iscritto a Fisica mentre già lavoravo - per ciò non ho concluso quegli studi - e in quegli anni ho studiato moltissimo la matematica”.
L’esperienza fondante per la ricerca di una prospettiva diversa delle malattie, è il tirocinio durante il terzo e quarto anno di medicina, nel reparto di medicina generale del padiglione Bassi - presso l’Ospedale San Camillo di Roma - dove il padre di un amico era primario. “In quel periodo rimasi colpito dalle persone ricoverate. I pazienti entravano e uscivano dall’ospedale, con una marea di medicine e a volte si trascinavano senza miglioramenti. Mi sembrava che non si cavasse un ragno dal buco. C’erano anche quelli che praticavano una medicina alternativa e i malati che si rivolgevano a loro riuscivano a stare meglio. Io vedevo tutto questo e mi dicevo che c’era qualcosa che non quadrava se questi “alternativi” (non tutti medici) riuscivano a fare stare meglio le persone, più della medicina convenzionale. Invece della investitura e dire ‘Ah io sono un medico e bla bla bla…’ mi sono incuriosito e ho scoperto che il denominatore comune consisteva nel dare piccole indicazioni sulla vita quotidiana… ma soprattutto nell’eliminare i medicinali”. Sulla affermazione di Simoncini, “i pazienti miglioravano al 99%”, ho forti perplessità, anche se attribuisco grande valore alle cosiddette medicine alternative e io stessa mi curo con l’omeopatia. Sulla affermazione “la medicina convenzionale è un bluf, è solo sintomatica”, Simoncini ha basato la sua professione.
Egli comunque dice di essere attento a dare un fondamento scientifico al suo lavoro ribadendo l’importanza di una buona raccolta dati per la diagnosi e il follow up: critica infatti chiunque applichi metodi non convenzionali senza fare una raccolta dati. Sostiene fortemente che l’importanza della documentazione scientifica sia il fondamento di un lavoro di ricerca: “Senza casistica non si giunge a nulla”, a maggior ragione nel campo dell’oncologia.
Negli anni l’interesse scientifico di Simoncini si rivolge proprio al cancro: forse ha intenzione di sfatare “il mistero del secolo”, poiché sostiene la falsità dell’affermazione che “nel cancro le cellule impazziscono”. Racconta come questa tesi sia il residuato storico di una invenzione ottocentesca del biologo svizzero Theodor Boveri. In quel periodo storico la medicina era flagellata dal conflitto tra i pasteuriani e la rampante microbiologia, con la corrente dei medici omeopati che sostenevano la tesi del “terreno” alla base della insorgenza della malattia. Fu Claude Bernard ad affermare che il “terreno” era tutto ed il microbo nulla, cioè che all’origine dello stato di malattia ci fosse il “terreno” e non il virus o il batterio, che potevano insediarsi o attecchire solo in un terreno organico già alterato. Anche il dott. Bechamp aveva scoperto che i germi non sono la causa della malattia, ma si occupano solo di decomporre i tessuti di un terreno che si è ammalato; di fatto sono i suoi spazzini. È in questo clima di conflitto ideologico che si afferma la teoria oncologica dell’impazzimento della cellula che secondo Simoncini “è un ibrido, un mostro, perché basata sulla degenerazione cellulare, che però ha in sé la riproduttività e l’aggressività dell’infezione”. In realtà per lui il tumore è una infezione fungina e non una anomalia riproduttiva.
“Quando ha avuto chiara l’idea del tumore come infezione fungina trattabile con il bicarbonato?”, chiedo.
E lui: “Certo… già all’università durante il tirocinio - o forse ero appena laureato - mi si presentò uno dei primi casi: un bimbo in coma di 10-11 anni con un tumore cerebrale. Veniva dal Sud. Mentre compilavo la cartella clinica, dove bisogna essere chiari e concisi, la mamma si lamentava che erano 15 giorni che viaggiavano da un ospedale all’altro e che non parlava con il figlio a causa del coma. Sapeva che il bimbo doveva morire, ma desiderava disperatamente parlarci un attimo prima che morisse. Nelle prime ore della notte ero l’unico medico presente; presi la caposala da parte e la convinsi, seppure fosse una scontrosa, a mettere il bicarbonato di sodio al 1,4%, le fisiologiche e la glucosata. Alle 7 del mattino dopo tornai in corsia e il bimbo stava parlando con la madre. Ho pregato il mio professore di continuare con il bicarbonato, ma lui mi ha detto ‘Non posso, non posso’”.
“Lei cosa ha fatto?”, chiedo.
“Sono andato via”.
“Non è più tornato?”.
“Qualche volta”.
“L’aveva già sperimentato oppure era la prima volta?”.
“No, l’avevo già sperimentato”.
“Da chi ha imparato?”.
“L’ho imparato da solo, perché quando seguivo gli ‘alternativi’, ero incappato nella psoriasi, definita malattia sconosciuta e inguaribile. In un momento di disperazione con le lacrime agli occhi mi sono chiesto da cosa poteva dipendere…. Mi è venuto la risposta in un attimo: la psoriasi era un fungo e così l’ho trattata con la tintura di iodio. Non potevo però usare lo iodio per via sistemica contro la psoriasi, ma sapevo che per il mughetto dei bambini si dava il bicarbonato. Mi sono detto ‘Ci provo, lo somministro endovena’. Da allora non ho mai mollato questa teoria…. Loro, quelli della medicina ufficiale, dicono che il tumore non guarisce, e perché loro non sanno allora nessuno deve sapere”. L’idea del cancro come infezione fungina parte da vari elementi: “Imparare la medicina, essere preparati e poi avere un carattere reattivo. Ho seguito gli ‘alternativi’, ho curato la psoriasi con la tintura di iodio, ho visto i tumori, ho seguito le chemio e ne ho visto la negatività. Tutti questi elementi induttivi per un verso mi hanno portato all’idea semplice di un fungo”.
Alla mia domanda “Perché proprio il bicarbonato?”, apprendo che, contrariamente agli antifungini specifici, il bicarbonato di sodio è dotato di un’altissima diffusibilità ed è privo di complessità strutturali facilmente codificabili dai funghi. I funghi sono in grado di mutare velocemente la propria struttura genetica. Dopo una prima fase di sensibilità nei confronti dei fungicidi, riescono in breve tempo a codificarli e a metabolizzarli senza riceverne ulteriore danno; anzi paradossalmente anche beneficiando del loro alto potere tossico nei confronti dell’organismo. Il bicarbonato di sodio, invece, grazie alle sue caratteristiche chimiche, mantiene a lungo le proprie capacità di penetrazione dentro le masse tumorali, anche e soprattutto per la velocità con cui le disgrega, neutralizzando così ogni possibilità di adattamento sufficiente a difendersi. Ecco perché il concetto base del sistema di cura di Simoncini è la somministrazione di soluzioni con un alto contenuto di bicarbonato di sodio direttamente sulle masse neoplastiche.
Nel suo lavoro Simoncini raccoglie continuamente i dati clinici dei casi da lui seguiti e già negli anni ‘90 comincia ad inviarli al ministero della Sanità, senza mai ricevere alcuna risposta. Racconta: “Poi le ripercussioni, tutte invenzioni per cercare di distruggermi. Io sono sempre stato un vincente e una persona pulita. Quando sono stato convocato all’Ordine dei Medici, il presidente in fondo ha tentato una piccola mediazione chiedendomi ‘ma lei ritratterebbe, rientrerebbe dentro la mela?’. Io avevo il computer e dissi: ‘Guardi questa donna con un melanoma all’occhio. Doveva fare la laserterapia prima e la chirurgia e la plastica ricostruttiva poi. Nel frattempo sono comparse metastasi al fegato. Se in un mese o due l’avesse guarita con il bicarbonato, lei che avrebbe fatto? Ritratterebbe o andrebbe avanti?’. Ha abbassato gli occhi e mi ha radiato, dicendomi ‘S’accomodi’. Oggi la signora non ha perso l’occhio e sta bene. Da quel momento per me è stato un dramma. Per la società è stato un beneficio perché ho scoperto le carte, sono schizzato come un felino infuriato in tutto il mondo portando i miei risultati e i numeri dei casi. Tutti mi dicevano ‘Fermati che ti perseguiteranno’, ma sapevo che se mi fermavo ero rovinato. Oramai dovevo correre perché dovevo fare una certa casistica e infatti dal 2006 ho cominciato a fare i video del mio lavoro e dei risultati. Adesso la gente mi chiama da tutto il mondo”. Tullio Simoncini è stato radiato dall’Ordine dei Medici e nel giugno 2006 è stato condannato per omicidio colposo e truffa aggravata. Oggi gli è vietato praticare la professione medica in Italia.
Cerco adesso di approfondire la questione delle concause dei tumori. Per Simoncini la prima concausa è l’assunzione dei farmaci che non solo non porta a guarigione, ma addirittura produce malattia. L’utilizzo dei farmaci è aumentato, di conseguenza sono aumentati i tumori. Nel suo libro “Il Cancro è un fungo”, egli racconta dei trattamenti farmacologici a vita che arricchiscono le aziende farmaceutiche e producono malattie iatrogene: secondo dati ufficiali di uno studio fatto negli USA raccolti nell’arco di un decennio (dal 1994 al 2003), ottocentomila persone sono decedute a causa di farmaci, di errori medici o per procedure sanitarie non necessarie. Questo dato ufficiale va ad alimentare la teoria del complotto: la medicina è dominata da gruppi di potere, gruppi che hanno in mano il pianeta e lo controllano tramite il petrolio, la moneta, le banche, le ditte farmaceutiche, i mezzi di informazione e i distributori di cibo. Sostiene che visti i passi da gigante della tecnologia si potrebbe arrivare a curare il cancro in poche settimane con semplici pastiglie di bicarbonato… Invece conviene a questo sistema avere “i malati”.
Simoncini evidenzia come la medicina ufficiale sia tuttora drammaticamente impotente: l’indice di mortalità di tutte le neoplasie più serie è rimasto più o meno lo stesso da cinquant’anni a questa parte, e la questione non riguarda solo il campo dei tumori ma tutte le malattie che sono oggi trattate lasciando nella sofferenza per lustri e lustri milioni di persone. Afferma come con questa modalità la società venga risucchiata in una spirale di paura e di morte mentre si investono fiumi di denaro nelle case farmaceutiche. E sostiene che ciò accade perché le idee motrici della ricerca sono sbagliate alla radice. La forzatura della visione meccanicistica dell’uomo può ormai portare benefici solo in settori specifici collaterali e solo in via occasionale, malgrado la gran mole di studi, di studiosi e di denaro che entrano ogni giorno in campo in tutto il mondo. Il metodo sperimentale però parla chiaro: la sperimentazione e i dati della sperimentazione, dipendono dall’ipotesi di fondo. Se essa è sbagliata, tutto è sbagliato e improduttivo. Infatti, secondo Simoncini, l’errore della medicina ufficiale sta nel basarsi sulla teoria della causa genetica del cancro, teoria che in cinquant’anni ha prodotto solo danni e illusioni.
Mi sono documentata e ho scoperto che, mentre in Italia si combatte questo medico che sostiene la curabilità del cancro con il bicarbonato, in Arizona con due milioni di dollari dati al National Institutes of Health (NIH), viene finanziata una sperimentazione che valuta l’efficacia del bicarbonato nelle pazienti affette da tumore al seno. Il dottor Pagel sostiene che il cancro si sviluppa in ambiente acido e l’acidità ne favorisce anche la metastatizzazione. Nel suo studio egli fa il monitoraggio dell’acidità (ph) del tumore e attraverso la risonanza magnetica valuta l’efficacia del bicarbonato che viene somministrato alle pazienti semplicemente per via orale.
Sul sito de la Repubblica il 27 settembre 2010 si legge: “La ricerca guarda al tumore e continua a cercare possibili alterazioni genetiche in grado di originare il cancro. (…) Ma non è tutto, sul fronte della ricerca farmacologica dall'Istituto Superiore di Sanità arriva una notizia: i farmaci antiacidità, gli inibitori della pompa protonica e persino il bicarbonato, potrebbero sostituire la chemioterapia”, tra l’altro non presentando effetti collaterali e costi iperbolici. Spiega Stefano Fais, presidente della ISPDC (International Society for Proton Dynamics in Cancer) e membro del Dipartimento Farmacologico dell'Istituto Superiore di Sanità (ISS): "L'acidità è un meccanismo che il cancro usa per isolarsi da tutto il resto, farmaci compresi. Ma le cellule tumorali, per difendersi a loro volta da questo ambiente acido, fanno iperfunzionare le pompe protoniche che pompano protoni H+. Se si bloccano queste pompe, la cellula tumorale rimane disarmata di fronte all'acidità, e finisce per morire autodigerendosi. Ma le industrie farmaceutiche al momento non sono molto interessate a questo tipo di approccio". Nonostante ciò, l'ISS è riuscito a far partire i primi due trials clinici del genere in Italia: uno a metà tra l'Istituto dei tumori di Milano e l'università di Siena per il melanoma su circa 30 pazienti, e l'altro all'università di Bologna per l'osteosarcoma su 80 pazienti. Prosegue Fais: "I risultati sono molto incoraggianti perché questi farmaci, associati ai chemioterapici, hanno migliorato la risposta del paziente alla terapia, anche nei casi in cui non funzionava più, o di metastasi o recidive. Ma i dati devono essere confermati su un numero più ampio di pazienti e serve il supporto delle case farmaceutiche". Lo stesso approccio è stato utilizzato anche presso la Fudan University di Shangai per il cancro al seno, mentre al Cancer Center di Tampa in Florida si sta sperimentando l'impiego del bicarbonato assunto per via orale. Ma la vera svolta ci sarà quando verrà approvato uno studio clinico in cui si utilizzeranno i soli inibitori della pompa protonica, senza chemioterapici quindi, per dimostrarne la loro efficacia e la possibilità di usarli come alternativa alla chemioterapia.
Di fronte a tutto ciò rimane il fatto che Tullio Simoncini, precursore di queste ricerche fatte nel mondo, non può continuare la sua in Italia. Ora è iscritto all’Ordine dei Medici in Albania, dove gli hanno sovvenzionato uno screening sul tumore della vescica. Si dice pronto a fare questo lavoro di ricerca, con spese minime e con massimi risultati: in pochi mesi conta di guarirne il 90% con il bicarbonato. “Se riesco a partire con il cancro della vescica ho fatto scacco matto”, dice. Anche Cuba è pronta a sostenere la sua sperimentazione. In Bolivia è membro onorario della Clinica Universitaria, in Equador è membro onorario dell’Accademia dei Medici. E Simoncini afferma che “i paesi detti civilizzati sono quelli che hanno l’interesse economico… Ora sono un disoccupato, anzi sono stato multato di settantamila euro dal garante poiché, asserendo che la chemio fa male, esponendo le mie idee, faccio concorrenza al sistema”.
Quando gli chiedo se ha ancora paura di ammalarsi di tumore, risponde: “Sì, però non troppo. Per prevenire bisogna fare una alimentazione precisa e fare attenzione alla qualità di vita”.
“E come uomo nel mondo, come si pensa?”.
“Mi piacerebbe risolvere il problema del cancro per il livello umano della sofferenza delle persone. Non per il Nobel, o per essere riconosciuto. Sono troppo selvaggio. Voglio eliminare questa frode; a me da fastidio la frode. È che quando vedo una persona che sta male m’immedesimo nella sofferenza che vedo: è la leva umana che mi dà la passione di poter arrivare a certi risultati, non è certo il premio Nobel, perché anche quello è pilotato. Certo, se siamo indifferenti come pietre, tutto ciò non vale. Per me è una forma di retribuzione se un paziente mi chiama e mi dice che ha fatto la TAC ed è pulita, priva di malattia: salto dalla gioia per una settimana. Ai colleghi che mi dicevano ‘Com’è che tu sei sempre sereno?’, rispondevo che a me il padreterno m’ha dato un grosso dono. A Lui a suo tempo dissi che se dovevo fare il fallito, cambiavo mestiere… e lui m’ha dato questo dono. Certo, ho pagato per l’invidia, la gerarchia di questi quattro imbecilli corrotti collusi e non li condanno perché fanno parte della evoluzione animale. Chi ha uno spirito elevato sta oltre”. Penso che certamente non è carente in autostima.
“Sente quindi di avere uno spirito elevato?”.
“Non è tanto che lo sento. Mi diceva una amica ‘Niente se mi considero, tanto se mi confronto’. Il problema non è ciò che sento, ma lo specchio, la comparazione sui fatti. Mi accorgo dai fatti di ciò che sono, non è una questione di boria o presunzione, ma una verifica. Se devo correre i cento metri e sono più veloce, mi viene il dubbio che corro più forte: non è questione di essere migliore o peggiore, ma se esiste una differenza quella la vedi”.
“Cosa pensa dei pazienti che si rivolgono a lei?”.
“Li rispetto perché hanno avuto un minimo di discernimento; c’è gente che ha un fattore selvaggio e non si fa pecora”.
“Lei conosce il terrorismo che fanno le istituzioni nei confronti di chi sceglie altro?”.
“Ci sono dei caratteri che non si fanno prendere dal terrorismo della medicina e ragionano un po’: cento anni di ricerca con 9 milioni di morti l’anno vuol dire non avere risultati”.
“Ma a quei pazienti che viene detto che se non seguono il protocollo non verranno più seguiti a livello istituzionale, lei cosa dice?”.
“Guardate. Voi avete da una parte una cattedrale piena di beni ma dove c’è la morte; dall’altra avete qualche piccola casina dove dovete costruirvi da voi la libertà, la salute e la vita. Che scegliete? Con me siete nella casina, però siete liberi. Chi vuole sentirsi protetto dalla cattedrale, dove dentro c’è solo morte, se la sceglie... e trova veleno”.
“Si è sentito solo in questa battaglia?”.
“No, la mia famiglia mi è stata vicina. Sono determinato e vincente, non mi pongo il problema di essere solo: ho questo dono e non posso ritrattare; oramai è una guerra infinita. Sono di natura un guerriero ed è difficile che torni indietro, venga la morte piuttosto che la rinuncia”.
“Però, se si accorgesse che c’è qualcosa di sbagliato ritratterebbe?”.
“Certo! Già dico che non posso curare i tumori delle ossa, soprattutto quelle piatte, perché poco vascolarizzate. Ho scelto una terapia alternativa perché ho visto i risultati laddove la medicina tradizionale non funzionava. Ho solo una idea fissa, che il tumore sia un fungo, punto. Poi, se si trovasse una terapia migliore ben venga, anzi sono dell’idea che in un futuro chi trarrà beneficio dalla mia idea saranno proprio le case farmaceutiche: quando produrranno due tre pasticche e iniezioni di antifungini a cascata sequenziali, i tumori si guariranno così in soli dieci giorni. Le case farmaceutiche guadagneranno di più e le persone guariranno. Adesso è l’idea del tumore come malattia cellulare che è sbagliata. Conti che l’oncogene, il presunto responsabile della degenerazione cellulare, non esiste, è solo una ipotesi. Nella patogenesi del libro della Robustelli… c’è scritto. Allora di che stiamo a parlare? È allucinante! Ma la gente non studia?!”.
Mi trovo di fronte ad un uomo che, con i suoi pregi e difetti, ha il coraggio di mettersi in una posizione critica nei confronti della medicina ufficiale, ponendo la sua attenzione sulla ricerca di una possibilità di cura per il cancro. Eppure, dopo i recenti fatti di Tirana in cui un ragazzo con un tumore cerebrale in fase terminale è morto dopo tre giorni di trattamento, possiamo dedurre che il suo essere “selvaggio” lo porti anche a muoversi in modo avventato con il rischio costante di cadere in trappole mortali. L’onnipotenza gioca spesso brutti scherzi! In ogni modo Simoncini continua a rischiare tutto per dare una risposta concreta sulla curabilità del cancro e non è scientifico, e men che meno umano, bocciare l’ipotesi di cura con il bicarbonato senza averla verificata. Potrebbe essere opportuno improntare una appropriata sperimentazione, come sta accadendo in altri paesi, perché solo così si possono proteggere i malati da terapie azzardate, e non mandare avanti solo ipotesi terapeutiche basate sul profitto. La ricerca non può essere sotto lo scacco di interessi economici… e neppure la verità.
Incontro personalmente Simoncini per saperne di più sul piano scientifico e per farmi un’idea più precisa delle qualità umane della persona che ha avuto il coraggio di sfidare i diktat della medicina tradizionale a tal punto da non farsi fermare né dalla radiazione dall’Ordine dei Medici in Italia, né dalle condanne per omicidio colposo. Tra l’altro negli ultimi anni sempre più spesso si leggono resoconti scientifici internazionali sull’utilizzo del bicarbonato nella terapia del cancro, in linea con le ricerche cliniche sicuramente poco ortodosse di Simoncini.
Mi avvio verso il cancello della sua abitazione alche minuto prima dell’appuntamento e mentre cerco il suo nome sul citofono, lo vedo uscire dal vialetto e lo riconosco, avendo visto i suoi video sul Web. I nostri sguardi si incontrano e gli chiedo: ”Il dottor Tullio Simoncini?”. Si presenta e mi chiede quasi con sorpresa chi sono. “Si sarà dimenticato del nostro appuntamento?”, mi chiedo. Di fatto torna indietro facendomi entrare in casa. Mi porta in un piccolo studio dove mi colpisce la presenza di un pianoforte.
”È suo?”, domando.
“Sì, ma ora lo suono poco”, risponde.
Il nostro incontro inizia in un’atmosfera calda e disponibile anche se lui mi appare a tratti imbarazzato: in fondo non sa neanche chi sono.
Comincia a raccontare degli anni del liceo e di quando sognava di fare il musicista: suonava la chitarra classica, il basso elettrico e il pianoforte ed aveva una band chiamata gli Scorpions che si esibiva nella scuola del liceo. Era anche appassionato di calcio e faceva parte della squadra della scuola: esprime grande entusiasmo per la vittoria del torneo regionale conseguita in quegli anni. In famiglia era soprannominato “Ivan il terribile” per il suo carattere vulcanico e sempre ricco di energia. Terminato il liceo non segue nessuna di queste due passioni, complice il padre che lo esortava a non correre dietro ad una palla per tutta la vita: “Meglio fare medicina per essere in grado di curarsi, perché i medici ti ammaccano”, diceva. Frequenta così la facoltà di medicina della Università di Roma “La Sapienza”, incappando in una realtà che lo sconvolge. Racconta dell’impatto durissimo con l’organizzazione universitaria dove dominava la presunzione e di fatto nessuno si curava di nessuno.
Baldanzoso nella sua giovinezza, si scontra con un baronismo che definisce “pauroso”. Frequenta le lezioni di istologia medica del prof. Quintarelli che, alla prima lezione, esordisce con una frase che rimane indelebile dentro di lui: “Il tumore è il mistero del secolo”; la rinuncia alla ricerca che avverte in quella frase impatta con la sua grande vitalità. Per reagire all’annullamento che sente in quella affermazione, cambia corso di istologia, ma soprattutto comincia a sviluppare un forte senso critico nei confronti della “gestione” della scienza medica. È in quegli anni che si struttura l’idea di avere una marcia in più, poiché nessuno degli altri studenti criticava o contestava quella affermazione. In parallelo comincia ad avere la fobia di ammalarsi di tumore prima di riuscire a laurearsi: era troppo forte il sentimento di annichilimento rispetto alla rinuncia della ricerca e della cura da parte del mondo accademico. Forse il fatto di non aver scelto medicina “con uno scopo salvifico nei confronti dell’umanità”, come racconta, lo ha portato ad essere così autonomamente critico nei confronti di ciò che gli veniva insegnato.
L’emergere di questo carattere autonomo e vitale lo porta a fare delle scelte precise come studente prima e come medico poi. ”Ero segnalato bene per fare pediatria”, specialità su cui aveva fatto la tesi di laurea, “ma subito dopo la tesi, frequentando il professore, ho avuto una crisi perché avevo capito che per andare avanti bisognava fare i salottieri. Non condanno le raccomandazioni che considero una modalità insita nella cultura italiana, però ne suggerisco una razionalizzazione per dare spazio a tutti: 30% ai raccomandati, altri 30% per merito e 30% li facciamo entrare a sorte. Non sopporto i falsi moralismi”. Non approfondisco su quel 10% mancante all’appello… chissà! In ogni caso Simoncini rinuncia alla specializzazione in pediatria per buttarsi “in un dettato kantiano, in uno studio più profondo dei meccanismi del corpo umano. Quindi mi sono iscritto a Fisica mentre già lavoravo - per ciò non ho concluso quegli studi - e in quegli anni ho studiato moltissimo la matematica”.
L’esperienza fondante per la ricerca di una prospettiva diversa delle malattie, è il tirocinio durante il terzo e quarto anno di medicina, nel reparto di medicina generale del padiglione Bassi - presso l’Ospedale San Camillo di Roma - dove il padre di un amico era primario. “In quel periodo rimasi colpito dalle persone ricoverate. I pazienti entravano e uscivano dall’ospedale, con una marea di medicine e a volte si trascinavano senza miglioramenti. Mi sembrava che non si cavasse un ragno dal buco. C’erano anche quelli che praticavano una medicina alternativa e i malati che si rivolgevano a loro riuscivano a stare meglio. Io vedevo tutto questo e mi dicevo che c’era qualcosa che non quadrava se questi “alternativi” (non tutti medici) riuscivano a fare stare meglio le persone, più della medicina convenzionale. Invece della investitura e dire ‘Ah io sono un medico e bla bla bla…’ mi sono incuriosito e ho scoperto che il denominatore comune consisteva nel dare piccole indicazioni sulla vita quotidiana… ma soprattutto nell’eliminare i medicinali”. Sulla affermazione di Simoncini, “i pazienti miglioravano al 99%”, ho forti perplessità, anche se attribuisco grande valore alle cosiddette medicine alternative e io stessa mi curo con l’omeopatia. Sulla affermazione “la medicina convenzionale è un bluf, è solo sintomatica”, Simoncini ha basato la sua professione.
Egli comunque dice di essere attento a dare un fondamento scientifico al suo lavoro ribadendo l’importanza di una buona raccolta dati per la diagnosi e il follow up: critica infatti chiunque applichi metodi non convenzionali senza fare una raccolta dati. Sostiene fortemente che l’importanza della documentazione scientifica sia il fondamento di un lavoro di ricerca: “Senza casistica non si giunge a nulla”, a maggior ragione nel campo dell’oncologia.
Negli anni l’interesse scientifico di Simoncini si rivolge proprio al cancro: forse ha intenzione di sfatare “il mistero del secolo”, poiché sostiene la falsità dell’affermazione che “nel cancro le cellule impazziscono”. Racconta come questa tesi sia il residuato storico di una invenzione ottocentesca del biologo svizzero Theodor Boveri. In quel periodo storico la medicina era flagellata dal conflitto tra i pasteuriani e la rampante microbiologia, con la corrente dei medici omeopati che sostenevano la tesi del “terreno” alla base della insorgenza della malattia. Fu Claude Bernard ad affermare che il “terreno” era tutto ed il microbo nulla, cioè che all’origine dello stato di malattia ci fosse il “terreno” e non il virus o il batterio, che potevano insediarsi o attecchire solo in un terreno organico già alterato. Anche il dott. Bechamp aveva scoperto che i germi non sono la causa della malattia, ma si occupano solo di decomporre i tessuti di un terreno che si è ammalato; di fatto sono i suoi spazzini. È in questo clima di conflitto ideologico che si afferma la teoria oncologica dell’impazzimento della cellula che secondo Simoncini “è un ibrido, un mostro, perché basata sulla degenerazione cellulare, che però ha in sé la riproduttività e l’aggressività dell’infezione”. In realtà per lui il tumore è una infezione fungina e non una anomalia riproduttiva.
“Quando ha avuto chiara l’idea del tumore come infezione fungina trattabile con il bicarbonato?”, chiedo.
E lui: “Certo… già all’università durante il tirocinio - o forse ero appena laureato - mi si presentò uno dei primi casi: un bimbo in coma di 10-11 anni con un tumore cerebrale. Veniva dal Sud. Mentre compilavo la cartella clinica, dove bisogna essere chiari e concisi, la mamma si lamentava che erano 15 giorni che viaggiavano da un ospedale all’altro e che non parlava con il figlio a causa del coma. Sapeva che il bimbo doveva morire, ma desiderava disperatamente parlarci un attimo prima che morisse. Nelle prime ore della notte ero l’unico medico presente; presi la caposala da parte e la convinsi, seppure fosse una scontrosa, a mettere il bicarbonato di sodio al 1,4%, le fisiologiche e la glucosata. Alle 7 del mattino dopo tornai in corsia e il bimbo stava parlando con la madre. Ho pregato il mio professore di continuare con il bicarbonato, ma lui mi ha detto ‘Non posso, non posso’”.
“Lei cosa ha fatto?”, chiedo.
“Sono andato via”.
“Non è più tornato?”.
“Qualche volta”.
“L’aveva già sperimentato oppure era la prima volta?”.
“No, l’avevo già sperimentato”.
“Da chi ha imparato?”.
“L’ho imparato da solo, perché quando seguivo gli ‘alternativi’, ero incappato nella psoriasi, definita malattia sconosciuta e inguaribile. In un momento di disperazione con le lacrime agli occhi mi sono chiesto da cosa poteva dipendere…. Mi è venuto la risposta in un attimo: la psoriasi era un fungo e così l’ho trattata con la tintura di iodio. Non potevo però usare lo iodio per via sistemica contro la psoriasi, ma sapevo che per il mughetto dei bambini si dava il bicarbonato. Mi sono detto ‘Ci provo, lo somministro endovena’. Da allora non ho mai mollato questa teoria…. Loro, quelli della medicina ufficiale, dicono che il tumore non guarisce, e perché loro non sanno allora nessuno deve sapere”. L’idea del cancro come infezione fungina parte da vari elementi: “Imparare la medicina, essere preparati e poi avere un carattere reattivo. Ho seguito gli ‘alternativi’, ho curato la psoriasi con la tintura di iodio, ho visto i tumori, ho seguito le chemio e ne ho visto la negatività. Tutti questi elementi induttivi per un verso mi hanno portato all’idea semplice di un fungo”.
Alla mia domanda “Perché proprio il bicarbonato?”, apprendo che, contrariamente agli antifungini specifici, il bicarbonato di sodio è dotato di un’altissima diffusibilità ed è privo di complessità strutturali facilmente codificabili dai funghi. I funghi sono in grado di mutare velocemente la propria struttura genetica. Dopo una prima fase di sensibilità nei confronti dei fungicidi, riescono in breve tempo a codificarli e a metabolizzarli senza riceverne ulteriore danno; anzi paradossalmente anche beneficiando del loro alto potere tossico nei confronti dell’organismo. Il bicarbonato di sodio, invece, grazie alle sue caratteristiche chimiche, mantiene a lungo le proprie capacità di penetrazione dentro le masse tumorali, anche e soprattutto per la velocità con cui le disgrega, neutralizzando così ogni possibilità di adattamento sufficiente a difendersi. Ecco perché il concetto base del sistema di cura di Simoncini è la somministrazione di soluzioni con un alto contenuto di bicarbonato di sodio direttamente sulle masse neoplastiche.
Nel suo lavoro Simoncini raccoglie continuamente i dati clinici dei casi da lui seguiti e già negli anni ‘90 comincia ad inviarli al ministero della Sanità, senza mai ricevere alcuna risposta. Racconta: “Poi le ripercussioni, tutte invenzioni per cercare di distruggermi. Io sono sempre stato un vincente e una persona pulita. Quando sono stato convocato all’Ordine dei Medici, il presidente in fondo ha tentato una piccola mediazione chiedendomi ‘ma lei ritratterebbe, rientrerebbe dentro la mela?’. Io avevo il computer e dissi: ‘Guardi questa donna con un melanoma all’occhio. Doveva fare la laserterapia prima e la chirurgia e la plastica ricostruttiva poi. Nel frattempo sono comparse metastasi al fegato. Se in un mese o due l’avesse guarita con il bicarbonato, lei che avrebbe fatto? Ritratterebbe o andrebbe avanti?’. Ha abbassato gli occhi e mi ha radiato, dicendomi ‘S’accomodi’. Oggi la signora non ha perso l’occhio e sta bene. Da quel momento per me è stato un dramma. Per la società è stato un beneficio perché ho scoperto le carte, sono schizzato come un felino infuriato in tutto il mondo portando i miei risultati e i numeri dei casi. Tutti mi dicevano ‘Fermati che ti perseguiteranno’, ma sapevo che se mi fermavo ero rovinato. Oramai dovevo correre perché dovevo fare una certa casistica e infatti dal 2006 ho cominciato a fare i video del mio lavoro e dei risultati. Adesso la gente mi chiama da tutto il mondo”. Tullio Simoncini è stato radiato dall’Ordine dei Medici e nel giugno 2006 è stato condannato per omicidio colposo e truffa aggravata. Oggi gli è vietato praticare la professione medica in Italia.
Cerco adesso di approfondire la questione delle concause dei tumori. Per Simoncini la prima concausa è l’assunzione dei farmaci che non solo non porta a guarigione, ma addirittura produce malattia. L’utilizzo dei farmaci è aumentato, di conseguenza sono aumentati i tumori. Nel suo libro “Il Cancro è un fungo”, egli racconta dei trattamenti farmacologici a vita che arricchiscono le aziende farmaceutiche e producono malattie iatrogene: secondo dati ufficiali di uno studio fatto negli USA raccolti nell’arco di un decennio (dal 1994 al 2003), ottocentomila persone sono decedute a causa di farmaci, di errori medici o per procedure sanitarie non necessarie. Questo dato ufficiale va ad alimentare la teoria del complotto: la medicina è dominata da gruppi di potere, gruppi che hanno in mano il pianeta e lo controllano tramite il petrolio, la moneta, le banche, le ditte farmaceutiche, i mezzi di informazione e i distributori di cibo. Sostiene che visti i passi da gigante della tecnologia si potrebbe arrivare a curare il cancro in poche settimane con semplici pastiglie di bicarbonato… Invece conviene a questo sistema avere “i malati”.
Simoncini evidenzia come la medicina ufficiale sia tuttora drammaticamente impotente: l’indice di mortalità di tutte le neoplasie più serie è rimasto più o meno lo stesso da cinquant’anni a questa parte, e la questione non riguarda solo il campo dei tumori ma tutte le malattie che sono oggi trattate lasciando nella sofferenza per lustri e lustri milioni di persone. Afferma come con questa modalità la società venga risucchiata in una spirale di paura e di morte mentre si investono fiumi di denaro nelle case farmaceutiche. E sostiene che ciò accade perché le idee motrici della ricerca sono sbagliate alla radice. La forzatura della visione meccanicistica dell’uomo può ormai portare benefici solo in settori specifici collaterali e solo in via occasionale, malgrado la gran mole di studi, di studiosi e di denaro che entrano ogni giorno in campo in tutto il mondo. Il metodo sperimentale però parla chiaro: la sperimentazione e i dati della sperimentazione, dipendono dall’ipotesi di fondo. Se essa è sbagliata, tutto è sbagliato e improduttivo. Infatti, secondo Simoncini, l’errore della medicina ufficiale sta nel basarsi sulla teoria della causa genetica del cancro, teoria che in cinquant’anni ha prodotto solo danni e illusioni.
Mi sono documentata e ho scoperto che, mentre in Italia si combatte questo medico che sostiene la curabilità del cancro con il bicarbonato, in Arizona con due milioni di dollari dati al National Institutes of Health (NIH), viene finanziata una sperimentazione che valuta l’efficacia del bicarbonato nelle pazienti affette da tumore al seno. Il dottor Pagel sostiene che il cancro si sviluppa in ambiente acido e l’acidità ne favorisce anche la metastatizzazione. Nel suo studio egli fa il monitoraggio dell’acidità (ph) del tumore e attraverso la risonanza magnetica valuta l’efficacia del bicarbonato che viene somministrato alle pazienti semplicemente per via orale.
Sul sito de la Repubblica il 27 settembre 2010 si legge: “La ricerca guarda al tumore e continua a cercare possibili alterazioni genetiche in grado di originare il cancro. (…) Ma non è tutto, sul fronte della ricerca farmacologica dall'Istituto Superiore di Sanità arriva una notizia: i farmaci antiacidità, gli inibitori della pompa protonica e persino il bicarbonato, potrebbero sostituire la chemioterapia”, tra l’altro non presentando effetti collaterali e costi iperbolici. Spiega Stefano Fais, presidente della ISPDC (International Society for Proton Dynamics in Cancer) e membro del Dipartimento Farmacologico dell'Istituto Superiore di Sanità (ISS): "L'acidità è un meccanismo che il cancro usa per isolarsi da tutto il resto, farmaci compresi. Ma le cellule tumorali, per difendersi a loro volta da questo ambiente acido, fanno iperfunzionare le pompe protoniche che pompano protoni H+. Se si bloccano queste pompe, la cellula tumorale rimane disarmata di fronte all'acidità, e finisce per morire autodigerendosi. Ma le industrie farmaceutiche al momento non sono molto interessate a questo tipo di approccio". Nonostante ciò, l'ISS è riuscito a far partire i primi due trials clinici del genere in Italia: uno a metà tra l'Istituto dei tumori di Milano e l'università di Siena per il melanoma su circa 30 pazienti, e l'altro all'università di Bologna per l'osteosarcoma su 80 pazienti. Prosegue Fais: "I risultati sono molto incoraggianti perché questi farmaci, associati ai chemioterapici, hanno migliorato la risposta del paziente alla terapia, anche nei casi in cui non funzionava più, o di metastasi o recidive. Ma i dati devono essere confermati su un numero più ampio di pazienti e serve il supporto delle case farmaceutiche". Lo stesso approccio è stato utilizzato anche presso la Fudan University di Shangai per il cancro al seno, mentre al Cancer Center di Tampa in Florida si sta sperimentando l'impiego del bicarbonato assunto per via orale. Ma la vera svolta ci sarà quando verrà approvato uno studio clinico in cui si utilizzeranno i soli inibitori della pompa protonica, senza chemioterapici quindi, per dimostrarne la loro efficacia e la possibilità di usarli come alternativa alla chemioterapia.
Di fronte a tutto ciò rimane il fatto che Tullio Simoncini, precursore di queste ricerche fatte nel mondo, non può continuare la sua in Italia. Ora è iscritto all’Ordine dei Medici in Albania, dove gli hanno sovvenzionato uno screening sul tumore della vescica. Si dice pronto a fare questo lavoro di ricerca, con spese minime e con massimi risultati: in pochi mesi conta di guarirne il 90% con il bicarbonato. “Se riesco a partire con il cancro della vescica ho fatto scacco matto”, dice. Anche Cuba è pronta a sostenere la sua sperimentazione. In Bolivia è membro onorario della Clinica Universitaria, in Equador è membro onorario dell’Accademia dei Medici. E Simoncini afferma che “i paesi detti civilizzati sono quelli che hanno l’interesse economico… Ora sono un disoccupato, anzi sono stato multato di settantamila euro dal garante poiché, asserendo che la chemio fa male, esponendo le mie idee, faccio concorrenza al sistema”.
Quando gli chiedo se ha ancora paura di ammalarsi di tumore, risponde: “Sì, però non troppo. Per prevenire bisogna fare una alimentazione precisa e fare attenzione alla qualità di vita”.
“E come uomo nel mondo, come si pensa?”.
“Mi piacerebbe risolvere il problema del cancro per il livello umano della sofferenza delle persone. Non per il Nobel, o per essere riconosciuto. Sono troppo selvaggio. Voglio eliminare questa frode; a me da fastidio la frode. È che quando vedo una persona che sta male m’immedesimo nella sofferenza che vedo: è la leva umana che mi dà la passione di poter arrivare a certi risultati, non è certo il premio Nobel, perché anche quello è pilotato. Certo, se siamo indifferenti come pietre, tutto ciò non vale. Per me è una forma di retribuzione se un paziente mi chiama e mi dice che ha fatto la TAC ed è pulita, priva di malattia: salto dalla gioia per una settimana. Ai colleghi che mi dicevano ‘Com’è che tu sei sempre sereno?’, rispondevo che a me il padreterno m’ha dato un grosso dono. A Lui a suo tempo dissi che se dovevo fare il fallito, cambiavo mestiere… e lui m’ha dato questo dono. Certo, ho pagato per l’invidia, la gerarchia di questi quattro imbecilli corrotti collusi e non li condanno perché fanno parte della evoluzione animale. Chi ha uno spirito elevato sta oltre”. Penso che certamente non è carente in autostima.
“Sente quindi di avere uno spirito elevato?”.
“Non è tanto che lo sento. Mi diceva una amica ‘Niente se mi considero, tanto se mi confronto’. Il problema non è ciò che sento, ma lo specchio, la comparazione sui fatti. Mi accorgo dai fatti di ciò che sono, non è una questione di boria o presunzione, ma una verifica. Se devo correre i cento metri e sono più veloce, mi viene il dubbio che corro più forte: non è questione di essere migliore o peggiore, ma se esiste una differenza quella la vedi”.
“Cosa pensa dei pazienti che si rivolgono a lei?”.
“Li rispetto perché hanno avuto un minimo di discernimento; c’è gente che ha un fattore selvaggio e non si fa pecora”.
“Lei conosce il terrorismo che fanno le istituzioni nei confronti di chi sceglie altro?”.
“Ci sono dei caratteri che non si fanno prendere dal terrorismo della medicina e ragionano un po’: cento anni di ricerca con 9 milioni di morti l’anno vuol dire non avere risultati”.
“Ma a quei pazienti che viene detto che se non seguono il protocollo non verranno più seguiti a livello istituzionale, lei cosa dice?”.
“Guardate. Voi avete da una parte una cattedrale piena di beni ma dove c’è la morte; dall’altra avete qualche piccola casina dove dovete costruirvi da voi la libertà, la salute e la vita. Che scegliete? Con me siete nella casina, però siete liberi. Chi vuole sentirsi protetto dalla cattedrale, dove dentro c’è solo morte, se la sceglie... e trova veleno”.
“Si è sentito solo in questa battaglia?”.
“No, la mia famiglia mi è stata vicina. Sono determinato e vincente, non mi pongo il problema di essere solo: ho questo dono e non posso ritrattare; oramai è una guerra infinita. Sono di natura un guerriero ed è difficile che torni indietro, venga la morte piuttosto che la rinuncia”.
“Però, se si accorgesse che c’è qualcosa di sbagliato ritratterebbe?”.
“Certo! Già dico che non posso curare i tumori delle ossa, soprattutto quelle piatte, perché poco vascolarizzate. Ho scelto una terapia alternativa perché ho visto i risultati laddove la medicina tradizionale non funzionava. Ho solo una idea fissa, che il tumore sia un fungo, punto. Poi, se si trovasse una terapia migliore ben venga, anzi sono dell’idea che in un futuro chi trarrà beneficio dalla mia idea saranno proprio le case farmaceutiche: quando produrranno due tre pasticche e iniezioni di antifungini a cascata sequenziali, i tumori si guariranno così in soli dieci giorni. Le case farmaceutiche guadagneranno di più e le persone guariranno. Adesso è l’idea del tumore come malattia cellulare che è sbagliata. Conti che l’oncogene, il presunto responsabile della degenerazione cellulare, non esiste, è solo una ipotesi. Nella patogenesi del libro della Robustelli… c’è scritto. Allora di che stiamo a parlare? È allucinante! Ma la gente non studia?!”.
Mi trovo di fronte ad un uomo che, con i suoi pregi e difetti, ha il coraggio di mettersi in una posizione critica nei confronti della medicina ufficiale, ponendo la sua attenzione sulla ricerca di una possibilità di cura per il cancro. Eppure, dopo i recenti fatti di Tirana in cui un ragazzo con un tumore cerebrale in fase terminale è morto dopo tre giorni di trattamento, possiamo dedurre che il suo essere “selvaggio” lo porti anche a muoversi in modo avventato con il rischio costante di cadere in trappole mortali. L’onnipotenza gioca spesso brutti scherzi! In ogni modo Simoncini continua a rischiare tutto per dare una risposta concreta sulla curabilità del cancro e non è scientifico, e men che meno umano, bocciare l’ipotesi di cura con il bicarbonato senza averla verificata. Potrebbe essere opportuno improntare una appropriata sperimentazione, come sta accadendo in altri paesi, perché solo così si possono proteggere i malati da terapie azzardate, e non mandare avanti solo ipotesi terapeutiche basate sul profitto. La ricerca non può essere sotto lo scacco di interessi economici… e neppure la verità.
SITI CONSULTATI
http://digitaljournal.com/article/323645
www.repubblica.it del 27 settembre 2010
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