ArteScienza 2002-2008
Presentazione al libro di Jean Le Boulch ‘Movimento e sviluppo della persona’.
SCIENZA E COSCIENZA di Concetta Turchi. Anno 2006
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L’INTEGRAZIONE PSICOCORPOREA E LA POSTURA di Giampietro Marcheggiani. Anno 2006.
L’ASCOLTO NELLO SVILUPPO DEL MOVIMENTO UMANO di Giampietro Marcheggiani. Anno 2004.
Descrizione dei test
Sono stati scelti test di campo per la loro facilità di somministrazione e ripetibilità in qualsiasi ambiente.
Risultati riportati graficamente
Fig. 3. In questo grafico è possibile verificare una distribuzione più omogenea del peso corporeo sugli arti inferiori dopo l’attività proposta.
Fig. 5. La flessibilità scapolo-omerale è aumentata. Infatti, il grafico evidenzia una diminuzione della distanza tra il pavimento e gli arti superiori.
Fig. 6. In questo grafico è evidente la netta diminuzione di instabilità nella camminata ad occhi chiusi su linea retta. Le oscillazioni a dx e a sx sono sensibilmente diminuite.
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BIBLIOGRAFIA
B.G. CAMPBELL, Storia evolutiva dell’uomo, ISEDI Istituto Editoriale Internazionale, Milano 1974.
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J. LE BOULCH, Movimento e Sviluppo della persona, Associazione Musicalificio Grande Blu Ed., Roma 2006.
J. LE BOULCH, L’educazione psicomotoria nella scuola elementare, Edizioni Scolastiche Unicopli, Milano 1989.
K. MAINEL, Teoria del movimento, Società Stampa Romana Ed., Roma 1984.
C.R. NOBACK - N.L. STROMINGER - R.J. DEMAREST, Sistema nervoso, Massoni Ed., Milano-Parigi-Barcellona 1999.
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A. RHOADES, A. TANNER, Fisiologia medica, EdiSes, Napoli 1996.
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A. TOMATIS, La notte uterina, Red Edizioni, Como 1996.
A. TOMATIS, L’orecchio e il linguaggio, Ibis Ed., Como - Pavia 1996.
A. TOMATIS, L’orecchio e la vita, Baldini & Castoldi Ed., Milano 1999.
SITI CONSULTATI
www.programmaitalia.com/sinestesiaeartesinestetica/articolo1.html
www.musicalificio.it
www.proteofaresapere.it/corsi/corsi.doc
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Percorsi di cura in terapia psicodinamica. STORIA DI MARCO di Concetta Turchi. Anno 2005
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La proposizione della cura psichica. IL PRIMO COLLOQUIO PSICHIATRICO COME PRASSI DI INTERVENTO di Concetta Turchi. Anno 2005
BIBLIOGRAFIA
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A.A. SEMI, Tecnica del colloquio, Raffaello Cortina Ed., Milano 1985.
H.S. SULLIVAN, Il colloquio psichiatrico, Feltrinelli Ed., Milano 1983.
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Memoria e Psiche. EDIFICARE LA MEMORIA CON I RICORDI IN CHIAVE DI VIOLINO di Concetta Turchi. Anno 2004
Avevo 12 anni quando l’insegnante di disegno, una donna sfiorita e triste nella sua bellezza di un tempo, ci chiese di disegnare un albero. Mi piacevano gli alberi. Li trovavo divertenti con i loro suoni e i loro movimenti; così cominciai a lavorare di buona lena. Ne venne fuori un albero, a dire il vero poco realistico, ma assolutamente chiassoso e divertente nei mille colori della sua rigogliosa chioma. Tragico errore! Quella tempesta di colori impattava con il grigiore di quella donna sfiorita e triste che, visto il mio disegno, mancò poco che lo strappasse. La vidi divenire rossa di rabbia, mentre minacciava di rimandarmi in disegno se non avessi fatto un albero vero, - “di quelli con le foglioline” - sibilò. Il cuore batteva forte nella nebbia e nel gelo, finché salì un’ondata calda di furore: voleva un albero realistico? Bene... l’avrebbe avuto!
Con la matita sanguigna, che utilizzavo solo in casi particolari, disegnai tutto d’un fiato un tentacolare albero autunnale i cui rami secchi tentavano inutilmente di allungarsi verso il cielo, attorcigliandosi fra di loro a impedirne la vista. Ero ferocemente soddisfatta del mio lavoro: quell’albero lunare poteva sembrare assolutamente realistico e... non avevo disegnato neppure una delle sue maledettissime foglioline. La mia soddisfazione divenne trionfo quando la strega, nel vedere il suo ritratto impietoso, disse a mezza bocca e senza guardarmi in volto, che era sufficientemente realistico. Quell’albero autunnale, bellissimo e tristissimo, fu l’occasione per scoprire l’impatto emotivo di fronte ad un campo percettivo inaccettabile.
Un ricordo rimane solo un ricordo se non spalanca le porte della Storia e, quando riesce in questa impresa, esso si fa memoria ossia capacità di percepire e desiderio di recepire quanto cade sotto i nostri sensi per aprire la strada della reinterpretazione attraverso l’azione: in effetti non esiste azione senza percezione, senza affetti, senza che perfino il pensiero non vi sia incluso, seppure in modo inconsapevole. E se le azioni degli uomini nel loro intersecarsi si incontrano per fare la Storia, accade che anche la Storia sia in grado di costruire l’Uomo per una sua intrinseca capacità di conservare il riassunto delle puntate precedenti: testimone biologico e storico delle trasformazioni vissute, la memoria, passando di corpo in corpo, assume in sé la capacità di custodire il segreto delle immagini, di come formarle e riattualizzarle. L’albero evolutivo si è costruito grazie a queste radici in cui ogni uomo sviluppa la capacità di costruire la sua storia personale attraverso il suo fare e fare immagini.
Milioni e milioni di anni fa accadeva che uno scimmione un po’ più evoluto scoprisse la realtà della morte: egli vedeva cadere i compagni di percorso nella lotta quotidiana contro le avversità del mondo esterno. Essi perdevano definitivamente nello strazio dei loro visceri ogni movimento, eppure quando l’Uomo volgeva lo sguardo da quei corpi inerti compariva inattesa la rievocazione nitida, fatta di movimento, di coloro che non c’erano più. Ad un certo punto però quelle fisionomie, sfumate dai contorni del tempo, diventavano indefinite, proprio come accade nei primi mesi di vita quando si costruisce la capacità di immaginare. La morte, linea nera di separazione senza ritorno, tracciava quella protoconoscenza che portava l’Uomo a lasciare dietro di sé in modo definitivo il mondo animale: la certezza che tutto ciò che non è più non è perduto, ma ritrovato e trasformato. Affacciato su quel baratro da cui attingeva questo livello di sapienza, l’Uomo conquistava quella relazione con il tempo che avrebbe trasformato il suo agire. E se tutte le sue azioni fino a quel momento avevano avuto lo scopo di portare a sé o dentro di sé la materia del mondo per crescere e rinforzare il suo diritto alla sopravvivenza - come un qualsiasi altro animale - ora quello stesso Uomo aveva la possibilità di cambiare la direzione dell’azione e volgerla verso il mondo esterno scavando sempre più profondamente la via del non ritorno: fu così che dal confronto con la realtà materiale nacquero inizialmente quegli oggetti della quotidianità che lo resero più forte nell’affrontare l’impietosa natura; dal rapporto con le altre realtà umane in formazione nacque il linguaggio.
Lasciata la via solitaria degli istinti del suo antenato animale l’Uomo imboccava ora la strada della cooperazione che lo rendeva più forte da una parte, ma anche più esposto alla impietosa morte che strappa via gli affetti: gocce salate come quelle del mare sgorgavano sulle sue gote ad ogni rimembranza. E quando la Morte divenne la sfida onnipresente alla sua caducità, impossibile da dimenticare, per calmare l’angoscia non bastarono più gli utensili, ci vollero le strutture architettoniche; non bastarono più gli aedi che cantavano di verità e bellezza, divenne necessaria la scrittura. Alcuni inventarono un Dio onnisciente e onnipotente, proiezione del loro bisogno di non sentirsi mortali e senza conoscenza: quando i vissuti della mancanza prenderanno il sopravvento (dopo la crisi greca del V secolo a.C.) i poeti non saranno più la voce della memoria. Privata così del rapporto con il corpo essa diventerà realtà divina interna - e quindi anima – che affollerà le pagine di una noiosissima, quanto inutile, speculazione filosofica.
Monca della poesia e della affettività, la memoria diviene il magazzino oscuro e polveroso dei ricordi e, nel migliore dei casi, delle reminiscenze. La follia dell’onnipotenza fa ammalare l’albero della conoscenza rendendo sempre più difficile la possibilità di cogliere quel mondo delle immagini interne che va di pari passo con la realtà materiale: come se gli oggetti non avessero un suono, come se il linguaggio non fosse musica, come se la realtà psichica dell’uomo non fosse anche inconscio. Noi che conosciamo come questo livello di dissociazione sia alla base della malattia mentale, sappiamo anche come il processo di cura psichica non possa prescindere dal tentativo di riannodare i fili della integrità umana per sancire quell’antico nesso tra memoria e affetti, per ribadire che l’arte della memoria è lavoro interiore, creazione di immagini belle. Essa è conoscenza.
“Negli esseri viventi ogni azione, sia essa volontaria oppure no, ha la sua origine da una sensazione. La sensazione nasce come capacità, insita in ogni organismo vivente, di rispondere agli stimoli in cui è immerso, grazie alla presenza di recettori sensoriali più o meno complessi in grado di raccogliere le informazioni più varie sulla realtà circostante: prima tappa di quel filo diretto con il mondo che permette l’adattamento partendo da circuiti neuronali molto semplici, come i riflessi.
Seguendo lo sviluppo filogenetico, la centralizzazione della sensazione permette di collegare ogni parte della struttura corporea, e lo spazio corrispondente, alla temporalità: infatti, ogni tipo di messaggio sensoriale (tattile, acustico, visivo, ecc.) arriva al cervello come serie numerica di dati ordinati nel tempo, analizzabili e confrontabili con altri registrati nelle precedenti esperienze. In questa ascesa al Sistema Nervoso Centrale, la sensazione localizzata in uno spazio trova quel tempo che la trasforma in percezione, cioè nella possibilità di conoscenza del senso della sensazione. Questa ascesa conoscitiva crea il primo livello di integrazione, cerniera fondamentale per arrivare in seguito alle possibilità espressive della vita specificatamente umana, attraverso una danza di sincronismi neuronali: a tale riguardo, è fondamentale lo sviluppo degli organi di senso che si strutturano e si completano per rispondere in modo sempre più adeguato e specie specifico.
Nell’acquisizione di questa specificità che ha portato nel campo dell’umano, un ruolo fondamentale viene svolto dagli integratori cerebrali che compaiono in funzione degli imperativi evolutivi: essi sono, secondo l’ordine di comparsa, l’integratore vestibolare e rinoencefalico, visivo, cocleare e, infine, piramidale.
L’integratore vestibolare controlla la struttura dinamica automatica che gestisce attraverso una organizzazione protopatica, cioè al di fuori del campo cosciente. Con il controllo che opera su tutte le funzioni motorie, assicura la statica e la cinetica del corpo, consentendo di prepararlo a quel movimento che viene comandato dall’integratore piramidale: munito di questo sistema, l’Uomo potrà soddisfare i suoi bisogni e le sue esigenze, andare incontro ai suoi desideri e... molto di più.
L’integratore olfattivo è il primitivo organo con funzione di orientamento: l’integratore vestibolare lo porta, dietro uno stimolo, là dove occorre andare, per necessità o desiderio. Viene soppiantato ben presto dall’integratore visivo, che ha la stessa funzione, ma permette una maggior precisione. L’integratore cocleare fa la sua comparsa nei mammiferi, trasformando tutte le relazioni esistenti fino a quel momento tra i vari integratori. La coclea assume la direzione del sistema e, con la collaborazione del vestibolo, porta all’acquisizione delle caratteristiche specificatamente umane: la verticalizzazione, la liberazione della mano, il linguaggio”.
(C. TURCHI E M. MORTILLARO, Dalla sensazione alla percezione e alla recettività: il cammino verso l’ascolto, sul sito www.traiettorieblu.it)
Sia l’integratore vestibolare che quello cocleare hanno come punto di riferimento sensoriale l’orecchio interno, la cui complessità è un punto d’arrivo della evoluzione. In parallelo allo sviluppo progressivo dell’orecchio anche il sistema nervoso progredisce in termini esponenziali: punto nodale di questa progressione è il passaggio dell’informazione attraverso la formazione reticolare, una rete neuronale particolarmente fitta presente nel tronco dell’encefalo, che costruisce la funzione neurofisiologica della memoria (attraverso le sue proiezioni talamiche e talamo-corticali). Distribuita in tutto il corpo, la memoria diventa uno degli elementi fondanti di questa struttura funzionale e dinamica del sistema nervoso che integra al contempo il movimento, il gesto, lo sguardo, il contatto, l’olfatto, l’udito. L’integratore vestibolare fa in modo che ogni informazione sonora abbia la sua corrispondenza corporea secondo una forma grammaticale non verbale che solo successivamente, attraverso l’integratore cocleare, avrà possibilità e diritto di parola: a quest’ultimo spetta pertanto il duplice compito della assimilazione linguistica da un lato e della verbalizzazione delle memorie somatiche dall’altro.
Nel fitto bosco dei neuroni i rami e i tronchi nervosi si sono intersecati secondo un ordine e una priorità stabilite di volta in volta dalla struttura filogeneticamente più recente. In questo modo l’orecchio interno, attraverso la funzione dell’ascolto, ha guidato ogni organismo verso la comunicazione profonda con l’ambiente circostante fino ad arrivare al vertice di questo sistema complesso: quella possibilità di verbalizzazione che costruisce il sentiero verso l’identità specificatamente umana. L’orecchio è pertanto il nostro sentiero nel bosco, quella conchiglia raccolta nella notte dei tempi che ci riporta al gorgoglio di un mare interno profondo e calmo. Con il completo sviluppo della coclea l’udito da fenomeno sensoriale passivo legato alla messa in vibrazione del corpo indotta da una sorgente sonora, si può trasformare in ascolto come atto recettivo, ossia come fenomeno attivo legato al desiderio di mettersi in ascolto per comunicare.
Quello che è avvenuto nei millenni come sviluppo filogenetico si riepiloga continuamente attraverso l’ontogenesi (lo sviluppo di ogni individuo). Oggi sappiamo che l’orecchio completa il suo sviluppo a partire dal quarto mese di vita intrauterina. Sappiamo inoltre che il neonato è in grado di riconoscere, dopo la nascita, la voce della madre: questo significa che il feto già sentiva la voce di lei quando era immerso nel suo mare amniotico. Quel mare è un mondo multisonoro con un rumore di fondo simile al suono di una cascata, che parla della vita viscerale della madre, dei suoi respiri come dei battiti del suo cuore o dei borborigmi. Tutti quei suoni gravi, che fanno vibrare ritmicamente quel corpo in formazione, sarebbero insopportabili se non venissero filtrati dal liquido amniotico: funzionando come un filtro passa-alto, esso rende ovattata questa orchestra viscerale. Su questo rumore di fondo ovattato, continuo e rassicurante, compare ad un certo momento (terminato lo sviluppo embrionale della coclea e delle vie nervose cocleari) la voce della madre. Immediatamente riconoscibile dagli altri suoni in quanto ricca di tonalità acute, questo suono arriva al feto come fatto assolutamente nuovo: discontinuo e intermittente, esso è in grado di metterlo in vibrazione in un modo diverso. Quella voce potrà essere armoniosa od ostile, a seconda di come le parole vengono suonate dal corpo della madre: l’interpretazione sonora, che dipende dalla qualità affettiva della madre, rappresenta la base su cui il feto costruirà la sua carica vitale originaria, primo mattone di quel tempo che si renderà percepibile solo al momento della nascita.
La comparsa della voce materna potenzia la capacità esplorativa della funzione vestibolare portando il feto ad un costante riequilibrio all’interno del suo universo uterino attraverso quella organizzazione di reazioni che in un momento successivo acquisteranno le caratteristiche di automatismi. In questo scambio continuo tra periferia e centro, nei due sensi, il feto comincia a modulare le sue reazioni corporee sulla voce della madre e tali modulazioni rimarranno come una sorta di linguaggio base, molecolare e neurofisiologico, anche dopo la nascita: il contatto con l’acqua lo riporterà agli automatismi motori corrispondenti (sia sul piano muscolare che respiratorio), la percezione di un abbraccio caldo ed avvolgente oppure di una voce vibrante lo ricondurrà ad un rilassamento muscolare e ad una diminuzione della frequenza respiratoria, e così via. Ogni stimolazione dopo la nascita andrà a risvegliare quella protomemoria uterina determinando una risposta inconscia, riemersione corporea di ciò che era già custodito, prima ancora di essere percepito.
Con il terremoto della nascita l’orecchio del neonato, abituato come era ad un ascolto liquido, si deve adattare al nuovo mezzo aereo con i suoi rumori assordanti. Questo passaggio sarebbe oltremodo traumatico se non rimanesse nel suo condotto uditivo del liquido amniotico che continua a funzionare come un ammortizzatore dei suoni provenienti dal mondo esterno. Nel passaggio al nuovo mondo, in quel salto accecante nella luce, è la voce della madre che dopo il parto il neonato cercherà e riconoscerà tra mille altre: la berrà insieme con il latte che ella gli porge continuando così quel nutrimento materiale ed affettivo che, iniziato nel mondo intrauterino, porterà il neonato a crescere nel corpo e nella vitalità. Questo riconoscimento getterà il ponte, il primo, tra una sensazione attuale e una sensazione passata. In quel suo primo riconoscere, la sensazione, divenuta percezione, troverà nella memoria la prima possibilità di rappresentazione psichica e, con essa, il suo primo spazio mentale. Solo in quel momento il liquido amniotico che avvolgeva e accarezzava il feto diventa spazio interno, prima traccia mnesica che comprende la realtà materiale e concreta dello spazio e del tempo del rapporto, e la realtà non materiale - la musica degli affetti - che hanno dato vita al movimento, alla bellezza e alla verità di quel rapporto interumano.
“Catapultati in un nuovo mondo accecante e rumoroso, cerchiamo una voce conosciuta, quella che ci ha accompagnato mentre eravamo sospesi nel liquido amniotico. Quella voce che porta verso un nuovo abbraccio, verso una nuova sospensione che restituisce i confini, ci salva dalla pericolosa tentazione di chiudere gli occhi sul nuovo mondo per renderlo non esistente. La percezione ritrovata traccia il primo ricordo che è anche la prima fantasia umana. ‘Inconscio mare calmo’, la chiama il mio Maestro di un tempo: immagine sonora, espressione al contempo di una ricerca e di una sanità psichica”. (C. TURCHI, “Al chiaro di luna”, in L’ArcoAcrobata, I, O, Associazione Musicalificio Grande Blu Ed., Roma 2002, p. 12.)
Quando alla nascita la rete neuronale si centralizza grazie alla acquisizione del campo percettivo che la rende operativa, si spalancano le porte della motivazione e il neonato comincia a stabilire un legame con ciò che desidera. Sin dall’inizio egli si apre alla realtà nuova confrontando la prima immagine interna (inconscio mare calmo) con il mondo che lo circonda. Da questa prima immagine nasce la speranza, che è certezza insieme, di trovare un essere umano che risponda alle sue richieste di nutrimento materiale e affettivo, al suo desiderio: il nutrimento sonoro e il movimento calmo della madre gli sono necessari quanto il latte che succhia avidamente ad ogni poppata. Dopo la nascita e negli anni successivi soltanto la spinta della motivazione, legata alla esperienza viscerale della soddisfazione del desiderio, potrà liberare le informazioni più antiche custodite silenziosamente nel corpo permettendo che le nuove sensazioni possano essere raccolte nel cervello, senza memoria alcuna di quel ricordo. Come a dire che il ricordo conservato e diventato inconscio è sempre pronto ad essere attivamente rievocato quando una nuova situazione di rapporto lo farà rinascere alla coscienza come possibilità di trasformazione della esperienza passata, cioè come fantasia. La sanità di un uomo è data proprio dalla sua capacità di dimenticare, affinché i ricordi non impediscano il processo senza fine della memoria per cui l’uomo è nato e continua a svilupparsi.
Se la madre nel rapporto col neonato non esprimerà la musica degli affetti, quella prima immagine andrà perduta e con essa la capacità di immaginare: di conseguenza si perderà anche la certezza della propria nascita, cioè della propria realtà umana che è al contempo corporea e psichica. A questo punto rimarrà la sola realtà materiale, propria e altrui, e gli istinti biologici correlati. Il desiderio insoddisfatto determinerà un affollamento sensoriale collegato ai bisogni del suo corpo confondendolo e compromettendo in continuazione la trasmissione delle informazioni ricevute: le dinamiche psichiche di negazione e annullamento trovano in questi luoghi neuronali la loro base disfunzionale. La realtà viene continuamente letta sulla base dei dati passati e non sulla base di ciò che è davanti ai nostri sensi in quel dato istante: la psicopatologia e la psicosomatica trovano qui le loro radici. Vi trova la sua ragione d’essere anche quella “patologia della normalità” che si sclerotizza su schemi d’azione codificati e prevedibili: ombre di uomini la cui consistenza è data dalla riproduzione di stati di coscienza passati che si solidificano nello spazio e nel tempo. Privati della vita e resi oggetto, tali ricordi di marmo vengono diligentemente accumulati e inventariati.
Seguendo il filo della narra-azione, cioè di quel rapporto tra voce e azione che produce il racconto della memoria, è evidente fin dai primi giorni di vita come la voce materna produca nel neonato delle risposte muscolari e sonore, spesso all’unisono. E lui ricerca in quel rapporto così significativo quel movimento e quel suono in grado di restituirgli momento dopo momento il nutrimento affettivo e il conseguente stato di calma già vissuto, anche se non ancora provato, nei mesi acquatici precedenti alla sua venuta al mondo. A volte quel rapporto sarà completamente armonico e soddisfacente, altre volte meno: in relazione a queste due condizioni ci saranno nel neonato degli accadimenti muscolari e sonici differenti. Saranno visibili, ad esempio, un allentamento del tono muscolare collegato alla possibilità di lasciarsi andare tra le braccia dell’altro, oppure la comparsa di scariche muscolari toniche accompagnate da agitazione motoria prive di qualsiasi forma di coordinazione: le variazioni del tono muscolare sono nel neonato, e rimarranno nell’adulto, l’espressione diretta di uno stato emozionale collegato o meno alla soddisfazione del desiderio. La continua scoperta del piacere e la possibilità di incontrare le vie del dolore si inscrivono profondamente nel corpo del neonato, nei suoi movimenti, nei suoi gesti e nella sua mimica.
Gli atteggiamenti altrui sono ascoltati dal corpo e si traducono sempre in risposte del tono muscolare, il che vuole dire che le risonanze emozionali e corporee si accordano continuamente con l’ambiente umano circostante. I movimenti espressivi (i primi a comparire, come abbiamo visto) consentono di sentire il corpo nell’attuazione di qualsiasi movimento, sia esso una reazione (parziale) o una azione (globale); quest’ultima, che ha in sé la possibilità di modificare l’ambiente circostante (oltre che accomodarsi ad esso), potrà essere legata ad un utile evidente e riconoscibile (azione pragmatica), oppure senza uno scopo evidente: solo i movimenti attivati attraverso la seconda modalità saranno rivelatori del mondo emozionale di quel particolare organismo in relazione al suo contesto. Nel mondo degli umani, in quanto espressione di uno specifico vissuto, essi diverranno gesto, equilibrio dinamico tra il mondo interno dell’individuo e l’ambiente che va affrontando. È la qualità specificatamente umana legata alle cose che si fanno per niente, il piacere dell’azione a prescindere dallo scopo da raggiungere, a rendere il movimento sempre più plastico e meno dipendente da schemi innati: tale indeterminatezza dell’azione motoria, che è alla base del gioco, fa sì che la spontaneità del gesto parli in continuazione di una integrazione psicocorporea dove ricondurre l’espressione a livello del corpo vissuto. Quando l’intenzionalità della comunicazione si appropria del corpo vissuto il gesto si fa segno, acquistando una potenza di rappresentazione dove a parlare è direttamente la fantasia del nostro mondo interno.
A proposito degli accadimenti sonici, all’inizio il neonato dialoga con la voce della madre per rispondere o per avere una risposta. Quella voce, che solo più tardi il bambino assocerà al volto, continua a produrre in lui fremiti e gemiti inconsulti che parlano dell’emozione di quell’attimo vissuto, proprio come accadeva quando nuotava nel suo mare uterino: il cicalio iniziale è la sua interpretazione di quello spazio acquatico. Il cucciolo di uomo va dipingendo con pennellate sempre più raffinate il suo quadro sonoro da regalare a quella figura nebulosa che lo nutre alimentando la sua motivazione alla vita: per lei associa il colore di un suono da regalarle per avere quella risposta che lo ha già reso felice altre volte. Insomma, quel suo balbettio è il linguaggio che crea per la madre, è l’espressione del suo amore per lei, della sua pretesa umana di essere capito e di avere sempre una risposta da lei. A causa di questo legame affettivo profondo, un abbandono della madre, (psichico e/o materiale) oppure una malattia del neonato, possono compromettere l’elaborazione del suono che nasce e si costruisce all’interno di questa relazione e, conseguentemente, alterare lo sviluppo psicomotorio e affettivo, del bambino.
L’immagine che va costruendo il lattante attraverso i suoni e le sensazioni propriocettive che registrano la sua immagine muscolare e viscerale, è assai simile a quanto viene risvegliato nel corpo attraverso il tatto: si tratta di una immagine-oggetto del corpo visceralmente vissuto (me) collocato al centro di un mondo di cui il bambino desidera impadronirsi unicamente per comunicare con l’altro. La costruzione dell’Io sento e dell’Io mi sento, che fanno la affettività della percezione, diventano possibilità di conoscenza della realtà esterna e della propria realtà interna. Tale costruzione si rivela ascoltando la asimmetria sonora del balbettio che ad un certo punto dello sviluppo compare: essa diventa l’espressione della necessità di un dialogo tra questo me corporeo e l’Io pensante che comincia a delinearsi sia su un piano neurologico che psicologico. Il balbettio, infatti, per quanto forte sul piano affettivo e quindi particolarmente significativo sul piano semantico, non è una lingua sociale; si deve trasformare per raggiungere il resto del mondo. Alla base di tale trasformazione c’è l’avvio del processo di lateralizzazione che radicalizza le diversità dei due emicorpi portando ad acquisire le basi neurologiche per l’apprendimento della lingua del padre, lingua in cui tutto si soggettivizza e si complementarizza: ecco che il corpo può diventare lo strumento, intriso di affettività, del pensiero che vuole esprimersi.
Il suono si articolerà nelle parole soltanto quando la motricità troverà un ulteriore livello di coordinazione. Quando il bambino si impadronisce del proprio balbettio è all’incrocio di tre strade motorie (la destra, la sinistra e la mediana): è nuovamente nel bosco come l’eroina di una fiaba o come quel primo essere, non più scimmia e non ancora uomo, che aprì i sentieri dell’umanizzazione, o come quelle prime molecole organiche che, per una strana e potente attrazione, milioni e milioni di anni fa, andarono ad embricarsi fra di loro per formare quella struttura elicoidale, assai simile alla coclea, che poneva le basi senza ritorno di una memoria biologica. Ancora una volta, e come sempre, sarà importante l’ambiente affettivo in cui il bambino è immerso: quando i richiami rimangono senza risposta ogni gesto vocale perde di significato, di un senso affettivo. Il bimbo potrà anche imparare a parlare, ma il suo parlare sarà meccanico, svincolato da un desiderio profondo di comunicare con l’altro. Quando si verifica una frattura affettiva siffatta il mondo sonoro diventa doloroso: il bambino può continuare ad udire, ma non riuscirà più ad ascoltare. L’orecchio, con la sua funzione più elevata - quella dell’ascolto -, si disattiva, per riprendere solamente la sua funzione primaria, animalesca, di difesa in relazione ad un pericolo.
Abbiamo visto come l’asimmetria sia alla base della nascita della vita biologica e di quella umana. Il passaggio dalla materia inorganica alla materia biologica (vivente), è stato un percorso senza ritorno determinato proprio dalla asimmetria: la materia vivente, infatti, utilizza soltanto le catene destrogire degli zuccheri, o levogire degli aminoacidi. Milioni di anni dopo un’altra asimmetria, anatomica e funzionale, ha realizzato un ulteriore passaggio della materia vivente, la nascita dell’Uomo, grazie alla lateralizzazione (emisfero dominante). Con essa e per essa l’uomo ha acquisito quella verticalità che lo ha portato alla stazione eretta, ha conquistato quella liberazione della mano per costruire e dare forma alle sue immagini interne, ha acquisito il linguaggio. Infine è sempre l’asimmetria alla base della nostra sanità psichica: la sanità è l’espressione di una identificazione dall’altro, laddove ogni processo di identificazione con l’altro, per il principio del “dover” essere uguali, è malattia mentale. Anche sul piano viscerale nulla è simmetrico e l’informazione neuronica di questa asimmetria di base, utilizzata per il controllo della fonazione, imprime una asimmetria corticale funzionale e sonica: la lateralità ha delle ripercussioni sulla emissione vocale. Il corpo umano, infatti, come le molecole proteiche, può essere investito fisicamente e linguisticamente in modo destrogiro o levogiro: la voce destrogira, modulata e ricca di alte frequenze, si compenetra con l’impedenza dell’ambiente esterno determinando una risonanza specifica dell’aria circostante; la voce levogira, piatta e senza modulazione, è quasi “autistica” nella sua incapacità di connettersi con l’ambiente circostante. La prima è una voce che scolpisce e modella nell’esprimere la costante disponibilità al cambiamento, quella condizione di recettività che più volte abbiamo collegato alla funzione dell’ascolto; la seconda esprime l’immobilismo psicocorporeo rispetto al mondo.
In sintesi, la lateralità non è che la traduzione della asimmetria organica sottostante, che si trasmette attraverso la differenziazione dei due emisferi cerebrali. L’emisfero encefalico destro, con l’insieme delle sue ramificazioni nervose, assume il ruolo di strumento, mentre l’altro emisfero, quello sinistro, diviene nel suo insieme il sistema nervoso esecutore. I collegamenti tra i due emisferi, attraverso il corpo calloso, assicurano il dialogo costante fra il Maestro e la sua orchestra, fra il cielo e la sua luna. Quando l’Io si sente in grado di produrre un’idea nasce la grammatica che, attraverso la costruzione delle frasi costruite per il desiderio di entrare in relazione con l’altro, diventa una rappresentazione neurologica applicata al linguaggio. L’idea trova la sua struttura e il linguaggio diviene architettura nella misura in cui il pensiero riesce ad abitare il proprio corpo, per costruire e lasciarsi costruire.
Quindi la acquisizione dell’immagine corporea scaturisce dalla memoria per la memoria, dal linguaggio per il linguaggio, in funzione del desiderio che ha l’uomo di comunicare. Collegata allo sviluppo dell’integratore cocleare, essa si struttura nell’ambito di una relazione attraverso la comunicazione. Basti pensare che il corpo è immerso in un bagno d’aria che viene continuamente modificato dalle sollecitazioni delle onde di frequenza vocale, determinando l’integrazione di una immagine in funzione delle stimolazioni propriocettive periferiche. Alcune zone sensoriali rispondono meglio a quelle onde vibratorie e si sensibilizzano: su questa base la voce andrà a costruire una immagine del corpo intimamente scolpita dalla voce propria e altrui. L’immagine del corpo, attraverso questo rimodellamento, diventa la possibilità concreta di narra-azione della propria storia personale e della storia che quell’uomo costruisce nel luogo geografico in cui vive (caratterizzato da una certa impedenza) con le persone della stessa etnia con cui sperimenta uno scambio linguistico. Queste radici ancestrali lo portano ad identificarsi dal resto del mondo per costruire la propria identità.
La fondamentale certezza di essere e di sentire consente ad ogni essere umano di conoscere il nuovo, di affrontare la paura e trasformarsi... per poi giocare con le immagini che in un tempo divenuto ormai lontano lo terrorizzavano. È il confronto con il nuovo ad aumentare lo spazio interno di un individuo, a fargli trovare i suoi mille volti, per regredire e rappresentare. Non siamo più nel bosco, immobili nelle rappresentazioni ridondanti di “sempre”, dove “sempre” e “mai” diventano parole senza senso, figlie di un immobilismo mentale e corporeo che uccide la fantasia.
“Una immagine del corpo sana si ha quando la realtà corporea risuona continuamente con il corpo immaginato in modo da arrivare ad una integrazione di sé che consentirà di porsi in modo creativo con l’ambiente circostante. Tutto questo significa che è possibile rimodellare l’immagine del corpo a partire dal linguaggio proprio e altrui. La chiave di volta di questa trasformazione possibile è la recettività, che vuol dire ampliamento dei propri confini percettivi per arrivare al senso profondo della comunicazione con gli altri. Significa porsi attivamente in ascolto di fronte ad un avvenimento verbale che ci può trasformare”. (C. TURCHI E M. MORTILLARO, Dalla sensazione alla percezione e alla recettività: il cammino verso l’ascolto )
Per opera del suono l’immagine visiva si trasforma in segno, cosicché la figura può scomparire per fare emergere quanto di invisibile era presente nella figura stessa. È il ricordo di un suono, di una percezione tattile o di un odore, a farci disegnare una linea curva immersa tra lampi di luce e di colori. Difficile da rappresentare, eppure essa diventa rappresentabile nella misura in cui quelle sensazioni iniziali vengono cancellate e rimangono solo delle percezioni diffuse da cui parte la possibilità di reinterpretare: trasformazione possibile quando l’assenza dell’oggetto innesca la possibilità di rievocare l’oggetto stesso. È ciò che accade al neonato quando cerca di accordarsi in termini sonici con il mondo umano che lo circonda trasformando le parole che ascolta nelle sue sperimentazioni vocali e corporee che, grazie al continuo raccordo di emozioni, gli permette di reinterpretare i contenuti affettivi del mondo umano intorno a lui. Ed è la riemersione di quanto ascoltato senza comprensione alcuna di quei suoni, a creare immagini mentali prima ancora che la visione nitida delle cose costringa all’oblio e al sogno.
“Immagine senza figura che fa la memoria, e non sappiamo cosa sia la memoria senza figura perché non sappiamo cosa sia l’immagine senza figura. E il ricordo dell’odio e dell’amore, del dolore e della gioia, ... ma il ricordo non può essere senza immagine. Senza immagine il ricordo non può essere perché la sensazione svanirebbe nel nulla, non potrebbe essere conservata. Con la figura ricordiamo il passato, conserviamo la nostra storia. (...) L’abbiamo chiamata memoria cosciente e tutti ci hanno detto che era l’unica memoria possibile, e tutti ci hanno detto che era impossibile pensare ad altro, che era impossibile sapere che cosa era accaduto prima della comparsa della coscienza”. (M. FAGIOLI, Se avessi disegnato una donna, prefazione al libro “Bambino, Donna e Trasformazione dell’Uomo”, Nuove Edizioni Romane, Roma 1996).
Ma noi intendiamo parlare di un’altra memoria... Quella che riesce a cadere nella nebulosità e nella indeterminatezza dei primi mesi di vita, quando il mondo sonoro ci avvolge come le braccia di una nutrice. Quella memoria che si lega all’immagine sonora, immagine che si forma per quei suoni ascoltati senza comprendere, quando il mondo delle sensazioni dominava il nostro campo percettivo. E quando rinunciamo alla voce per mantenerci in ascolto, quell’ascolto può restituirci ad una voce che reclama una appartenenza al campo dell’umano per quella capacità che acquista la coscienza di tornare alla realtà inconscia dei primi mesi di vita, laddove può trovare i segni per esprimersi: disegno, forse dipinto, scritto o partitura musicale, qualsiasi cosa che non dia luogo ad una immagine visibile come figura. Disegnare, scrivere o dipingere, senza descrivere, in quel mistero per cui la parola imparata può disimparare nuovamente in questa regressione e narrare, anche attraverso il linguaggio sonoro, del rifiuto della parola imparata, per rivendicare l’unico diritto ad essere per fare immagini. In quel luogo di confine tra il sonno e la veglia ritroviamo quell’ascolto che comprendeva senza capire, e in quella comprensione inconscia iniziava a fare immagini. È quello il luogo della memoria: quello è il luogo dove non esistono più i ricordi come descrizione di quanto è effettivamente accaduto. Qualcuno sostiene che questo luogo non è rappresentabile, altri sostengono che è rappresentabile solo con il movimento senza parola. Io sostengo che quel luogo è rappresentabile, oltre che con l’azione, nella forma sonora del linguaggio e nella costruzione del linguaggio come architettura sonora e poetica.
“Evidentemente l’immagine perduta dal ricordo cosciente diventò suono, poi segno deposto sul foglio... poi immagine nella mente degli altri... poi nulla quando fu dimenticata...”. (M. FAGIOLI, Se avessi disegnato una donna, p. 307).
La certezza che l’oblio non è amnesia fa trovare una forma nuova alla memoria, come capacità di selezionare ciò che può essere dimenticato e fatto riemergere; finalmente come libertà di narrazione, possibile solamente quando ci teniamo ai margini di quel mondo tra il sonno e la veglia, perché fin troppo bene sappiamo come il linguaggio umano della vita diurna abbandoni spesso, e impunemente, le immagini del sogno. Ma quando questo non avviene allora nasce la poesia intesa come fare corpo con il linguaggio, come corpo ritrovato, come narra-azione. E allora la poesia diventa quel linguaggio che va oltre il visibile, nella misura in cui, pur partendo dalla realtà, quella del corpo, il materiale viene meno. Esso viene meno come fatto fotografico, ma obbliga alla realtà del divenire film: il linguaggio delle immagini sonore. E quando la veglia si fa sogno, possiamo tentare di scrivere per ritrovare la voce perduta, quell’urlo della nascita che squarcia il silenzio, quell’urlo all’unisono della madre e del figlio che apre il varco ad una realtà mai ascoltata o vista prima.
Ero una ragazzetta, quando nel mio diario scolastico appuntai questa riflessione: “La materia può produrre il pensiero, ma il pensiero non può produrre la materia. È forse questa la forza insostituibile della materia?”. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, eppure la mia continua ricerca sulla realtà psichica non ha mai potuto prescindere dalla domanda che mi sono posta in quel tempo e in quello spazio corporeo che andavo vivendo. Ora so che la realtà psichica non può prescindere dalla realtà materiale. Ora so che la vita vissuta può rimanere un albero bellissimo e tristissimo, legato ad un passato cristallizzatosi nel presente. Oppure può diventare memoria e, attraverso di lei, modificazione della realtà circostante attraverso la relazione tra fantasia e gesto.
L’albero della vita ritrova i suoi colori in un movimento appena accennato che spalanca le porte della immaginazione, là dove tutto è reale, perché reali sono gli affetti che la sostengono. E allora possiamo finalmente sederci lungo le rive del sogno e, sollevando gli occhi al cielo, ritrovare i cerchi lasciati dal sasso gettato nel fiume, colorati come in un ridente arcobaleno. Per sapere che quell’albero ha trovato una nuova vita nel momento stesso in cui si è liberato da quelle radici che lo nutrivano. Feto e placenta, placenta e feto: l’albero della vita. E poi l’albero si separa dalle sue radici per diventare un’altra cosa, e ogni volta diventa un’altra cosa quando il sonno ci consegna a quelle braccia e a quel seno che ci hanno nutrito e scaldato. Quel fatto che non è più non diventa mancanza nella misura in cui si fa memoria: costruzione di una immagine interna dell’evento vissuto. Ora la radice è il seno della madre. E poi anche questa radice sarà superata e, con essa, la stessa immagine dell’albero.
E in questo superamento che ha in sé il seme della poesia, c’è il nome ritrovato a restituire un rapporto con l’universo, in un gioco di risonanze profonde. Ci sono i ricordi in chiave di violino... che immediatamente si dimenticano quando c’è la certezza della propria realtà umana, materiale e psichica, laddove i suoni, espressione degli affetti, scolpiscono il corpo di chi parla e di chi ascolta. Per questo essi non cadranno nell’oblio. Essi rimarranno vivi dentro di noi, nel nostro presente, dandone un significato profondo che inventa momento dopo momento la strada per il futuro.
Questa invenzione è fantasia, capacità di rappresentazione di quanto è stato dimenticato. Questa invenzione diventa Arte quando si fa memoria storica di immagini in continuo movimento verso il futuro e l’Artista è colui che riesce ad andare oltre il racconto privato per proporre l’Arte della Memoria, quei ricordi in chiave di violino dove immagine e suono si fondono per rappresentare la forma di ricerca più elevata della nostra realtà umana.
BIBLIOGRAFlA
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JACQUES BREL: IL DIRITTO DI SOGNARE di Concetta Turchi. Anno 2003
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Percorsi di cura in terapia psicodinamica. AL CHIARO DI LUNA di Concetta Turchi. Anno 2002
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Luc Besson.
DA ‘LE GRAND BLEU’ A ‘IL QUINTO ELEMENTO’: EVOLUZIONE DI UNA IMMAGINE INTERNA di Francesca Bernardini e Marco Passeggieri. Anno 2002
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SCIENZA E COSCIENZA di Concetta Turchi. Anno 2006
SCIENZA E COSCIENZA
Concetta Turchi
Questo articolo è la Presentazione all’edizione italiana dell’ultimo libro di Jean Le Boulch,
Movimento e sviluppo della persona, tradotto da Claudia Amato ed edito dalla
Associazione Musicalificio Grande Blu (Roma 2006), a cura della Dott. Concetta Turchi.
Movimento e sviluppo della persona, tradotto da Claudia Amato ed edito dalla
Associazione Musicalificio Grande Blu (Roma 2006), a cura della Dott. Concetta Turchi.
La linea del desiderio di Concetta Turchi
Era una giornata di fine estate quando, come nostro solito, discutendo di immagini e di suoni, venne l’idea di tradurre dal francese l’ultima opera di Jean Le Boulch, Mouvement et développement de la personne.
Avevo già avuto modo di conoscere i precedenti suoi lavori ed ero rimasta soprattutto colpita dal modo in cui questa sorta di “guerriero della ricerca” - così lo vedevo - era arrivato a proporre, partendo da uno studio assai accurato dello sviluppo del movimento umano, il termine nuovo di psicocinetica. Aveva colto una evidenza: il movimento umano era difficile da identificare come oggetto totale di ricerca perché frammentato nei rivoli delle discipline più svariate, dalla educazione fisica alla medicina, dalla psicologia alla antropologia, e così via. Le Boulch andava costruendo un nuovo punto di vista e questo spazio nascente, come ogni nascita, aveva reclamato a gran voce il suo nome: da quel momento la psicocinetica si proponeva ed imponeva come scienza del movimento umano.
Ed è proprio sul modo di Le Boulch di arrivare alle formulazioni teoriche che mi piace in primo luogo soffermarmi, perché una scienza degna di tale nome non può non essere esplicativa di una forma di coerenza umana e scientifica. La prassi costruisce la teoria e la teoria struttura la prassi; allo stesso modo del corpo che costruisce il pensiero e il pensiero, pieno del proprio corpo, l’azione. Teoria e prassi sono indissolubili come l’integrità psicocorporea che è alla base del nostro essere nel mondo, ed essere presenti ad esso.
Le Boulch comincia il suo viaggio attraverso il movimento umano come professore di educazione fisica, ma “questa prima esperienza pratica, elaborata attraverso l’abbozzo di una formulazione teorica, mi fece prendere coscienza delle carenze della mia formazione scientifica. Decisi dunque di intraprendere studi universitari che mi permettessero un vero approccio sperimentale... Proseguii nei miei studi di medicina, orientandomi verso la ricerca in fisiologia e riabilitazione funzionale; ma questa sola formazione nelle scienze biologiche presentava il rischio di orientarmi verso un approccio troppo meccanicistico del movimento. Per questo ho, intrapreso una formazione in psicologia, che mi sembrava indispensabile per affrontare lo studio del movimento umano da un punto di vista più globale”.
La vera ricerca teorica impone sempre la coerenza della prassi... e infatti Le Boulch cerca inizialmente delle risposte nei luoghi istituzionali deputati alla ricerca scientifica. Eppure, come affermato da lui stesso in più di una occasione, questi studi di approfondimento accademico sarebbero potuti continuare per il resto della sua vita, senza incontrare una disciplina in grado di avere in sé un punto di vista davvero globale sul movimento umano: quello che evidentemente lui andava cercando e... maturando. Fino a raggiungere, con una limpidezza di pensiero davvero inusuale, il rifiuto nei confronti di certe forme tradizionali e irrisolte di “ricerca” che poggiano le loro fondamenta su quel dualismo platonico anima-corpo che, ripreso e cementato da Cartesio nei secoli successivi, è ancora così tristemente attivo ai nostri giorni.
Visione del mondo parcellizzato che pone le basi logico-razionali del vivere umano, attraverso la eliminazione sistematica, ovvero l’annullamento, di ogni forma psichica espressione di molteplici variazioni. Visione del mondo dissociata che propone la sua azione dissociante nell’ambito di quelle scienze umane che dovrebbero cogliere l’uomo nella sua globalità. Come sostenuto dallo stesso Le Boulch, è proprio il movimento nel mondo che si esprime attraverso l’azione, a dimostrare la fallacità della tesi dualista: “L’atto volontario esige un intervento corporeo sul mondo e sulle cose che possono offrire una resistenza. Nella lotta contro questa resistenza, il corpo può non essere l’organo docile dello spirito; questo aspetto ‘minore’ della persona rivela la sua esistenza nell’azione”.
Queste poche righe chiariscono come l’azione non si limiti ad abitare il corpo. Poiché ogni atto volontario può incespicare nell’inconscio, l’azione umana non può prescindere da una disamina di vari aspetti della realtà personale, ivi compresa quella realtà inconscia alla base delle molte azioni che riecheggiano la sua umanità. La scienza del movimento, pertanto, può esistere solo se si considera il corpo come una totalità primordiale. È sufficiente questo assunto di base per separare la psicocinetica dal behaviourismo: il comportamento umano non può essere sempre descritto nei termini di una risposta ad uno stimolo dato. Per questo, peculiarità della psicocinetica è occuparsi delle condotte umane, manifestazione di quanto un uomo dice e fa.
Tuttavia, anche questo assunto è solo una tappa di un lungo percorso. A rinforzare la dimensione di totalità inscindibile dell’essere umano, Le Boulch introduce un concetto fisiologico importante: quello di organismo. “L’organismo è una struttura indecomponibile di comportamento le cui reazioni sono unificate e ordinate. Per sua stessa natura, l’organismo non è mai a riposo e reagisce sempre agli stimoli ambientali sulla base di un fattore motivazionale interno che diversifica le risposte”. Esiste quindi una stretta relazione tra l’intenzionalità di un essere umano e il suo ambiente. Vedere le cose dal punto di vista dell’organismo, o “organico” che dir si voglia, significa considerare un sistema sotto l’aspetto funzionale, strutturale e storico. L’aspetto funzionale porta a stabilire un nesso tra il movimento e la totalità della condotta, per cui un movimento non è mai isolato dal contesto delle condotte; l’aspetto strutturale racconta la organizzazione dei vari elementi della condotta all’interno di un sistema di rapporti stabili, quindi una condotta ha un significato all’interno della relazione con gli altri; l’aspetto storico, infine, collega gli elementi precedenti in un raccordo di memorie individuali, dato da quell’incontro tra gli uomini che, insieme, decidono di andare oltre la temporalità della loro esistenza. Infatti, al centro della capacità di ogni uomo di fare la Storia, attraverso la costruzione e la realizzazione della sua storia personale, vi è il suo fare e fare immagini.
I movimenti, gli atteggiamenti, la voce di un essere umano, diventano pertanto dei significanti delle motivazioni fondamentali di un organismo; diventano, aggiungerei, le linee solcate per delineare l’immagine interna di un essere umano. Il movimento conduce immediatamente a quel corpo “proprio” portatore di intenzioni e di desideri, quindi a quel “corpo situato corporalmente nel mondo” che prelude all’incontro tra l’immagine corporea di un essere umano e la costruzione dell’immagine del corpo sociale.
Per questo motivo il movimento viene considerato da Le Boulch “uno strumento fondamentale di educazione: è il filo conduttore intorno a cui si forma l’unità della persona, corporea e mentale”. La prassi ha convalidato questa impostazione teorica: un’azione educativa fondata sulla motricità comporta modificazioni durature sia della organizzazione del sistema nervoso centrale che della condotta. Poiché si fa riferimento alla psicomotricità funzionale, la cui peculiarità è data dal corpo come portatore di una soggettività, ritengo sia più corretto parlare di una possibilità di formazione attraverso il movimento, per liberarsi una volta per tutte di quegli aspetti scolastici, istituzionali e istituzionalizzanti, che da sempre avviluppano la parola educazione. Solo quando non vi è più un corpo-oggetto, riemerge quel corpo-soggetto cui deve essere garantita la unità dello sviluppo motorio, affettivo, cognitivo e sociale: la formazione di un individuo.
Sul piano psiconeurofisiologico, a fare da garante di tale sviluppo psicomotorio, vi è da una parte il sistema nervoso energetico-affettivo e dall’altra il sistema nervoso operativo responsabile delle prassie. Un momento fondamentale di tale percorso è rappresentato dalla formazione di quella che Le Boulch chiama funzione di interiorizzazione: “Tale funzione di interiorizzazione, di natura energetica, in quanto collegata ad una forma di attenzione specifica, permette di creare una articolazione tra l’aspetto psicomotorio e quello cognitivo”. Si tratta in realtà di una funzione percettiva specifica, attivata proprio dalla motivazione, che consente di spostare l’attenzione dall’ambiente esterno a quello interno, al proprio corpo. È in questo modo che avverrebbe il passaggio dallo schema corporeo non cosciente nel suo versante energetico-affettivo (la cui base neurologica è il sistema reticolare), alla immagine corporea operativa nel suo versante cognitivo, e non solo cognitivo aggiungerei, che dà luogo alla rappresentazione mentale, in cui le informazioni propriocettive non coscienti corrispondenti allo schema corporeo (quelle interne) si sommano alle informazioni esterocettive (esterne) equivalenti alla totalità della situazione vissuta dal soggetto.
Esiste una corrispondenza tra il tono di base e la componente energetico-affettiva collegata alle esperienze affettive: il cervelletto svolge un ruolo centrale a tale proposito. L’integratore vestibolare, la cui base funzionale risiede appunto nel cervelletto, controlla senza coscienza alcuna, ogni funzione motoria e prepara l’uomo a quel movimento che viene comandato dall’integratore piramidale: da lui dipende come avviene l’esecuzione della azione.
Attraverso il gioco di questi integratori l’uomo potrà soddisfare i suoi bisogni e... molto di più: andare incontro alle sue esigenze e realizzare i suoi desideri. Quel molto di più viene garantito dall’integratore cocleare, che fa la sua comparsa nel corso della filogenesi solo nei mammiferi. È la coclea, poggiata sulla solida base vestibolare (sia l’integratore vestibolare che quello cocleare hanno come punto di riferimento sensoriale l’orecchio interno), a portare all’acquisizione delle capacità specifiche all’essere umano: la verticalizzazione, la liberazione della mano e il linguaggio verbale. Con il completo sviluppo della coclea, l’udito, da fenomeno sensoriale passivo legato alla messa in vibrazione del corpo da parte di una sorgente sonora, si può trasformare in ascolto come atto recettivo, cioè come fenomeno attivo legato al desiderio di mettersi in ascolto del mondo umano. Da questo desiderio di ascoltare nasce il desiderio di comunicare, attraverso ogni mezzo, sia esso motorio che verbale.
In questa ottica “sonora”, l’immagine del corpo si costruisce in funzione della acquisizione del linguaggio, proprio per questo desiderio di comunicare. L’immagine del corpo diverrebbe allora una sorta di scultura sonora derivata dal rimodellamento continuo esercitato dalla propria e dalla altrui voce, attraverso le modificazioni degli stimoli di contatto del corpo da parte del bagno d’aria che lo accarezza e massaggia in continuazione. Nella formazione dell’immagine corporea giocano quindi un ruolo fondamentale gli accadimenti verbali presenti nella relazione con l’altro: il contenuto della parola, il suono carico di affettività, ha la possibilità di operare una trasformazione, di noi stessi e dell’altro. Questo significa che il modo in cui parliamo dipende dalla nostra immagine corporea, ulteriormente modificabile proprio a partire dalle sonorità del nostro e dell’altrui linguaggio.
L’aspetto vocale riporta immediatamente alla sonorità della azione. Di fatto, quando ci muoviamo, produciamo un suono o un rumore a seconda della qualità del movimento. Ma cosa determina la qualità dell’azione sonora?
Fin dall’età neonatale stabiliamo dei collegamenti tra i nostri desideri e le circostanze esterne. Nel neonato le azioni e la voce della madre danno luogo a risposte muscolari e sonore, quasi sempre all’unisono; tali risposte dipenderanno dalla soddisfazione minore o maggiore che egli vivrà nel rapporto con lei. Le variazioni del tono muscolare sono nel neonato, e rimarranno nell’adulto, l’espressione diretta di uno stato emozionale ed affettivo collegato o meno alla soddisfazione del desiderio. “Tono e psichismo sono dunque legati e rappresentano due aspetti di una stessa funzione: la concezione di questa unità fondamentale psicosomatica permette di comprendere come non vi sia una emozione senza una certa espressione somatica tonica”. La continua ricerca del piacere e la possibilità sempre presente di trovare le vie del dolore, potranno inscriversi profondamente nel neonato, nei suoi movimenti, nei suoi gesti e nella sua mimica: saranno le sue risonanze emozionali ad accordarlo empaticamente con l’ambiente, e gli atteggiamenti altrui saranno ascoltati dal suo corpo e risuoneranno letteralmente in lui, attraverso le risposte del tono muscolare e viscerale.
Le Boulch afferma che i movimenti espressivi sono i primi a comparire e costituiranno nel tempo la base secondo cui la persona potrà sentire un corpo proprio nell’attuazione di qualsiasi movimento: è in questo modo che il comportamento di un organismo, da attività parziale di tipo reattivo, si trasforma irreversibilmente in una azione globale che non ha solo la possibilità di adattarsi all’ambiente, ma può avere in sé la possibilità di modificarlo. Tale azione potrà essere di tipo pragmatico, cioè legata ad un utile evidente e riconoscibile, oppure senza alcuno scopo evidente: i movimenti sulla base di questa seconda modalità saranno esclusivamente rivelatori del mondo emozionale di quell’organismo in relazione al suo contesto. Nel mondo degli umani, in quanto espressione di una realtà umana nel suo specifico vissuto, essi diverranno gesto, equilibrio dinamico tra il mondo interno dell’individuo e l’ambiente che va affrontando. “È la qualità specificatamente umana delle cose che si fanno per niente, il piacere dell’azione a prescindere dallo scopo da raggiungere, a rendere il movimento sempre più plastico e meno dipendente da schemi innati; tale indeterminatezza dell’azione motoria è, ad esempio, alla base del gioco, in cui la spontaneità del gesto parla in continuazione di una integrazione psicocorporea dove ricondurre l’espressione a livello del corpo vissuto. Quando l’intenzionalità della comunicazione si appropria del corpo vissuto, il gesto si fa segno, acquistando una potenza di rappresentazione che parla direttamente della fantasia del nostro mondo interno”.
La linea del movimento, che nella sua costruzione cerca la potenza del segno, in questa opera incespica proprio nel linguaggio. Forse per la ricerca sul linguaggio rimasta inevasa? Non ci è dato di sapere. Tuttavia, come ricercatori e scienziati, non possiamo esimerci dall’osservare come una precisione quasi certosina delle parole usate all’interno della terminologia neurofisiologica, non trovi un uguale riscontro allorquando si affrontino tematiche più strettamente “psichiche”. Alludo, ad esempio, al fatto che Le Boulch non si soffermi minimamente a differenziare nei termini i bisogni dalle esigenze: è evidenziato nel testo come il bisogno di “cose” materiali e di “cose” psichiche non siano la stessa cosa, eppure non vi è alcuna diversificazione nel linguaggio.
Le Boulch sottolinea come l’aspetto operativo del movimento definisca l’azione in funzione del soddisfacimento di un bisogno: “Il bisogno di entrare in relazione con il mondo è tanto fondamentale quanto il bisogno di mangiare...”. E continua, “...una risorsa strutturante è rappresentata dal gioco che, per il suo carattere intenzionale, mette in gioco appunto, la globalità delle risorse energetico-affettive della persona”.
Le “cose” materiali sono reali nella loro concretezza. Le “cose” psichiche, reali pur non essendo materiali, alludono a quel latente, in cui l’azione può incespicare, che struttura la verità e la bellezza delle relazioni umane. È esigenza quella di trovare una umana corrispondenza, e non bisogno. È esigenza quella che ha il neonato di svilupparsi nelle sue qualità umane, e non bisogno. L’esigenza, come pure il desiderio, implica quel “fattore psichico”, presente fin dalla nascita, che fa entrare in gioco la relazione con il mondo degli umani. Cosa è questo “fattore psichico” e cosa ha a che vedere con il linguaggio? Provate a seguirmi tra i suoni e le immagini.
Alla nascita, catapultato nel nuovo mondo accecante e rumoroso, il cucciolo di uomo va a cercare, senza sapere, un elemento conosciuto. Nel caos del frastuono, in quel luogo che lo acceca con la sua luminosità, arriva finalmente una voce, la stessa che lo ha accompagnato in quella curiosa sospensione liquida che attutiva ogni colpo, ogni rumore. Quella voce calda e densa di affetti, riconosciuta in un battibaleno per quelle frequenze così diverse dal rumore di fondo, lo riconduce verso un nuovo abbraccio, verso una nuova sospensione che gli restituisce i confini. Solo allora il neonato può chiudere gli occhi su quel mondo esterno, così aggressivo per le sensazioni che gli dà, con la certezza di non farlo sparire. Con la certezza della percezione ritrovata, può costruire il primo ricordo che è anche la prima fantasia umana: “l’immagine dell’inconscio mare calmo”, frutto di quell’immagine sonora, espressione al contempo di una ricerca e di una sanità psichica. Questo Io originario comincia immediatamente la sua ricerca della realtà psichica dell’altro, di cui il suono di una voce è l’espressione reale e non materiale: desidera quella voce e si nutre di lei.
Nella ascesa al Sistema Nervoso Centrale, la sensazione localizzata in uno spazio ha trovato quel tempo che l’ha trasformata in percezione, come possibilità di conoscenza del senso della sensazione: una immagine attuale vissuta si è legata alla miriade di afferenze sensoriali temporalmente date, facendone una immagine-ricordo, attraverso il riconoscimento, fattosi ponte, tra la sensazione passata e quella attuale. In quel riconoscere, la sensazione divenuta percezione, ha trovato nella memoria, suo primo spazio mentale, la prima possibilità di rappresentazione psichica.
L’emozione, aspetto primitivo del sentire, presenta uno stretto legame con il soma - dalle variazioni neurovegetative a quelle del tono muscolare - e si esprime, come abbiamo visto, con due vissuti contrapposti: piacevole-spiacevole. Le emozioni e i loro giochi tessono la tela delle percezioni a seconda della qualità della emozione stessa: tatto, udito, vista si integrano e integrano l’immagine che il bambino si costruisce del mondo. Se l’emozione che accompagna una azione è piacevole, il bambino, ricco di questa soddisfazione, può non vivere come perdita il momento in cui l’essere umano, fonte di quel piacere, non sarà più materialmente presente. Non perderà il suo tempo interno, non vivrà una lacerazione temporale in cui cadere con gli orrori della sua angoscia. Potrà mantenere il ricordo della situazione vissuta grazie a quell’albero neuronale, rigoglioso nelle sue ramificazioni, e ai suoi frutti molecolari succosi di emozioni e di affetti, con cui va costruendo le sue immagini: queste ultime, inizialmente poco definite, si arricchiranno progressivamente, portando alla formazione delle immagini della memoria, significative per la nascita del simbolo, di cui la verbalizzazione e alcune forme di gestualità ne rappresentano l’essenza. Quando la polarità piacere-dispiacere spalanca le porte alla motivazione, tali emozioni si legano ad immagini precise e nascono gli affetti: sia quelli legati all’istinto libidico (desiderio, amore, investimento sessuale) che all’istinto di morte (rabbia, odio). L’affetto ha quindi in sé una capacità di fare immagini che l’emozione non ha.
Parlando di emozioni ed affetti, ecco che si forma immediatamente il nesso con lo schema corporeo e l’immagine corporea. Allo stesso modo della emozione, lo schema corporeo non costruisce immagine alcuna. L’affettività invece dà luogo a quelle rappresentazioni che sono alla base dell’immagine corporea, o dell’immagine interna che dir si voglia, di un individuo. Quindi il passaggio dallo schema corporeo all’immagine corporea implica quella dimensione affettiva che permette l’acquisizione della capacità di rappresentazione. Diventa chiaro, allora, come i bisogni siano collegati allo schema corporeo, mentre i desideri e le esigenze siano in rapporto con la formazione dell’immagine corporea. L’esigenza e il desiderio hanno dunque in sé quel qualcosa di evolutivo che il bisogno non ha. Il bisogno si propone nella sua azione centripeta ed inglobante legata alla sopravvivenza materiale di un individuo o di una specie. L’esigenza trasporta la dimensione centripeta su un’altra dimensione, quella psichica, collegata alle possibilità evolutive dell’essere umano. Il desiderio, infine, dà la vita al movimento portando l’essere umano verso l’altro, verso ciò che è diverso da sé, determinando così l’arricchimento di ciò che lui non è, ma potrà essere grazie alla sua recettività. Esigenze e desideri mettono in gioco la globalità delle risorse energetico-affettive di un individuo, per dirla con le parole di Le Boulch, cosa che non accade coi bisogni.
Tali considerazioni sull’uso delle parole non sono cose di poco conto, se si considera che le parole stesse possono diventare segni al pari delle azioni. Restituire le parole al loro reale significato equivale a restituirle al loro suono possibile, quello della nascita, quello dell’Io originario.
Queste riflessioni teoriche si sono ovviamente tradotte in prassi. Nella traduzione dal testo francese abbiamo voluto dare risalto alle differenze tra bisogni ed esigenze, che peraltro Le Boulch aveva colto pur non nominandole. In fondo anche ai neonati accade di percepire senza potere dire. Sempre per lo stesso motivo, nel rispetto della ricerca dell’Autore, abbiamo preferito utilizzare il termine non cosciente in riferimento alle implicazioni psiconeurofisiologiche, e lasciare il termine di inconscio nei soli casi in cui si fa esplicito riferimento a teorizzazioni precise.
Ed è proprio la presenza sottile e costante della teorizzazione freudiana all’interno di questa opera, che intendo infine affrontare. Mi chiedo, a tale proposito, se non sia proprio questo legame a rendere la terminologia di Le Boulch confusa, a proposito dei “fatti psichici”. Abbiamo già visto come l’emozione sia qualcosa di diverso dall’affetto, poiché implica un passaggio interno che non può essere esemplificato, seguendo le orme freudiane: l’affetto non può essere solo una quantità di energia che accompagna gli eventi della vita psichica. E che dire poi del rapporto tra affetti e rappresentazioni? L’affetto, per Freud, può diventare l’elemento di disorganizzazione, di caos, dell’apparato psichico e alterare la linearità del pensiero. Non siamo forse, ancora una volta, nella scissione di sempre?
L’affetto sovverte l’ordine degli eventi, ci viene detto; eppure noi sappiamo, per una conoscenza che viene dall’inconscio, che gli affetti danno una configurazione musicale agli eventi, regalando le mille possibilità di una rappresentazione. Noi sappiamo, per averlo vissuto, e perché lo continuiamo a vivere attraverso la nostra ricerca del linguaggio e sul linguaggio, che l’armonia delle immagini è naturalmente presente nell’inconscio sano, quello che ha preservato l’Io originario, quello che consente di parlare dell’inconscio come di uno stato della mente: una condizione in cui le variazioni dinamiche di uno stesso substrato organico che si ramifica in tutto il corpo, l’albero nervoso intendo, creano quelle immagini della memoria che cogliamo con il movimento di Psiche e non con gli occhi della ragione. Quando l’inconscio si struttura “topicamente”, tale strutturazione è di per sé stessa patologica, perché alla base di essa vi è quanto è stato rimosso: i ricordi affollano e paralizzano le azioni e, di conseguenza, le immagini si fanno aride e ridondanti. Si costruisce difensivamente un super-Io per combattere gli affetti legati alla pulsione di morte: il controllo degli affetti attraverso i movimenti, divenuti sicari al servizio della pulsione di morte.
“Noi siamo qui per dire no a questa ideologia di un mostro che alberga nell’inconscio, alibi dietro cui si nasconde la follia del controllo onnipotente di tutto ciò che non è razionale, di tutto ciò che non è previsto e prevedibile, di tutto ciò che è umano. (...)
Siamo qui per parlare, e non solo con le parole, di una sanità psichica presente alla nascita di ogni essere umano; nascita che, seppure perduta successivamente in rapporti malati e violenti, può essere ritrovata all’interno di un processo, terapeutico e culturale, che racconti di una cura e di una guarigione possibile”.
L’affermazione di un inconscio perverso, da controllare attraverso il super-Io, rende castrata ogni forma di conoscenza e quindi di scienza umana. Si tratta di un concetto a priori che si para davanti alla conoscenza come un sudario, per ricoprire un corpo immobile che si vuole senza vita. Quel corpo, originariamente vivo e sessuato, può costruire un pensiero ad esso intimamente ed affettivamente connesso, una forma di pensiero non scisso dal corpo che fa di ogni uomo un ricercatore, uno scienziato, e perfino un artista, fin dai primordi della sua presenza nel mondo. La dimensione istintiva porta in sé la distruzione propria e altrui, ci viene ripetuto più e più volte. Si tratta di una menzogna, perché la distruttività dell’uomo non è una condizione istintuale, ma è legata alla castrazione e ai vissuti della rabbia e dell’odio per ciò che non si ha avuto e si aveva il diritto di avere: quella presenza umana, in quanto carica di sessualità ed affettività, che pone le basi per la realizzazione creativa della propria condizione umana.
Quale scienza è quella che sacrifica il proprio bambino, l’Io originario, perché dominato dal principio del piacere, per dare spazio ad un Io fondato sul principio di realtà, dove il pensiero e la memoria, per non parlare dei comportamenti, sono solo attività della coscienza? E un’altra domanda si fa strada: quale potrà mai essere lo sviluppo di una persona, se il fondamento psicologico è in quella formulazione teorica che condanna l’uomo alla scissione, per nascita? Le Boulch sembra avere resistito a Platone e a Cartesio... ma non a Freud. È difficile cogliere la pulsione d’annullamento. Solo l’Io originario, con la sua forza vitale e la sua sessualità, può riuscire nell’impresa di dire no a tutto questo, ad opporre un rifiuto che non si possa confondere in alcun modo con la negazione dell’altro.
Non intendo dilungarmi sulla teoria psicoanalitica freudiana, mentre vorrei riproporre una antica storia, quella del frutto proibito dell’albero della conoscenza nel paradiso terrestre: Eva trasgredisce e Adamo la segue. Trasgrediscono il divieto di quel padre che ha donato loro un luogo perfetto dove possono sì coltivare e custodire, ma non conoscere. Non è lecito conoscere la differenza tra la vita e la morte, tra i bisogni e i desideri, tra la negazione e il rifiuto. Non è lecito fare alcuna differenza. La conoscenza è il vero peccato originale, e un neonato che nasce con la conoscenza dell’inconscio - con l’Io originario, quello della sessualità - è perverso per definizione. E così la scienza onnipotente, dominata dal dio-ragione, tenta di uccidere sul nascere, o nel migliore dei casi, di asservire ogni forma di vitalità emergente che si esprime sempre con un dissenso. Il peccato originale è forse tentare di costruire una propria etica attraverso il no dell’inconscio originario? Noi siamo disposti ad essere cacciati dal paradiso terrestre, perché una teoria psicoanalitica che postula la sanità di ogni essere umano alla nascita ha come prassi il no dell’inconscio, quel rifiuto continuo e tenace nei confronti della distruzione operata in modo scientifico nei confronti della realtà umana.
Il corpo è un modo di essere della mente, ho sentito dire da medici illuminati. Allora anche la psiche, che in esso è contenuta, può essere uno stato della mente. Certamente il mondo di Psiche non ha la ragionevolezza di Apollo, non ha luci nette e contorni marcati; inoltre, in quanto donna, lei ha una viscerale esigenza di rappresentare i vissuti... e gli affetti. Insomma, di fare Arte.
Restituire la psiche alla realtà psichica, sapendo che la mente è lo strumento che permette l’espressione, laddove il seme della creatività espressiva è altrove: la creatività sta in quella mano che si è liberata dal giogo della mente razionale, legata alla materialità delle cose, per dare una immagine a quel suono in grado di restituire al mondo il suo sentire e... il suo desiderio di ascoltare ancora... e ancora.
Se la psiche ricerca e il corpo agisce in continuazione tale ricerca grazie alla organizzazione razionale della mente, la radice della scienza è nell’inconscio e non nella coscienza. Ed è forse per questo che quando gli scienziati parlano di esseri umani sembra quasi che la scienza costruita dall’uomo per l’uomo venga meno. Il fattore umano ha in sé quel “fattore psichico” che, in barba ad ogni forma di pedanteria, ha la curiosa capacità di invalidare ogni metodo classico legato alla scienza comunemente intesa. Infatti, se l’aspetto cognitivo e cosciente può trovare una forma di validazione scientifica nella riproducibilità di un esperimento, come portare tutto ciò nell’ambito umano, dove la riproducibilità di un evento, la ripetitività di un evento è malattia mentale? L’inconscio come stato della mente è creatività e la creatività non dà luogo a riproducibilità alcuna.
Le Boulch conclude il suo libro affermando che “ogni nuovo sapere deve basarsi su conoscenze passate”. E se questa affermazione è vera, non lo è il passaggio successivo: “Non è dunque possibile stabilire una rottura radicale con le vecchie acquisizioni”. Le Boulch aveva la nascita, ma non ha trovato la via dello svezzamento, quella che porta appunto ad un superamento radicale della dipendenza da certe forme di pensiero e di linguaggio che intendono ancorare l’uomo ancora al suo passato di animale. Occorrono resistenza e rifiuto per fare questo passaggio senza ritorno dell’Uomo verso l’Uomo, con la pretesa, ferma e tenera, di solcare quella linea del desiderio affinché egli sia finalmente con il suo linguaggio e per il suo linguaggio.
Avevo già avuto modo di conoscere i precedenti suoi lavori ed ero rimasta soprattutto colpita dal modo in cui questa sorta di “guerriero della ricerca” - così lo vedevo - era arrivato a proporre, partendo da uno studio assai accurato dello sviluppo del movimento umano, il termine nuovo di psicocinetica. Aveva colto una evidenza: il movimento umano era difficile da identificare come oggetto totale di ricerca perché frammentato nei rivoli delle discipline più svariate, dalla educazione fisica alla medicina, dalla psicologia alla antropologia, e così via. Le Boulch andava costruendo un nuovo punto di vista e questo spazio nascente, come ogni nascita, aveva reclamato a gran voce il suo nome: da quel momento la psicocinetica si proponeva ed imponeva come scienza del movimento umano.
Ed è proprio sul modo di Le Boulch di arrivare alle formulazioni teoriche che mi piace in primo luogo soffermarmi, perché una scienza degna di tale nome non può non essere esplicativa di una forma di coerenza umana e scientifica. La prassi costruisce la teoria e la teoria struttura la prassi; allo stesso modo del corpo che costruisce il pensiero e il pensiero, pieno del proprio corpo, l’azione. Teoria e prassi sono indissolubili come l’integrità psicocorporea che è alla base del nostro essere nel mondo, ed essere presenti ad esso.
Le Boulch comincia il suo viaggio attraverso il movimento umano come professore di educazione fisica, ma “questa prima esperienza pratica, elaborata attraverso l’abbozzo di una formulazione teorica, mi fece prendere coscienza delle carenze della mia formazione scientifica. Decisi dunque di intraprendere studi universitari che mi permettessero un vero approccio sperimentale... Proseguii nei miei studi di medicina, orientandomi verso la ricerca in fisiologia e riabilitazione funzionale; ma questa sola formazione nelle scienze biologiche presentava il rischio di orientarmi verso un approccio troppo meccanicistico del movimento. Per questo ho, intrapreso una formazione in psicologia, che mi sembrava indispensabile per affrontare lo studio del movimento umano da un punto di vista più globale”.
La vera ricerca teorica impone sempre la coerenza della prassi... e infatti Le Boulch cerca inizialmente delle risposte nei luoghi istituzionali deputati alla ricerca scientifica. Eppure, come affermato da lui stesso in più di una occasione, questi studi di approfondimento accademico sarebbero potuti continuare per il resto della sua vita, senza incontrare una disciplina in grado di avere in sé un punto di vista davvero globale sul movimento umano: quello che evidentemente lui andava cercando e... maturando. Fino a raggiungere, con una limpidezza di pensiero davvero inusuale, il rifiuto nei confronti di certe forme tradizionali e irrisolte di “ricerca” che poggiano le loro fondamenta su quel dualismo platonico anima-corpo che, ripreso e cementato da Cartesio nei secoli successivi, è ancora così tristemente attivo ai nostri giorni.
Visione del mondo parcellizzato che pone le basi logico-razionali del vivere umano, attraverso la eliminazione sistematica, ovvero l’annullamento, di ogni forma psichica espressione di molteplici variazioni. Visione del mondo dissociata che propone la sua azione dissociante nell’ambito di quelle scienze umane che dovrebbero cogliere l’uomo nella sua globalità. Come sostenuto dallo stesso Le Boulch, è proprio il movimento nel mondo che si esprime attraverso l’azione, a dimostrare la fallacità della tesi dualista: “L’atto volontario esige un intervento corporeo sul mondo e sulle cose che possono offrire una resistenza. Nella lotta contro questa resistenza, il corpo può non essere l’organo docile dello spirito; questo aspetto ‘minore’ della persona rivela la sua esistenza nell’azione”.
Queste poche righe chiariscono come l’azione non si limiti ad abitare il corpo. Poiché ogni atto volontario può incespicare nell’inconscio, l’azione umana non può prescindere da una disamina di vari aspetti della realtà personale, ivi compresa quella realtà inconscia alla base delle molte azioni che riecheggiano la sua umanità. La scienza del movimento, pertanto, può esistere solo se si considera il corpo come una totalità primordiale. È sufficiente questo assunto di base per separare la psicocinetica dal behaviourismo: il comportamento umano non può essere sempre descritto nei termini di una risposta ad uno stimolo dato. Per questo, peculiarità della psicocinetica è occuparsi delle condotte umane, manifestazione di quanto un uomo dice e fa.
Tuttavia, anche questo assunto è solo una tappa di un lungo percorso. A rinforzare la dimensione di totalità inscindibile dell’essere umano, Le Boulch introduce un concetto fisiologico importante: quello di organismo. “L’organismo è una struttura indecomponibile di comportamento le cui reazioni sono unificate e ordinate. Per sua stessa natura, l’organismo non è mai a riposo e reagisce sempre agli stimoli ambientali sulla base di un fattore motivazionale interno che diversifica le risposte”. Esiste quindi una stretta relazione tra l’intenzionalità di un essere umano e il suo ambiente. Vedere le cose dal punto di vista dell’organismo, o “organico” che dir si voglia, significa considerare un sistema sotto l’aspetto funzionale, strutturale e storico. L’aspetto funzionale porta a stabilire un nesso tra il movimento e la totalità della condotta, per cui un movimento non è mai isolato dal contesto delle condotte; l’aspetto strutturale racconta la organizzazione dei vari elementi della condotta all’interno di un sistema di rapporti stabili, quindi una condotta ha un significato all’interno della relazione con gli altri; l’aspetto storico, infine, collega gli elementi precedenti in un raccordo di memorie individuali, dato da quell’incontro tra gli uomini che, insieme, decidono di andare oltre la temporalità della loro esistenza. Infatti, al centro della capacità di ogni uomo di fare la Storia, attraverso la costruzione e la realizzazione della sua storia personale, vi è il suo fare e fare immagini.
I movimenti, gli atteggiamenti, la voce di un essere umano, diventano pertanto dei significanti delle motivazioni fondamentali di un organismo; diventano, aggiungerei, le linee solcate per delineare l’immagine interna di un essere umano. Il movimento conduce immediatamente a quel corpo “proprio” portatore di intenzioni e di desideri, quindi a quel “corpo situato corporalmente nel mondo” che prelude all’incontro tra l’immagine corporea di un essere umano e la costruzione dell’immagine del corpo sociale.
Per questo motivo il movimento viene considerato da Le Boulch “uno strumento fondamentale di educazione: è il filo conduttore intorno a cui si forma l’unità della persona, corporea e mentale”. La prassi ha convalidato questa impostazione teorica: un’azione educativa fondata sulla motricità comporta modificazioni durature sia della organizzazione del sistema nervoso centrale che della condotta. Poiché si fa riferimento alla psicomotricità funzionale, la cui peculiarità è data dal corpo come portatore di una soggettività, ritengo sia più corretto parlare di una possibilità di formazione attraverso il movimento, per liberarsi una volta per tutte di quegli aspetti scolastici, istituzionali e istituzionalizzanti, che da sempre avviluppano la parola educazione. Solo quando non vi è più un corpo-oggetto, riemerge quel corpo-soggetto cui deve essere garantita la unità dello sviluppo motorio, affettivo, cognitivo e sociale: la formazione di un individuo.
Sul piano psiconeurofisiologico, a fare da garante di tale sviluppo psicomotorio, vi è da una parte il sistema nervoso energetico-affettivo e dall’altra il sistema nervoso operativo responsabile delle prassie. Un momento fondamentale di tale percorso è rappresentato dalla formazione di quella che Le Boulch chiama funzione di interiorizzazione: “Tale funzione di interiorizzazione, di natura energetica, in quanto collegata ad una forma di attenzione specifica, permette di creare una articolazione tra l’aspetto psicomotorio e quello cognitivo”. Si tratta in realtà di una funzione percettiva specifica, attivata proprio dalla motivazione, che consente di spostare l’attenzione dall’ambiente esterno a quello interno, al proprio corpo. È in questo modo che avverrebbe il passaggio dallo schema corporeo non cosciente nel suo versante energetico-affettivo (la cui base neurologica è il sistema reticolare), alla immagine corporea operativa nel suo versante cognitivo, e non solo cognitivo aggiungerei, che dà luogo alla rappresentazione mentale, in cui le informazioni propriocettive non coscienti corrispondenti allo schema corporeo (quelle interne) si sommano alle informazioni esterocettive (esterne) equivalenti alla totalità della situazione vissuta dal soggetto.
Esiste una corrispondenza tra il tono di base e la componente energetico-affettiva collegata alle esperienze affettive: il cervelletto svolge un ruolo centrale a tale proposito. L’integratore vestibolare, la cui base funzionale risiede appunto nel cervelletto, controlla senza coscienza alcuna, ogni funzione motoria e prepara l’uomo a quel movimento che viene comandato dall’integratore piramidale: da lui dipende come avviene l’esecuzione della azione.
Attraverso il gioco di questi integratori l’uomo potrà soddisfare i suoi bisogni e... molto di più: andare incontro alle sue esigenze e realizzare i suoi desideri. Quel molto di più viene garantito dall’integratore cocleare, che fa la sua comparsa nel corso della filogenesi solo nei mammiferi. È la coclea, poggiata sulla solida base vestibolare (sia l’integratore vestibolare che quello cocleare hanno come punto di riferimento sensoriale l’orecchio interno), a portare all’acquisizione delle capacità specifiche all’essere umano: la verticalizzazione, la liberazione della mano e il linguaggio verbale. Con il completo sviluppo della coclea, l’udito, da fenomeno sensoriale passivo legato alla messa in vibrazione del corpo da parte di una sorgente sonora, si può trasformare in ascolto come atto recettivo, cioè come fenomeno attivo legato al desiderio di mettersi in ascolto del mondo umano. Da questo desiderio di ascoltare nasce il desiderio di comunicare, attraverso ogni mezzo, sia esso motorio che verbale.
In questa ottica “sonora”, l’immagine del corpo si costruisce in funzione della acquisizione del linguaggio, proprio per questo desiderio di comunicare. L’immagine del corpo diverrebbe allora una sorta di scultura sonora derivata dal rimodellamento continuo esercitato dalla propria e dalla altrui voce, attraverso le modificazioni degli stimoli di contatto del corpo da parte del bagno d’aria che lo accarezza e massaggia in continuazione. Nella formazione dell’immagine corporea giocano quindi un ruolo fondamentale gli accadimenti verbali presenti nella relazione con l’altro: il contenuto della parola, il suono carico di affettività, ha la possibilità di operare una trasformazione, di noi stessi e dell’altro. Questo significa che il modo in cui parliamo dipende dalla nostra immagine corporea, ulteriormente modificabile proprio a partire dalle sonorità del nostro e dell’altrui linguaggio.
L’aspetto vocale riporta immediatamente alla sonorità della azione. Di fatto, quando ci muoviamo, produciamo un suono o un rumore a seconda della qualità del movimento. Ma cosa determina la qualità dell’azione sonora?
Fin dall’età neonatale stabiliamo dei collegamenti tra i nostri desideri e le circostanze esterne. Nel neonato le azioni e la voce della madre danno luogo a risposte muscolari e sonore, quasi sempre all’unisono; tali risposte dipenderanno dalla soddisfazione minore o maggiore che egli vivrà nel rapporto con lei. Le variazioni del tono muscolare sono nel neonato, e rimarranno nell’adulto, l’espressione diretta di uno stato emozionale ed affettivo collegato o meno alla soddisfazione del desiderio. “Tono e psichismo sono dunque legati e rappresentano due aspetti di una stessa funzione: la concezione di questa unità fondamentale psicosomatica permette di comprendere come non vi sia una emozione senza una certa espressione somatica tonica”. La continua ricerca del piacere e la possibilità sempre presente di trovare le vie del dolore, potranno inscriversi profondamente nel neonato, nei suoi movimenti, nei suoi gesti e nella sua mimica: saranno le sue risonanze emozionali ad accordarlo empaticamente con l’ambiente, e gli atteggiamenti altrui saranno ascoltati dal suo corpo e risuoneranno letteralmente in lui, attraverso le risposte del tono muscolare e viscerale.
Le Boulch afferma che i movimenti espressivi sono i primi a comparire e costituiranno nel tempo la base secondo cui la persona potrà sentire un corpo proprio nell’attuazione di qualsiasi movimento: è in questo modo che il comportamento di un organismo, da attività parziale di tipo reattivo, si trasforma irreversibilmente in una azione globale che non ha solo la possibilità di adattarsi all’ambiente, ma può avere in sé la possibilità di modificarlo. Tale azione potrà essere di tipo pragmatico, cioè legata ad un utile evidente e riconoscibile, oppure senza alcuno scopo evidente: i movimenti sulla base di questa seconda modalità saranno esclusivamente rivelatori del mondo emozionale di quell’organismo in relazione al suo contesto. Nel mondo degli umani, in quanto espressione di una realtà umana nel suo specifico vissuto, essi diverranno gesto, equilibrio dinamico tra il mondo interno dell’individuo e l’ambiente che va affrontando. “È la qualità specificatamente umana delle cose che si fanno per niente, il piacere dell’azione a prescindere dallo scopo da raggiungere, a rendere il movimento sempre più plastico e meno dipendente da schemi innati; tale indeterminatezza dell’azione motoria è, ad esempio, alla base del gioco, in cui la spontaneità del gesto parla in continuazione di una integrazione psicocorporea dove ricondurre l’espressione a livello del corpo vissuto. Quando l’intenzionalità della comunicazione si appropria del corpo vissuto, il gesto si fa segno, acquistando una potenza di rappresentazione che parla direttamente della fantasia del nostro mondo interno”.
La linea del movimento, che nella sua costruzione cerca la potenza del segno, in questa opera incespica proprio nel linguaggio. Forse per la ricerca sul linguaggio rimasta inevasa? Non ci è dato di sapere. Tuttavia, come ricercatori e scienziati, non possiamo esimerci dall’osservare come una precisione quasi certosina delle parole usate all’interno della terminologia neurofisiologica, non trovi un uguale riscontro allorquando si affrontino tematiche più strettamente “psichiche”. Alludo, ad esempio, al fatto che Le Boulch non si soffermi minimamente a differenziare nei termini i bisogni dalle esigenze: è evidenziato nel testo come il bisogno di “cose” materiali e di “cose” psichiche non siano la stessa cosa, eppure non vi è alcuna diversificazione nel linguaggio.
Le Boulch sottolinea come l’aspetto operativo del movimento definisca l’azione in funzione del soddisfacimento di un bisogno: “Il bisogno di entrare in relazione con il mondo è tanto fondamentale quanto il bisogno di mangiare...”. E continua, “...una risorsa strutturante è rappresentata dal gioco che, per il suo carattere intenzionale, mette in gioco appunto, la globalità delle risorse energetico-affettive della persona”.
Le “cose” materiali sono reali nella loro concretezza. Le “cose” psichiche, reali pur non essendo materiali, alludono a quel latente, in cui l’azione può incespicare, che struttura la verità e la bellezza delle relazioni umane. È esigenza quella di trovare una umana corrispondenza, e non bisogno. È esigenza quella che ha il neonato di svilupparsi nelle sue qualità umane, e non bisogno. L’esigenza, come pure il desiderio, implica quel “fattore psichico”, presente fin dalla nascita, che fa entrare in gioco la relazione con il mondo degli umani. Cosa è questo “fattore psichico” e cosa ha a che vedere con il linguaggio? Provate a seguirmi tra i suoni e le immagini.
Alla nascita, catapultato nel nuovo mondo accecante e rumoroso, il cucciolo di uomo va a cercare, senza sapere, un elemento conosciuto. Nel caos del frastuono, in quel luogo che lo acceca con la sua luminosità, arriva finalmente una voce, la stessa che lo ha accompagnato in quella curiosa sospensione liquida che attutiva ogni colpo, ogni rumore. Quella voce calda e densa di affetti, riconosciuta in un battibaleno per quelle frequenze così diverse dal rumore di fondo, lo riconduce verso un nuovo abbraccio, verso una nuova sospensione che gli restituisce i confini. Solo allora il neonato può chiudere gli occhi su quel mondo esterno, così aggressivo per le sensazioni che gli dà, con la certezza di non farlo sparire. Con la certezza della percezione ritrovata, può costruire il primo ricordo che è anche la prima fantasia umana: “l’immagine dell’inconscio mare calmo”, frutto di quell’immagine sonora, espressione al contempo di una ricerca e di una sanità psichica. Questo Io originario comincia immediatamente la sua ricerca della realtà psichica dell’altro, di cui il suono di una voce è l’espressione reale e non materiale: desidera quella voce e si nutre di lei.
Nella ascesa al Sistema Nervoso Centrale, la sensazione localizzata in uno spazio ha trovato quel tempo che l’ha trasformata in percezione, come possibilità di conoscenza del senso della sensazione: una immagine attuale vissuta si è legata alla miriade di afferenze sensoriali temporalmente date, facendone una immagine-ricordo, attraverso il riconoscimento, fattosi ponte, tra la sensazione passata e quella attuale. In quel riconoscere, la sensazione divenuta percezione, ha trovato nella memoria, suo primo spazio mentale, la prima possibilità di rappresentazione psichica.
L’emozione, aspetto primitivo del sentire, presenta uno stretto legame con il soma - dalle variazioni neurovegetative a quelle del tono muscolare - e si esprime, come abbiamo visto, con due vissuti contrapposti: piacevole-spiacevole. Le emozioni e i loro giochi tessono la tela delle percezioni a seconda della qualità della emozione stessa: tatto, udito, vista si integrano e integrano l’immagine che il bambino si costruisce del mondo. Se l’emozione che accompagna una azione è piacevole, il bambino, ricco di questa soddisfazione, può non vivere come perdita il momento in cui l’essere umano, fonte di quel piacere, non sarà più materialmente presente. Non perderà il suo tempo interno, non vivrà una lacerazione temporale in cui cadere con gli orrori della sua angoscia. Potrà mantenere il ricordo della situazione vissuta grazie a quell’albero neuronale, rigoglioso nelle sue ramificazioni, e ai suoi frutti molecolari succosi di emozioni e di affetti, con cui va costruendo le sue immagini: queste ultime, inizialmente poco definite, si arricchiranno progressivamente, portando alla formazione delle immagini della memoria, significative per la nascita del simbolo, di cui la verbalizzazione e alcune forme di gestualità ne rappresentano l’essenza. Quando la polarità piacere-dispiacere spalanca le porte alla motivazione, tali emozioni si legano ad immagini precise e nascono gli affetti: sia quelli legati all’istinto libidico (desiderio, amore, investimento sessuale) che all’istinto di morte (rabbia, odio). L’affetto ha quindi in sé una capacità di fare immagini che l’emozione non ha.
Parlando di emozioni ed affetti, ecco che si forma immediatamente il nesso con lo schema corporeo e l’immagine corporea. Allo stesso modo della emozione, lo schema corporeo non costruisce immagine alcuna. L’affettività invece dà luogo a quelle rappresentazioni che sono alla base dell’immagine corporea, o dell’immagine interna che dir si voglia, di un individuo. Quindi il passaggio dallo schema corporeo all’immagine corporea implica quella dimensione affettiva che permette l’acquisizione della capacità di rappresentazione. Diventa chiaro, allora, come i bisogni siano collegati allo schema corporeo, mentre i desideri e le esigenze siano in rapporto con la formazione dell’immagine corporea. L’esigenza e il desiderio hanno dunque in sé quel qualcosa di evolutivo che il bisogno non ha. Il bisogno si propone nella sua azione centripeta ed inglobante legata alla sopravvivenza materiale di un individuo o di una specie. L’esigenza trasporta la dimensione centripeta su un’altra dimensione, quella psichica, collegata alle possibilità evolutive dell’essere umano. Il desiderio, infine, dà la vita al movimento portando l’essere umano verso l’altro, verso ciò che è diverso da sé, determinando così l’arricchimento di ciò che lui non è, ma potrà essere grazie alla sua recettività. Esigenze e desideri mettono in gioco la globalità delle risorse energetico-affettive di un individuo, per dirla con le parole di Le Boulch, cosa che non accade coi bisogni.
Tali considerazioni sull’uso delle parole non sono cose di poco conto, se si considera che le parole stesse possono diventare segni al pari delle azioni. Restituire le parole al loro reale significato equivale a restituirle al loro suono possibile, quello della nascita, quello dell’Io originario.
Queste riflessioni teoriche si sono ovviamente tradotte in prassi. Nella traduzione dal testo francese abbiamo voluto dare risalto alle differenze tra bisogni ed esigenze, che peraltro Le Boulch aveva colto pur non nominandole. In fondo anche ai neonati accade di percepire senza potere dire. Sempre per lo stesso motivo, nel rispetto della ricerca dell’Autore, abbiamo preferito utilizzare il termine non cosciente in riferimento alle implicazioni psiconeurofisiologiche, e lasciare il termine di inconscio nei soli casi in cui si fa esplicito riferimento a teorizzazioni precise.
Ed è proprio la presenza sottile e costante della teorizzazione freudiana all’interno di questa opera, che intendo infine affrontare. Mi chiedo, a tale proposito, se non sia proprio questo legame a rendere la terminologia di Le Boulch confusa, a proposito dei “fatti psichici”. Abbiamo già visto come l’emozione sia qualcosa di diverso dall’affetto, poiché implica un passaggio interno che non può essere esemplificato, seguendo le orme freudiane: l’affetto non può essere solo una quantità di energia che accompagna gli eventi della vita psichica. E che dire poi del rapporto tra affetti e rappresentazioni? L’affetto, per Freud, può diventare l’elemento di disorganizzazione, di caos, dell’apparato psichico e alterare la linearità del pensiero. Non siamo forse, ancora una volta, nella scissione di sempre?
L’affetto sovverte l’ordine degli eventi, ci viene detto; eppure noi sappiamo, per una conoscenza che viene dall’inconscio, che gli affetti danno una configurazione musicale agli eventi, regalando le mille possibilità di una rappresentazione. Noi sappiamo, per averlo vissuto, e perché lo continuiamo a vivere attraverso la nostra ricerca del linguaggio e sul linguaggio, che l’armonia delle immagini è naturalmente presente nell’inconscio sano, quello che ha preservato l’Io originario, quello che consente di parlare dell’inconscio come di uno stato della mente: una condizione in cui le variazioni dinamiche di uno stesso substrato organico che si ramifica in tutto il corpo, l’albero nervoso intendo, creano quelle immagini della memoria che cogliamo con il movimento di Psiche e non con gli occhi della ragione. Quando l’inconscio si struttura “topicamente”, tale strutturazione è di per sé stessa patologica, perché alla base di essa vi è quanto è stato rimosso: i ricordi affollano e paralizzano le azioni e, di conseguenza, le immagini si fanno aride e ridondanti. Si costruisce difensivamente un super-Io per combattere gli affetti legati alla pulsione di morte: il controllo degli affetti attraverso i movimenti, divenuti sicari al servizio della pulsione di morte.
“Noi siamo qui per dire no a questa ideologia di un mostro che alberga nell’inconscio, alibi dietro cui si nasconde la follia del controllo onnipotente di tutto ciò che non è razionale, di tutto ciò che non è previsto e prevedibile, di tutto ciò che è umano. (...)
Siamo qui per parlare, e non solo con le parole, di una sanità psichica presente alla nascita di ogni essere umano; nascita che, seppure perduta successivamente in rapporti malati e violenti, può essere ritrovata all’interno di un processo, terapeutico e culturale, che racconti di una cura e di una guarigione possibile”.
L’affermazione di un inconscio perverso, da controllare attraverso il super-Io, rende castrata ogni forma di conoscenza e quindi di scienza umana. Si tratta di un concetto a priori che si para davanti alla conoscenza come un sudario, per ricoprire un corpo immobile che si vuole senza vita. Quel corpo, originariamente vivo e sessuato, può costruire un pensiero ad esso intimamente ed affettivamente connesso, una forma di pensiero non scisso dal corpo che fa di ogni uomo un ricercatore, uno scienziato, e perfino un artista, fin dai primordi della sua presenza nel mondo. La dimensione istintiva porta in sé la distruzione propria e altrui, ci viene ripetuto più e più volte. Si tratta di una menzogna, perché la distruttività dell’uomo non è una condizione istintuale, ma è legata alla castrazione e ai vissuti della rabbia e dell’odio per ciò che non si ha avuto e si aveva il diritto di avere: quella presenza umana, in quanto carica di sessualità ed affettività, che pone le basi per la realizzazione creativa della propria condizione umana.
Quale scienza è quella che sacrifica il proprio bambino, l’Io originario, perché dominato dal principio del piacere, per dare spazio ad un Io fondato sul principio di realtà, dove il pensiero e la memoria, per non parlare dei comportamenti, sono solo attività della coscienza? E un’altra domanda si fa strada: quale potrà mai essere lo sviluppo di una persona, se il fondamento psicologico è in quella formulazione teorica che condanna l’uomo alla scissione, per nascita? Le Boulch sembra avere resistito a Platone e a Cartesio... ma non a Freud. È difficile cogliere la pulsione d’annullamento. Solo l’Io originario, con la sua forza vitale e la sua sessualità, può riuscire nell’impresa di dire no a tutto questo, ad opporre un rifiuto che non si possa confondere in alcun modo con la negazione dell’altro.
Non intendo dilungarmi sulla teoria psicoanalitica freudiana, mentre vorrei riproporre una antica storia, quella del frutto proibito dell’albero della conoscenza nel paradiso terrestre: Eva trasgredisce e Adamo la segue. Trasgrediscono il divieto di quel padre che ha donato loro un luogo perfetto dove possono sì coltivare e custodire, ma non conoscere. Non è lecito conoscere la differenza tra la vita e la morte, tra i bisogni e i desideri, tra la negazione e il rifiuto. Non è lecito fare alcuna differenza. La conoscenza è il vero peccato originale, e un neonato che nasce con la conoscenza dell’inconscio - con l’Io originario, quello della sessualità - è perverso per definizione. E così la scienza onnipotente, dominata dal dio-ragione, tenta di uccidere sul nascere, o nel migliore dei casi, di asservire ogni forma di vitalità emergente che si esprime sempre con un dissenso. Il peccato originale è forse tentare di costruire una propria etica attraverso il no dell’inconscio originario? Noi siamo disposti ad essere cacciati dal paradiso terrestre, perché una teoria psicoanalitica che postula la sanità di ogni essere umano alla nascita ha come prassi il no dell’inconscio, quel rifiuto continuo e tenace nei confronti della distruzione operata in modo scientifico nei confronti della realtà umana.
Il corpo è un modo di essere della mente, ho sentito dire da medici illuminati. Allora anche la psiche, che in esso è contenuta, può essere uno stato della mente. Certamente il mondo di Psiche non ha la ragionevolezza di Apollo, non ha luci nette e contorni marcati; inoltre, in quanto donna, lei ha una viscerale esigenza di rappresentare i vissuti... e gli affetti. Insomma, di fare Arte.
Restituire la psiche alla realtà psichica, sapendo che la mente è lo strumento che permette l’espressione, laddove il seme della creatività espressiva è altrove: la creatività sta in quella mano che si è liberata dal giogo della mente razionale, legata alla materialità delle cose, per dare una immagine a quel suono in grado di restituire al mondo il suo sentire e... il suo desiderio di ascoltare ancora... e ancora.
Se la psiche ricerca e il corpo agisce in continuazione tale ricerca grazie alla organizzazione razionale della mente, la radice della scienza è nell’inconscio e non nella coscienza. Ed è forse per questo che quando gli scienziati parlano di esseri umani sembra quasi che la scienza costruita dall’uomo per l’uomo venga meno. Il fattore umano ha in sé quel “fattore psichico” che, in barba ad ogni forma di pedanteria, ha la curiosa capacità di invalidare ogni metodo classico legato alla scienza comunemente intesa. Infatti, se l’aspetto cognitivo e cosciente può trovare una forma di validazione scientifica nella riproducibilità di un esperimento, come portare tutto ciò nell’ambito umano, dove la riproducibilità di un evento, la ripetitività di un evento è malattia mentale? L’inconscio come stato della mente è creatività e la creatività non dà luogo a riproducibilità alcuna.
Le Boulch conclude il suo libro affermando che “ogni nuovo sapere deve basarsi su conoscenze passate”. E se questa affermazione è vera, non lo è il passaggio successivo: “Non è dunque possibile stabilire una rottura radicale con le vecchie acquisizioni”. Le Boulch aveva la nascita, ma non ha trovato la via dello svezzamento, quella che porta appunto ad un superamento radicale della dipendenza da certe forme di pensiero e di linguaggio che intendono ancorare l’uomo ancora al suo passato di animale. Occorrono resistenza e rifiuto per fare questo passaggio senza ritorno dell’Uomo verso l’Uomo, con la pretesa, ferma e tenera, di solcare quella linea del desiderio affinché egli sia finalmente con il suo linguaggio e per il suo linguaggio.
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L’INTEGRAZIONE PSICOCORPOREA E LA POSTURA di Giampietro Marcheggiani. Anno 2006.
L’ASCOLTO NELLO SVILUPPO DEL MOVIMENTO UMANO di Giampietro Marcheggiani. Anno 2004.
L’INTEGRAZIONE PSICOCORPOREA E LA POSTURA
Giampietro Marcheggiani
Colori nel vento di Giampietro Marcheggiani
Ho davanti a me l’immagine, semplice nelle sue linee, di un acrobata in equilibrio su di una corda. Essa rimanda ad una conoscenza corporea antica in grado di rinnovarsi continuamente nell’apertura alla dimensione creativa, esclusiva della specie umana, che unisce l’un con l’altro uomini d’altri tempi e luoghi diversi, a formare la sottile linea dove la fantasia fa le sue evoluzioni.
Il movimento da sempre guida l’uomo verso le sue scoperte: egli apprende seguendo la sua curiosità e, attraverso questa via naturale, giunge ad apprendimenti sempre più elaborati. L’elaborazione individuale è stata fondamentale per sviluppare dei veri e propri metodi, anche all’interno di professioni codificate: in questo caso il metodo appreso ha in gran parte sostituito gli apprendimenti naturali ed individuali. Tutto ciò ha indubbiamente comportato notevoli vantaggi nella specializzazione di molti mestieri (basti pensare ai metodi di tessitura dei tappeti, alla lavorazione dei metalli, alle tecniche agricole, ecc.), ma si è sviluppata una sorta di disimpegno nei confronti della possibilità di imparare movimenti specializzati, accessibili a tutti, tramite la via naturale e individuale. Di conseguenza, molte azioni della vita quotidiana, quali il camminare e lo stare in piedi, che solo adesso stanno raggiungendo il terzo stadio, si trovano ad un livello di specializzazione ancora basso.
Nella nostra società continua a perpetrarsi l’ideologia di una scissione tra psiche e corpo, originatasi nel V secolo a.C., per cui la separazione delle attività mentali da quelle manuali innesca dei circoli viziosi che comportano simultaneamente una deformazione posturale e una modificazione della capacità di ascolto. Esistono delle patologie tipiche delle nostre società industrializzate, legate al fattore ambientale: tutte le “comodità” da cui siamo circondati vanno a limitare i nostri movimenti, aumentando la distanza tra noi e il nostro corpo. Le popolazioni africane, ad esempio, pur avendo gravi problemi di sopravvivenza, riescono a mantenere la capacità di apprendere molti modi diversi per fare la stessa cosa. Forse perché per procurarsi il cibo non prendono l’automobile e non si chiudono otto ore tra quattro mura davanti ad un computer; camminano, magari a piedi nudi, siedono a terra, cantano e danzano al ritmo dei tamburi e dormono su superfici irregolari.
Per riprendere il rapporto con la nostra evoluzione potremmo forse imparare a disimparare, per dare al nostro corpo più opportunità di scelta e condurlo verso una postura forse non “perfetta”, ma comunque in grado di esprimere, sempre, un movimento libero e creativo. D’altra parte la postura, intesa come “quella parte della traiettoria di un corpo in movimento da cui ogni spostamento necessariamente inizia e finisce”, è un qualcosa di dinamico che deriva dal continuo aggiustamento posturale: è questa dinamica a consentire il movimento nello spazio.
Contrariamente alla cultura occidentale, gli orientali pensano che la natura sappia trovare da sola l’organizzazione migliore. È curioso scoprire come gli orientali traducano il termine salute con due simboli, Ken e Ko: il primo indica qualcosa che sta diritto o eretto, il secondo significa essere a proprio agio e rilassati. La condizione di salute è connessa al mantenimento della posizione eretta rimanendo rilassati, senza sforzo o fatica. Ogni deformazione posturale è indicativa di qualcosa che nell’organismo non va: per la medicina orientale, quando il Ki (energia vitale) non è libero di viaggiare liberamente nei dodici meridiani del corpo, si instaura la patologia. D’altra parte, anche la medicina occidentale inizia a dare rilievo alla corrispondenza tra modificazioni della postura e patologia.
La ricerca dell’integrazione psicocorporea può essere l’occasione per riportare l’organismo verso una migliore condizione di salute, e non solo... È sorprendente scoprire come una serie specifica di movimenti corporei possa portare alla graduale acquisizione di una sempre maggiore capacità percettiva, e come sia proprio quest’ultima a produrre una trasformazione nel sistema nervoso, tale da modificare stabilmente il nostro modo di fare le cose. Quando impariamo ad usare il corpo in molti modi diversi, quando creiamo delle opzioni che aprono la strada di una scelta corporea, solo allora la postura migliora stabilmente.
D’altra parte è proprio la plasticità cerebrale a differenziare l’uomo dal restante mondo animale. L’uomo è dotato di un sistema nervoso altamente sviluppato che pur presentandosi alla nascita poco maturo rispetto a quello di altri animali, ha in sé grandi potenzialità: il cucciolo dell’uomo è l’unico a nascere con un cervello pari al peso di un quinto del cervello adulto. La necessità di un lungo periodo di maturazione rende da una parte il neonato lungamente e totalmente dipendente dai genitori, dall’altra proprio quel tempo è necessario per sviluppare un sistema nervoso dotato di eccezionali capacità di apprendimento, in grado di renderlo unico tra tutti gli esseri viventi. Gli animali, presentando alla nascita un cervello molto simile nelle dimensioni al cervello adulto, hanno un apprendimento, filogenetico o ereditario caratterizzato da risposte motorie già pronte e disponibili. Gli umani, invece, non tramandandosi alcun apprendimento ereditario, apprendono principalmente attraverso la propria esperienza individuale. Questa è una sostanziale differenza tra animali e uomini: i primi sono prigionieri di risposte stereotipate e prevedibili con capacità di apprendimento molto limitate, mentre gli uomini possono apprendere, modificare e controllare molti movimenti diversi.
Sviluppo ontogenetico
Ogni neonato, per trasformarsi in un uomo, si muove lungo il filo dello sviluppo ontogenetico. In tale percorso, la cellula fecondata si avvia verso un processo che prevede varie trasformazioni, influenzate sia da fattori interni (la programmazione genetica) che esterni (l’ambiente uterino): grazie soprattutto ai primi, avviene la trasformazione prima in embrione e poi in feto.
Nel periodo embrionale, a partire dalla sesta settimana, il tessuto muscolare è direttamente eccitabile e può contrarsi in modo intermittente senza impulso nervoso alcuno. L’innervazione motoria precede quella sensitiva e determina delle variazioni di tono in funzione della postura del feto. I nervi vengono attratti dal loro muscolo corrispondente, come pure ogni organo esercita una attrazione particolare sul nervo che lo attiverà. Quando anche gli organi di senso sono collegati ai centri nervosi, ogni loro eccitazione innesca delle risposte muscolari più o meno differite nel tempo.
Nel periodo fetale, che prende inizio dopo l’ottava settimana, si differenziano sempre più i diversi tessuti e inizia la crescita organica. Grazie alla maturazione del sistema nervoso, che assicura l’unità di funzionamento di tutto l’organismo, il neonato disporrà di un insieme funzionale per affrontare il suo ambiente. In questo periodo l’innervazione motoria è in via di completamento e si passa dalla fase neuro-motoria alla fase senso-motoria. La fase neuro-motoria è caratterizzata da una motricità spontanea, mentre la fase senso-motoria richiede una organizzazione progressiva. Questa evoluzione è legata a vari fattori: sviluppo di zone riflessogene; sviluppo della motricità degli arti; entrata in funzione dei centri superiori con funzione inibitrice. Per garantire una ulteriore maturazione delle strutture è necessario l’esercizio muscolare: a tale riguardo risultano fondamentali i movimenti fetali. “Maturazione ed esercizio sono correlati: attraverso la maturazione le strutture divengono funzionali e l’esercizio che ne deriva comporta una nuova maturazione e la rivelazione di nuove strutture”. A partire dalla nona settimana si hanno i primi comportamenti adattati alla postura, grazie al funzionamento dei canali semi circolari collegati al nervo vestibolare. Il feto sperimenta le sue prime risposte antigravitarie grazie ai movimenti spontanei, ai riflessi di equilibrio, ai riflessi stato-cinetici, ai riflessi di pressione (contrazioni dell’utero). Il sistema nervoso deve essere in grado di canalizzare le informazioni sensoriali, confrontarle con quelle già immagazzinate, ed elaborare delle risposte che agiscano sugli organi effettori. Prima ancora della nascita tutti i meccanismi fisiologici sono funzionanti.
Dopo la nascita, grazie alle nuove esperienze sensoriali e al continuo rimodellamento neuronale, il sistema nervoso avrà la plasticità necessaria per apprendimenti nuovi e sempre più complessi. Infatti, mentre nel periodo intrauterino la spinta genetica era prevalente nello sviluppo, con la nascita c’è una inversione di tendenza e sarà l’ambiente a favorire maggiormente lo sviluppo armonioso del nuovo organismo. Il neonato ha già a disposizione un equipaggiamento motorio che gli garantisce la sopravvivenza, ma questo equipaggiamento deve essere supportato dalla presenza della figura materna dalla quale il bambino dipende completamente. La madre deve essere capace di dare un nutrimento che vada ben oltre gli aspetti materiali: il bambino, infatti, necessita non solo del latte, ma anche del contatto cutaneo e di una voce che lo riscaldi affettivamente. La voce materna, che già lo accompagnava fin dal mondo intrauterino, farà da filo conduttore per tutto il suo futuro sviluppo. Questa intimità, stabilita con la madre e giocata attraverso tutta la sua sensorialità, gli dà la certezza di una presenza stabile nel tempo. In questo continuo contatto corporeo, il bambino è direttamente collegato alla madre attraverso il calore, il contatto cutaneo, gli odori, le parole, i suoni e, da un certo momento in poi, la visione del volto materno. Poiché ogni reazione tonica della madre, traduzione delle sue reazioni emozionali, è vissuta dal bambino attraverso le variazioni del suo stesso tono muscolare, si instaura un vero e proprio dialogo tonico dove il vissuto psichico della madre induce quello del figlio.
Dopo il secondo mese di vita giungono a maturità due funzioni psicomotorie fondamentali: la funzione di vigilanza e la funzione di aggiustamento. Con queste nuove funzioni, il neonato può orientare la sua energia per soddisfare i bisogni alimentari, del sonno e le esigenze di relazione. Quando il bambino ha soddisfatto la tensione provocata dalla fame, raggiunge uno stato di pieno rilassamento che induce il sonno. Esso è quindi il risultato di una esperienza positiva. Forte di queste esperienze, il neonato può dedicarsi alla esplorazione del suo ambiente, per fruire di uno scambio continuo con le persone e con il mondo degli oggetti. In questa esplorazione è guidato dai suoi vissuti corporei che traducono fedelmente la situazione ambientale: se questa è positiva avverte sicurezza, altrimenti avverte insicurezza. Via via che maturano le varie funzioni, anche la coordinazione oculo-manuale si perfeziona sempre più. Con la maturazione delle fibre piramidali, i movimenti della mano diventano più fini e si può accedere alla acquisizione della nozione di rilievo e di profondità. L’aumento della forza muscolare apre l’accesso ai movimenti del tirare e dello spingere, che il bambino userà nell’ascesa verso la stazione eretta. Il bambino riesce, finalmente, ad appropriarsi degli oggetti e tale gratificazione gli permette di inventare nuove soluzioni motorie con le quali trattare gli eventi improvvisi.
Nel primo anno di vita, il bambino passa da uno stato di completa dipendenza dalla figura materna ad uno stato di relativa autonomia. Prima di giungere alla stazione eretta, il bambino impara a stabilizzare la testa sopra le spalle, poi a mettersi seduto, a dondolare stando in ginocchio, a camminare a quattro zampe, sviluppando uno stile personale di coordinazione delle varie parti del corpo.
Passando attraverso questi stadi sperimenta il campo gravitazionale e l’equilibrio. In tutti questi processi di apprendimento, il bambino arricchisce il suo bagaglio di esperienze, come gli accade ad esempio nel camminare carponi, in cui sviluppa la capacità di trasmettere il movimento dai piedi alla testa. A questo proposito, è necessario lasciargli il tempo di provare e riprovare finché venga acquisita la funzione; genitori e parenti frettolosi possono interrompere l’apprendimento naturale, imponendo un tempo materiale che finirà con il compromettere il futuro rapporto con la forza di gravità.
È a questo stadio che il bambino può imparare a sfruttare la forza di gravità per facilitare la sua andatura e renderla leggera; tuttavia, se le tappe vengono bruciate, sarà costretto ad usare molta più forza di quanta necessaria per svolgere le sue attività; ogni difficoltà sarà affrontata seguendo questo schema, determinando di conseguenza aggressività e dispendio di energia. In una situazione siffatta lo stare eretti nel mondo diventa una lotta continua e le acquisizioni successive (parlare, scrivere, leggere) incontreranno mille difficoltà pregiudicando il naturale sviluppo psicomotorio del bambino. Occorre dunque dare al bambino la possibilità di apprendere seguendo il suo ritmo naturale: solo così potrà costruirsi un patrimonio per confrontarsi con il mondo, un mondo in cui non è obbligato a doversi guadagnare l’amore degli altri attraverso le sue azioni. “Un bambino che avesse una simile fortuna potrebbe essere fiducioso che essere nati è una ragione sufficiente per essere amati”.
Con l’acquisizione della stazione eretta, il bambino è pronto per avventurarsi alla scoperta di nuove possibilità motorie. La posizione eretta può essere considerata una stazione neutra, dalla quale ogni azione inizia e termina. Per raggiungere questa stazione, che ha caratteristiche di estrema instabilità e allo stesso tempo di minima inerzia, il bambino ha dovuto allineare tre piramidi rovesciate: la prima ha come vertice i piedi e come base la pelvi, la seconda ha come vertice le vertebre lombari e come base le spalle, la terza ha come vertice le vertebre cervicali e come base la testa. In questo allineamento instabile, il bambino ha più facilità a correre o a camminare piuttosto che a stare fermo: è come se rincorresse continuamente il suo punto di equilibrio, proprio come fa un acrobata nelle sue evoluzioni. Non a caso A. Gesel chiama il periodo di acquisizione della locomozione, l’età dell’acrobata.
Nel secondo e terzo anno di vita, dopo aver raggiunto la stazione eretta, il movimento del bambino diventa una esplorazione continua orientata verso uno scopo: l’appropriazione dell’oggetto. Questo consente il passaggio ad un tipo di apprendimento in cui assumono molta importanza le afferenze visive associate a quelle tatto-cinestetiche. L’ingresso al mondo degli oggetti consente il passaggio dall’apprendimento senso-motorio (per tentativi ed errori) all’apprendimento percettivo-motorio (per insight). L’evoluzione del linguaggio, che assume sempre di più un carattere simbolico, facilita questo passaggio. Nell’apprendimento per tentativi ed errori, il bambino costruisce l’aggiustamento per appropriarsi dell’oggetto (in termini verbali si traduce con la denominazione dell’oggetto). Se si pone un oggetto dentro una scatola, il bambino vorrebbe aprire la scatola, ma è in grado solo di simularlo e, infatti, nomina: “scatola”.
Nell’apprendimento per insight, il bambino riesce ad aprire la scatola perché verbalizza l’azione dicendo: “aprire”. Viene inoltre realizzata una distinzione tra scopo da raggiungere e i mezzi messi in gioco per riuscirvi.
Anche lo sviluppo del linguaggio - che dapprima viene associato ad un volto conosciuto (madre o padre), poi alle situazioni, agli oggetti, e infine agli estranei - contribuisce all’arricchimento del repertorio motorio. A piccoli passi, il bambino si addentra nel mondo che impone le sue regole e i suoi limiti, e sperimenta continue separazioni dalla figura materna. Queste separazioni, vissute come frustrazioni, sono l’occasione per sperimentare un primo livello di autonomia, in cui è possibile dedicarsi sempre più all’esplorazione del modo circostante. Se l’ambiente è stimolante, ne deriva la formazione di un potenziale energetico da cui dipende il desiderio di andare oltre per fare nuove scoperte. La madre gioca un ruolo fondamentale nel rassicurare e stimolare il piccolo a sperimentare.
La possibilità dell’esplorazione consente di rapportarsi al mondo degli oggetti. L’oggetto è ora visto come qualcosa di separato dalla propria attività, ma non è ancora possibile separarlo dallo spazio circostante perché mancano ancora i riferimenti di assi e distanze: si tratta di una “geometria topologica” dove lo spazio rimane ancora interno ad ogni figura e non può essere sintetizzato in uno spazio totale che ingloba altre figure. Il bambino acquisisce vari concetti: vicinanza (mette in relazione due o più oggetti per valutarne la distanza); separazione (distingue due elementi vicini senza confonderli); ordine e successione (riconosce la disposizione relativa delle parti di un oggetto oppure diversi oggetti nell’ambiente disposti in modo costante). Tutto questo consente di apprendere il concetto di apertura e chiusura di una porta e il concetto di contenimento, con il quale riesce a mettere un oggetto in un contenitore.
L’esplorazione dell’oggetto favorisce anche il passaggio da un aggiustamento impulsivo ad uno controllato, in cui il bambino scopre i limiti che l’ambiente impone ai suoi aggiustamenti: è questa l’occasione che consente al bambino di comprendere il significato del NO e, nella misura in cui lo accetta, sarà tanto determinato nel riproporlo quando necessario. Questa è anche l’età in cui, passando da uno schema corporeo non cosciente ad un primo livello di coscienza, inizia a parlare in prima persona. In questo passaggio, grazie alle attività ludiche, diventa forte l’esigenza di comunicare e differenziarsi dagli altri: compaiono i suoi primi NO. La parola resta ancora sullo sfondo della comunicazione, mentre la mimica, il gesto e il suono sono in primo piano. Quando il messaggio orale diventerà dominante, il linguaggio corporeo farà parte dell’aspetto emozionale della comunicazione, costantemente rivelatore, al di là delle parole, del suo vissuto.
Negli apprendimenti successivi, da tre a sei anni, il bambino è meno attratto dagli oggetti e preferisce dirigere l’attenzione sul proprio corpo, per una scoperta analitica. Attraverso la scoperta e la denominazione delle varie parti del corpo, ne prende coscienza e si avvia verso una migliore definizione dell’immagine corporea.
Ora la funzione di aggiustamento è molto più plastica, grazie alla possibilità di reperire dall’ambiente informazioni più precise e dettagliate (vigilanza specifica). I movimenti acquistano spontaneità e naturalezza in quanto sostenuti da una regolazione tonica più precisa. Il bambino ha molta più fiducia nelle proprie possibilità in virtù di una memoria carica di affettività. Scompaiono le tensioni parassite e le sincinesie, e anche la lateralità, tra i 4 e i 5 anni, si stabilizza. Migliorano i gesti compiuti per l’alimentazione, quelli relativi alla pulizia personale, e vi sono nuove acquisizioni motorie collegate con l’attività ludica (andare in bicicletta o sui pattini a rotelle). Lo sviluppo della vigilanza specifica consente di interessarsi non solo al raggiungimento di uno scopo, ma anche alle caratteristiche e alle condizioni dell’ambiente in cui si svolge l’azione. A tale proposito, le attività motorie accompagnate dalla musica rivestono un ruolo centrale per il rinforzo della regolazione ritmica. Tutte le situazioni di sincronizzazione motoria (girotondi cantati, giochi musicali, ecc.) permettono di migliorare la plasticità degli aggiustamenti, determinante per gli apprendimenti sociali. Il carattere collettivo dei giochi musicali e delle danze, consentono al bambino di vivere uno stato di felicità che dona sicurezza e rilassamento. L’associazione tra canto e movimento, così come tra linguaggio e movimento, consente la scoperta di una identità ritmica che collega i movimenti del corpo ai suoni. Diventa così possibile prendere coscienza dello svolgimento della propria azione nel tempo. Questo è un momento cruciale per il bambino, perché deve mettere in relazione le informazioni provenienti dal suo corpo con quelle provenienti dallo spazio: ora ha come riferimento il proprio corpo e non più quello della madre o degli oggetti e, attraverso l’esplorazione tattile, va conoscendo le forme geometriche: acquisisce una “geometria euclidea”. Questa esplorazione consente il passaggio dall’immagine riproduttrice all’immagine anticipatrice, la quale garantisce un controllo sempre migliore degli aggiustamenti corporei.
Nella età scolare le evoluzioni più importanti riguardano l’apprendimento della scrittura e della lettura, In questo periodo lo schema corporeo, divenuto cosciente, servirà da supporto per l’immagine corporea. L’intervento cognitivo è finalizzato allo scopo da raggiungere o alla modificazione di alcuni dettagli d’esecuzione, anche se le modalità di esecuzione del movimento restano ancora a livello non cosciente.
L’azione è ora eseguita con maggiore fiducia, grazie all’aumento dell’equilibrio energetico degli atteggiamenti tonici e posturali, con ripercussioni positive sull’aspetto emozionale ed affettivo. Attraverso i giochi con le regole, il bambino impara a partecipare con il gruppo per la realizzazione di compiti comuni. Viene superato l’egocentrismo e vengono apprese nuove competenze sociali. L’accesso a questo decentramento facilita un maggior controllo della funzione energetica che deve potersi equilibrare con il desiderio di superare gli altri senza sfociare in aggressività. Attraverso le attività di cooperazione si struttura “l’Io sociale” e si sviluppano ulteriormente le competenze cognitive.
Le informazioni sensoriali, trattate a diversi livelli del sistema nervoso, vengono raccolte, integrate ed elaborate, per realizzazioni motorie sempre più complesse. Il livello emozionale della condotta collega costantemente il soma alla psiche: ciò avviene grazie alla funzione tonica che esteriorizza il vissuto psichico attraverso reazioni posturali, gestuali e mimiche. Nei futuri aggiustamenti motori, il bambino scopre le modalità di azione più favorevoli per raggiungere uno scopo, prendendo così coscienza della possibilità di programmare le sue azioni. Diventa allora possibile dis-sociare i vari automatismi globali per intervenire nei dettagli di esecuzione. A questo punto il movimento ha la possibilità di diventare creativo perché il bambino, seguendo il proprio desiderio, definisce da solo i suoi scopi. “La creatività si fonda dunque sull’espressività, nella misura in cui il movimento nasce da un’esigenza interiore”. Per questo la spontaneità va sempre ricercata e rinforzata. Fin da piccolo, il bambino sperimenta, attraverso il gioco simbolico, una danza spontanea in cui poter vivere una vera liberazione armoniosa e ritmica del movimento. Le attività con la musica, le attività sportive, ma soprattutto quelle artistiche e di espressione (come la danza), consentono di sollecitare maggiormente la partecipazione totale del corpo. Viene acquisita l’immagine anticipatoria dove il corpo diventa esso stesso un oggetto che può essere immaginato in uno spazio e in un tempo diverso. Si apre la possibilità della rappresentazione mentale che consente di prevedere spostamenti, velocità e traiettorie, e di immaginare il corpo in movimento. Con questa possibilità si abbandona il tipo di apprendimento primario per accedere all’apprendimento di tipo secondario (Tab. 1).
Il periodo dell’adolescenza sancisce l’ingresso nella società adulta e quindi il confronto con le regole imposte dalla collettività. Si tratta di un periodo molto delicato nel quale l’adolescente giunge alla maturazione sia biologica che sociale.
Mentre la maturità biologica è scandita dai processi ormonali, quella sociale deve essere fortemente incoraggiata dalla famiglia e dall’ambiente socioculturale. La pubertà è dominata dalle trasformazioni, sia sul piano morfologico che energetico. Le trasformazioni morfologiche, che interessano lo sviluppo sessuale, l’accrescimento della statura e l’aumento della forza muscolare, determinano un ritorno allo stadio narcisistico, necessario per accettare tali trasformazioni del corpo: per non perdere l’identità corporea, l’adolescente deve poter esercitare la sua autonomia motoria, che rafforza la coerenza e il potere verso l’ambiente. Il sistema energetico, influenzato dagli steroidi (Il testosterone e l’estradiolo sono gli ormoni rispettivamente maschili e femminili) i quali agiscono sul sistema reticolare diffuso, va incontro ad un potenziamento che si manifesta attraverso un aumento dell’attività motoria e attraverso una maggiore reattività emozionale (suscettibilità, instabilità, irritabilità).
Il movimento svolge pertanto un ruolo determinante per la regolazione dell’energia. Esiste un livello energetico di attivazione ottimale (livello del tono ottimale), che corrisponde ad una energia orientata, dove l’attività è diretta ad uno scopo. Quando il livello energetico supera la soglia, si determina una energia diffusa che innesca reazioni motorie riflesse esplosive e non controllate (sindrome ipercinetica). L’equilibrio tonico, e quindi energetico, passa per il soddisfacimento del bisogno o per la riuscita di uno scopo. Nel bambino piccolo i bisogni sono strettamente legati alla sopravvivenza mentre, con lo sviluppo cognitivo, diventano esigenza di autonomia ed efficienza.
La ricerca della propria identità viene favorita da situazioni di espressione scenica, dalla danza, dalle tecniche corporee e dalla pratica delle attività sportive. Attraverso il confronto con gli altri, l’adolescente acquisisce la sua identità sociale: saranno le esperienze accumulate durante tutto il suo sviluppo a guidare il ragazzo verso quelle scelte che potranno garantirgli l’autonomia sociale corrispondente alla piena maturità delle facoltà psicofisiche.
Una volta raggiunto un elevato grado di funzionamento, la struttura umana è capace di fare cose impensabili: le evoluzioni di un trapezista, le prodezze di uno scalatore, gli equilibrismi di un funambolo, le apnee dei cercatori di perle e molto altro ancora. Affinché ciò che si ritiene, spesso ideologicamente, impossibile possa divenire possibile e il difficile diventare facile, è necessario raggiungere lo “stato potente”. Tale stato, che si realizza con la piena maturità delle funzioni mentali e corporee, è caratterizzato da una condizione in cui tutti gli atti compiuti sono semplici e diretti, per quanto complessa e inaspettata possa essere la situazione. La persona ha quella prontezza e immediatezza per riprendersi da qualsiasi perturbazione improvvisa, sia essa mentale, emotiva o di tipo meccanico. Lo “stato potente” corrisponde a quella postura eretta assicurata non dalla “stabilità statica, ma dalla facilità di aggiustamento dinamico alla posizione di massima energia potenziale”. In tale posizione il tono muscolare è ridotto al minimo per garantire tutti i vantaggi dell’equilibrio instabile. A questa stazione dinamica il sistema ritorna ogni volta, prima di ripartire verso un nuovo movimento, per recuperare la propria coordinazione e riaggiustarsi rispetto al campo gravitazionale, riallacciandosi alla temporalità dell’atto. Lo “stato potente” è quindi una particolare condizione del corpo e della mente a partire dal quale il movimento può essere espresso con la massima efficienza e il minimo dispendio energetico. Questa condizione determina un portamento del corpo dove non è necessario compiere alcun movimento preliminare prima di intraprendere un nuovo atto: si può passare facilmente dalla posizione eretta al camminare e al correre. L’azione è sempre reversibile, nel senso che può essere invertita in qualsiasi momento, qualora le circostanze lo richiedano.
La postura eretta può essere potenzialmente acquisita da ogni persona che abbia raggiunto la piena maturità delle funzioni. Tale condizione, tuttavia, non è frequente, perché durante lo sviluppo si può perdere per varie cause la capacità di accomodamento all’ambiente, per cui la persona finisce col rispondere alle sollecitazioni ambientali sempre allo stesso modo, creando delle abitudini motorie stereotipate: si innesca uno schema ansiogeno in cui il sistema nervoso, in perenne stato di allarme, organizza delle risposte motorie per attutire le continue cadute psicologiche, con il conseguente aumento di tono dei muscoli flessori, che tendono a chiudere il corpo e a provocare uno squilibrio in tutto l’allineamento corporeo: la zona lombare della schiena risponde aumentando la sua curvatura, diventando così sempre più vulnerabile, mentre la parte alta si chiude aumentando la cifosi fisiologica.
Percepire la paura in una situazione di pericolo è un fattore protettivo per l’uomo: Il cuore aumenta le pulsazioni, aumenta la sudorazione, il sangue è deviato verso cuore e muscoli, le pupille si dilatano, il respiro si blocca, i muscoli flessori si contraggono (la scarica di adrenalina aumenta l’attività simpatica del sistema nervoso). Tutto ciò prepara a una reazione di fuga o di attacco. La reazione alla caduta del neonato è simile: contrazione dei muscoli addominali, apnea e contrazione generale dei flessori che allontanano la testa da terra. Il bambino si chiude a riccio proteggendo la testa, questo permettere il contatto con la terra nel punto più arcuato e flessibile della colonna. La forza del colpo viene scomposta in una spinta tangenziale lungo la spina dorsale per essere assorbita da ossa, legamenti e muscoli; altrimenti verrebbe trasmessa agli organi interni procurando la morte.
Quando queste reazioni originariamente funzionali divengono fisse, la colonna vertebrale si stabilizza in una posizione vanamente difensiva che sottopone tutto l’organismo ad un continuo sforzo per mantenersi eretto: il soggetto vive nel suo ambiente in uno stato di totale passività e chiusura che anticipa di gran lunga il naturale processo di invecchiamento.
Nella nostra società non si pensa all’invecchiamento come ad un processo fisiologico, ma come ad un fatto patologico. In realtà un corpo integrato acquisisce maggiore resistenza e il logorìo dato dal trascorrere degli anni si distribuisce in modo uniforme in tutti i distretti corporei, senza debilitazione delle funzioni. Anche l’invecchiamento può diventare un processo creativo, se l’esistenza dell’uomo non diventa un conflitto perenne con sé stesso e con il suo ambiente.
Verso l’integrazione ...
È possibile recuperare la postura eretta “potente”? Una voce perduta? Una vitalità perduta? La risposta a queste domande è sicuramente affermativa, qualora si intervenga con un lavoro di integrazione psicocorporea. Nel metodo ideato da Moshe Feldenkrais si dà molta importanza alla qualità del movimento: aumentare la sensibilità cinestetica, il nostro “sesto senso”, può far sentire le più piccole differenze di peso o di pressione, se la forza impiegata per fare un movimento è la minima indispensabile per compierlo. Quando ad esempio solleviamo un vaso, una valigia o un oggetto molto pesante, non riusciamo a percepire se una farfalla si posa su di esso; quando invece solleviamo una foglia, riusciamo ad avvertire quel piccolo aumento di peso provocato dal tocco di una farfalla che vi si posa. Per la legge di Weber-Fechner, “la differenza di intensità di uno stimolo (I) che produce la minima differenza percepibile di sensazione (S) ha sempre lo stesso rapporto con lo stimolo intero (I)”. Questa stessa legge ci dice che più forza impieghiamo per un movimento e meno sensibilità abbiamo: quindi, per aumentare la sensibilità cinestetica è necessario togliere quella parte di forza superflua che appesantisce il gesto. Recuperata la sensibilità, il movimento può compiersi in modo semplice, elegante ed efficiente. Nell’acquisire questa sensibilità è possibile liberare dei punti nodali del nostro corpo, vere e proprie stazioni dove la forza del movimento deve poter viaggiare liberamente. Se vi è un blocco a questi livelli, il flusso di energia non può viaggiare liberamente e, di conseguenza, alcune stazioni soffrono per maggior traffico mentre altre si deteriorano per il mancato uso.
Questi punti nodali corrispondono alle tre piramidi rovesciate che il bambino deve allineare durante la sua ascesa verso la stazione eretta.
La prima piramide ha come base la testa, punto cardine della risposta antigravitaria di tutto l’organismo. Essa è dotata di telerecettori disposti nel capo che riguardano gli organi della sensibilità specifica (occhi, orecchie, naso) e sono responsabili di un buon allineamento verticale corrispondente all’allineamento orizzontale degli orecchi e degli occhi. Quando la postura si deforma, la testa è la prima ad esserne influenzata, come accade ad esempio durante una caduta che innesca automaticamente un atteggiamento di difesa. La libertà dei movimenti della testa corrisponde alla libertà di tutti i movimenti del corpo. Questo è facilmente verificabile “nel processo dell’onda” in cui, esercitando una pressione da supini, con le gambe piegate e i piedi a terra, si mette in movimento tutta la colonna vertebrale fino alla testa: quanto più questa riesce a muoversi passivamente, tanto più è libera. Altra stazione nodale è rappresentata dal cingolo scapolare, dal quale origina la seconda piramide che ha come punto cardine la clavicola, chiave della postura, perché è da lei che dipende l’assetto della scapola che altrimenti cadrebbe in avanti (scapola alata). La clavicola è l’osso di raccordo tra la parte posteriore e la parte anteriore del corpo. II cingolo scapolare è quindi un punto molto delicato perché deve equilibrarsi su un unico sostegno: la colonna vertebrale. Quando i primati sono passati dalla quadrupedia al bipedismo, le braccia hanno perduto la loro funzione di sostegno, con la relativa possibilità di far fluire la contro-pressione dalle braccia alle scapole e a tutta la colonna fino alle gambe. Le scapole corrono il rischio di diventare il luogo dove si accumulano tutte le tensioni e le emozioni che non trovano espressione psichica. In questo modo la parte dorsale della colonna, già fisiologicamente meno mobile, può diventare sempre più pigra e rigida. A farne le spese sono le zone più mobili della schiena (zona cervicale e lombare) che sono sottoposte ad un superlavoro. Se, invece, le scapole sono libere di scorrere lungo le costole, queste permettono alla colonna dorsale di partecipare attivamente al movimento dell’intera colonna vertebrale.
Scendendo lungo la colonna incontriamo l’ultima piramide da allineare, quella che ha come base il bacino e come vertice i piedi. Il bacino è l’osso più grande che abbiamo ed è quindi intuitiva la sua basilare funzione nel dare origine ai movimenti; non a caso tutti i muscoli più grandi del corpo (quadricipite, addominali, bicipite femorale, glutei) prendono origine o si inseriscono nel bacino. Ogni movimento fluido e armonioso dovrebbe originare dal bacino, funzionante come una sorta di motore attivatore: quando il bacino è libero di muoversi, la colonna vertebrale può trasmettere il movimento alla testa, e così la libertà della testa dipende dalla libertà del bacino e viceversa. Inoltre, dai movimenti del bacino dipende anche la possibilità di un respiro più libero e profondo, che si realizza attraverso il moto ondulatorio impresso dall’osso pubico: quando il pube viene spinto in avanti l’espirazione viene facilitata, mentre il movimento indietro del pube facilita l’immissione di aria nei polmoni. La libertà del bacino è dunque fondamentale per avere un corpo integrato con l’ambiente. Nel bacino vengono smistate sia le forze provenienti dall’alto (il peso del corpo) che quelle provenienti dal basso (la contropressione esercitata dalla terra sui piedi). Affinché le forze vengano ben distribuite, occorre avere una buona elasticità delle caviglie, direttamente collegate alle ginocchia e al bacino. Allentare la tensione delle caviglie vuoi dire ridurre la tensione delle ginocchia che possono far pendere liberamente il bacino e allentare la tensione nella zona lombare della colonna.
Ogni attività svolta sulla terra è soggetta ad una forza invisibile costantemente presente: la forza di gravità. Questa forza, fondamentale per la vita, assicura il funzionamento del nostro organismo, dà forma al corpo e consente il movimento.
Ogni essere vivente si aggiusta al campo gravitazionale per rendere il movimento facile ed economico. Se non si riesce a sfruttare la forza di gravità, il movimento viene compiuto con più forza del necessario provocando, con il tempo, danni alla struttura osteoarticolare. Alcune ricerche della NASA hanno dimostrato come, se si rimane in assenza di gravità troppo a lungo (oltre 4 mesi), le ossa vadano incontro a danni permanenti. È anche vero, però, che un eccessivo impulso sulla struttura ossea può provocare danni. Alcune ricerche hanno evidenziato come il contatto repentino del piede a terra generi un carico di impulsi ad alta frequenza che si ripercuote su tutto l’arto inferiore fino alla parte superiore del corpo. In particolare, si verifica il fenomeno del overuse che genera durante la locomozione un aumento delle tensioni nelle strutture biologiche (ossa, articolazioni, muscoli). Si è osservato che la maggior parte delle persone durante il passo prende contatto con il suolo mediante l’appoggio del tallone, che genera un primo picco di forza verticale che poi si attenua per formare un secondo picco, prima che il piede si stacchi da terra. Questa forza, che dal basso si propaga verso le strutture sovrastanti, viene ammortizzata in parte dal cuscinetto del tallone, poi da tutta la gamba. Si è visto come lo smorzamento di questa forza sia direttamente proporzionale alla elasticità del sistema. Quindi una struttura rigida non riesce ad attenuare sufficientemente tale forza che propagandosi può generare lesioni a livello vertebrale.
Occorre trovare la giusta pressione che consente all’osso di restare in buona salute. Per Ruthy Alon, tale pressione deve essere data ad una certa intensità e ad un certo ritmo affinché il cervello la possa riconoscere.
La pressione giusta, infatti, consente all’osso di ricevere quella stimolazione in grado di nutrirlo per renderlo forte e sano. Questo può accadere se ad esempio si cammina in modo organico, facendo partecipare al movimento tutto il corpo. Ciò consente alla pressione ritmica impressa dai piedi sulla terra, di ricevere la contro-pressione (dalla terra verso i piedi) che viene distribuita in tutta la struttura ossea attraversando le gambe, la colonna vertebrale, le spalle e la testa. In questo modo tutto il corpo può farsi cullare, durante la deambulazione, dalla forza che nutre lo scheletro rendendolo più forte ed eretto. Recuperata la postura eretta, l’uomo può esprimere tutte le sue potenzialità e può accadere che cambi il modo di respirare, di ascoltare e di parlare. Tutto l’organismo è allora pervaso da una forza energetica che si apre verso il confronto, verso il nuovo e il diverso.
Sperimentazione
Vista l’importanza dell’integrazione psicocorporea per recuperare una condizione di salute di tutto l’organismo, ci siamo proposti di verificare:
Questa ricerca è stata l’occasione per sperimentare un approccio motorio globale sulla persona (metodo Feldenkrais e metodo Ossa per la vita® di Ruthy Alon). Le lezioni proposte avevano come obiettivo quello di far apprendere un modo diverso di ascoltare e di utilizzare il proprio corpo. Dopo ogni lezione le persone si sentivano diverse, più erette, con lo sguardo verso l’orizzonte, con il respiro regolare e... sorridenti. Era possibile toccare con mano la plasticità del sistema nervoso, il quale puntualmente rispondeva alle sollecitazioni date. Tutto ciò era realizzato attraverso movimenti semplici, fatti senza sforzo o fatica, e con lunghe pause di ascolto per verificare i cambiamenti avvenuti.
Una attività corporea così eseguita somiglia molto alla modalità di apprendimento del bambino. Con questa regressione motoria diventa possibile aumentare la propria percezione corporea, ed è questa a consentire una vera trasformazione dell’organismo. I risultati di questo studio consentono di confermare come, aumentando la consapevolezza corporea, si possa intervenire sugli automatismi non coscienti che regolano la postura e gli schemi motori. Questo consente di ristabilire un allineamento corporeo spontaneo e naturale; rendere il movimento economico ed efficiente; potenziare la capacità di ascolto e con essa l’emissione vocale; migliorare il respiro e ripristinare l’equilibrio omeostatico; rendere la struttura ossea forte ed elastica. Tutto ciò conduce ad una postura più funzionale dove i sintomi dolorosi tendono ad attenuarsi in virtù di un miglior uso del proprio corpo. Migliorando la postura si riequilibra il tono di base che è in stretta relazione con l’aspetto psichico della persona.
Un lavoro corporeo, che consideri la totalità dell’individuo, apre le porte a nuove possibilità in grado di riportare gradualmente e senza sforzo l’organismo verso una migliore qualità della vita. Le persone diventano finalmente libere di scegliere altre modalità di azione senza averne coscienza, perché hanno ampliato le loro possibilità psicocorporee. Questo è il primo passo per liberarsi dell’immagine di malato che spesso è radicata in loro, e per riprendere il cammino, con la corretta postura, verso un processo di ricerca e formazione continua volta alla piena realizzazione dei propri desideri.
Il movimento da sempre guida l’uomo verso le sue scoperte: egli apprende seguendo la sua curiosità e, attraverso questa via naturale, giunge ad apprendimenti sempre più elaborati. L’elaborazione individuale è stata fondamentale per sviluppare dei veri e propri metodi, anche all’interno di professioni codificate: in questo caso il metodo appreso ha in gran parte sostituito gli apprendimenti naturali ed individuali. Tutto ciò ha indubbiamente comportato notevoli vantaggi nella specializzazione di molti mestieri (basti pensare ai metodi di tessitura dei tappeti, alla lavorazione dei metalli, alle tecniche agricole, ecc.), ma si è sviluppata una sorta di disimpegno nei confronti della possibilità di imparare movimenti specializzati, accessibili a tutti, tramite la via naturale e individuale. Di conseguenza, molte azioni della vita quotidiana, quali il camminare e lo stare in piedi, che solo adesso stanno raggiungendo il terzo stadio, si trovano ad un livello di specializzazione ancora basso.
Nella nostra società continua a perpetrarsi l’ideologia di una scissione tra psiche e corpo, originatasi nel V secolo a.C., per cui la separazione delle attività mentali da quelle manuali innesca dei circoli viziosi che comportano simultaneamente una deformazione posturale e una modificazione della capacità di ascolto. Esistono delle patologie tipiche delle nostre società industrializzate, legate al fattore ambientale: tutte le “comodità” da cui siamo circondati vanno a limitare i nostri movimenti, aumentando la distanza tra noi e il nostro corpo. Le popolazioni africane, ad esempio, pur avendo gravi problemi di sopravvivenza, riescono a mantenere la capacità di apprendere molti modi diversi per fare la stessa cosa. Forse perché per procurarsi il cibo non prendono l’automobile e non si chiudono otto ore tra quattro mura davanti ad un computer; camminano, magari a piedi nudi, siedono a terra, cantano e danzano al ritmo dei tamburi e dormono su superfici irregolari.
Per riprendere il rapporto con la nostra evoluzione potremmo forse imparare a disimparare, per dare al nostro corpo più opportunità di scelta e condurlo verso una postura forse non “perfetta”, ma comunque in grado di esprimere, sempre, un movimento libero e creativo. D’altra parte la postura, intesa come “quella parte della traiettoria di un corpo in movimento da cui ogni spostamento necessariamente inizia e finisce”, è un qualcosa di dinamico che deriva dal continuo aggiustamento posturale: è questa dinamica a consentire il movimento nello spazio.
Contrariamente alla cultura occidentale, gli orientali pensano che la natura sappia trovare da sola l’organizzazione migliore. È curioso scoprire come gli orientali traducano il termine salute con due simboli, Ken e Ko: il primo indica qualcosa che sta diritto o eretto, il secondo significa essere a proprio agio e rilassati. La condizione di salute è connessa al mantenimento della posizione eretta rimanendo rilassati, senza sforzo o fatica. Ogni deformazione posturale è indicativa di qualcosa che nell’organismo non va: per la medicina orientale, quando il Ki (energia vitale) non è libero di viaggiare liberamente nei dodici meridiani del corpo, si instaura la patologia. D’altra parte, anche la medicina occidentale inizia a dare rilievo alla corrispondenza tra modificazioni della postura e patologia.
La ricerca dell’integrazione psicocorporea può essere l’occasione per riportare l’organismo verso una migliore condizione di salute, e non solo... È sorprendente scoprire come una serie specifica di movimenti corporei possa portare alla graduale acquisizione di una sempre maggiore capacità percettiva, e come sia proprio quest’ultima a produrre una trasformazione nel sistema nervoso, tale da modificare stabilmente il nostro modo di fare le cose. Quando impariamo ad usare il corpo in molti modi diversi, quando creiamo delle opzioni che aprono la strada di una scelta corporea, solo allora la postura migliora stabilmente.
D’altra parte è proprio la plasticità cerebrale a differenziare l’uomo dal restante mondo animale. L’uomo è dotato di un sistema nervoso altamente sviluppato che pur presentandosi alla nascita poco maturo rispetto a quello di altri animali, ha in sé grandi potenzialità: il cucciolo dell’uomo è l’unico a nascere con un cervello pari al peso di un quinto del cervello adulto. La necessità di un lungo periodo di maturazione rende da una parte il neonato lungamente e totalmente dipendente dai genitori, dall’altra proprio quel tempo è necessario per sviluppare un sistema nervoso dotato di eccezionali capacità di apprendimento, in grado di renderlo unico tra tutti gli esseri viventi. Gli animali, presentando alla nascita un cervello molto simile nelle dimensioni al cervello adulto, hanno un apprendimento, filogenetico o ereditario caratterizzato da risposte motorie già pronte e disponibili. Gli umani, invece, non tramandandosi alcun apprendimento ereditario, apprendono principalmente attraverso la propria esperienza individuale. Questa è una sostanziale differenza tra animali e uomini: i primi sono prigionieri di risposte stereotipate e prevedibili con capacità di apprendimento molto limitate, mentre gli uomini possono apprendere, modificare e controllare molti movimenti diversi.
Sviluppo ontogenetico
Ogni neonato, per trasformarsi in un uomo, si muove lungo il filo dello sviluppo ontogenetico. In tale percorso, la cellula fecondata si avvia verso un processo che prevede varie trasformazioni, influenzate sia da fattori interni (la programmazione genetica) che esterni (l’ambiente uterino): grazie soprattutto ai primi, avviene la trasformazione prima in embrione e poi in feto.
Nel periodo embrionale, a partire dalla sesta settimana, il tessuto muscolare è direttamente eccitabile e può contrarsi in modo intermittente senza impulso nervoso alcuno. L’innervazione motoria precede quella sensitiva e determina delle variazioni di tono in funzione della postura del feto. I nervi vengono attratti dal loro muscolo corrispondente, come pure ogni organo esercita una attrazione particolare sul nervo che lo attiverà. Quando anche gli organi di senso sono collegati ai centri nervosi, ogni loro eccitazione innesca delle risposte muscolari più o meno differite nel tempo.
Nel periodo fetale, che prende inizio dopo l’ottava settimana, si differenziano sempre più i diversi tessuti e inizia la crescita organica. Grazie alla maturazione del sistema nervoso, che assicura l’unità di funzionamento di tutto l’organismo, il neonato disporrà di un insieme funzionale per affrontare il suo ambiente. In questo periodo l’innervazione motoria è in via di completamento e si passa dalla fase neuro-motoria alla fase senso-motoria. La fase neuro-motoria è caratterizzata da una motricità spontanea, mentre la fase senso-motoria richiede una organizzazione progressiva. Questa evoluzione è legata a vari fattori: sviluppo di zone riflessogene; sviluppo della motricità degli arti; entrata in funzione dei centri superiori con funzione inibitrice. Per garantire una ulteriore maturazione delle strutture è necessario l’esercizio muscolare: a tale riguardo risultano fondamentali i movimenti fetali. “Maturazione ed esercizio sono correlati: attraverso la maturazione le strutture divengono funzionali e l’esercizio che ne deriva comporta una nuova maturazione e la rivelazione di nuove strutture”. A partire dalla nona settimana si hanno i primi comportamenti adattati alla postura, grazie al funzionamento dei canali semi circolari collegati al nervo vestibolare. Il feto sperimenta le sue prime risposte antigravitarie grazie ai movimenti spontanei, ai riflessi di equilibrio, ai riflessi stato-cinetici, ai riflessi di pressione (contrazioni dell’utero). Il sistema nervoso deve essere in grado di canalizzare le informazioni sensoriali, confrontarle con quelle già immagazzinate, ed elaborare delle risposte che agiscano sugli organi effettori. Prima ancora della nascita tutti i meccanismi fisiologici sono funzionanti.
Dopo la nascita, grazie alle nuove esperienze sensoriali e al continuo rimodellamento neuronale, il sistema nervoso avrà la plasticità necessaria per apprendimenti nuovi e sempre più complessi. Infatti, mentre nel periodo intrauterino la spinta genetica era prevalente nello sviluppo, con la nascita c’è una inversione di tendenza e sarà l’ambiente a favorire maggiormente lo sviluppo armonioso del nuovo organismo. Il neonato ha già a disposizione un equipaggiamento motorio che gli garantisce la sopravvivenza, ma questo equipaggiamento deve essere supportato dalla presenza della figura materna dalla quale il bambino dipende completamente. La madre deve essere capace di dare un nutrimento che vada ben oltre gli aspetti materiali: il bambino, infatti, necessita non solo del latte, ma anche del contatto cutaneo e di una voce che lo riscaldi affettivamente. La voce materna, che già lo accompagnava fin dal mondo intrauterino, farà da filo conduttore per tutto il suo futuro sviluppo. Questa intimità, stabilita con la madre e giocata attraverso tutta la sua sensorialità, gli dà la certezza di una presenza stabile nel tempo. In questo continuo contatto corporeo, il bambino è direttamente collegato alla madre attraverso il calore, il contatto cutaneo, gli odori, le parole, i suoni e, da un certo momento in poi, la visione del volto materno. Poiché ogni reazione tonica della madre, traduzione delle sue reazioni emozionali, è vissuta dal bambino attraverso le variazioni del suo stesso tono muscolare, si instaura un vero e proprio dialogo tonico dove il vissuto psichico della madre induce quello del figlio.
Dopo il secondo mese di vita giungono a maturità due funzioni psicomotorie fondamentali: la funzione di vigilanza e la funzione di aggiustamento. Con queste nuove funzioni, il neonato può orientare la sua energia per soddisfare i bisogni alimentari, del sonno e le esigenze di relazione. Quando il bambino ha soddisfatto la tensione provocata dalla fame, raggiunge uno stato di pieno rilassamento che induce il sonno. Esso è quindi il risultato di una esperienza positiva. Forte di queste esperienze, il neonato può dedicarsi alla esplorazione del suo ambiente, per fruire di uno scambio continuo con le persone e con il mondo degli oggetti. In questa esplorazione è guidato dai suoi vissuti corporei che traducono fedelmente la situazione ambientale: se questa è positiva avverte sicurezza, altrimenti avverte insicurezza. Via via che maturano le varie funzioni, anche la coordinazione oculo-manuale si perfeziona sempre più. Con la maturazione delle fibre piramidali, i movimenti della mano diventano più fini e si può accedere alla acquisizione della nozione di rilievo e di profondità. L’aumento della forza muscolare apre l’accesso ai movimenti del tirare e dello spingere, che il bambino userà nell’ascesa verso la stazione eretta. Il bambino riesce, finalmente, ad appropriarsi degli oggetti e tale gratificazione gli permette di inventare nuove soluzioni motorie con le quali trattare gli eventi improvvisi.
Nel primo anno di vita, il bambino passa da uno stato di completa dipendenza dalla figura materna ad uno stato di relativa autonomia. Prima di giungere alla stazione eretta, il bambino impara a stabilizzare la testa sopra le spalle, poi a mettersi seduto, a dondolare stando in ginocchio, a camminare a quattro zampe, sviluppando uno stile personale di coordinazione delle varie parti del corpo.
Passando attraverso questi stadi sperimenta il campo gravitazionale e l’equilibrio. In tutti questi processi di apprendimento, il bambino arricchisce il suo bagaglio di esperienze, come gli accade ad esempio nel camminare carponi, in cui sviluppa la capacità di trasmettere il movimento dai piedi alla testa. A questo proposito, è necessario lasciargli il tempo di provare e riprovare finché venga acquisita la funzione; genitori e parenti frettolosi possono interrompere l’apprendimento naturale, imponendo un tempo materiale che finirà con il compromettere il futuro rapporto con la forza di gravità.
È a questo stadio che il bambino può imparare a sfruttare la forza di gravità per facilitare la sua andatura e renderla leggera; tuttavia, se le tappe vengono bruciate, sarà costretto ad usare molta più forza di quanta necessaria per svolgere le sue attività; ogni difficoltà sarà affrontata seguendo questo schema, determinando di conseguenza aggressività e dispendio di energia. In una situazione siffatta lo stare eretti nel mondo diventa una lotta continua e le acquisizioni successive (parlare, scrivere, leggere) incontreranno mille difficoltà pregiudicando il naturale sviluppo psicomotorio del bambino. Occorre dunque dare al bambino la possibilità di apprendere seguendo il suo ritmo naturale: solo così potrà costruirsi un patrimonio per confrontarsi con il mondo, un mondo in cui non è obbligato a doversi guadagnare l’amore degli altri attraverso le sue azioni. “Un bambino che avesse una simile fortuna potrebbe essere fiducioso che essere nati è una ragione sufficiente per essere amati”.
Con l’acquisizione della stazione eretta, il bambino è pronto per avventurarsi alla scoperta di nuove possibilità motorie. La posizione eretta può essere considerata una stazione neutra, dalla quale ogni azione inizia e termina. Per raggiungere questa stazione, che ha caratteristiche di estrema instabilità e allo stesso tempo di minima inerzia, il bambino ha dovuto allineare tre piramidi rovesciate: la prima ha come vertice i piedi e come base la pelvi, la seconda ha come vertice le vertebre lombari e come base le spalle, la terza ha come vertice le vertebre cervicali e come base la testa. In questo allineamento instabile, il bambino ha più facilità a correre o a camminare piuttosto che a stare fermo: è come se rincorresse continuamente il suo punto di equilibrio, proprio come fa un acrobata nelle sue evoluzioni. Non a caso A. Gesel chiama il periodo di acquisizione della locomozione, l’età dell’acrobata.
Nel secondo e terzo anno di vita, dopo aver raggiunto la stazione eretta, il movimento del bambino diventa una esplorazione continua orientata verso uno scopo: l’appropriazione dell’oggetto. Questo consente il passaggio ad un tipo di apprendimento in cui assumono molta importanza le afferenze visive associate a quelle tatto-cinestetiche. L’ingresso al mondo degli oggetti consente il passaggio dall’apprendimento senso-motorio (per tentativi ed errori) all’apprendimento percettivo-motorio (per insight). L’evoluzione del linguaggio, che assume sempre di più un carattere simbolico, facilita questo passaggio. Nell’apprendimento per tentativi ed errori, il bambino costruisce l’aggiustamento per appropriarsi dell’oggetto (in termini verbali si traduce con la denominazione dell’oggetto). Se si pone un oggetto dentro una scatola, il bambino vorrebbe aprire la scatola, ma è in grado solo di simularlo e, infatti, nomina: “scatola”.
Nell’apprendimento per insight, il bambino riesce ad aprire la scatola perché verbalizza l’azione dicendo: “aprire”. Viene inoltre realizzata una distinzione tra scopo da raggiungere e i mezzi messi in gioco per riuscirvi.
Anche lo sviluppo del linguaggio - che dapprima viene associato ad un volto conosciuto (madre o padre), poi alle situazioni, agli oggetti, e infine agli estranei - contribuisce all’arricchimento del repertorio motorio. A piccoli passi, il bambino si addentra nel mondo che impone le sue regole e i suoi limiti, e sperimenta continue separazioni dalla figura materna. Queste separazioni, vissute come frustrazioni, sono l’occasione per sperimentare un primo livello di autonomia, in cui è possibile dedicarsi sempre più all’esplorazione del modo circostante. Se l’ambiente è stimolante, ne deriva la formazione di un potenziale energetico da cui dipende il desiderio di andare oltre per fare nuove scoperte. La madre gioca un ruolo fondamentale nel rassicurare e stimolare il piccolo a sperimentare.
La possibilità dell’esplorazione consente di rapportarsi al mondo degli oggetti. L’oggetto è ora visto come qualcosa di separato dalla propria attività, ma non è ancora possibile separarlo dallo spazio circostante perché mancano ancora i riferimenti di assi e distanze: si tratta di una “geometria topologica” dove lo spazio rimane ancora interno ad ogni figura e non può essere sintetizzato in uno spazio totale che ingloba altre figure. Il bambino acquisisce vari concetti: vicinanza (mette in relazione due o più oggetti per valutarne la distanza); separazione (distingue due elementi vicini senza confonderli); ordine e successione (riconosce la disposizione relativa delle parti di un oggetto oppure diversi oggetti nell’ambiente disposti in modo costante). Tutto questo consente di apprendere il concetto di apertura e chiusura di una porta e il concetto di contenimento, con il quale riesce a mettere un oggetto in un contenitore.
L’esplorazione dell’oggetto favorisce anche il passaggio da un aggiustamento impulsivo ad uno controllato, in cui il bambino scopre i limiti che l’ambiente impone ai suoi aggiustamenti: è questa l’occasione che consente al bambino di comprendere il significato del NO e, nella misura in cui lo accetta, sarà tanto determinato nel riproporlo quando necessario. Questa è anche l’età in cui, passando da uno schema corporeo non cosciente ad un primo livello di coscienza, inizia a parlare in prima persona. In questo passaggio, grazie alle attività ludiche, diventa forte l’esigenza di comunicare e differenziarsi dagli altri: compaiono i suoi primi NO. La parola resta ancora sullo sfondo della comunicazione, mentre la mimica, il gesto e il suono sono in primo piano. Quando il messaggio orale diventerà dominante, il linguaggio corporeo farà parte dell’aspetto emozionale della comunicazione, costantemente rivelatore, al di là delle parole, del suo vissuto.
Negli apprendimenti successivi, da tre a sei anni, il bambino è meno attratto dagli oggetti e preferisce dirigere l’attenzione sul proprio corpo, per una scoperta analitica. Attraverso la scoperta e la denominazione delle varie parti del corpo, ne prende coscienza e si avvia verso una migliore definizione dell’immagine corporea.
Ora la funzione di aggiustamento è molto più plastica, grazie alla possibilità di reperire dall’ambiente informazioni più precise e dettagliate (vigilanza specifica). I movimenti acquistano spontaneità e naturalezza in quanto sostenuti da una regolazione tonica più precisa. Il bambino ha molta più fiducia nelle proprie possibilità in virtù di una memoria carica di affettività. Scompaiono le tensioni parassite e le sincinesie, e anche la lateralità, tra i 4 e i 5 anni, si stabilizza. Migliorano i gesti compiuti per l’alimentazione, quelli relativi alla pulizia personale, e vi sono nuove acquisizioni motorie collegate con l’attività ludica (andare in bicicletta o sui pattini a rotelle). Lo sviluppo della vigilanza specifica consente di interessarsi non solo al raggiungimento di uno scopo, ma anche alle caratteristiche e alle condizioni dell’ambiente in cui si svolge l’azione. A tale proposito, le attività motorie accompagnate dalla musica rivestono un ruolo centrale per il rinforzo della regolazione ritmica. Tutte le situazioni di sincronizzazione motoria (girotondi cantati, giochi musicali, ecc.) permettono di migliorare la plasticità degli aggiustamenti, determinante per gli apprendimenti sociali. Il carattere collettivo dei giochi musicali e delle danze, consentono al bambino di vivere uno stato di felicità che dona sicurezza e rilassamento. L’associazione tra canto e movimento, così come tra linguaggio e movimento, consente la scoperta di una identità ritmica che collega i movimenti del corpo ai suoni. Diventa così possibile prendere coscienza dello svolgimento della propria azione nel tempo. Questo è un momento cruciale per il bambino, perché deve mettere in relazione le informazioni provenienti dal suo corpo con quelle provenienti dallo spazio: ora ha come riferimento il proprio corpo e non più quello della madre o degli oggetti e, attraverso l’esplorazione tattile, va conoscendo le forme geometriche: acquisisce una “geometria euclidea”. Questa esplorazione consente il passaggio dall’immagine riproduttrice all’immagine anticipatrice, la quale garantisce un controllo sempre migliore degli aggiustamenti corporei.
Nella età scolare le evoluzioni più importanti riguardano l’apprendimento della scrittura e della lettura, In questo periodo lo schema corporeo, divenuto cosciente, servirà da supporto per l’immagine corporea. L’intervento cognitivo è finalizzato allo scopo da raggiungere o alla modificazione di alcuni dettagli d’esecuzione, anche se le modalità di esecuzione del movimento restano ancora a livello non cosciente.
L’azione è ora eseguita con maggiore fiducia, grazie all’aumento dell’equilibrio energetico degli atteggiamenti tonici e posturali, con ripercussioni positive sull’aspetto emozionale ed affettivo. Attraverso i giochi con le regole, il bambino impara a partecipare con il gruppo per la realizzazione di compiti comuni. Viene superato l’egocentrismo e vengono apprese nuove competenze sociali. L’accesso a questo decentramento facilita un maggior controllo della funzione energetica che deve potersi equilibrare con il desiderio di superare gli altri senza sfociare in aggressività. Attraverso le attività di cooperazione si struttura “l’Io sociale” e si sviluppano ulteriormente le competenze cognitive.
Le informazioni sensoriali, trattate a diversi livelli del sistema nervoso, vengono raccolte, integrate ed elaborate, per realizzazioni motorie sempre più complesse. Il livello emozionale della condotta collega costantemente il soma alla psiche: ciò avviene grazie alla funzione tonica che esteriorizza il vissuto psichico attraverso reazioni posturali, gestuali e mimiche. Nei futuri aggiustamenti motori, il bambino scopre le modalità di azione più favorevoli per raggiungere uno scopo, prendendo così coscienza della possibilità di programmare le sue azioni. Diventa allora possibile dis-sociare i vari automatismi globali per intervenire nei dettagli di esecuzione. A questo punto il movimento ha la possibilità di diventare creativo perché il bambino, seguendo il proprio desiderio, definisce da solo i suoi scopi. “La creatività si fonda dunque sull’espressività, nella misura in cui il movimento nasce da un’esigenza interiore”. Per questo la spontaneità va sempre ricercata e rinforzata. Fin da piccolo, il bambino sperimenta, attraverso il gioco simbolico, una danza spontanea in cui poter vivere una vera liberazione armoniosa e ritmica del movimento. Le attività con la musica, le attività sportive, ma soprattutto quelle artistiche e di espressione (come la danza), consentono di sollecitare maggiormente la partecipazione totale del corpo. Viene acquisita l’immagine anticipatoria dove il corpo diventa esso stesso un oggetto che può essere immaginato in uno spazio e in un tempo diverso. Si apre la possibilità della rappresentazione mentale che consente di prevedere spostamenti, velocità e traiettorie, e di immaginare il corpo in movimento. Con questa possibilità si abbandona il tipo di apprendimento primario per accedere all’apprendimento di tipo secondario (Tab. 1).
Nell’Apprendimento primario (fino a 8-9 anni) vengono esercitate due tipi di percezioni: la senso-motoria e la percettivo-motoria. Nello stadio delle reazioni circolari, supporto dell’intelligenza senso-motoria, il bambino assicura, attraverso la ripetizione del movimento, la ridondanza delle informazioni che consentono la formazione degli automatismi plastici. Negli apprendimenti successivi si passa all’intelligenza percettivo-motoria. In particolare, nell’apprendimento per tentativi ed errori, è l’emisfero destro a garantire delle risposte rapide ed efficaci, nella misura in cui è sollecitato da una vigilanza di tipo globale. Quando la vigilanza assume un carattere più specifico, si passa all’apprendimento per insight, specifico dell’emisfero sinistro. In questo tipo di apprendimento, il bambino è cosciente solo dello scopo da raggiungere, mentre restano a livello non cosciente le modalità per raggiungere lo scopo. Si tratta di un supporto fondamentale per lo sviluppo della persona perché, pur rimanendo un tipo di motricità non cosciente, la scelta degli automatismi è sempre selezionata in base ad un vissuto emotivo. L’apprendimento primario è un primo approccio globale del movimento, fondamentale anche in età adulta quando si vuole imparare una nuova abilità.
Nell’Apprendimento secondario l’intenzionalità riguarda non solo lo scopo da raggiungere, ma anche la scelta delle procedure messe in gioco. L’apprendimento secondario prevede tre fasi. La prima è quella dell’esplorazione, in cui il soggetto, messo a contatto con la situazione da risolvere, attraverso vari tentativi, arriva alla comprensione della situazione senza modelli precostituiti: in questa fase prevalgono le informazioni esterocettive. Nella seconda fase, della dis-sociazione, vengono trovate le risposte motorie adeguate alla situazione, grazie ad una rappresentazione mentale del modello, sul quale si effettua il rimodellamento delle strutture preesistenti. Nell’ultima fase, della interiorizzazione, la sequenza del gesto è controllata dalla corteccia, pur rimanendo allo stato incosciente: in questo caso sono le informazioni propriocettive a consentire la regolazione del gesto. L’invasione della corteccia nella sfera subcorticale crea in principio rigidità, tensione e goffaggine; nelle fasi successive i movimenti accessori e le tensioni inutili vengono eliminate attraverso una buona regolazione propriocettiva di origine extrapiramidale. L’apprendimento così appreso, nella fase di interiorizzazione, sarà plastico e facilmente modificabile.
Nell’Apprendimento secondario l’intenzionalità riguarda non solo lo scopo da raggiungere, ma anche la scelta delle procedure messe in gioco. L’apprendimento secondario prevede tre fasi. La prima è quella dell’esplorazione, in cui il soggetto, messo a contatto con la situazione da risolvere, attraverso vari tentativi, arriva alla comprensione della situazione senza modelli precostituiti: in questa fase prevalgono le informazioni esterocettive. Nella seconda fase, della dis-sociazione, vengono trovate le risposte motorie adeguate alla situazione, grazie ad una rappresentazione mentale del modello, sul quale si effettua il rimodellamento delle strutture preesistenti. Nell’ultima fase, della interiorizzazione, la sequenza del gesto è controllata dalla corteccia, pur rimanendo allo stato incosciente: in questo caso sono le informazioni propriocettive a consentire la regolazione del gesto. L’invasione della corteccia nella sfera subcorticale crea in principio rigidità, tensione e goffaggine; nelle fasi successive i movimenti accessori e le tensioni inutili vengono eliminate attraverso una buona regolazione propriocettiva di origine extrapiramidale. L’apprendimento così appreso, nella fase di interiorizzazione, sarà plastico e facilmente modificabile.
Tab. 1
Il periodo dell’adolescenza sancisce l’ingresso nella società adulta e quindi il confronto con le regole imposte dalla collettività. Si tratta di un periodo molto delicato nel quale l’adolescente giunge alla maturazione sia biologica che sociale.
Mentre la maturità biologica è scandita dai processi ormonali, quella sociale deve essere fortemente incoraggiata dalla famiglia e dall’ambiente socioculturale. La pubertà è dominata dalle trasformazioni, sia sul piano morfologico che energetico. Le trasformazioni morfologiche, che interessano lo sviluppo sessuale, l’accrescimento della statura e l’aumento della forza muscolare, determinano un ritorno allo stadio narcisistico, necessario per accettare tali trasformazioni del corpo: per non perdere l’identità corporea, l’adolescente deve poter esercitare la sua autonomia motoria, che rafforza la coerenza e il potere verso l’ambiente. Il sistema energetico, influenzato dagli steroidi (Il testosterone e l’estradiolo sono gli ormoni rispettivamente maschili e femminili) i quali agiscono sul sistema reticolare diffuso, va incontro ad un potenziamento che si manifesta attraverso un aumento dell’attività motoria e attraverso una maggiore reattività emozionale (suscettibilità, instabilità, irritabilità).
Il movimento svolge pertanto un ruolo determinante per la regolazione dell’energia. Esiste un livello energetico di attivazione ottimale (livello del tono ottimale), che corrisponde ad una energia orientata, dove l’attività è diretta ad uno scopo. Quando il livello energetico supera la soglia, si determina una energia diffusa che innesca reazioni motorie riflesse esplosive e non controllate (sindrome ipercinetica). L’equilibrio tonico, e quindi energetico, passa per il soddisfacimento del bisogno o per la riuscita di uno scopo. Nel bambino piccolo i bisogni sono strettamente legati alla sopravvivenza mentre, con lo sviluppo cognitivo, diventano esigenza di autonomia ed efficienza.
La ricerca della propria identità viene favorita da situazioni di espressione scenica, dalla danza, dalle tecniche corporee e dalla pratica delle attività sportive. Attraverso il confronto con gli altri, l’adolescente acquisisce la sua identità sociale: saranno le esperienze accumulate durante tutto il suo sviluppo a guidare il ragazzo verso quelle scelte che potranno garantirgli l’autonomia sociale corrispondente alla piena maturità delle facoltà psicofisiche.
Una volta raggiunto un elevato grado di funzionamento, la struttura umana è capace di fare cose impensabili: le evoluzioni di un trapezista, le prodezze di uno scalatore, gli equilibrismi di un funambolo, le apnee dei cercatori di perle e molto altro ancora. Affinché ciò che si ritiene, spesso ideologicamente, impossibile possa divenire possibile e il difficile diventare facile, è necessario raggiungere lo “stato potente”. Tale stato, che si realizza con la piena maturità delle funzioni mentali e corporee, è caratterizzato da una condizione in cui tutti gli atti compiuti sono semplici e diretti, per quanto complessa e inaspettata possa essere la situazione. La persona ha quella prontezza e immediatezza per riprendersi da qualsiasi perturbazione improvvisa, sia essa mentale, emotiva o di tipo meccanico. Lo “stato potente” corrisponde a quella postura eretta assicurata non dalla “stabilità statica, ma dalla facilità di aggiustamento dinamico alla posizione di massima energia potenziale”. In tale posizione il tono muscolare è ridotto al minimo per garantire tutti i vantaggi dell’equilibrio instabile. A questa stazione dinamica il sistema ritorna ogni volta, prima di ripartire verso un nuovo movimento, per recuperare la propria coordinazione e riaggiustarsi rispetto al campo gravitazionale, riallacciandosi alla temporalità dell’atto. Lo “stato potente” è quindi una particolare condizione del corpo e della mente a partire dal quale il movimento può essere espresso con la massima efficienza e il minimo dispendio energetico. Questa condizione determina un portamento del corpo dove non è necessario compiere alcun movimento preliminare prima di intraprendere un nuovo atto: si può passare facilmente dalla posizione eretta al camminare e al correre. L’azione è sempre reversibile, nel senso che può essere invertita in qualsiasi momento, qualora le circostanze lo richiedano.
La postura eretta può essere potenzialmente acquisita da ogni persona che abbia raggiunto la piena maturità delle funzioni. Tale condizione, tuttavia, non è frequente, perché durante lo sviluppo si può perdere per varie cause la capacità di accomodamento all’ambiente, per cui la persona finisce col rispondere alle sollecitazioni ambientali sempre allo stesso modo, creando delle abitudini motorie stereotipate: si innesca uno schema ansiogeno in cui il sistema nervoso, in perenne stato di allarme, organizza delle risposte motorie per attutire le continue cadute psicologiche, con il conseguente aumento di tono dei muscoli flessori, che tendono a chiudere il corpo e a provocare uno squilibrio in tutto l’allineamento corporeo: la zona lombare della schiena risponde aumentando la sua curvatura, diventando così sempre più vulnerabile, mentre la parte alta si chiude aumentando la cifosi fisiologica.
Percepire la paura in una situazione di pericolo è un fattore protettivo per l’uomo: Il cuore aumenta le pulsazioni, aumenta la sudorazione, il sangue è deviato verso cuore e muscoli, le pupille si dilatano, il respiro si blocca, i muscoli flessori si contraggono (la scarica di adrenalina aumenta l’attività simpatica del sistema nervoso). Tutto ciò prepara a una reazione di fuga o di attacco. La reazione alla caduta del neonato è simile: contrazione dei muscoli addominali, apnea e contrazione generale dei flessori che allontanano la testa da terra. Il bambino si chiude a riccio proteggendo la testa, questo permettere il contatto con la terra nel punto più arcuato e flessibile della colonna. La forza del colpo viene scomposta in una spinta tangenziale lungo la spina dorsale per essere assorbita da ossa, legamenti e muscoli; altrimenti verrebbe trasmessa agli organi interni procurando la morte.
Quando queste reazioni originariamente funzionali divengono fisse, la colonna vertebrale si stabilizza in una posizione vanamente difensiva che sottopone tutto l’organismo ad un continuo sforzo per mantenersi eretto: il soggetto vive nel suo ambiente in uno stato di totale passività e chiusura che anticipa di gran lunga il naturale processo di invecchiamento.
Nella nostra società non si pensa all’invecchiamento come ad un processo fisiologico, ma come ad un fatto patologico. In realtà un corpo integrato acquisisce maggiore resistenza e il logorìo dato dal trascorrere degli anni si distribuisce in modo uniforme in tutti i distretti corporei, senza debilitazione delle funzioni. Anche l’invecchiamento può diventare un processo creativo, se l’esistenza dell’uomo non diventa un conflitto perenne con sé stesso e con il suo ambiente.
Verso l’integrazione ...
È possibile recuperare la postura eretta “potente”? Una voce perduta? Una vitalità perduta? La risposta a queste domande è sicuramente affermativa, qualora si intervenga con un lavoro di integrazione psicocorporea. Nel metodo ideato da Moshe Feldenkrais si dà molta importanza alla qualità del movimento: aumentare la sensibilità cinestetica, il nostro “sesto senso”, può far sentire le più piccole differenze di peso o di pressione, se la forza impiegata per fare un movimento è la minima indispensabile per compierlo. Quando ad esempio solleviamo un vaso, una valigia o un oggetto molto pesante, non riusciamo a percepire se una farfalla si posa su di esso; quando invece solleviamo una foglia, riusciamo ad avvertire quel piccolo aumento di peso provocato dal tocco di una farfalla che vi si posa. Per la legge di Weber-Fechner, “la differenza di intensità di uno stimolo (I) che produce la minima differenza percepibile di sensazione (S) ha sempre lo stesso rapporto con lo stimolo intero (I)”. Questa stessa legge ci dice che più forza impieghiamo per un movimento e meno sensibilità abbiamo: quindi, per aumentare la sensibilità cinestetica è necessario togliere quella parte di forza superflua che appesantisce il gesto. Recuperata la sensibilità, il movimento può compiersi in modo semplice, elegante ed efficiente. Nell’acquisire questa sensibilità è possibile liberare dei punti nodali del nostro corpo, vere e proprie stazioni dove la forza del movimento deve poter viaggiare liberamente. Se vi è un blocco a questi livelli, il flusso di energia non può viaggiare liberamente e, di conseguenza, alcune stazioni soffrono per maggior traffico mentre altre si deteriorano per il mancato uso.
Questi punti nodali corrispondono alle tre piramidi rovesciate che il bambino deve allineare durante la sua ascesa verso la stazione eretta.
La prima piramide ha come base la testa, punto cardine della risposta antigravitaria di tutto l’organismo. Essa è dotata di telerecettori disposti nel capo che riguardano gli organi della sensibilità specifica (occhi, orecchie, naso) e sono responsabili di un buon allineamento verticale corrispondente all’allineamento orizzontale degli orecchi e degli occhi. Quando la postura si deforma, la testa è la prima ad esserne influenzata, come accade ad esempio durante una caduta che innesca automaticamente un atteggiamento di difesa. La libertà dei movimenti della testa corrisponde alla libertà di tutti i movimenti del corpo. Questo è facilmente verificabile “nel processo dell’onda” in cui, esercitando una pressione da supini, con le gambe piegate e i piedi a terra, si mette in movimento tutta la colonna vertebrale fino alla testa: quanto più questa riesce a muoversi passivamente, tanto più è libera. Altra stazione nodale è rappresentata dal cingolo scapolare, dal quale origina la seconda piramide che ha come punto cardine la clavicola, chiave della postura, perché è da lei che dipende l’assetto della scapola che altrimenti cadrebbe in avanti (scapola alata). La clavicola è l’osso di raccordo tra la parte posteriore e la parte anteriore del corpo. II cingolo scapolare è quindi un punto molto delicato perché deve equilibrarsi su un unico sostegno: la colonna vertebrale. Quando i primati sono passati dalla quadrupedia al bipedismo, le braccia hanno perduto la loro funzione di sostegno, con la relativa possibilità di far fluire la contro-pressione dalle braccia alle scapole e a tutta la colonna fino alle gambe. Le scapole corrono il rischio di diventare il luogo dove si accumulano tutte le tensioni e le emozioni che non trovano espressione psichica. In questo modo la parte dorsale della colonna, già fisiologicamente meno mobile, può diventare sempre più pigra e rigida. A farne le spese sono le zone più mobili della schiena (zona cervicale e lombare) che sono sottoposte ad un superlavoro. Se, invece, le scapole sono libere di scorrere lungo le costole, queste permettono alla colonna dorsale di partecipare attivamente al movimento dell’intera colonna vertebrale.
Scendendo lungo la colonna incontriamo l’ultima piramide da allineare, quella che ha come base il bacino e come vertice i piedi. Il bacino è l’osso più grande che abbiamo ed è quindi intuitiva la sua basilare funzione nel dare origine ai movimenti; non a caso tutti i muscoli più grandi del corpo (quadricipite, addominali, bicipite femorale, glutei) prendono origine o si inseriscono nel bacino. Ogni movimento fluido e armonioso dovrebbe originare dal bacino, funzionante come una sorta di motore attivatore: quando il bacino è libero di muoversi, la colonna vertebrale può trasmettere il movimento alla testa, e così la libertà della testa dipende dalla libertà del bacino e viceversa. Inoltre, dai movimenti del bacino dipende anche la possibilità di un respiro più libero e profondo, che si realizza attraverso il moto ondulatorio impresso dall’osso pubico: quando il pube viene spinto in avanti l’espirazione viene facilitata, mentre il movimento indietro del pube facilita l’immissione di aria nei polmoni. La libertà del bacino è dunque fondamentale per avere un corpo integrato con l’ambiente. Nel bacino vengono smistate sia le forze provenienti dall’alto (il peso del corpo) che quelle provenienti dal basso (la contropressione esercitata dalla terra sui piedi). Affinché le forze vengano ben distribuite, occorre avere una buona elasticità delle caviglie, direttamente collegate alle ginocchia e al bacino. Allentare la tensione delle caviglie vuoi dire ridurre la tensione delle ginocchia che possono far pendere liberamente il bacino e allentare la tensione nella zona lombare della colonna.
Ogni attività svolta sulla terra è soggetta ad una forza invisibile costantemente presente: la forza di gravità. Questa forza, fondamentale per la vita, assicura il funzionamento del nostro organismo, dà forma al corpo e consente il movimento.
Ogni essere vivente si aggiusta al campo gravitazionale per rendere il movimento facile ed economico. Se non si riesce a sfruttare la forza di gravità, il movimento viene compiuto con più forza del necessario provocando, con il tempo, danni alla struttura osteoarticolare. Alcune ricerche della NASA hanno dimostrato come, se si rimane in assenza di gravità troppo a lungo (oltre 4 mesi), le ossa vadano incontro a danni permanenti. È anche vero, però, che un eccessivo impulso sulla struttura ossea può provocare danni. Alcune ricerche hanno evidenziato come il contatto repentino del piede a terra generi un carico di impulsi ad alta frequenza che si ripercuote su tutto l’arto inferiore fino alla parte superiore del corpo. In particolare, si verifica il fenomeno del overuse che genera durante la locomozione un aumento delle tensioni nelle strutture biologiche (ossa, articolazioni, muscoli). Si è osservato che la maggior parte delle persone durante il passo prende contatto con il suolo mediante l’appoggio del tallone, che genera un primo picco di forza verticale che poi si attenua per formare un secondo picco, prima che il piede si stacchi da terra. Questa forza, che dal basso si propaga verso le strutture sovrastanti, viene ammortizzata in parte dal cuscinetto del tallone, poi da tutta la gamba. Si è visto come lo smorzamento di questa forza sia direttamente proporzionale alla elasticità del sistema. Quindi una struttura rigida non riesce ad attenuare sufficientemente tale forza che propagandosi può generare lesioni a livello vertebrale.
Occorre trovare la giusta pressione che consente all’osso di restare in buona salute. Per Ruthy Alon, tale pressione deve essere data ad una certa intensità e ad un certo ritmo affinché il cervello la possa riconoscere.
La pressione giusta, infatti, consente all’osso di ricevere quella stimolazione in grado di nutrirlo per renderlo forte e sano. Questo può accadere se ad esempio si cammina in modo organico, facendo partecipare al movimento tutto il corpo. Ciò consente alla pressione ritmica impressa dai piedi sulla terra, di ricevere la contro-pressione (dalla terra verso i piedi) che viene distribuita in tutta la struttura ossea attraversando le gambe, la colonna vertebrale, le spalle e la testa. In questo modo tutto il corpo può farsi cullare, durante la deambulazione, dalla forza che nutre lo scheletro rendendolo più forte ed eretto. Recuperata la postura eretta, l’uomo può esprimere tutte le sue potenzialità e può accadere che cambi il modo di respirare, di ascoltare e di parlare. Tutto l’organismo è allora pervaso da una forza energetica che si apre verso il confronto, verso il nuovo e il diverso.
Sperimentazione
Vista l’importanza dell’integrazione psicocorporea per recuperare una condizione di salute di tutto l’organismo, ci siamo proposti di verificare:
1. se la postura e gli schemi motori automatizzati potessero essere modificati sfruttando la plasticità del sistema nervoso;
2. la correlazione esistente tra postura e dolore.
Si tratta di un piccolo campione costituito da persone di età compresa tra 42 e 72 anni, che si sono presentate in palestra lamentando diversi dolori e disturbi della postura. Tutti sono stati sottoposti preventivamente ad una batteria di test, per poi partecipare ad un pool di 10 lezioni (una a settimana per 1 h e 30 minuti ciascuna) di integrazione psicocorporea, al termine del quale è stata ripetuta la batteria di test (Tab. 2). 2. la correlazione esistente tra postura e dolore.
Questa ricerca è stata l’occasione per sperimentare un approccio motorio globale sulla persona (metodo Feldenkrais e metodo Ossa per la vita® di Ruthy Alon). Le lezioni proposte avevano come obiettivo quello di far apprendere un modo diverso di ascoltare e di utilizzare il proprio corpo. Dopo ogni lezione le persone si sentivano diverse, più erette, con lo sguardo verso l’orizzonte, con il respiro regolare e... sorridenti. Era possibile toccare con mano la plasticità del sistema nervoso, il quale puntualmente rispondeva alle sollecitazioni date. Tutto ciò era realizzato attraverso movimenti semplici, fatti senza sforzo o fatica, e con lunghe pause di ascolto per verificare i cambiamenti avvenuti.
Una attività corporea così eseguita somiglia molto alla modalità di apprendimento del bambino. Con questa regressione motoria diventa possibile aumentare la propria percezione corporea, ed è questa a consentire una vera trasformazione dell’organismo. I risultati di questo studio consentono di confermare come, aumentando la consapevolezza corporea, si possa intervenire sugli automatismi non coscienti che regolano la postura e gli schemi motori. Questo consente di ristabilire un allineamento corporeo spontaneo e naturale; rendere il movimento economico ed efficiente; potenziare la capacità di ascolto e con essa l’emissione vocale; migliorare il respiro e ripristinare l’equilibrio omeostatico; rendere la struttura ossea forte ed elastica. Tutto ciò conduce ad una postura più funzionale dove i sintomi dolorosi tendono ad attenuarsi in virtù di un miglior uso del proprio corpo. Migliorando la postura si riequilibra il tono di base che è in stretta relazione con l’aspetto psichico della persona.
Un lavoro corporeo, che consideri la totalità dell’individuo, apre le porte a nuove possibilità in grado di riportare gradualmente e senza sforzo l’organismo verso una migliore qualità della vita. Le persone diventano finalmente libere di scegliere altre modalità di azione senza averne coscienza, perché hanno ampliato le loro possibilità psicocorporee. Questo è il primo passo per liberarsi dell’immagine di malato che spesso è radicata in loro, e per riprendere il cammino, con la corretta postura, verso un processo di ricerca e formazione continua volta alla piena realizzazione dei propri desideri.
FASI DELLA SPERIMENTAZIONE
Descrizione dei test
Sono stati scelti test di campo per la loro facilità di somministrazione e ripetibilità in qualsiasi ambiente.
- Questionario. Valuta le sensazioni del soggetto riferibili al dolore nei vari distretti corporei, la eventuale limitazione dei movimenti, la qualità del sonno e del risveglio.
- Test Fukuda. Valuta la stabilità della testa, l’indice di asimmetria di rotazione e la coordinazione testa-tronco durante la marcia. Si esegue marciando sul posto ad occhi chiusi per 50 passi. Lo sperimentatore deve rilevare l’eventuale rotazione in gradi verso destra o sinistra.
- Test di Flessibilità del Rachide. Il soggetto viene invitato a flettersi in avanti con le braccia distese.
Lo sperimentatore rileva valori positivi se si supera il punto O (posto in corrispondenza dei piedi) e valori negativi se non si oltrepassa il punto O. La flessione laterale viene valutata misurando la distanza tra la mano (che scivola lungo la coscia) e il pavimento.
- Test di Mobilità scapolo-omerale. In posizione supina, si invita il soggetto a distendere le braccia oltre la testa e vicino alle orecchie, cercando di farle avvicinare al pavimento. Si misura la distanza tra la parte distale dell’omero e il pavimento. Più la distanza è ridotta e maggiore è la mobilità.
- Appoggio podalico. È stato valutato utilizzando due bilance con la stessa taratura. Il soggetto viene invitato a salire con un piede su una bilancia e con l’altro su l’altra bilancia. Si rileva il peso su entrambe le bilance per valutare come viene distribuito il peso sui due arti.
- Deambulazione ad occhi chiusi. Consente di valutare l’equilibrio dinamico. Si esegue camminando su una linea ad occhi chiusi mettendo progressivamente il calcagno di un piede davanti alla punta dell’altro. Si rilevano le deviazioni verso destra o sinistra dalla linea.
- Foto. I soggetti sono stati fotografati nelle proiezioni frontale, laterali, posteriore, per evidenziare alterazioni della postura.
- Test dei contatti. Il test viene eseguito all’inizio, durante e alla fine di ogni lezione, per far percepire al soggetto le variazioni che sono avvenute durante i vari processi proposti. II test viene eseguito da supini: lo sperimentatore guida con la voce il soggetto verso i vari distretti corporei. Questo test è molto usato nel metodo Feldenkrais per far acquisire consapevolezza dei cambiamenti avvenuti.
Risultati riportati graficamente
Fig. 1. In questo grafico è evidente il miglioramento avvenuto tra i test fatti all’inizio (curva blu) e quelli alla fine (curva rossa). Più la curva è ridotta e meno sono presenti variazioni in rotazione (dx o sx) o in avanzamento. L’attività proposta ha migliorato la stabilità della testa, la coordinazione testa-tronco e la simmetria tra le due parti del corpo.
Fig. 2. In questo grafico vengono riportate la flessione laterale (dx e sx) e la flessione in avanti del busto. Si evidenzia un miglioramento in entrambe le situazioni. In particolare nella flessione in avanti molti soggetti non riuscivano ad arrivare al punto O (valore medio -3,29). Dopo l’attività proposta, tutti hanno raggiunto il punto O e, nella maggior parte dei casi, lo hanno oltrepassato (valore medio +2,00).
Fig. 3. In questo grafico è possibile verificare una distribuzione più omogenea del peso corporeo sugli arti inferiori dopo l’attività proposta.
Fig. 4. In questi grafici si può osservare la differenza nella distribuzione del peso sui due arti. È evidente il miglioramento avvenuto nei test fatti dopo l’attività proposta.
Fig. 5. La flessibilità scapolo-omerale è aumentata. Infatti, il grafico evidenzia una diminuzione della distanza tra il pavimento e gli arti superiori.
Fig. 6. In questo grafico è evidente la netta diminuzione di instabilità nella camminata ad occhi chiusi su linea retta. Le oscillazioni a dx e a sx sono sensibilmente diminuite.
Fig. 7. In questo grafico vengono considerati vari distretti corporei interessati dal dolore, prima e dopo l’attività proposta.
Fig. 8. In questo grafico sono riportate le limitazioni dei movimenti nei vari distretti corporei. È possibile verificare un netto miglioramento.
Fig. 9. In questo grafico sono riportate la vitalità, la qualità del sonno e le sensazioni del risveglio. In tutte e tre le sfere si osserva un miglioramento.
Tab. 2
BIBLIOGRAFIA
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www.rolfing-italia.it
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L’ASCOLTO NELLO SVILUPPO DEL MOVIMENTO UMANO
Giampietro Marcheggiani
Percorso di Giampietro Marcheggiani
Durante la vita di tutti i giorni utilizziamo il corpo quasi sbadatamente, senza renderci conto che, in questo ammasso ordinato di cellule, tessuti e organi è scritta tutta la nostra storia, da quella personale a quella familiare, fino ad arrivare agli albori della vita.
L’uomo primordiale, immerso nel suo ambiente, per sopravvivere ha dovuto sviluppare degli adattamenti motori sempre più complessi. “Il linguaggio ed il lavoro furono gli strumenti più importanti ed essenziali dei quali si servì l’uomo, sia nel ricambio organico, come nella relazione con il suo ambiente”.
Attraverso il linguaggio egli comunica e condivide con altri le sue conoscenze, per poi applicarle nella costruzione dei primi oggetti, attraverso dei movimenti lavorativi sempre più precisi e fini che consentono un ulteriore sviluppo delle capacità motorie, in particolar modo dei movimenti della mano e delle dita. L’abilità raggiunta si svincola sempre di più dal campo dell’utile per avventurarsi nelle produzioni artistiche: la motricità apre le porte per un nuovo divenire dell’uomo, i processi mentali diventano sempre più complessi, la sua intelligenza cresce di pari passo con la sua capacità creativa.
Secondo Alfred Tomatis linguaggio e movimento si sviluppano in stretto rapporto e conducono l’uomo verso il processo di umanizzazione: in questa progressione evolutiva l’orecchio assume un ruolo centrale perché, oltre a funzionare come un centro di energia, diviene un organizzatore e un regolatore di tutto il sistema nervoso.
Per comprendere meglio il significato evolutivo dell’orecchio, ne seguiremo i cambiamenti nel corso della filogenesi.
Nella medusa è presente un nervo laterale che rende possibile il movimento e la comunicazione con l’ambiente marino, specialmente rispetto alla orizzontalità.
Nei pesci compare un primo abbozzo di centralizzazione attraverso la linea laterale, un canale munito di diverse aperture, che realizza una direzione del flusso nervoso per organizzare un primo collegamento metamerico del corpo e, attraverso questo, una prima bozza di schema corporeo. In ogni tubicino laterale, collocato al fianco dell’animale, sono presenti cellule ciliate, antenate della cellula del Corti, che captano gli stimoli sensitivi rilevati attraverso il contatto e la pressione dell’acqua circostante trasformandoli in energia che il pesce utilizza per muoversi e per orientarsi.
Con l’aumentare dei punti sensitivi si determina la comparsa, sulla parte anteriore del corpo, della vescicola otolitica, come primo sistema di centralizzazione nervosa che determina un migliore rendimento dei movimenti lineari sul piano orizzontale; contemporaneamente, l’encefalo si trasforma per rispondere alle stimolazioni che giungono attraverso la vescicola, che diviene l’otosacca, e modifica le sue connessioni con il futuro cervello per mezzo dell’archeocervelletto. A questo punto l’animale esce dall’acqua per avviarsi ad una nuova avventura sulla terraferma: entriamo nel mondo dei rettili.
Per consentire un corretto funzionamento dell’orecchio, che male si adatta al nuovo ambiente prevalentemente aereo, si organizza una membrana timpanica che va ad occludere la prima fessura branchiale. La ricerca della verticalità porta ad una ulteriore modifica dell’otosacca, attraverso due sacche inserite nella vescicola otolitica: l’otricolo che interviene sui movimenti orizzontali, e il sacculo, grazie al quale i rettili possono raccogliere la sfida della verticalità che permette all’asse testacollo di superare il piano orizzontale.
Quando compare la lagena (primitivo abbozzo cocleare) negli uccelli, si instaura una verticalità stabile, anche se limitata al tratto cervicale della colonna vertebrale. Con l’aggiunta dei canali semicircolari, che consente un ulteriore ampliamento dell’analisi dei movimenti nello spazio, viene rinforzata la spinta antigravitaria che diviene particolarmente sofisticata nell’uomo grazie all’inserimento dei canali su due piani: uno verticale (attraverso i canali superiore e posteriore) e l’altro orizzontale (canale esterno).
Infine compare la coclea che realizzerà il passaggio agli antropoidi e agli ominidi. Il passaggio dalla quadrupedia al bipedismo, che consente la massima stabilità con il minimo sforzo, avviene con modificazioni morfologiche dello scheletro che interessano tutto il corpo: la testa si verticalizza, il muso si riduce, mentre la volta cranica si ingrandisce per accogliere un cervello di maggiori dimensioni e tutto il peso del corpo grava sulla colonna vertebrale con un aumento del peso scaricato sulla pelvi e sulle gambe.
La struttura elicoidale della coclea permette di analizzare nei minimi dettagli tutti i fenomeni sonori in cui il corpo è immerso, per cui è possibile convogliare l’energia in direzione del cervello e, allo stesso tempo, rafforzare il sistema posturale per migliorare i sistemi di comunicazione con l’esterno. Nella Tav. A (Appendice A) è possibile visualizzare l’anatomia dell’orecchio in tutte le sue parti.
Questa evoluzione filogenetica dell’orecchio dimostra come, dopo aver perfezionato i meccanismi di spazialità e di verticalità, l’uomo raggiunge l’apice delle possibilità di comunicazione con l’ambiente, attraverso la coclea che attiva la funzione dell’ascolto. L’orecchio pertanto non ha più la sola funzione di udire un segnale (di pericolo, ad esempio) come accade negli animali, ma diviene l’organo chiave della ricarica corticale, dell’equilibrio e dell’ascolto, quest’ultimo inteso come fenomeno attivo su cui si fonda il linguaggio tipicamente umano. La funzione dell’ascolto conferisce all’uomo una nuova intelligenza e una nuova armonia nei movimenti: i gesti automatici e stereotipati degli animali vengono abbandonati per dare spazio ad un linguaggio corporeo espressivo e creativo dove l’uomo acquisisce una nuova andatura che modella ulteriormente la sua struttura.
In questo lungo viaggio filogenetico, alle strutture nervose arcaiche si sovrappongono nuove strutture sempre più sofisticate: si sviluppano gli integratori cerebrali che, tra l’altro, consentono l’organizzazione di movimenti sempre più complessi.
L’integratore vestibolare (Tav. 1, Appendice B) compare per primo nella scala evolutiva e consente all’animale di muoversi nel suo ambiente alla ricerca di cibo per la sua sopravvivenza individuale, e alla ricerca della femmina per la sopravvivenza della specie.
L’integratore olfattivo o rinoencefalico compare per secondo nel percorso filogenetico ed è quello legato all’organo dell’olfatto che consente di rilevare gli odori e quindi di orientare l’animale verso la preda, attraverso gli aggiustamenti del vestibolo.
L’integratore visivo soppianta l’integratore olfattivo, grazie alla sua maggiore efficacia. La vista, infatti, consente all’animale di spostarsi in modo più preciso nell’ambiente e garantisce il controllo della dinamica cinetica permessa dal labirinto vestibolare.
L’integratore cocleare (Tav. 2, Appendice B) è l’ultimo nato nella scala evolutiva, “...fa la sua comparsa nei mammiferi, trasformando tutte le relazioni esistenti fino a quel momento tra i vari integratori. La coclea assume la direzione del sistema e, con la collaborazione del vestibolo, porta all’acquisizione delle caratteristiche specificatamente umane: la verticalizzazione, la liberazione della mano, il linguaggio”.Questo integratore, regolando la postura per meglio ricevere il suono, porta l’uomo a raggiungere la stazione eretta. “Il corpo assume la posizione verticale per tendere l’orecchio, ed è per diventare un totale orecchio, una sorta di antenna all’ascolto del linguaggio, che l’uomo si vede dotato di un sistema nervoso che risponde alla realizzazione di questa funzione”. Il linguaggio si struttura in base all’ascolto dei suoni ed introduce una dimensione complementare che nasce dal dialogo dei due emisferi cerebrali: quello destro che pensa e quello sinistro che esegue. Il collegamento tra i due emisferi si realizza per mezzo del corpo calloso. Con la lateralità, che trasforma i movimenti automatici in volontari, la mano acquista una nuova e sconosciuta libertà.
L’integratore piramidale è costituito dal fascio piramidale stesso e dai fasci sensitivi spinotalamici, diretto e crociato: è il fascio di comando che trasforma l’atto motorio in atto volontario. Mentre l’integratore vestibolare prepara il corpo a tutte le attività legate al movimento, l’integratore piramidale decide come e quando comandare tali attività (Tav. 3, appendice B).
L’organismo umano, corredato di un sistema nervoso che agisce a diversi livelli di integrazione, ha la necessità di strutturare delle stazioni, dove può realizzarsi una interconnessione tra i vari sistemi. Le più importanti sono la formazione reticolare e il talamo: la prima è una struttura preesistente a tutte le altre e serve ad assicurare il passaggio di informazioni da segmento a segmento; la seconda riceve tutte le vie della sensibilità specifica (provenienti dai recettori visivi, acustici, eccetto quelle olfattive) e aspecifica (provenienti dai recettori cutanei, articolari e viscerali). Le informazioni raccolte attraverso le vie della sensibilità giungono alla corteccia cerebrale, dove vengono elaborate tramite proiezioni nelle aree primarie (dove è possibile riconoscere e confrontare lo stimolo), secondarie (con la codifica della percezione e la presa di coscienza dell’informazione) e terziarie (dove le informazioni dalla sensibilità e dalla motricità formano un substrato di abilità complesse: fasie, prassie, gnosie). Nel cervello le informazioni vengono dunque analizzate e confrontate con altre, registrate nelle esperienze precedenti: diventano percezioni.
Dopo questa integrazione di alto livello, dalla corteccia si aggiungono le risposte extrapiramidali: il cervello motorio extrapiramidale si proietta sulla copia conforme neocerebellare e forma, grazie alla rete di Purkinjie, risposte differenziali in relazione all’immagine del corpo raccolta dal paleocervelletto, per mezzo dei fasci ascendenti sensoriali (di Flechsig e di Gowers). Tutto questo avviene sotto il controllo delle proiezioni vestibolari a livello dell’archeocervelletto.
Il cervelletto, pertanto, riceve le informazioni propriocettive ed è in grado di intervenire nel controllo motorio a vari livelli in virtù di tre parti filogeneticamente distinte:
- l’archeocervelletto, in rapporto con il vestibolo, si occupa della regolazione dell’equilibrio,
- il paleocervelletto, connesso alla formazione reticolare, interviene nella regolazione della postura statica e dinamica (Appendice C),
- il neocervelletto, connesso alla corteccia, si occupa del controllo motorio e della pianificazione dei movimenti volontari.
Lateralità
Alla nascita, ogni bambino ha un corredo genetico che gli deriva dalla propria specie e dai genitori: l’espressività di tale corredo è direttamente influenzata dall’ambiente e rappresenta la potenzialità individuale che si sviluppa in base alle esperienze vissute.
Nello sviluppo dell’immagine corporea è indispensabile, almeno fino all’età di dodici anni, l’attività motoria (anche lo sviluppo della funzione dell’ascolto si stabilizza intorno a quell’età). All’interno di questo processo il bambino inizia a manifestare una preferenza nell’utilizzo di una parte del corpo: questa preferenza prende il nome di lateralità ed è direttamente correlata, secondo Tomatis, all’acquisizione del linguaggio.
La lateralità è una caratteristica specificatamente umana che libera l’uomo dal movimento automatico e bilaterale degli animali, per condurlo, attraverso la liberazione della mano, ad un movimento volontario e svincolato dai bisogni primari. Da Broca (1824-1880) che per primo ha individuato il centro del linguaggio nell’emisfero cerebrale sinistro, si è giunti, nel tempo, a definire un emisfero dominante e uno non dominante: il primo, quello di sinistra, è il rilevatore e l’esecutore (centro del linguaggio, sede delle gnosie e delle prassie), mentre il secondo, di destra, è l’analizzatore e l’integratore (sede del pensiero, della funzione spaziale e delle capacità artistiche, permette di elaborare le gnosie e le prassie).
Connessa alla dominanza cerebrale è la dominanza motoria (generalmente crociata rispetto alla dominanza emisferica), rilevabile in un occhio dominante, una mano dominante e un piede dominante. Allo stesso modo possiamo parlare, nell’ambito della funzione uditiva, di una dominanza destra oppure sinistra, non necessariamente collegata alla lateralità motoria.
Per comprendere l’evoluzione della lateralità è opportuno considerare lo sviluppo del bambino partendo dall’ambiente uterino.
Durante la vita intrauterina le cellule iniziano il loro processo di differenziazione; in particolare le cellule del sistema nervoso si differenziano in neuroni sensitivi, neuroni motori e di associazione. Nel feto lo sviluppo dei neuroni motori avviene prima di quelli sensitivi, e infatti, a partire dalla sesta settimana, il muscolo è direttamente eccitabile e il tono subisce modificazioni in funzione della postura del feto. A partire dalla settima settimana i canali semicircolari sono collegati al sistema nervoso mediante il nervo vestibolare e i cambiamenti di posizione del feto provocano riflessi tonici nei muscoli assiali: “Si tratta dei primi comportamenti adattati rispetto alla postura”. Tra l’ottava e la nona settimana si assiste alle prime risposte muscolari in seguito a stimolazioni tattili: stimolando la regione della bocca si ottiene una flessione del corpo dovuta alla contrazione dei muscoli del collo e spinali. Da questo periodo in poi il sistema nervoso si sviluppa rapidamente.
L’innervazione sensitiva procede più lentamente e si installa dapprima al polo cefalico per estendersi poi rapidamente in tutto il corpo, per cui dalla fase neuro-motoria, caratterizzata da una motricità spontanea, si passa alla fase senso-motoria caratterizzata da una organizzazione progressiva: le strutture diventano funzionali e, grazie all’esercizio, si provocano nuove maturazioni.
Anche l’orecchio si completa a partire dal quarto mese e mezzo di vita intrauterina e, immerso nel liquido amniotico, può captare i suoni del suo mondo uterino, dove le frequenze acute sono collegate al messaggio sonoro della madre.
Nei giorni che seguono il parto, l’orecchio medio (tromba di Eustachio) trattiene il liquido amniotico che gli serve per ammortizzare i suoni troppo intensi che provengono dall’esterno. Si ricrea così una condizione di parziale ovattamento sonoro che dura circa dieci giorni. Quando l’orecchio riassorbe il liquido, il neonato attraversa un periodo di “oscuramento sonoro” durante il quale non sente più. Con il passare dei giorni l’orecchio si adatta al nuovo ambiente e viene ritrovata, nel nuovo mezzo aereo, la capacità uditiva che si stabilizza tra i 300 e gli 800Hz. La voce della madre è percepita, ora, in modo diverso, tuttavia il ritmo e le inflessioni sono le stesse e il bambino non ha dubbi nel ritrovarla. L’orecchio si tende nuovamente verso di lei.
Nel periodo evolutivo postnatal Le Boulch identifica tre tappe:
A)Tappa del corpo vissuto (dalla nascita ai tre anni).
Nel neonato si può già osservare una asimmetria che si manifesta con una prevalenza del tono assiale. Il neonato, come il feto, presenta ancora una motricità di tipo sub-corticale che rimane immutata fino ai due/tre mesi di vita, infatti il corpo striato e la sostanza reticolare maturano prima della corteccia cerebrale, determinando un comportamento centrato sul bisogno di mangiare e di dormire. I movimenti, di tipo esplosivo, non sono orientati verso un oggetto e somigliano più a scariche motorie che a movimenti coordinati. I recettori labirintici, formati già dalla sesta/settima settimana intrauterina, generano delle risposte posturali che determinano il tono del neonato. Il riflesso di drizzamento statico, descritto da A. Thomas, ne è una prova: “Quando si pone il bambino di qualche giorno a terra sui suoi piedi, si produce una estensione delle membra inferiori e dell’asse corporeo; talvolta anche la testa si drizza”.
L’emissione sonora è anch’essa impulsiva, con gridolini che accompagnano la soddisfazione o meno dei bisogni.
La maturazione corticale, dopo i primi due o tre mesi di vita, è comunque molto rapida e favorita dalle continue stimolazioni ambientali. In questo periodo sono ancora presenti alcuni movimenti arcaici, la cui scomparsa sancisce l’entrata in azione dei centri corticali che hanno un ruolo inibitore.
Anche se alcuni autori sostengono che, fino al terzo mese di vita, i movimenti del neonato sono di tipo automatico e riflesso (per cui si parlerebbe di esperienza subita), il bambino stabilisce fin da subito un legame tra i suoi desideri e le circostanze esterne, e certamente tale legame si rinforza dopo tale periodo. Si passa pertanto piuttosto rapidamente all’esperienza del corpo vissuto, dove il bambino è, allo stesso tempo, il recettore e l’emittente dei fenomeni emozionali: in questa situazione viene esperita l’inscindibilità tra corpo e psiche.
Una tappa fondamentale per lo sviluppo della motricità è il raggiungimento della stazione eretta. Mentre il linguaggio si modifica passando dalla fase fonica a quella sillabica, tra il decimo e il dodicesimo mese il bambino riesce a sollevarsi da terra senza appoggio ed a raggiungere la posizione eretta. In questa progressione è di estrema importanza il riflesso di drizzamento statico (o posturale labirintico) che guida la testa, e di conseguenza tutto il corpo, verso la verticalità. Raggiunta la stazione eretta il bambino è pronto ad esplorare il suo nuovo ambiente, che è divenuto più ampio. Queste prime esperienze motorie, in concomitanza con le prime variazioni tonali del linguaggio, gli consentono di sperimentare una dominanza laterale. Si tratta di acquisizioni di base verso movimenti sempre più complessi che prendono il nome di prassie o abilità motorie.
Il primo periodo del secondo anno è la fase della sperimentazione con gli oggetti (raggiunto il risultato, il bambino comincia a riprodurre il gesto, con molteplici varianti, fino ad esplorare tutte le possibili esecuzioni). Tutto il secondo anno è caratterizzato dalle prime manifestazioni della funzione simbolica che consentono una iniziale interiorizzazione degli schemi motori (il bambino utilizza lo schema conosciuto per risolvere nuove situazioni). I movimenti vengono perfezionati con il continuo rimaneggiamento, per prove ed errori, dello schema posseduto mentre il linguaggio diventa portatore di una asimmetria funzionale: le sillabe ripetute dal bambino non sono più identiche.
L’acquisizione della locomozione consente di ampliare notevolmente il campo delle esperienze: “Si entra in ciò che Gessel chiama ‘l’età del trasloco’ e ‘l’età dell’acrobata’ caratterizzata dall’esercizio di una motricità globale sconfinante, che mette a confronto il corpo e i suoi movimenti con il mondo esterno...”. Il bambino distingue chiaramente il suo io e si esprime in prima persona. Nel corso dell’esperienza del corpo vissuto l’attività motoria consente l’ulteriore maturazione di analizzatori ed effettori per nuovi atteggiamenti e la fissazione di nuove prassie.
Molto importante è il confronto con lo specchio, attraverso il quale le informazioni cinestetiche vengono confermate e arricchite dalle informazioni visive. L’immagine corporea, ancora frammentaria, ricerca una sua unità grazie al confronto.
B)Tappa della discriminazione percettiva (dai tre ai sette anni).
Alla fine del periodo del corpo vissuto, il bambino ha una crisi di personalità che si situa al momento del primo abbozzo dell’immagine corporea, dove anche la lateralità vive un momento di fluttuazione che la rende ancora instabile. Superati i tre anni, la motricità è ancora di tipo globale, ma il repertorio gestuale è molto più ricco con un significativo progresso dell’accomodamento posturale, dovuto ad una più equilibrata regolazione tonica. Questo miglioramento posturale porta progressivamente ad una stabilizzazione del dominio laterale. In questa fase è molto importante l’aspetto espressivo del movimento, che si concretizza nel gioco simbolico: il bambino, imitando volontariamente i personaggi reali o della sua fantasia, arricchisce il suo bagaglio gestuale e affina il controllo tonico sempre in modo globale, tralasciando i dettagli di esecuzione.
Nelle fasi successive il bambino vive un periodo di discriminazione percettiva che lo porta, tra i sei e i sette anni, alla conoscenza delle varie parti del corpo. La verbalizzazione delle diverse parti del corpo, associata alle esperienze percettive, consente l’accesso alla rappresentazione mentale. Un altro aspetto di rilievo è l’accesso allo spazio orientato. Dallo spazio vissuto affettivamente nel periodo del corpo vissuto, si passa allo “spazio euclideo”: in questo nuovo spazio il bambino comincia a riconoscere forme e dimensioni e diventa possibile associare la verbalizzazione ad una azione svolta nello spazio. I concetti di dentro, fuori, sopra, sotto, risultano facilitati se vengono sperimentati con il corpo attraverso il movimento. Nel passaggio dallo “spazio topologico” allo spazio euclideo, si realizza la definizione della destra. Il bambino definisce il concetto di destra e sinistra verso i sei anni e acquisisce l’orientamento del suo corpo. Il tronco e le gambe sono il suo asse verticale, mentre le braccia tese rappresentano l’orizzontale. Nell’orientare i suoi assi, può proiettare il suo movimento verso lo spazio. “Il bambino avrà allora accesso ad uno spazio orientato a partire dal ‘corpo proprio’, moltiplicando le sue possibilità di azione efficace”.
C)Tappa della rappresentazione mentale (dai sette ai dodici anni).
Questo periodo è caratterizzato dal passaggio dall’immagine riproduttrice all’immagine anticipatrice dell’immagine corporea: il bambino riesce ad immaginare l’azione prima di eseguirla. Ora, davanti all’esecuzione di una nuova prassia, il movimento viene indirizzato alla trasformazione dell’oggetto e non più all’esecuzione del movimento da compiere. Fino a questo periodo il bambino aveva avuto come centro di riferimento solo il proprio corpo, mentre adesso può scegliere altri punti di riferimento, altre prospettive. È questa l’età in cui può trasporre la nozione di destra e sinistra sulle altre persone. L’immagine del corpo è formata da uno schema posturale, che dà la stabilità, ed uno schema di azione, che rappresenta la dinamica del gesto.
Questa evoluzione è possibile in seguito alla maturazione delle strutture nervose. Nella tappa del corpo vissuto le strutture arcaiche danno, al corpo, l’equilibrio emozionale e un buon accomodamento posturale. Nel periodo della discriminazione percettiva si ha un maggiore controllo della motricità volontaria grazie alla formazione del meta-circuito che permette al rinencefalo e alla corteccia di svolgere il loro ruolo di comando e di controllo della condotta. La sovrapposizione delle strutture nervose nuove su quelle antiche consente il passaggio alla sfera “percettivo-cognitiva”. Si ha un maggiore intervento della corteccia, che interessa sia l’accomodamento posturale che l’accomodamento prassico: il bambino di nove anni riesce a rilassare volontariamente i diversi muscoli senza provocare sincinesie nella postura globale.
Il talamo aspecifico accresce la sua azione, nella relazione con le aree sensitive primarie, determinando il passaggio da un controllo quantitativo ad un controllo qualitativo. Migliora la mimica e si passa da una espressione spontanea ad una espressione socializzata. I corpi striati, che comandano gli automatismi, vengono sottomessi al controllo corticale con l’entrata in funzione del circuito superiore ascendente. Il bambino passa alla motricità corticalizzata dove riesce a modificare gli automatismi anche se ciò determina, nella prima fase, una perdita di armonia e di scioltezza nel gesto.
Alla fine di questo periodo la lateralità si definisce rendendo ottimale la coordinazione e l’equilibrio. Il bambino, ora, riesce a situare gli oggetti, gli uni in rapporto con gli altri, e può, inoltre, rappresentarli in modo simbolico in uno spazio virtuale. Questa acquisizione consente di immaginare il proprio corpo in movimento senza la necessità di dover eseguire il gesto.
Quando il bambino inizia ad aprirsi al mondo, le esperienze passate sono la base per l’inserimento nel nuovo ambiente: la relazione con gli altri lo aiuta a crescere e a sviluppare la sua motricità.
Tutte le tappe di maturazione motoria vengono raggiunte con facilità e naturalezza se sono sostenute da una lateralità uditiva a destra. Se questo non avviene insorgono lateralizzazioni crociate, che appesantiscono i movimenti e la capacità di apprendimento del soggetto; in concomitanza anche il linguaggio risulta alterato, con comparsa di ritardi nel parlare, nella deambulazione e, in età scolare, nella lettura e nella scrittura (dislessia, disgrafia e discalcolia). Tutto questo determina importanti ripercussioni sull’immagine corporea che risulta frammentaria e male organizzata. La postura ne viene immediatamente influenzata e, attraverso questa distorsione, si ha un ulteriore peggioramento della capacità di ascolto: si entra in un circolo vizioso dove il bambino trova sempre maggiori difficoltà a definire la sua immagine del corpo.
Esiste pertanto una stretta relazione tra orecchio e immagine del corpo, tramite il loro punto in comune: il linguaggio. Tomatis, imponendo, attraverso un orecchio elettronico, suoni ricchi di frequenze acute, ha osservato che la fonazione cambiava e, con questa, cambiavano anche gli aggiustamenti posturali: si aveva un raddrizzamento della colonna vertebrale con una apertura della gabbia toracica, grazie alla rotazione del bacino con antero-torsione pubica. Al contrario, quando venivano imposte delle frequenze gravi, si assisteva a modificazioni posturali contrarie. L’immagine del nostro corpo “... si disegna e si scolpisce nei minimi dettagli sotto le nostre carezze soniche. (...) Il nostro linguaggio si modella sul nostro corpo...”.
Siamo noi che emettiamo i suoni, a ricevere per primi le nostre stesse onde soniche: gli stimoli sonori vengono infatti assorbiti dai recettori cutanei che contribuiscono al mantenimento del tono corticale. Poiché il suono emesso da una persona contiene le sole frequenze che è in grado di ascoltare (prima Legge di Tomatis), affinché si strutturi una buona immagine del corpo è fondamentale una buona ricezione del suono, che può realizzarsi solo quando la lateralità uditiva è a destra (Fig. 1): solo questa garantisce un buon ascolto e di conseguenza una buona emissione vocale con proprietà di linguaggio e movimenti armonici del corpo, in virtù di un circuito neuronico più breve.
Il bambino, giocando con la propria voce, scaturita con la lateralità e per la lateralità, definisce sempre di più e meglio la sua immagine del corpo. Passa così dall’acquisizione dello schema corporeo, presente anche negli animali, all’elaborazione dell’immagine del corpo, specifica dell’uomo, come il suo linguaggio. Attraverso quest’ultimo può esprimere il proprio pensiero e la propria affettività, servendosi di tutto il corpo: in questo modo, al di là delle parole, il messaggio sonoro contiene il vero sentire della persona. Quando il bambino raggiunge questa acquisizione è pronto per fare il suo ingresso nel mondo, spazio in cui potrà utilizzare le condotte motorie più adeguate alle situazioni che vive.
Sperimentazione
Appare chiara l’importanza della lateralizzazione nella strutturazione della immagine corporea e quindi nell’acquisizione dell’apprendimento motorio; meno esplicita è la relazione tra apprendimento motorio e apprendimento cognitivo, mediato dalla lateralità. Tenuto conto delle tappe di apprendimento motorio di Le Boulch, questo lavoro si propone di verificare proprio la correlazione esistente tra lateralità, apprendimento motorio e apprendimento cognitivo, in un gruppo di 177 soggetti (123 maschi e 54 femmine) con età compresa tra i 5 e i 17 anni, che presentavano difficoltà nell’apprendimento scolastico.
La lateralità motoria, visiva e uditiva, è stata valutata attraverso un Bilancio AudioPsicoFonologico: nella Tav. B (Appendice A) sono descritte le caratteristiche del campione.
Di seguito vengono riportate le tabelle e i disegni relativi alle correlazioni dei dati.
Attraverso i risultati del nostro lavoro, è possibile evidenziare come una lateralità uditiva a destra garantisce un adeguato apprendimento motorio, con la strutturazione di una buona immagine corporea. Per contro, se la lateralità uditiva è a sinistra, nel bambino si evidenziano difficoltà nell’orientamento spazio-temporale, nell’organizzare e coordinare i movimenti semplici e complessi, con importanti ripercussioni sulla sfera cognitiva. Il bambino con queste difficoltà presenta notevoli problemi nell’imparare a leggere ed a scrivere, con ripercussioni nell’apprendimento scolastico generale. Dal punto di vista motorio, l’alta percentuale di disomogeneità determina una cattiva organizzazione dell’immagine corporea, con la comparsa di disabilità psicomotorie.
L’uomo primordiale, immerso nel suo ambiente, per sopravvivere ha dovuto sviluppare degli adattamenti motori sempre più complessi. “Il linguaggio ed il lavoro furono gli strumenti più importanti ed essenziali dei quali si servì l’uomo, sia nel ricambio organico, come nella relazione con il suo ambiente”.
Attraverso il linguaggio egli comunica e condivide con altri le sue conoscenze, per poi applicarle nella costruzione dei primi oggetti, attraverso dei movimenti lavorativi sempre più precisi e fini che consentono un ulteriore sviluppo delle capacità motorie, in particolar modo dei movimenti della mano e delle dita. L’abilità raggiunta si svincola sempre di più dal campo dell’utile per avventurarsi nelle produzioni artistiche: la motricità apre le porte per un nuovo divenire dell’uomo, i processi mentali diventano sempre più complessi, la sua intelligenza cresce di pari passo con la sua capacità creativa.
Secondo Alfred Tomatis linguaggio e movimento si sviluppano in stretto rapporto e conducono l’uomo verso il processo di umanizzazione: in questa progressione evolutiva l’orecchio assume un ruolo centrale perché, oltre a funzionare come un centro di energia, diviene un organizzatore e un regolatore di tutto il sistema nervoso.
Per comprendere meglio il significato evolutivo dell’orecchio, ne seguiremo i cambiamenti nel corso della filogenesi.
Nella medusa è presente un nervo laterale che rende possibile il movimento e la comunicazione con l’ambiente marino, specialmente rispetto alla orizzontalità.
Nei pesci compare un primo abbozzo di centralizzazione attraverso la linea laterale, un canale munito di diverse aperture, che realizza una direzione del flusso nervoso per organizzare un primo collegamento metamerico del corpo e, attraverso questo, una prima bozza di schema corporeo. In ogni tubicino laterale, collocato al fianco dell’animale, sono presenti cellule ciliate, antenate della cellula del Corti, che captano gli stimoli sensitivi rilevati attraverso il contatto e la pressione dell’acqua circostante trasformandoli in energia che il pesce utilizza per muoversi e per orientarsi.
Con l’aumentare dei punti sensitivi si determina la comparsa, sulla parte anteriore del corpo, della vescicola otolitica, come primo sistema di centralizzazione nervosa che determina un migliore rendimento dei movimenti lineari sul piano orizzontale; contemporaneamente, l’encefalo si trasforma per rispondere alle stimolazioni che giungono attraverso la vescicola, che diviene l’otosacca, e modifica le sue connessioni con il futuro cervello per mezzo dell’archeocervelletto. A questo punto l’animale esce dall’acqua per avviarsi ad una nuova avventura sulla terraferma: entriamo nel mondo dei rettili.
Per consentire un corretto funzionamento dell’orecchio, che male si adatta al nuovo ambiente prevalentemente aereo, si organizza una membrana timpanica che va ad occludere la prima fessura branchiale. La ricerca della verticalità porta ad una ulteriore modifica dell’otosacca, attraverso due sacche inserite nella vescicola otolitica: l’otricolo che interviene sui movimenti orizzontali, e il sacculo, grazie al quale i rettili possono raccogliere la sfida della verticalità che permette all’asse testacollo di superare il piano orizzontale.
Quando compare la lagena (primitivo abbozzo cocleare) negli uccelli, si instaura una verticalità stabile, anche se limitata al tratto cervicale della colonna vertebrale. Con l’aggiunta dei canali semicircolari, che consente un ulteriore ampliamento dell’analisi dei movimenti nello spazio, viene rinforzata la spinta antigravitaria che diviene particolarmente sofisticata nell’uomo grazie all’inserimento dei canali su due piani: uno verticale (attraverso i canali superiore e posteriore) e l’altro orizzontale (canale esterno).
Infine compare la coclea che realizzerà il passaggio agli antropoidi e agli ominidi. Il passaggio dalla quadrupedia al bipedismo, che consente la massima stabilità con il minimo sforzo, avviene con modificazioni morfologiche dello scheletro che interessano tutto il corpo: la testa si verticalizza, il muso si riduce, mentre la volta cranica si ingrandisce per accogliere un cervello di maggiori dimensioni e tutto il peso del corpo grava sulla colonna vertebrale con un aumento del peso scaricato sulla pelvi e sulle gambe.
La struttura elicoidale della coclea permette di analizzare nei minimi dettagli tutti i fenomeni sonori in cui il corpo è immerso, per cui è possibile convogliare l’energia in direzione del cervello e, allo stesso tempo, rafforzare il sistema posturale per migliorare i sistemi di comunicazione con l’esterno. Nella Tav. A (Appendice A) è possibile visualizzare l’anatomia dell’orecchio in tutte le sue parti.
Questa evoluzione filogenetica dell’orecchio dimostra come, dopo aver perfezionato i meccanismi di spazialità e di verticalità, l’uomo raggiunge l’apice delle possibilità di comunicazione con l’ambiente, attraverso la coclea che attiva la funzione dell’ascolto. L’orecchio pertanto non ha più la sola funzione di udire un segnale (di pericolo, ad esempio) come accade negli animali, ma diviene l’organo chiave della ricarica corticale, dell’equilibrio e dell’ascolto, quest’ultimo inteso come fenomeno attivo su cui si fonda il linguaggio tipicamente umano. La funzione dell’ascolto conferisce all’uomo una nuova intelligenza e una nuova armonia nei movimenti: i gesti automatici e stereotipati degli animali vengono abbandonati per dare spazio ad un linguaggio corporeo espressivo e creativo dove l’uomo acquisisce una nuova andatura che modella ulteriormente la sua struttura.
In questo lungo viaggio filogenetico, alle strutture nervose arcaiche si sovrappongono nuove strutture sempre più sofisticate: si sviluppano gli integratori cerebrali che, tra l’altro, consentono l’organizzazione di movimenti sempre più complessi.
L’integratore vestibolare (Tav. 1, Appendice B) compare per primo nella scala evolutiva e consente all’animale di muoversi nel suo ambiente alla ricerca di cibo per la sua sopravvivenza individuale, e alla ricerca della femmina per la sopravvivenza della specie.
L’integratore olfattivo o rinoencefalico compare per secondo nel percorso filogenetico ed è quello legato all’organo dell’olfatto che consente di rilevare gli odori e quindi di orientare l’animale verso la preda, attraverso gli aggiustamenti del vestibolo.
L’integratore visivo soppianta l’integratore olfattivo, grazie alla sua maggiore efficacia. La vista, infatti, consente all’animale di spostarsi in modo più preciso nell’ambiente e garantisce il controllo della dinamica cinetica permessa dal labirinto vestibolare.
L’integratore cocleare (Tav. 2, Appendice B) è l’ultimo nato nella scala evolutiva, “...fa la sua comparsa nei mammiferi, trasformando tutte le relazioni esistenti fino a quel momento tra i vari integratori. La coclea assume la direzione del sistema e, con la collaborazione del vestibolo, porta all’acquisizione delle caratteristiche specificatamente umane: la verticalizzazione, la liberazione della mano, il linguaggio”.Questo integratore, regolando la postura per meglio ricevere il suono, porta l’uomo a raggiungere la stazione eretta. “Il corpo assume la posizione verticale per tendere l’orecchio, ed è per diventare un totale orecchio, una sorta di antenna all’ascolto del linguaggio, che l’uomo si vede dotato di un sistema nervoso che risponde alla realizzazione di questa funzione”. Il linguaggio si struttura in base all’ascolto dei suoni ed introduce una dimensione complementare che nasce dal dialogo dei due emisferi cerebrali: quello destro che pensa e quello sinistro che esegue. Il collegamento tra i due emisferi si realizza per mezzo del corpo calloso. Con la lateralità, che trasforma i movimenti automatici in volontari, la mano acquista una nuova e sconosciuta libertà.
L’integratore piramidale è costituito dal fascio piramidale stesso e dai fasci sensitivi spinotalamici, diretto e crociato: è il fascio di comando che trasforma l’atto motorio in atto volontario. Mentre l’integratore vestibolare prepara il corpo a tutte le attività legate al movimento, l’integratore piramidale decide come e quando comandare tali attività (Tav. 3, appendice B).
L’organismo umano, corredato di un sistema nervoso che agisce a diversi livelli di integrazione, ha la necessità di strutturare delle stazioni, dove può realizzarsi una interconnessione tra i vari sistemi. Le più importanti sono la formazione reticolare e il talamo: la prima è una struttura preesistente a tutte le altre e serve ad assicurare il passaggio di informazioni da segmento a segmento; la seconda riceve tutte le vie della sensibilità specifica (provenienti dai recettori visivi, acustici, eccetto quelle olfattive) e aspecifica (provenienti dai recettori cutanei, articolari e viscerali). Le informazioni raccolte attraverso le vie della sensibilità giungono alla corteccia cerebrale, dove vengono elaborate tramite proiezioni nelle aree primarie (dove è possibile riconoscere e confrontare lo stimolo), secondarie (con la codifica della percezione e la presa di coscienza dell’informazione) e terziarie (dove le informazioni dalla sensibilità e dalla motricità formano un substrato di abilità complesse: fasie, prassie, gnosie). Nel cervello le informazioni vengono dunque analizzate e confrontate con altre, registrate nelle esperienze precedenti: diventano percezioni.
Dopo questa integrazione di alto livello, dalla corteccia si aggiungono le risposte extrapiramidali: il cervello motorio extrapiramidale si proietta sulla copia conforme neocerebellare e forma, grazie alla rete di Purkinjie, risposte differenziali in relazione all’immagine del corpo raccolta dal paleocervelletto, per mezzo dei fasci ascendenti sensoriali (di Flechsig e di Gowers). Tutto questo avviene sotto il controllo delle proiezioni vestibolari a livello dell’archeocervelletto.
Il cervelletto, pertanto, riceve le informazioni propriocettive ed è in grado di intervenire nel controllo motorio a vari livelli in virtù di tre parti filogeneticamente distinte:
- l’archeocervelletto, in rapporto con il vestibolo, si occupa della regolazione dell’equilibrio,
- il paleocervelletto, connesso alla formazione reticolare, interviene nella regolazione della postura statica e dinamica (Appendice C),
- il neocervelletto, connesso alla corteccia, si occupa del controllo motorio e della pianificazione dei movimenti volontari.
Lateralità
Alla nascita, ogni bambino ha un corredo genetico che gli deriva dalla propria specie e dai genitori: l’espressività di tale corredo è direttamente influenzata dall’ambiente e rappresenta la potenzialità individuale che si sviluppa in base alle esperienze vissute.
Nello sviluppo dell’immagine corporea è indispensabile, almeno fino all’età di dodici anni, l’attività motoria (anche lo sviluppo della funzione dell’ascolto si stabilizza intorno a quell’età). All’interno di questo processo il bambino inizia a manifestare una preferenza nell’utilizzo di una parte del corpo: questa preferenza prende il nome di lateralità ed è direttamente correlata, secondo Tomatis, all’acquisizione del linguaggio.
La lateralità è una caratteristica specificatamente umana che libera l’uomo dal movimento automatico e bilaterale degli animali, per condurlo, attraverso la liberazione della mano, ad un movimento volontario e svincolato dai bisogni primari. Da Broca (1824-1880) che per primo ha individuato il centro del linguaggio nell’emisfero cerebrale sinistro, si è giunti, nel tempo, a definire un emisfero dominante e uno non dominante: il primo, quello di sinistra, è il rilevatore e l’esecutore (centro del linguaggio, sede delle gnosie e delle prassie), mentre il secondo, di destra, è l’analizzatore e l’integratore (sede del pensiero, della funzione spaziale e delle capacità artistiche, permette di elaborare le gnosie e le prassie).
Connessa alla dominanza cerebrale è la dominanza motoria (generalmente crociata rispetto alla dominanza emisferica), rilevabile in un occhio dominante, una mano dominante e un piede dominante. Allo stesso modo possiamo parlare, nell’ambito della funzione uditiva, di una dominanza destra oppure sinistra, non necessariamente collegata alla lateralità motoria.
Per comprendere l’evoluzione della lateralità è opportuno considerare lo sviluppo del bambino partendo dall’ambiente uterino.
Durante la vita intrauterina le cellule iniziano il loro processo di differenziazione; in particolare le cellule del sistema nervoso si differenziano in neuroni sensitivi, neuroni motori e di associazione. Nel feto lo sviluppo dei neuroni motori avviene prima di quelli sensitivi, e infatti, a partire dalla sesta settimana, il muscolo è direttamente eccitabile e il tono subisce modificazioni in funzione della postura del feto. A partire dalla settima settimana i canali semicircolari sono collegati al sistema nervoso mediante il nervo vestibolare e i cambiamenti di posizione del feto provocano riflessi tonici nei muscoli assiali: “Si tratta dei primi comportamenti adattati rispetto alla postura”. Tra l’ottava e la nona settimana si assiste alle prime risposte muscolari in seguito a stimolazioni tattili: stimolando la regione della bocca si ottiene una flessione del corpo dovuta alla contrazione dei muscoli del collo e spinali. Da questo periodo in poi il sistema nervoso si sviluppa rapidamente.
L’innervazione sensitiva procede più lentamente e si installa dapprima al polo cefalico per estendersi poi rapidamente in tutto il corpo, per cui dalla fase neuro-motoria, caratterizzata da una motricità spontanea, si passa alla fase senso-motoria caratterizzata da una organizzazione progressiva: le strutture diventano funzionali e, grazie all’esercizio, si provocano nuove maturazioni.
Anche l’orecchio si completa a partire dal quarto mese e mezzo di vita intrauterina e, immerso nel liquido amniotico, può captare i suoni del suo mondo uterino, dove le frequenze acute sono collegate al messaggio sonoro della madre.
Nei giorni che seguono il parto, l’orecchio medio (tromba di Eustachio) trattiene il liquido amniotico che gli serve per ammortizzare i suoni troppo intensi che provengono dall’esterno. Si ricrea così una condizione di parziale ovattamento sonoro che dura circa dieci giorni. Quando l’orecchio riassorbe il liquido, il neonato attraversa un periodo di “oscuramento sonoro” durante il quale non sente più. Con il passare dei giorni l’orecchio si adatta al nuovo ambiente e viene ritrovata, nel nuovo mezzo aereo, la capacità uditiva che si stabilizza tra i 300 e gli 800Hz. La voce della madre è percepita, ora, in modo diverso, tuttavia il ritmo e le inflessioni sono le stesse e il bambino non ha dubbi nel ritrovarla. L’orecchio si tende nuovamente verso di lei.
Nel periodo evolutivo postnatal Le Boulch identifica tre tappe:
A)Tappa del corpo vissuto (dalla nascita ai tre anni).
Nel neonato si può già osservare una asimmetria che si manifesta con una prevalenza del tono assiale. Il neonato, come il feto, presenta ancora una motricità di tipo sub-corticale che rimane immutata fino ai due/tre mesi di vita, infatti il corpo striato e la sostanza reticolare maturano prima della corteccia cerebrale, determinando un comportamento centrato sul bisogno di mangiare e di dormire. I movimenti, di tipo esplosivo, non sono orientati verso un oggetto e somigliano più a scariche motorie che a movimenti coordinati. I recettori labirintici, formati già dalla sesta/settima settimana intrauterina, generano delle risposte posturali che determinano il tono del neonato. Il riflesso di drizzamento statico, descritto da A. Thomas, ne è una prova: “Quando si pone il bambino di qualche giorno a terra sui suoi piedi, si produce una estensione delle membra inferiori e dell’asse corporeo; talvolta anche la testa si drizza”.
L’emissione sonora è anch’essa impulsiva, con gridolini che accompagnano la soddisfazione o meno dei bisogni.
La maturazione corticale, dopo i primi due o tre mesi di vita, è comunque molto rapida e favorita dalle continue stimolazioni ambientali. In questo periodo sono ancora presenti alcuni movimenti arcaici, la cui scomparsa sancisce l’entrata in azione dei centri corticali che hanno un ruolo inibitore.
Anche se alcuni autori sostengono che, fino al terzo mese di vita, i movimenti del neonato sono di tipo automatico e riflesso (per cui si parlerebbe di esperienza subita), il bambino stabilisce fin da subito un legame tra i suoi desideri e le circostanze esterne, e certamente tale legame si rinforza dopo tale periodo. Si passa pertanto piuttosto rapidamente all’esperienza del corpo vissuto, dove il bambino è, allo stesso tempo, il recettore e l’emittente dei fenomeni emozionali: in questa situazione viene esperita l’inscindibilità tra corpo e psiche.
Una tappa fondamentale per lo sviluppo della motricità è il raggiungimento della stazione eretta. Mentre il linguaggio si modifica passando dalla fase fonica a quella sillabica, tra il decimo e il dodicesimo mese il bambino riesce a sollevarsi da terra senza appoggio ed a raggiungere la posizione eretta. In questa progressione è di estrema importanza il riflesso di drizzamento statico (o posturale labirintico) che guida la testa, e di conseguenza tutto il corpo, verso la verticalità. Raggiunta la stazione eretta il bambino è pronto ad esplorare il suo nuovo ambiente, che è divenuto più ampio. Queste prime esperienze motorie, in concomitanza con le prime variazioni tonali del linguaggio, gli consentono di sperimentare una dominanza laterale. Si tratta di acquisizioni di base verso movimenti sempre più complessi che prendono il nome di prassie o abilità motorie.
Il primo periodo del secondo anno è la fase della sperimentazione con gli oggetti (raggiunto il risultato, il bambino comincia a riprodurre il gesto, con molteplici varianti, fino ad esplorare tutte le possibili esecuzioni). Tutto il secondo anno è caratterizzato dalle prime manifestazioni della funzione simbolica che consentono una iniziale interiorizzazione degli schemi motori (il bambino utilizza lo schema conosciuto per risolvere nuove situazioni). I movimenti vengono perfezionati con il continuo rimaneggiamento, per prove ed errori, dello schema posseduto mentre il linguaggio diventa portatore di una asimmetria funzionale: le sillabe ripetute dal bambino non sono più identiche.
L’acquisizione della locomozione consente di ampliare notevolmente il campo delle esperienze: “Si entra in ciò che Gessel chiama ‘l’età del trasloco’ e ‘l’età dell’acrobata’ caratterizzata dall’esercizio di una motricità globale sconfinante, che mette a confronto il corpo e i suoi movimenti con il mondo esterno...”. Il bambino distingue chiaramente il suo io e si esprime in prima persona. Nel corso dell’esperienza del corpo vissuto l’attività motoria consente l’ulteriore maturazione di analizzatori ed effettori per nuovi atteggiamenti e la fissazione di nuove prassie.
Molto importante è il confronto con lo specchio, attraverso il quale le informazioni cinestetiche vengono confermate e arricchite dalle informazioni visive. L’immagine corporea, ancora frammentaria, ricerca una sua unità grazie al confronto.
B)Tappa della discriminazione percettiva (dai tre ai sette anni).
Alla fine del periodo del corpo vissuto, il bambino ha una crisi di personalità che si situa al momento del primo abbozzo dell’immagine corporea, dove anche la lateralità vive un momento di fluttuazione che la rende ancora instabile. Superati i tre anni, la motricità è ancora di tipo globale, ma il repertorio gestuale è molto più ricco con un significativo progresso dell’accomodamento posturale, dovuto ad una più equilibrata regolazione tonica. Questo miglioramento posturale porta progressivamente ad una stabilizzazione del dominio laterale. In questa fase è molto importante l’aspetto espressivo del movimento, che si concretizza nel gioco simbolico: il bambino, imitando volontariamente i personaggi reali o della sua fantasia, arricchisce il suo bagaglio gestuale e affina il controllo tonico sempre in modo globale, tralasciando i dettagli di esecuzione.
Nelle fasi successive il bambino vive un periodo di discriminazione percettiva che lo porta, tra i sei e i sette anni, alla conoscenza delle varie parti del corpo. La verbalizzazione delle diverse parti del corpo, associata alle esperienze percettive, consente l’accesso alla rappresentazione mentale. Un altro aspetto di rilievo è l’accesso allo spazio orientato. Dallo spazio vissuto affettivamente nel periodo del corpo vissuto, si passa allo “spazio euclideo”: in questo nuovo spazio il bambino comincia a riconoscere forme e dimensioni e diventa possibile associare la verbalizzazione ad una azione svolta nello spazio. I concetti di dentro, fuori, sopra, sotto, risultano facilitati se vengono sperimentati con il corpo attraverso il movimento. Nel passaggio dallo “spazio topologico” allo spazio euclideo, si realizza la definizione della destra. Il bambino definisce il concetto di destra e sinistra verso i sei anni e acquisisce l’orientamento del suo corpo. Il tronco e le gambe sono il suo asse verticale, mentre le braccia tese rappresentano l’orizzontale. Nell’orientare i suoi assi, può proiettare il suo movimento verso lo spazio. “Il bambino avrà allora accesso ad uno spazio orientato a partire dal ‘corpo proprio’, moltiplicando le sue possibilità di azione efficace”.
C)Tappa della rappresentazione mentale (dai sette ai dodici anni).
Questo periodo è caratterizzato dal passaggio dall’immagine riproduttrice all’immagine anticipatrice dell’immagine corporea: il bambino riesce ad immaginare l’azione prima di eseguirla. Ora, davanti all’esecuzione di una nuova prassia, il movimento viene indirizzato alla trasformazione dell’oggetto e non più all’esecuzione del movimento da compiere. Fino a questo periodo il bambino aveva avuto come centro di riferimento solo il proprio corpo, mentre adesso può scegliere altri punti di riferimento, altre prospettive. È questa l’età in cui può trasporre la nozione di destra e sinistra sulle altre persone. L’immagine del corpo è formata da uno schema posturale, che dà la stabilità, ed uno schema di azione, che rappresenta la dinamica del gesto.
Questa evoluzione è possibile in seguito alla maturazione delle strutture nervose. Nella tappa del corpo vissuto le strutture arcaiche danno, al corpo, l’equilibrio emozionale e un buon accomodamento posturale. Nel periodo della discriminazione percettiva si ha un maggiore controllo della motricità volontaria grazie alla formazione del meta-circuito che permette al rinencefalo e alla corteccia di svolgere il loro ruolo di comando e di controllo della condotta. La sovrapposizione delle strutture nervose nuove su quelle antiche consente il passaggio alla sfera “percettivo-cognitiva”. Si ha un maggiore intervento della corteccia, che interessa sia l’accomodamento posturale che l’accomodamento prassico: il bambino di nove anni riesce a rilassare volontariamente i diversi muscoli senza provocare sincinesie nella postura globale.
Il talamo aspecifico accresce la sua azione, nella relazione con le aree sensitive primarie, determinando il passaggio da un controllo quantitativo ad un controllo qualitativo. Migliora la mimica e si passa da una espressione spontanea ad una espressione socializzata. I corpi striati, che comandano gli automatismi, vengono sottomessi al controllo corticale con l’entrata in funzione del circuito superiore ascendente. Il bambino passa alla motricità corticalizzata dove riesce a modificare gli automatismi anche se ciò determina, nella prima fase, una perdita di armonia e di scioltezza nel gesto.
Alla fine di questo periodo la lateralità si definisce rendendo ottimale la coordinazione e l’equilibrio. Il bambino, ora, riesce a situare gli oggetti, gli uni in rapporto con gli altri, e può, inoltre, rappresentarli in modo simbolico in uno spazio virtuale. Questa acquisizione consente di immaginare il proprio corpo in movimento senza la necessità di dover eseguire il gesto.
Quando il bambino inizia ad aprirsi al mondo, le esperienze passate sono la base per l’inserimento nel nuovo ambiente: la relazione con gli altri lo aiuta a crescere e a sviluppare la sua motricità.
Tutte le tappe di maturazione motoria vengono raggiunte con facilità e naturalezza se sono sostenute da una lateralità uditiva a destra. Se questo non avviene insorgono lateralizzazioni crociate, che appesantiscono i movimenti e la capacità di apprendimento del soggetto; in concomitanza anche il linguaggio risulta alterato, con comparsa di ritardi nel parlare, nella deambulazione e, in età scolare, nella lettura e nella scrittura (dislessia, disgrafia e discalcolia). Tutto questo determina importanti ripercussioni sull’immagine corporea che risulta frammentaria e male organizzata. La postura ne viene immediatamente influenzata e, attraverso questa distorsione, si ha un ulteriore peggioramento della capacità di ascolto: si entra in un circolo vizioso dove il bambino trova sempre maggiori difficoltà a definire la sua immagine del corpo.
Esiste pertanto una stretta relazione tra orecchio e immagine del corpo, tramite il loro punto in comune: il linguaggio. Tomatis, imponendo, attraverso un orecchio elettronico, suoni ricchi di frequenze acute, ha osservato che la fonazione cambiava e, con questa, cambiavano anche gli aggiustamenti posturali: si aveva un raddrizzamento della colonna vertebrale con una apertura della gabbia toracica, grazie alla rotazione del bacino con antero-torsione pubica. Al contrario, quando venivano imposte delle frequenze gravi, si assisteva a modificazioni posturali contrarie. L’immagine del nostro corpo “... si disegna e si scolpisce nei minimi dettagli sotto le nostre carezze soniche. (...) Il nostro linguaggio si modella sul nostro corpo...”.
Siamo noi che emettiamo i suoni, a ricevere per primi le nostre stesse onde soniche: gli stimoli sonori vengono infatti assorbiti dai recettori cutanei che contribuiscono al mantenimento del tono corticale. Poiché il suono emesso da una persona contiene le sole frequenze che è in grado di ascoltare (prima Legge di Tomatis), affinché si strutturi una buona immagine del corpo è fondamentale una buona ricezione del suono, che può realizzarsi solo quando la lateralità uditiva è a destra (Fig. 1): solo questa garantisce un buon ascolto e di conseguenza una buona emissione vocale con proprietà di linguaggio e movimenti armonici del corpo, in virtù di un circuito neuronico più breve.
Il bambino, giocando con la propria voce, scaturita con la lateralità e per la lateralità, definisce sempre di più e meglio la sua immagine del corpo. Passa così dall’acquisizione dello schema corporeo, presente anche negli animali, all’elaborazione dell’immagine del corpo, specifica dell’uomo, come il suo linguaggio. Attraverso quest’ultimo può esprimere il proprio pensiero e la propria affettività, servendosi di tutto il corpo: in questo modo, al di là delle parole, il messaggio sonoro contiene il vero sentire della persona. Quando il bambino raggiunge questa acquisizione è pronto per fare il suo ingresso nel mondo, spazio in cui potrà utilizzare le condotte motorie più adeguate alle situazioni che vive.
Fig. 1 - CIRCUITO AUDIO-FONATORIO DI DESTRA E DI SINISTRA, modificato. A. TOMATIS, L’orecchio e la vita, Baldini & Castoldi Ed., Milano 1999, p. 157.
Quando l’orecchio dominante è il destro, l’informazione sensoriale, convogliata nel nervo cocleare, giunge, come abbiamo visto, nei nuclei del talamo controlaterale, da dove viene proiettata nella corteccia temporale di sinistra (centro uditivo sinistro). Da qui viene poi inviata alla corteccia motoria, che regola i movimenti e l’emissione sonora. Se invece l’orecchio dominante è il sinistro, l’informazione sensoriale deve giungere nell’emisfero destro (centro uditivo destro), da qui deve essere trasferita nell’emisfero sinistro (centro uditivo di Sinistra) e poi inviata alla corteccia motoria. Questa asimmetria, nei percorsi nervosi, si ritrova anche a livello del nervo frenico, che innerva la laringe. Infatti, il nervo di destra risulta più breve di quello sinistro.
Un percorso nervoso più lungo determina un rallentamento dell’impulso, che aggiunge un elemento di fatica, dovuta al continuo trasferimento delle informazioni da un emisfero all’altro. Il percorso nell’orecchio destro, trovando la strada libera da impedimenti, può compiere con facilità tutte le elaborazioni mentali che consentono i movimenti, compresi quelli per l’articolazione della parola. È evidente che tutti i gesti, siano essi eseguiti con la parte destra o sinistra del corpo, sono comunque regolati dall’emisfero sinistro. Ciò è evidenziato anche dalla clinica, dove le patologie dell’emisfero sinistro determinano agnosie totali e disturbi del linguaggio: il soggetto è depresso perché non trova più il suo corpo. Quando viene colpito l’emisfero destro, si ha la perdita della sensibilità conosciuta solo nella parte sinistra del corpo (agnosia del corpo sinistro).
Quando l’orecchio dominante è il destro, l’informazione sensoriale, convogliata nel nervo cocleare, giunge, come abbiamo visto, nei nuclei del talamo controlaterale, da dove viene proiettata nella corteccia temporale di sinistra (centro uditivo sinistro). Da qui viene poi inviata alla corteccia motoria, che regola i movimenti e l’emissione sonora. Se invece l’orecchio dominante è il sinistro, l’informazione sensoriale deve giungere nell’emisfero destro (centro uditivo destro), da qui deve essere trasferita nell’emisfero sinistro (centro uditivo di Sinistra) e poi inviata alla corteccia motoria. Questa asimmetria, nei percorsi nervosi, si ritrova anche a livello del nervo frenico, che innerva la laringe. Infatti, il nervo di destra risulta più breve di quello sinistro.
Un percorso nervoso più lungo determina un rallentamento dell’impulso, che aggiunge un elemento di fatica, dovuta al continuo trasferimento delle informazioni da un emisfero all’altro. Il percorso nell’orecchio destro, trovando la strada libera da impedimenti, può compiere con facilità tutte le elaborazioni mentali che consentono i movimenti, compresi quelli per l’articolazione della parola. È evidente che tutti i gesti, siano essi eseguiti con la parte destra o sinistra del corpo, sono comunque regolati dall’emisfero sinistro. Ciò è evidenziato anche dalla clinica, dove le patologie dell’emisfero sinistro determinano agnosie totali e disturbi del linguaggio: il soggetto è depresso perché non trova più il suo corpo. Quando viene colpito l’emisfero destro, si ha la perdita della sensibilità conosciuta solo nella parte sinistra del corpo (agnosia del corpo sinistro).
Sperimentazione
Appare chiara l’importanza della lateralizzazione nella strutturazione della immagine corporea e quindi nell’acquisizione dell’apprendimento motorio; meno esplicita è la relazione tra apprendimento motorio e apprendimento cognitivo, mediato dalla lateralità. Tenuto conto delle tappe di apprendimento motorio di Le Boulch, questo lavoro si propone di verificare proprio la correlazione esistente tra lateralità, apprendimento motorio e apprendimento cognitivo, in un gruppo di 177 soggetti (123 maschi e 54 femmine) con età compresa tra i 5 e i 17 anni, che presentavano difficoltà nell’apprendimento scolastico.
La lateralità motoria, visiva e uditiva, è stata valutata attraverso un Bilancio AudioPsicoFonologico: nella Tav. B (Appendice A) sono descritte le caratteristiche del campione.
Di seguito vengono riportate le tabelle e i disegni relativi alle correlazioni dei dati.
Attraverso i risultati del nostro lavoro, è possibile evidenziare come una lateralità uditiva a destra garantisce un adeguato apprendimento motorio, con la strutturazione di una buona immagine corporea. Per contro, se la lateralità uditiva è a sinistra, nel bambino si evidenziano difficoltà nell’orientamento spazio-temporale, nell’organizzare e coordinare i movimenti semplici e complessi, con importanti ripercussioni sulla sfera cognitiva. Il bambino con queste difficoltà presenta notevoli problemi nell’imparare a leggere ed a scrivere, con ripercussioni nell’apprendimento scolastico generale. Dal punto di vista motorio, l’alta percentuale di disomogeneità determina una cattiva organizzazione dell’immagine corporea, con la comparsa di disabilità psicomotorie.
Osservazioni dei dati
In questo grafico è evidente che la maggioranza dei soggetti considerati ha una disomogeneità tra mano, occhio e orecchio (lateralità crociata).
In questo grafico si può osservare:
- nella lateralità della mano prevale la destra sulla sinistra, ma sono elevati anche gli indecisi;
- nella lateralità dell’occhio vi è una prevalenza, non eccessiva, del destro sul sinistro;
- nella lateralità uditiva, vi è una netta prevalenza dell’orecchio sinistro.
- nella lateralità della mano prevale la destra sulla sinistra, ma sono elevati anche gli indecisi;
- nella lateralità dell’occhio vi è una prevalenza, non eccessiva, del destro sul sinistro;
- nella lateralità uditiva, vi è una netta prevalenza dell’orecchio sinistro.
Questo grafico mette in evidenza la dominanza percettiva (orecchio) e le difficoltà di attenzione e di concentrazione. Si può notare che, nei soggetti con difficoltà di attenzione e concentrazione, prevale la dominanza dell’orecchio sinistro.
La quasi totalità (92%) dei soggetti considerati presenta una lateralità crociata (disarmonie di lateralità tra mano, occhio e orecchio). Le difficoltà di attenzione e concentrazione sono del 97%.
È stata rilevata disomogeneità motoria (tra mano e occhio in 119 soggetti su 177) pari al 67%, disomogeneità percettiva (tra mano e orecchio in 153 soggetti su 177) pari all’86%.
L’80% dei. soggetti presenta come orecchio dominante il sinistro e, se si considera la disomogeneità di lateralità, la percentuale sale all’85%.
È stata rilevata disomogeneità motoria (tra mano e occhio in 119 soggetti su 177) pari al 67%, disomogeneità percettiva (tra mano e orecchio in 153 soggetti su 177) pari all’86%.
L’80% dei. soggetti presenta come orecchio dominante il sinistro e, se si considera la disomogeneità di lateralità, la percentuale sale all’85%.
L’esistenza di una stretta correlazione tra ascolto e abilità motoria, consente una duplice possibilità:
1) partendo da un lavoro sulla rieducazione all’ascolto (attraverso il metodo Tomatis) si raggiungono effetti positivi sulle abilità motorie;
2) partendo da un lavoro di psicocinetica secondo il metodo di Le Boulch, si raggiungono degli effetti sulla lateralizzazione e sull’ascolto.
Nel caso specifico, molti di questi bambini sono stati trattati con entrambi i metodi, con ottimi risultati sulle tre sfere prese in considerazione: ascolto e lateralità, abilità motoria e cognitiva.
Ancora una volta si rileva l’importanza dell’orecchio nel processo evolutivo individuale, che sfocia nella verticalità, per l’ascolto e il linguaggio. L’ascolto, che si realizza solo attraverso una adeguata lateralizzazione, consente elaborazioni mentali rapide, efficienti e fantasiose: l’uomo può differenziarsi così dall’animale che, pur conseguendo indubitate abilità motorie, le applica al solo istinto di sopravvivenza individuale e di specie.
Nell’uomo, invece, le abilità motorie, così apprese, racchiudono infinite possibilità di modificazione, attraverso le quali è possibile esprimere un gesto sempre nuovo e imprevedibile, perché frutto della sua fantasia.
1) partendo da un lavoro sulla rieducazione all’ascolto (attraverso il metodo Tomatis) si raggiungono effetti positivi sulle abilità motorie;
2) partendo da un lavoro di psicocinetica secondo il metodo di Le Boulch, si raggiungono degli effetti sulla lateralizzazione e sull’ascolto.
Nel caso specifico, molti di questi bambini sono stati trattati con entrambi i metodi, con ottimi risultati sulle tre sfere prese in considerazione: ascolto e lateralità, abilità motoria e cognitiva.
Ancora una volta si rileva l’importanza dell’orecchio nel processo evolutivo individuale, che sfocia nella verticalità, per l’ascolto e il linguaggio. L’ascolto, che si realizza solo attraverso una adeguata lateralizzazione, consente elaborazioni mentali rapide, efficienti e fantasiose: l’uomo può differenziarsi così dall’animale che, pur conseguendo indubitate abilità motorie, le applica al solo istinto di sopravvivenza individuale e di specie.
Nell’uomo, invece, le abilità motorie, così apprese, racchiudono infinite possibilità di modificazione, attraverso le quali è possibile esprimere un gesto sempre nuovo e imprevedibile, perché frutto della sua fantasia.
Hanno collaborato a questa ricerca la Dott. Concetta Turchi del Laboratorio Musicalificio Grande Blu di Roma e la Dott. Anna Meazza dell’Atelier di Movimento di Milano, entrambe esperte in AudioPsicoFonologia.
BIBLIOGRAFIA
B.G. CAMPBELL, Storia evolutiva dell’uomo, ISEDI Istituto Editoriale Internazionale, Milano 1974.
G. CILIA - A. CECILIANI, L’educazione fisica, Piccin Ed., Padova 1996.
J. LE BOULCH, Verso una scienza del movimento umano, Armando Editore, Roma 1975.
J. LE BOULCH, Movimento e Sviluppo della persona, Associazione Musicalificio Grande Blu Ed., Roma 2006.
J. LE BOULCH, L’educazione psicomotoria nella scuola elementare, Edizioni Scolastiche Unicopli, Milano 1989.
K. MAINEL, Teoria del movimento, Società Stampa Romana Ed., Roma 1984.
C.R. NOBACK - N.L. STROMINGER - R.J. DEMAREST, Sistema nervoso, Massoni Ed., Milano-Parigi-Barcellona 1999.
R. PUTZ, R. PABST, SOBOTTA, Atlante di anatomia umana, UTET Ed., Torino 2001.
A. RHOADES, A. TANNER, Fisiologia medica, EdiSes, Napoli 1996.
A. TOMATIS, Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red Edizioni, Como 2001.
A. TOMATIS, La notte uterina, Red Edizioni, Como 1996.
A. TOMATIS, L’orecchio e il linguaggio, Ibis Ed., Como - Pavia 1996.
A. TOMATIS, L’orecchio e la vita, Baldini & Castoldi Ed., Milano 1999.
SITI CONSULTATI
www.programmaitalia.com/sinestesiaeartesinestetica/articolo1.html
www.musicalificio.it
www.proteofaresapere.it/corsi/corsi.doc
APPENDICE A
Tav. A - ANATOMIA E FISIOLOGIA DELL’ORECCHIO - R. PUTZ, R. PABST, SOBOTTA, Atlante di Anatomia Umana, UTET Ed., Torino 2001, p. 98.
L’orecchio viene distinto in una parte esterna, una media ed una interna.
L’orecchio esterno è composto dal padiglione auricolare e dal condotto uditivo esterno: il primo ha la funzione di localizzare i suoni, mentre il secondo serve per convogliare il suono alla membrana timpanica.
L’orecchio medio è formato dalla cassa timpanica, delimitata da una parete esterna (formata dalla membrana timpanica che chiude l’orifizio osseo separandolo dal condotto uditivo esterno: ha la funzione di trasmettere gli stimoli sonori esterni per via cranica al labirinto) e da una parete interna, o labirintica (separa l’orecchio medio da quello interno e presenta la finestra ovale e quella rotonda). Dalla finestra ovale sino alla membrana timpanica, si estende la catena ossiculare formata dalla staffa, dall’incudine e dal martello. Secondo Tomatis questi tre ossicini articolati tra loro servono come meccanismo protettivo per l’orecchio interno: se il suono raggiunge livelli troppo elevati, la tensione esterna della staffa provoca un rilassamento della membrana,smorzando così quei suoni che rischierebbero di danneggiare l’orecchio. La catena ossiculare non è pertanto deputata alla trasmissione dei suoni, ma funziona come sistema di accomodazione.
La finestra ovale, chiusa dalla piastra della staffa, svolge la funzione di protezione, correzione e regolazione di tutti i liquidi perilinfatici. La finestra rotonda, chiusa da una membrana, agisce in modo passivo assicurando più piccoli spostamenti vibratori, nel momento in cui i liquidi endolinfatici causano una perturbazione.
Sulla parete anteriore della cassa timpanica c’è l’orifizio posteriore della tuba di Eustachio che mette in comunicazione la cassa del timpano con il rinofaringe, garantendo la regolazione della pressione ed eliminando i rumori interni con la chiusura del canale sincronizzato alla deglutizione.
È importante sottolineare che sulla superficie esterna della membrana giunge un ramo sensoriale del nervo vago, che mette in contatto l’orecchio con i visceri, conferendogli una funzione psicosomatica importante.
L’accomodamento dell’orecchio, in relazione con l’allentamento o la contrazione del muscolo del martello infatti, viene determinata anche dallo stato neurovegetativo del soggetto: d’altro canto il suo allentamento, provocando una flaccidità relativa della membrana timpanica, determina una eccitazione del ramo auricolare del nervo vago che, a sua volta, provoca risposte neurovegetative e viscerali.
L’orecchio interno, situato nell’osso della rocca o piramide pietrosa, prende il nome di labirinto e si distingue in labirinto osseo e labirinto membranoso. Tra la parete ossea e l’insieme membranoso si trova il liquido perilinfatico, mentre nel labirinto membranoso scorre il liquido endolinfatico. Il labirinto è deputato alla elaborazione dei dati provenienti dall’interno e dall’esterno attraverso le sue due parti: il vestibolo (formato dall’utricolo, dai tre canali semicircolari e dal sacculo) e la chiocciola o coclea.
L’utricolo occupa la zona superiore e posteriore del vestibolo e serve ad assicurare l’orizzontalità. I tre canali semicircolari (superiore e posteriore, situati sul piano verticale; esterno, situato sul piano orizzontale), dotati di un sistema sensoriale (formato da cellule ciliate poste nelle creste ampollari), si convogliano nell’utricolo al fine di assicurare il controllo delle angolazioni spaziali durante gli spostamenti e di influire sull’attività gravitazionale da cui ricavano gli elementi che assicurano l’equilibrio, l canali semicircolari reagiscono con l’assorbimento dell’impulso, restituendo nella sacca utricolare il liquido che è stato modificato dalle perturbazioni. Il sacculo, che si trova nel vestibolo, in basso e anteriormente, serve ad orientare il corpo verso la verticalità, L’utricolo e il sacculo sono uniti tramite il canale e la sacca endolinfatica, Il primo è attaccato alla fossetta ovoidale mentre il secondo alla fossetta emisferica, Con queste connessioni, le fibre nervose utricolari e sacculari si inseriscono nei fori delle fossette emisferiche ed ovoidali dando origine al nervo vestibolare, Queste due vescicole sono immerse nel liquido perilinfatico ed internamente sono dotate di cellule sensoriali che consentono di rilevare gli spostamenti liquidi. Nei movimenti lenti, l’insieme utricolo-canali semicircolari è sufficiente mentre, quando la periodicità è più elevata, il sacculo svolge il suo ruolo imposto dai suoni gravi che gli imprimono l’eccitazione. Ma, quando viene superato un certo limite, solo la coclea sarà adatta a ricevere movimenti lenti, ad alta periodicità e con frequenze elevate.
La coclea consente, con l’assunzione di una postura specifica, di incrementare l’efficacia della vescicola labirintica.
La coclea forma un tubo spirale chiamato canale cocleare che presenta tre facce: una esterna, solida e spessa detta legamento spirale; una superiore, più sottile, detta membrana di Reissner; una inferiore, che forma la lamina basilare, (n quest’ultima sono alloggiate le cellule ciliate che formano l’organo sensoriale dell’udito, detto organo del Corti, con il quale si realizza un dialogo con l’ambiente e che traduce gli stimoli meccanici in energia nervosa, Le cellule sensoriali, ricoperte dalla membrana tettoria, hanno la funzione di cogliere spostamenti anche minimi dei liquidi attraverso il movimento delle ciglia. A livello cocleare si realizza una sofisticata analisi dei suoni: intensità, intonazione, inflessione, attacchi o cedimenti, altezza globale, timbro e silenzi. Un’analisi così accurata rivela il significato profondo della parola. Si realizza in questa sede l’analisi frequenziale (da 800 a 8000Hz) del suono, che viene tradotto in stimoli di ricarica per il nevrasse.
Tav. B - DATI RELATIVI AL CAMPIONE SELEZIONATO
L’orecchio viene distinto in una parte esterna, una media ed una interna.
L’orecchio esterno è composto dal padiglione auricolare e dal condotto uditivo esterno: il primo ha la funzione di localizzare i suoni, mentre il secondo serve per convogliare il suono alla membrana timpanica.
L’orecchio medio è formato dalla cassa timpanica, delimitata da una parete esterna (formata dalla membrana timpanica che chiude l’orifizio osseo separandolo dal condotto uditivo esterno: ha la funzione di trasmettere gli stimoli sonori esterni per via cranica al labirinto) e da una parete interna, o labirintica (separa l’orecchio medio da quello interno e presenta la finestra ovale e quella rotonda). Dalla finestra ovale sino alla membrana timpanica, si estende la catena ossiculare formata dalla staffa, dall’incudine e dal martello. Secondo Tomatis questi tre ossicini articolati tra loro servono come meccanismo protettivo per l’orecchio interno: se il suono raggiunge livelli troppo elevati, la tensione esterna della staffa provoca un rilassamento della membrana,smorzando così quei suoni che rischierebbero di danneggiare l’orecchio. La catena ossiculare non è pertanto deputata alla trasmissione dei suoni, ma funziona come sistema di accomodazione.
La finestra ovale, chiusa dalla piastra della staffa, svolge la funzione di protezione, correzione e regolazione di tutti i liquidi perilinfatici. La finestra rotonda, chiusa da una membrana, agisce in modo passivo assicurando più piccoli spostamenti vibratori, nel momento in cui i liquidi endolinfatici causano una perturbazione.
Sulla parete anteriore della cassa timpanica c’è l’orifizio posteriore della tuba di Eustachio che mette in comunicazione la cassa del timpano con il rinofaringe, garantendo la regolazione della pressione ed eliminando i rumori interni con la chiusura del canale sincronizzato alla deglutizione.
È importante sottolineare che sulla superficie esterna della membrana giunge un ramo sensoriale del nervo vago, che mette in contatto l’orecchio con i visceri, conferendogli una funzione psicosomatica importante.
L’accomodamento dell’orecchio, in relazione con l’allentamento o la contrazione del muscolo del martello infatti, viene determinata anche dallo stato neurovegetativo del soggetto: d’altro canto il suo allentamento, provocando una flaccidità relativa della membrana timpanica, determina una eccitazione del ramo auricolare del nervo vago che, a sua volta, provoca risposte neurovegetative e viscerali.
L’orecchio interno, situato nell’osso della rocca o piramide pietrosa, prende il nome di labirinto e si distingue in labirinto osseo e labirinto membranoso. Tra la parete ossea e l’insieme membranoso si trova il liquido perilinfatico, mentre nel labirinto membranoso scorre il liquido endolinfatico. Il labirinto è deputato alla elaborazione dei dati provenienti dall’interno e dall’esterno attraverso le sue due parti: il vestibolo (formato dall’utricolo, dai tre canali semicircolari e dal sacculo) e la chiocciola o coclea.
L’utricolo occupa la zona superiore e posteriore del vestibolo e serve ad assicurare l’orizzontalità. I tre canali semicircolari (superiore e posteriore, situati sul piano verticale; esterno, situato sul piano orizzontale), dotati di un sistema sensoriale (formato da cellule ciliate poste nelle creste ampollari), si convogliano nell’utricolo al fine di assicurare il controllo delle angolazioni spaziali durante gli spostamenti e di influire sull’attività gravitazionale da cui ricavano gli elementi che assicurano l’equilibrio, l canali semicircolari reagiscono con l’assorbimento dell’impulso, restituendo nella sacca utricolare il liquido che è stato modificato dalle perturbazioni. Il sacculo, che si trova nel vestibolo, in basso e anteriormente, serve ad orientare il corpo verso la verticalità, L’utricolo e il sacculo sono uniti tramite il canale e la sacca endolinfatica, Il primo è attaccato alla fossetta ovoidale mentre il secondo alla fossetta emisferica, Con queste connessioni, le fibre nervose utricolari e sacculari si inseriscono nei fori delle fossette emisferiche ed ovoidali dando origine al nervo vestibolare, Queste due vescicole sono immerse nel liquido perilinfatico ed internamente sono dotate di cellule sensoriali che consentono di rilevare gli spostamenti liquidi. Nei movimenti lenti, l’insieme utricolo-canali semicircolari è sufficiente mentre, quando la periodicità è più elevata, il sacculo svolge il suo ruolo imposto dai suoni gravi che gli imprimono l’eccitazione. Ma, quando viene superato un certo limite, solo la coclea sarà adatta a ricevere movimenti lenti, ad alta periodicità e con frequenze elevate.
La coclea consente, con l’assunzione di una postura specifica, di incrementare l’efficacia della vescicola labirintica.
La coclea forma un tubo spirale chiamato canale cocleare che presenta tre facce: una esterna, solida e spessa detta legamento spirale; una superiore, più sottile, detta membrana di Reissner; una inferiore, che forma la lamina basilare, (n quest’ultima sono alloggiate le cellule ciliate che formano l’organo sensoriale dell’udito, detto organo del Corti, con il quale si realizza un dialogo con l’ambiente e che traduce gli stimoli meccanici in energia nervosa, Le cellule sensoriali, ricoperte dalla membrana tettoria, hanno la funzione di cogliere spostamenti anche minimi dei liquidi attraverso il movimento delle ciglia. A livello cocleare si realizza una sofisticata analisi dei suoni: intensità, intonazione, inflessione, attacchi o cedimenti, altezza globale, timbro e silenzi. Un’analisi così accurata rivela il significato profondo della parola. Si realizza in questa sede l’analisi frequenziale (da 800 a 8000Hz) del suono, che viene tradotto in stimoli di ricarica per il nevrasse.
Tav. B - DATI RELATIVI AL CAMPIONE SELEZIONATO
APPENDICE B
Tav. 1 - INTEGRATORE VESTIBOLARE. A.TOMATIS, La notte Uterina, Red Edizioni, Como 1996, p.86.
L’integratore vestibolare è formato da un sistema sensoriale periferico (che raccoglie la sensibilità propriocettiva dai muscoli, dalle ossa, dalle articolazioni, dai legamenti) e da un controllo sensoriale specifico dell’orecchio interno (attraverso l’utricolo, il sacculo e i canali semicircolari). Il primo raccoglie la sensibilità propriocettiva della parte sottodiaframmatica, tramite il fascio spinocerebellare dorsale (di Flechsig), e della parte sopradiaframmatica, attraverso il fascio spinocerebellare ventrale (di Gowers). Questi fasci si dirigono al paleocerebellum dove le cellule di Purkinjie assicurano il passaggio dell’informazione.
Questo primo sistema arcaico consente al vestibolo di ricevere tutti gli stimoli provenienti dalla periferia e di rispondere, in termini motori, attraverso i fasci discendenti vestibolospinali. Si aggiunge, a questo, un sistema più recente, composto dai nuclei cerebellari emboliforme e globoso. Dal primo parte un fascio paleorubrico, diretto verso il nucleo rosso del mesencefalo, da cui parte il fascio rubrospinale che incrocia la linea mediana per discendere parallelamente al fascio vestibolospinale omolaterale, sino alla sua uscita nelle radici anteriori del midollo spinale. Dal nucleo globoso parte un fascio che raggiunge l’oliva bulbare controlaterale, per formare il fascio olivospinale che si innesta nel midollo, affiancato sui due lati dai fasci vestibolospinali.
Dall’organo sensoriale vestibolare, contenuto nell’orecchio interno (costituito da utricolo, sacculo e canali semicircolari), partono dei fasci che si riuniscono nel ganglio di Scarpa, in prossimità del tronco encefalico, da dove emerge il nervo vestibolare che si dirige verso la parte alta del bulbo per formare quattro nuclei vestibolari. Il nucleo di Deiters (inferiore ed esterno) da cui emerge un fascio discendente vestibolospinale che si distribuisce ai muscoli del corpo dello stesso lato: questo tratto discendente, motorio, non volontario, fa parte del sistema extrapiramidale. Dal nucleo vestibolare inferiore ed interno partono fibre che formano i fasci vestibolospinali eterolaterali che si indirizzano ai muscoli antagonisti di quelli che dipendono dal fascio vestibolospinale omolaterale che esce dal nucleo di Deiters. Il nucleo di Betcherew (superiore ed esterno) è un relais di comunicazione tra il vestibolo e il cervelletto. L’archicerebellum, in particolare, è collegato al paleocerebellum tramite le cellule di Purkinjie: è in questo tessuto dendritico che si stabiliscono i legami di controllo delle attività posturali. Dal nucleo di Schwalbe (superiore ed interno) emerge un fascio che si prolunga nel fascio longitudinale posteriore che emette fibre verso i diversi nervi cranici. Questo consente al vestibolo un controllo su tutti i muscoli al di sopra del collo; in particolare, questi fasci si connettono con il III, IV e VI paio di nervi cranici, deputati all’innervazione dei muscoli oculari, per un controllo vestibolare sui muscoli dell’apparato visivo.
Tav. 2 - INTEGRATORE COCLEARE. A. TOMATIS, La notte Uterina, Red Edizioni, Como 1996, pp. 94-95.
La struttura sensoriale, la coclea, posta nell’orecchio interno, è deputata alla raccolta e all’analisi dei suoni provenienti dal mondo esterno. Dalla coclea partono le fibre raccolte a livello della membrana basilare e raggruppate nel ganglio del Corti, dal quale nasce il nervo cocleare e proietta i suoi assoni verso i nuclei dorsale (o principale) e ventrale (o accessorio) situati nel bulbo. Il fascio più grande attraversa la linea mediana e va a raggiungere il suo omologo dal lato opposto, formando il lemnisco laterale che si porta verso il talamo. Da qui partono i fasci talamocorticali che vanno verso la prima circonvoluzione temporale della corteccia (area 41) dove avviene la prima operazione di decodifica. Giunge poi nell’area 21 che ha il compito del riconoscimento, mentre l’area 22 si occupa dell’immagazzinamento. Quest’ultima area ha inoltre una influenza su tutta la rete extrapiramidale con la quale è connessa e che lavora di concerto con l’integratore vestibolare. Da questa zona il fascio di Turk-Meynert (temporopontinico) giunge ai nuclei del ponte, poi si proietta sul lato opposto del cervelletto (neocerebellum), per poi proseguire verso il talamo per espandersi su tutta la corteccia extrapiramidale (area frontale e parietale). Attraverso il nucleo dentato cerebellare l’informazione giunge al nucleo rosso (mesencefalo) che è in relazione con i rami vestibolari i quali, attraverso le radici anteriori del midollo si distribuiscono a tutti i muscoli del corpo. Con il grande circuito cortico-ponto-cerebello-dentato-talamo-corticale si ristruttura una memoria tanto più radicata ad ogni giro completo.
Tav. 3 - LE VIE PIRAMIDALI
Il fascio piramidale origina al livello della circonvoluzione frontale ascendente (area 4) con le cellule neuronali di Betz o piramidali giganti. Il fascio nervoso si immette nel centro semiovale, attraversa la capsula interna, passa per il braccio posteriore e giunge al tronco encefalico. Da qui attraversa il mesencefalo, il ponte e il bulbo dove emette dei fasci diretti ai nuclei somatomotori encefalici. Nella parte caudale del bulbo si divide in un fascio diretto e uno crociato. Entrambi i fasci terminano sul motoneurone alfa nelle corna anteriori della sostanza grigia del midollo spinale. Il fascio diretto incrocia la linea mediana nel midollo al momento di fare sinapsi con il motoneurone, quindi la via piramidale è tutta crociata.
I fasci spinotalamici (diretti e crociati) veicolano la sensibilità termico dolorifica (fascio spinotalamico laterale) e la sensibilità tattile superficiale (fascio spinotalamico anteriore), questa giunge al talamo e poi viene proiettata alla corteccia sensitiva primaria (circonvoluzione postcentrale).
Il movimento volontario si realizza tramite i fasci piramidali, accompagnati da una attività extrapiramidale che garantisce i movimenti automatici. Le strutture extrapiramidali, comprendono aree corticali molto estese (area 6 e 8, che scatenano i movimenti associati, l’area 5, 22, e le aree sensitive 1, 2, 3) e nuclei grigi centrali (nucleo caudato e putanem, corpo Luys e il locus niger). Il neostriatum, come abbiamo visto ha un ruolo integratore, mentre il pallidum ha un ruolo effettore. Il ruolo effettore si realizza agendo direttamente sui motoneuroni alfa (Circuito pallido-talamo-striale, in relazione con le aree corticali motrici e premotrici) e indirettamente sui motoneuroni gamma (circuito pallido-subtalamico, in relazione con la formazione reticolare).
Il sistema delle vie extrapiramidali, filogeneticamente più antico, assicura i movimenti automatici nel bambino prima della mielinizzazione dei fasci piramidali. L’obiettivo dell’educazione motoria deve riguardare la buona armonizzazione tra questi due sistemi e consentire l’arricchimento della disponibilità motoria. Affinché si instaurino delle abilità motorie, con la componente fondamentale della plasticità, è necessario un miglior controllo corticale delle strutture arcaiche. Sembra che lo striatum sia detentore di numerosi automatismi e, quando questi si scatenano, i dettagli di esecuzione del gesto mancano dell’intervento diretto della corteccia, la quale viene relegata al solo compito di servomeccanismo.
Tav. 1 - INTEGRATORE VESTIBOLARE. A.TOMATIS, La notte Uterina, Red Edizioni, Como 1996, p.86.
L’integratore vestibolare è formato da un sistema sensoriale periferico (che raccoglie la sensibilità propriocettiva dai muscoli, dalle ossa, dalle articolazioni, dai legamenti) e da un controllo sensoriale specifico dell’orecchio interno (attraverso l’utricolo, il sacculo e i canali semicircolari). Il primo raccoglie la sensibilità propriocettiva della parte sottodiaframmatica, tramite il fascio spinocerebellare dorsale (di Flechsig), e della parte sopradiaframmatica, attraverso il fascio spinocerebellare ventrale (di Gowers). Questi fasci si dirigono al paleocerebellum dove le cellule di Purkinjie assicurano il passaggio dell’informazione.
Questo primo sistema arcaico consente al vestibolo di ricevere tutti gli stimoli provenienti dalla periferia e di rispondere, in termini motori, attraverso i fasci discendenti vestibolospinali. Si aggiunge, a questo, un sistema più recente, composto dai nuclei cerebellari emboliforme e globoso. Dal primo parte un fascio paleorubrico, diretto verso il nucleo rosso del mesencefalo, da cui parte il fascio rubrospinale che incrocia la linea mediana per discendere parallelamente al fascio vestibolospinale omolaterale, sino alla sua uscita nelle radici anteriori del midollo spinale. Dal nucleo globoso parte un fascio che raggiunge l’oliva bulbare controlaterale, per formare il fascio olivospinale che si innesta nel midollo, affiancato sui due lati dai fasci vestibolospinali.
Dall’organo sensoriale vestibolare, contenuto nell’orecchio interno (costituito da utricolo, sacculo e canali semicircolari), partono dei fasci che si riuniscono nel ganglio di Scarpa, in prossimità del tronco encefalico, da dove emerge il nervo vestibolare che si dirige verso la parte alta del bulbo per formare quattro nuclei vestibolari. Il nucleo di Deiters (inferiore ed esterno) da cui emerge un fascio discendente vestibolospinale che si distribuisce ai muscoli del corpo dello stesso lato: questo tratto discendente, motorio, non volontario, fa parte del sistema extrapiramidale. Dal nucleo vestibolare inferiore ed interno partono fibre che formano i fasci vestibolospinali eterolaterali che si indirizzano ai muscoli antagonisti di quelli che dipendono dal fascio vestibolospinale omolaterale che esce dal nucleo di Deiters. Il nucleo di Betcherew (superiore ed esterno) è un relais di comunicazione tra il vestibolo e il cervelletto. L’archicerebellum, in particolare, è collegato al paleocerebellum tramite le cellule di Purkinjie: è in questo tessuto dendritico che si stabiliscono i legami di controllo delle attività posturali. Dal nucleo di Schwalbe (superiore ed interno) emerge un fascio che si prolunga nel fascio longitudinale posteriore che emette fibre verso i diversi nervi cranici. Questo consente al vestibolo un controllo su tutti i muscoli al di sopra del collo; in particolare, questi fasci si connettono con il III, IV e VI paio di nervi cranici, deputati all’innervazione dei muscoli oculari, per un controllo vestibolare sui muscoli dell’apparato visivo.
Tav. 2 - INTEGRATORE COCLEARE. A. TOMATIS, La notte Uterina, Red Edizioni, Como 1996, pp. 94-95.
La struttura sensoriale, la coclea, posta nell’orecchio interno, è deputata alla raccolta e all’analisi dei suoni provenienti dal mondo esterno. Dalla coclea partono le fibre raccolte a livello della membrana basilare e raggruppate nel ganglio del Corti, dal quale nasce il nervo cocleare e proietta i suoi assoni verso i nuclei dorsale (o principale) e ventrale (o accessorio) situati nel bulbo. Il fascio più grande attraversa la linea mediana e va a raggiungere il suo omologo dal lato opposto, formando il lemnisco laterale che si porta verso il talamo. Da qui partono i fasci talamocorticali che vanno verso la prima circonvoluzione temporale della corteccia (area 41) dove avviene la prima operazione di decodifica. Giunge poi nell’area 21 che ha il compito del riconoscimento, mentre l’area 22 si occupa dell’immagazzinamento. Quest’ultima area ha inoltre una influenza su tutta la rete extrapiramidale con la quale è connessa e che lavora di concerto con l’integratore vestibolare. Da questa zona il fascio di Turk-Meynert (temporopontinico) giunge ai nuclei del ponte, poi si proietta sul lato opposto del cervelletto (neocerebellum), per poi proseguire verso il talamo per espandersi su tutta la corteccia extrapiramidale (area frontale e parietale). Attraverso il nucleo dentato cerebellare l’informazione giunge al nucleo rosso (mesencefalo) che è in relazione con i rami vestibolari i quali, attraverso le radici anteriori del midollo si distribuiscono a tutti i muscoli del corpo. Con il grande circuito cortico-ponto-cerebello-dentato-talamo-corticale si ristruttura una memoria tanto più radicata ad ogni giro completo.
Tav. 3 - LE VIE PIRAMIDALI
Il fascio piramidale origina al livello della circonvoluzione frontale ascendente (area 4) con le cellule neuronali di Betz o piramidali giganti. Il fascio nervoso si immette nel centro semiovale, attraversa la capsula interna, passa per il braccio posteriore e giunge al tronco encefalico. Da qui attraversa il mesencefalo, il ponte e il bulbo dove emette dei fasci diretti ai nuclei somatomotori encefalici. Nella parte caudale del bulbo si divide in un fascio diretto e uno crociato. Entrambi i fasci terminano sul motoneurone alfa nelle corna anteriori della sostanza grigia del midollo spinale. Il fascio diretto incrocia la linea mediana nel midollo al momento di fare sinapsi con il motoneurone, quindi la via piramidale è tutta crociata.
I fasci spinotalamici (diretti e crociati) veicolano la sensibilità termico dolorifica (fascio spinotalamico laterale) e la sensibilità tattile superficiale (fascio spinotalamico anteriore), questa giunge al talamo e poi viene proiettata alla corteccia sensitiva primaria (circonvoluzione postcentrale).
Il movimento volontario si realizza tramite i fasci piramidali, accompagnati da una attività extrapiramidale che garantisce i movimenti automatici. Le strutture extrapiramidali, comprendono aree corticali molto estese (area 6 e 8, che scatenano i movimenti associati, l’area 5, 22, e le aree sensitive 1, 2, 3) e nuclei grigi centrali (nucleo caudato e putanem, corpo Luys e il locus niger). Il neostriatum, come abbiamo visto ha un ruolo integratore, mentre il pallidum ha un ruolo effettore. Il ruolo effettore si realizza agendo direttamente sui motoneuroni alfa (Circuito pallido-talamo-striale, in relazione con le aree corticali motrici e premotrici) e indirettamente sui motoneuroni gamma (circuito pallido-subtalamico, in relazione con la formazione reticolare).
Il sistema delle vie extrapiramidali, filogeneticamente più antico, assicura i movimenti automatici nel bambino prima della mielinizzazione dei fasci piramidali. L’obiettivo dell’educazione motoria deve riguardare la buona armonizzazione tra questi due sistemi e consentire l’arricchimento della disponibilità motoria. Affinché si instaurino delle abilità motorie, con la componente fondamentale della plasticità, è necessario un miglior controllo corticale delle strutture arcaiche. Sembra che lo striatum sia detentore di numerosi automatismi e, quando questi si scatenano, i dettagli di esecuzione del gesto mancano dell’intervento diretto della corteccia, la quale viene relegata al solo compito di servomeccanismo.
APPENDICE C
IL SISTEMA GAMMA E LE SUE CONNESSIONI
Ogni movimento si realizza attraverso una duplice funzione del muscolo. Quella tonica, fatta di contrazioni minime, per il mantenimento posturale, che rappresenta lo sfondo sul quale l’attività clonica realizza il movimento in primo piano.
L’attività tonica è regolata da riflessi di stiramento di origine midollare (riflesso miotattico). L’elemento di ricezione dello stimolo è il fuso neuromuscolare che è in grado di raccogliere l’intensità della contrazione muscolare (le fibre afferenti arrivano al midollo attraverso il circuito gamma da cui parte il sistema effettore, rappresentato dal motoneurone alfa, che è l’elemento base del tono muscolare). Questi meccanismi sono soggetti ad influenze periferiche che contribuiscono alla regolazione del tono, facilitando o inibendo l’attività gamma. Tra questi sistemi troviamo gli organi tendinei del Golgi, che hanno un’azione inibitrice sull’arco riflesso fusoriale. Altri meccanismi, che intervengono facilitando o inibendo, sono i recettori cutanei, articolari, profondi della pelle e i viscerali. Il sistema gamma viene messo in gioco in qualsiasi attività motoria e per questo viene influenzato da strutture centrali che conferiscono una grande flessibilità di funzionamento e permettono un fine adattamento dell’organismo.
La formazione reticolare, tramite la via reticolospinale, svolge una azione sia facilitatrice che inibitrice sul circuito gamma. L’ipotalamo agisce sul tono attraverso i suoi nuclei: stimolando quelli anteriori si avrà una diminuzione del tono, mentre con la stimolazione di quelli posteriori il tono aumenterà. Alla regione ipotalamica vengono affidate una serie di funzioni che comprendono la regolazione endocrina, la regolazione della temperatura, i centri della fame e del comportamento emotivo. L’aumento del tono è correlato all’aumento dell’ansietà, così come l’aumento del freddo fa aumentare la scarica gamma. Un esempio possono essere le contrazioni toniche che accompagnano il pianto del neonato quando ha fame.
Il rinencefalo agisce sul tono attraverso il controllo parasimpatico con azione moderatrice, e con il controllo ortosimpatico ad azione facilitatrice. Il cervelletto è considerato l’organo per eccellenza della coordinazione motoria. Questo esercita indirettamente la sua funzione sul tono per mezzo di altre strutture. Nel suo rapporto con la formazione reticolare modula la facilitazione con i nuclei dentellati che procurano anche un risveglio corticale. L’inibizione è modulata con i nuclei del tetto, che agiscono sul tono posturale, bloccando le scariche afferenti per la formazione reticolare. Nella relazione con il nucleo rosso, la formazione reticolare agisce sul tono attraverso la via cerebello-rubro-spinale che interviene sulla sensibilità fusoriale statica per regolare la postura. Il cervelletto si mette in relazione con la corteccia attraverso un doppio circuito: uno afferente e l’altro efferente. Il primo regola il tono e la postura della motilità volontaria, il secondo provoca un aumento dell’eccitabilità della corteccia motoria. Il cervelletto è connesso anche con i nuclei vestibolari grazie ai quali riceve afferenze labirintiche e svolge la sua funzione di equilibrio.
IL SISTEMA GAMMA E LE SUE CONNESSIONI
Ogni movimento si realizza attraverso una duplice funzione del muscolo. Quella tonica, fatta di contrazioni minime, per il mantenimento posturale, che rappresenta lo sfondo sul quale l’attività clonica realizza il movimento in primo piano.
L’attività tonica è regolata da riflessi di stiramento di origine midollare (riflesso miotattico). L’elemento di ricezione dello stimolo è il fuso neuromuscolare che è in grado di raccogliere l’intensità della contrazione muscolare (le fibre afferenti arrivano al midollo attraverso il circuito gamma da cui parte il sistema effettore, rappresentato dal motoneurone alfa, che è l’elemento base del tono muscolare). Questi meccanismi sono soggetti ad influenze periferiche che contribuiscono alla regolazione del tono, facilitando o inibendo l’attività gamma. Tra questi sistemi troviamo gli organi tendinei del Golgi, che hanno un’azione inibitrice sull’arco riflesso fusoriale. Altri meccanismi, che intervengono facilitando o inibendo, sono i recettori cutanei, articolari, profondi della pelle e i viscerali. Il sistema gamma viene messo in gioco in qualsiasi attività motoria e per questo viene influenzato da strutture centrali che conferiscono una grande flessibilità di funzionamento e permettono un fine adattamento dell’organismo.
La formazione reticolare, tramite la via reticolospinale, svolge una azione sia facilitatrice che inibitrice sul circuito gamma. L’ipotalamo agisce sul tono attraverso i suoi nuclei: stimolando quelli anteriori si avrà una diminuzione del tono, mentre con la stimolazione di quelli posteriori il tono aumenterà. Alla regione ipotalamica vengono affidate una serie di funzioni che comprendono la regolazione endocrina, la regolazione della temperatura, i centri della fame e del comportamento emotivo. L’aumento del tono è correlato all’aumento dell’ansietà, così come l’aumento del freddo fa aumentare la scarica gamma. Un esempio possono essere le contrazioni toniche che accompagnano il pianto del neonato quando ha fame.
Il rinencefalo agisce sul tono attraverso il controllo parasimpatico con azione moderatrice, e con il controllo ortosimpatico ad azione facilitatrice. Il cervelletto è considerato l’organo per eccellenza della coordinazione motoria. Questo esercita indirettamente la sua funzione sul tono per mezzo di altre strutture. Nel suo rapporto con la formazione reticolare modula la facilitazione con i nuclei dentellati che procurano anche un risveglio corticale. L’inibizione è modulata con i nuclei del tetto, che agiscono sul tono posturale, bloccando le scariche afferenti per la formazione reticolare. Nella relazione con il nucleo rosso, la formazione reticolare agisce sul tono attraverso la via cerebello-rubro-spinale che interviene sulla sensibilità fusoriale statica per regolare la postura. Il cervelletto si mette in relazione con la corteccia attraverso un doppio circuito: uno afferente e l’altro efferente. Il primo regola il tono e la postura della motilità volontaria, il secondo provoca un aumento dell’eccitabilità della corteccia motoria. Il cervelletto è connesso anche con i nuclei vestibolari grazie ai quali riceve afferenze labirintiche e svolge la sua funzione di equilibrio.
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Percorsi di cura in terapia psicodinamica. STORIA DI MARCO di Concetta Turchi. Anno 2005
STORIA DI MARCO
Concetta Turchi
Lo Sguardo, di S. T.
Era una afosa mattina di ottobre quando un collega del Ser.T. mi segnalò il caso di un paziente per le implicazioni di tipo psichiatrico che gli pareva di avere colto nei primi colloqui psicologici “di accoglienza”. Nonostante la situazione potesse sembrare di espulsione da parte del collega di un “caso rognoso”, coglievo in lui una reale preoccupazione legata alla indeterminatezza diagnostica, il che rendeva ovviamente difficoltosa qualsiasi forma di progettualità terapeutica.
Mi disse che Marco - questo il nome del paziente - era un uomo di 44 anni, nato in un paese della provincia di Ferrara, segnalato al nostro Servizio dalla Caritas, presso cui si appoggiava già da qualche tempo, a causa di un “problema di barbonismo e di alcoolismo insorto dopo la morte del figlio”. Il collega aveva colto però anche la presenza di una forte componente depressiva che, più che accompagnare il quadro di alcoolismo, sembrava avere una definizione psicopatologica tutta sua. Il collega avrebbe voluto dirmi altre cose, ma io preferii non sapere di più per lasciarmi la libertà di conoscere e sentire Marco, al di fuori di condizionamenti diagnostici già sentiti.
Come mia prassi, fissai un appuntamento dietro richiesta diretta del paziente, prevedendo all’interno della prima visita una serie di 3-4 incontri per valutare gli aspetti psicodiagnostici e, conseguentemente, la possibilità di un progetto terapeutico.
La prima visita psichiatrica: diagnosi e impostazione terapeutica
Accolgo il paziente nell'unica stanza del Servizio che non è di passaggio, stanza che posso utilizzare nel pomeriggio quando il numero degli operatori è ridotto. È un luogo disordinato e fatiscente, interrotto dai suoni dei fax e dal timbrìo dei cartellini; interrotto da quadri generosamente donati dal pazzo di passaggio e fortemente voluti da quegli operatori che sguazzano nella confusione tra malattia e sanità, convinti, per loro diretta e personale esperienza, che la sanità sia solamente una chimera. Quel luogo ben si concilia con l’aspetto a dir poco trascurato di Marco: barba lunga e capelli spettinati, anche se sembra sufficientemente pulito nei suoi abiti sgualciti e nelle scarpe approssimative. Marco si scusa senza molta convinzione del suo aspetto.
Al secondo incontro Marco si presenta puntuale all’appuntamento e decisamente più curato nell’aspetto. Ci tiene a dire che si è fatto la barba e chiede scusa per la trascuratezza portata nel primo incontro. Il volto è più rilassato e la voce non va sopra le righe, anche se le sue parole si concentrano sulla descrizione di una settimana di crisi, di pianti, di pensieri.
Siamo al terzo incontro.
Soltanto ora mi fermo a riflettere su questa prima visita. È una mia abitudine, per non interferire sul processo che si innesca nell’arco di tempo dei tre incontri.
Marco ha messo in gioco una grande capacità di entrare in relazione, e la risposta immediata al rapporto attraverso i suoi sogni ne è un aspetto chiaro per chi lo sa leggere. Come è chiara la sua angoscia di mettere insieme gli eventi per arrivare ad una definizione del loro significato: il fatto che Marco si sia sempre presentato sotto gli effetti dell’alcool, anche se in modo contenuto, rinforza quello stato nebbioso, comunque presente, percepito costantemente nei nostri incontri.
All’interno del rapporto Marco, pur mostrandosi espansivo, è guardingo e manipolativo. L’esaltazione di alcune sue capacità hanno il solo scopo di carpire un giudizio nei suoi confronti, piuttosto che di riconoscersi davvero qualcosa. Così Marco diventa bugiardo nel tentativo, peraltro riuscito, di non fare emergere degli aspetti di Sé collegati ad un possibile giudizio negativo. In fondo, diventare barboni, depressi e alcoolisti dopo la morte di un figlio, è un fatto umanamente comprensibile e difficilmente deprecabile. In questa ottica, la suprema bugia sta nel senso che attribuisce al suo essere barbone, una sorta di “scelta romantica dettata dalla sorte” che nulla ha a che fare con la realtà cruda della sua storia che emerge a tratti.
È strano a dirsi, ma al di là delle bugie, Marco si mostra esattamente per ciò che è. Una sorta di forza interna lo porta a rappresentare concretamente ed esattamente cosa vive nella profondità del suo essere: un senso di abbandono e di solitudine, messo a tale distanza da non potere essere provato. Ed è proprio l’angoscia di non provare nulla che lo porta a vestire ogni verità possibile con degli abiti carnevaleschi - le storie - che rappresentano una continua provocazione per vedere se ottiene dall’altro la risposta di sempre: “Sei solo un bugiardo”. La conferma del suo pensiero.
Verità e bugia e, al di sotto, l’angoscia, che porta il filo del pensiero sempre ai bordi della realtà: una sorta di stato oniroide che non altera più di tanto il rapporto con la realtà. L’alcool, che accentua tale stato, sembra avere il compito di proteggere Marco dall’impatto con quella malattia psichica che nasce da una profonda lesione narcisistica e che si esprime non solo con uno scompenso affettivo costantemente attivo, ma anche con modalità di rapporto di tipo psicotico dove i confini tra sé stesso e il mondo esterno si sfumano. Dove è la realtà e dove comincia l’incubo? Marco non lo sa. Una parte di lui sa solo che è ad un passo dalla follia e proprio non può renderla evidente al suo stesso sguardo e a quello altrui: meglio mostrarsi impazzito per un dolore che non prova piuttosto che essere pazzo senza saperne il motivo.
La nebbia che sale nel rapporto con gli altri gli permette di mettere loro dentro i suoi contenuti emotivi ed affettivi e viverli attraverso questo gioco di identificazioni proiettive. Per questo si sente poi così terribilmente svuotato dagli altri: nulla rimane dentro di lui dopo, quando l’altro non c’è più lì davanti per essere ascoltato e vissuto, e... d’altra parte è l’unico modo che conosce per non sentirsi definitivamente morto.
Così i suoi affetti e le sue emozioni si disperdono negli altri, in quelli che lo circondano: da sempre lui è un barbone negli affetti, anche se solo da qualche tempo il barbonismo affettivo è diventato un “agito”, fatto concreto e materiale che parla di una crisi psichica non più contenibile.
Mentre si fa strada dentro di me l’ipotesi diagnostica, avverto che Marco si trova di fronte ad un bivio: continuare a scappare da sé stesso e dagli altri rimanendo ancorato, attraverso l’alcoolismo negato, al cordone ombelicale dell’assistenzialismo senza via di scampo, oppure riuscire ad esprimere la rabbia narcisistica, da sempre coatta per il timore di esplicitare la malattia mentale.
Nell’incontro successivo Marco si presenta puntuale, curato e ben lucido. Dice di avere passato una settimana difficile, ma vuole parlare subito di un sogno: “Mi trovavo in macchina insieme con un altro uomo che era alla guida; quest’ultimo aveva una sorta di paralisi e mi chiedeva se potevo mettermi al volante. Io mi mettevo al volante della macchina e proseguivo. Compare mio figlio Angelo e mi chiede di non mollare, di resistere”.
Contattata una clinica psichiatrica, Marco viene messo in lista d’attesa mentre, dopo molte peripezie, riusciamo a trovare un posto letto in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC). All’interno della struttura ospedaliera continuano i nostri incontri settimanali.
Lo scontro con le istituzioni: transfert istituzionale
Nel periodo di ricovero ospedaliero, durato quattro settimane, Marco vive uno stato di grave depressione in cui si presentano assordanti idee di morte. È questo il momento in cui raccolgo nuovi dati anamnestici, che continuano tuttavia a rimanere assai vaghi e come sospesi nel tempo.
La depressione avanza a grandi passi mentre Marco, per la prima volta, parla di periodi di alcoolismo importanti che precedono la morte del figlio. L’attitudine all’alcool lo ha accompagnato nei vari passaggi della sua vita, facilitata sicuramente anche dalla sua professione di barman. Marco ha sempre bevuto vino e superalcolici e, in molte occasioni, queste sostanze sono state “degli autentici supporti rispetto ai vissuti depressivi che insorgevano di fronte alle difficoltà della vita”.
Scappato da quel luogo, ha continuato la sua fuga nel mondo e i suoi vissuti di depressione e di angoscia sono stati coperti da un personaggio “simpatico e accattivante sempre disponibile”, sempre in grado di proporsi come vincitore: nasce Ribot, come il mitico cavallo destinato a dovere vincere sempre. È così che veniva chiamato sul luogo di lavoro.
Nei mesi successivi Marco continua il suo percorso psicoterapeutico con me. Ci incontriamo una volta alla settimana e sono io per tre mesi ad andare in Clinica; successivamente è Marco a venire settimanalmente al Ser.T. per il colloquio terapeutico. Il lavoro di psicoterapia dinamica ricostruttiva si concentra sulla possibilità di fare emergere il suo vero Sé: i sogni su Angelo, a questo proposito, sono degli indicatori importanti. Emerge inoltre l’angoscia di potere essere omosessuale: le donne, con le loro continue richieste - anche sul piano sessuale - sono fonte di persecuzione.
Se all’interno dell’Ospedale il livello di partecipazione garantito dall’assistenza psichiatrica non interferiva con il lavoro terapeutico, ben altra situazione vivo nel rapporto con i colleghi della Clinica, che sono fin troppo attivi e interventisti sul “caso di Marco”. In Clinica gli aspetti francamente psichiatrici che emergono in Marco in modo intermittente e indipendentemente dal trattamento farmacologico, portano i medici a porsi numerose domande rispetto alla diagnosi. Pertanto Marco viene sottoposto a numerosi colloqui e io stessa in più occasioni mi rendo disponibile ad un confronto diagnostico con i colleghi della Clinica.
Quando l’atteggiamento degli operatori della Clinica da disponibile si trasforma in invasivo, Marco comincia ad invadere il reparto dei suoi disegni. Si comincia ad evidenziare una psichiatrizzazione diffusa e sicuramente eccessiva “del caso”, sia per quanto riguarda gli aspetti farmacologici che psicoterapeutici: “il paziente viene inserito in un programma di colloqui individuali settimanali”, senza tenere conto del lavoro psicoterapeutico già in corso con me e, per di più, viene contemporaneamente invitato, senza alcuna consultazione o preavviso nei miei confronti, a partecipare ad un gruppo terapeutico aperto anche agli esterni.
Se la Clinica Psichiatrica si proponeva con l’esaltazione folle della parte psichiatrica di Marco, da parte del Dipartimento di Salute Mentale si presentava il tentativo opposto: la negazione della malattia specificatamente psichiatrica si nascondeva dietro la falsa diagnosi di alcoolismo - guarda caso la stessa copertura usata da Marco - e pertanto avviava il disconoscimento delle competenze psichiatriche istituzionali, fino ad arrivare alla negazione della conferma della autorizzazione al ricovero in Clinica. Anche con i colleghi del DSM, improvvisamente tempestati da lacune mnesiche degne dei più gravi alcoolisti, si arriva allo scontro prima di superare, per così dire... “le difficoltà burocratiche”.
Da quel momento uscivo di scena dalle ragnatele del concretismo istituzionale.
Rimango in una attesa vigile, ferma nella mia prospettiva, mentre anche l’eccellente collega mi esorta ad arrendermi all’idea di far fare a Marco un percorso assistenziale all’interno di una Comunità per alcoolisti, magari una di quelle con la classica figura carismatica che continua a inchiodarti sulla croce.
La terapia continua: riproposizione della speranza
Aspettavo la risposta e la risposta venne. Venne attraverso un altro paziente che avevo cominciato a seguire già da qualche mese. Capitato a Roma per motivi di lavoro, lui proveniva da una Comunità Terapeutica del nord ed era una di quelle rarissime testimonianze del buon lavoro che può essere fatto anche all’interno di una Comunità Terapeutica. Grazie ai contatti con i colleghi di questa Comunità per raccordarci nel lavoro con questo paziente, nasceva un confronto teorico importante e non frequente. Parlando con loro di Marco, trovo la massima disponibilità ad accoglierlo. Nel mese della vendemmia affrontiamo con Marco i vissuti della separazione, dalla Clinica, da Roma e dai pochi amici… da me.
Nell’ultimo colloquio Marco entra in stanza con lo sguardo assorto. Mi guarda con uno sguardo interrogativo e mi chiede se ho sentito la madre di Angelo. Annuisco. Gli dico che abbiamo parlato di molte cose e anche di Angelo. Marco è tranquillo. Continuo a parlare.
Gli chiedo da quanto tempo sa che Angelo è vivo. Marco mi dice che negli ultimi due mesi ha cominciato ad avere un dubbio sulla morte del figlio, ma ne ha avuto la conferma solo quando ha sentito la madre. Non me ne ha parlato subito e in modo diretto perché ha avuto paura che io non gli credessi; in fondo lui è sempre stato considerato un bugiardo, uno che prende in giro gli altri.
Mi chiede se ce la farà. Gli rispondo che lo aspetta ancora molto lavoro. Marco piange sommessamente, quasi un pianto tra sé e sé, ed avverto per la prima volta, non una sofferenza angosciata, ma un dolore profondo che lo porta a dire: “Dottoressa, ero proprio tanto malato”. Gli rispondo di sì.
I lineamenti del volto sono distesi quando parla del futuro che lo aspetta. È contento ora di andare nel nord perché anche suo figlio è lassù e il saperlo così vicino accorcia anche le distanze interne.
È un lunedì mattina quando vado a prendere Marco in Clinica per accompagnarlo alla Stazione. Ha tante valigie e ridiamo mentre cerchiamo di stiparle nel bagagliaio capace della mia auto. Aspettando l’orario della partenza del treno, passeggiamo in silenzio per i luoghi della desolazione di quando era barbone. Prendiamo un caffé e sorseggiamo insieme questa separazione che diventa il viaggio nella speranza ritrovata. Le emozioni continuano a circolare su una profonda sensazione di calma.
La memoria costruisce la storia e... la storia riconduce alla memoria
Sono passati due anni da quella mattina. In questo periodo Marco ha mantenuto un contatto telefonico costante con me. Da parte mia ho dato la massima disponibilità di confronto agli operatori della Comunità e sono andata due volte, una per ogni anno, lassù a Torino.
Marco ha dato sempre meno spazio a Ribot affrontando così la realtà dei suoi limiti. Ha continuato a disegnare e a dipingere ed è diventato davvero bravo: ha anche vinto dei premi e venduto alcune sue opere. Da qualche mese ha cominciato a cimentarsi nel suo lavoro di un tempo: sente la fatica del lavoro... e dei suoi anni, ma ha buona volontà ed è sempre molto comunicativo. Vede regolarmente Angelo ed è stato anche presente in alcuni momenti sociali importanti della sua vita. Era molto emozionato mentre mi mostrava le foto di questi eventi. Ora si veste da uomo e non più da ragazzo, anche se non rinuncia al suo estro.
Qualche giorno fa è venuto a Roma per sbrigare delle pratiche burocratiche. Ci siamo trovati, dopo due anni, nuovamente in quel luogo fatiscente del nostro primo incontro. Ha tirato fuori dallo zaino un regalo che ha fatto con le sue mani: è una mela di cartapesta. Dice che simbolicamente mi vuole consegnare la sua tentazione a bere. Prendo la mela in mano: è davvero bella!
Gli dico che non credo proprio che quella mela abbia quel significato. Mi guarda divertito, poi diventa serio e ribadisce che vuole tornare a Roma. “Io sono nato con lei ed è con lei che voglio continuare il mio percorso. Voglio capire perché ho ancora tanto bisogno di dire le bugie”. Allude al fatto che in Comunità ha raccontato, questa volta lucidamente, della morte di Paolo, il primogenito, che ha ricercato inutilmente nell’ultimo anno.
Mi disse che Marco - questo il nome del paziente - era un uomo di 44 anni, nato in un paese della provincia di Ferrara, segnalato al nostro Servizio dalla Caritas, presso cui si appoggiava già da qualche tempo, a causa di un “problema di barbonismo e di alcoolismo insorto dopo la morte del figlio”. Il collega aveva colto però anche la presenza di una forte componente depressiva che, più che accompagnare il quadro di alcoolismo, sembrava avere una definizione psicopatologica tutta sua. Il collega avrebbe voluto dirmi altre cose, ma io preferii non sapere di più per lasciarmi la libertà di conoscere e sentire Marco, al di fuori di condizionamenti diagnostici già sentiti.
Come mia prassi, fissai un appuntamento dietro richiesta diretta del paziente, prevedendo all’interno della prima visita una serie di 3-4 incontri per valutare gli aspetti psicodiagnostici e, conseguentemente, la possibilità di un progetto terapeutico.
La prima visita psichiatrica: diagnosi e impostazione terapeutica
Accolgo il paziente nell'unica stanza del Servizio che non è di passaggio, stanza che posso utilizzare nel pomeriggio quando il numero degli operatori è ridotto. È un luogo disordinato e fatiscente, interrotto dai suoni dei fax e dal timbrìo dei cartellini; interrotto da quadri generosamente donati dal pazzo di passaggio e fortemente voluti da quegli operatori che sguazzano nella confusione tra malattia e sanità, convinti, per loro diretta e personale esperienza, che la sanità sia solamente una chimera. Quel luogo ben si concilia con l’aspetto a dir poco trascurato di Marco: barba lunga e capelli spettinati, anche se sembra sufficientemente pulito nei suoi abiti sgualciti e nelle scarpe approssimative. Marco si scusa senza molta convinzione del suo aspetto.
Forse dovrei fare lo stesso per la stanza in cui sono costretta ad accoglierlo. Non ho il tempo neppure di pensarlo che già ascolto la mia voce dire che non sempre è possibile vedere le persone nel modo in cui si vorrebbe. Accenno alla stanza che fa finta di accoglierci, nella sua arroganza istituzionale. Mi guarda serio con il silenzio necessario… poi… comincia la sua narrazione…
Marco sembra un fiume in piena quando racconta con voce forte - a volte decisamente sopra le righe - che nel mese di luglio, dopo avere perso il figlio di tre anni per una embolia cerebrale, ha cominciato a fare il barbone. Da allora, dice, ha rotto con il suo passato e con ogni possibilità di futuro.Ascolto il suo pianto: le sue lacrime mi scorrono sul corpo in modo lieve. Le sue parole cercano di esprimere un dolore che non viene provato. Osservo le mani, i suoi denti, la sua pelle: parlano di un deterioramento più antico che sembra conferire una concretezza e una gravità a quella sofferenza non sentita. Infastidita da quella evidenza fin troppo evidente colloco quella immagine nitida sullo sfondo e mi metto in ascolto delle sue connessioni più profonde ed invisibili.
Tutto quello che cade sotto i miei sensi mi racconta di una spaccatura antica, di un abbandono mai superato. Rimango in silenzio mentre ribadisce che le sue problematiche attuali sono esclusivamente collegate all’evento materiale della perdita.
Racconta del difficile rapporto con la madre di Angelo, suo figlio: lui la ritiene responsabile della “sua morte” visto che, quando Angelo si era sentito male, lei non era presente. Da allora si rifiuta di sentirla e non risponde quando sul cellulare compare il suo numero.Tutto quello che cade sotto i miei sensi mi racconta di una spaccatura antica, di un abbandono mai superato. Rimango in silenzio mentre ribadisce che le sue problematiche attuali sono esclusivamente collegate all’evento materiale della perdita.
Perché il suo sguardo si fa ancora più sfuggente mentre mi racconta queste cose? E lui dove era mentre Angelo moriva? Sento la sua angoscia che mi stringe lo stomaco e mi chiude la bocca. Posso tenerla nel silenzio necessario, mentre sento l’emozione velarmi lo sguardo.
Come barbone, inizia il suo percorso assistenziale che lo porta a dormire alla Caritas e ad arrangiarsi con qualche lavoretto presso alcuni ristoranti. Grazie a questa tela di sostegno riesce a combattere i continui pensieri di morte che si presentano in questo momento della sua vita in cui ogni aspetto del suo passato sembra non dovere più esistere.Già… dove è finita la memoria di quest’uomo che parla incessantemente dei suoi ricordi? Non vi è traccia alcuna di lui. Dove è Marco? E dove può andare Angelo se Marco sembra non dover esistere? Chiudo gli occhi per allontanare ancora una volta il barbone e tentare di accogliere altro… oltre…
La voce… la sua voce è vera nell’esprimere il senso della perdita, anche se i suoi racconti sembrano non esserlo. Anche io in fondo cerco di identificarmi da quella stanza che somiglia ad un barbone, mi riconoscerà?
...E Marco parla con enfasi dei suoi trascorsi lavorativi “gloriosi”, grazie al suo lavoro di barman affermato “anche a livello internazionale”.La voce… la sua voce è vera nell’esprimere il senso della perdita, anche se i suoi racconti sembrano non esserlo. Anche io in fondo cerco di identificarmi da quella stanza che somiglia ad un barbone, mi riconoscerà?
È la sua angoscia di morte che lo porta all’esaltazione... ed è ancora lei a portarlo ad essere...
...un punto di riferimento per molti “poveretti” all’interno della Caritas.Il suo orgoglio, mentre dice che non vuole l’elemosina da nessuno, stride con la sua richiesta assistenziale. Anche la sua affettività è oscillante: gli aspetti depressivi legati al senso di perdita di qualcosa di sé che lui collega alla materialità della morte del figlio, si alternano a quelli francamente ipomaniacali. Divinità onnipotente e umana impotenza si alternano in un gioco di morte.
Ascolto la sua esigenza di silenzio completamente soverchiata dal bisogno di parlare. Il silenzio permette l’ascolto ed è evidente che lui non può ascoltare, che non può prendere in considerazione la possibilità di una reale presenza dell’altro.
Mentre lo psichiatra fenomenologo appunta un rapporto estremamente labile con il tempo: ho la sensazione di vagare nella nebbia di un racconto dove le azioni possono diventare nitide solo per un attimo per poi rientrare in dissolvenza. In quella nitidezza che non trova parola, si affacciano l’angoscia e i sensi di colpa, rispetto ad una vita, non solo quella esterna, buttata nella strada.
Non parla dell’alcoolismo. Non gli chiedo dell’alcoolismo.
Ascolto la sua esigenza di silenzio completamente soverchiata dal bisogno di parlare. Il silenzio permette l’ascolto ed è evidente che lui non può ascoltare, che non può prendere in considerazione la possibilità di una reale presenza dell’altro.
Mentre lo psichiatra fenomenologo appunta un rapporto estremamente labile con il tempo: ho la sensazione di vagare nella nebbia di un racconto dove le azioni possono diventare nitide solo per un attimo per poi rientrare in dissolvenza. In quella nitidezza che non trova parola, si affacciano l’angoscia e i sensi di colpa, rispetto ad una vita, non solo quella esterna, buttata nella strada.
Non parla dell’alcoolismo. Non gli chiedo dell’alcoolismo.
Al secondo incontro Marco si presenta puntuale all’appuntamento e decisamente più curato nell’aspetto. Ci tiene a dire che si è fatto la barba e chiede scusa per la trascuratezza portata nel primo incontro. Il volto è più rilassato e la voce non va sopra le righe, anche se le sue parole si concentrano sulla descrizione di una settimana di crisi, di pianti, di pensieri.
Il suo sguardo è nitido mentre dice che ha fatto un sogno. Non capitava da tempo.
“Camminavo sulle acque e dal cielo mio figlio e mia madre mi chiamavano”. Aggiunge, “Non ho capito perché mi chiamavano a loro... Come se mi dovessi suicidare?”.Beh! Meno male che non è proprio Dio, ma il figlio di Dio, incarnato in una umanità che lo porta a vivere la realtà della morte. E per di più viene richiamato ad una umanità che si allontana ulteriormente dal divino. Mi ha ascoltato. Mi ha riconosciuto.
Gli dico che il sogno esprime una richiesta altra che ancora non si fa riconoscere. Annuisce pensieroso.Come ricondurlo alla sua umanità?
Gli chiedo se si sente in croce e lui mi risponde di sì, come se non avesse una possibilità di scelta. Anche nel rapporto con la madre si sentiva così; lei lo picchiava spesso bloccandogli sempre le emozioni piacevoli. Piange sul rapporto con la madre...È un pianto vero. La madre è una figura troppo ambivalente. È stata probabilmente una scellerata complice del padre nella castrazione-crocifissione di quel figlio. Sta parlando della sua angoscia nei confronti delle donne, nei miei confronti, visto che anche io sono una donna.
Non rimane che Angelo, bambino morto per una embolia cerebrale, ucciso per una identificazione con un padre ragionevole. Ora mi parlerà di lui… e infatti…
... Marco parla del padre, morto quando lui era poco più che bambino. “Era uno che decideva tutto per tutti”; sua la decisione di non mandarlo a giocare a pallone come professionista. Parla anche di due fratelli più grandi di lui - uno sembra sia morto - e il maggiore per un lungo periodo della sua vita è stato alcoolista. Dopo la morte del padre viene messo in un collegio religioso per circa due anni. Fuggito dal collegio, ormai adolescente, comincia a girare il mondo con il suo lavoro di barman: un anno a Londra, un anno a Parigi, poi il ritorno in Italia. Con il lavoro, grazie al suo carattere istrionico, ha un buon successo, partecipando anche a trasmissioni televisive rinomate.Non rimane che Angelo, bambino morto per una embolia cerebrale, ucciso per una identificazione con un padre ragionevole. Ora mi parlerà di lui… e infatti…
La nebbia si dirada a tratti. Mi appare chiaro il significato affettivo degli acting out di fuga, i sensi di colpa legati alla sua assenza come uomo, come marito e come padre, il farsi Dio per non confrontarsi con i vissuti dell’impotenza: la rabbia e la disperazione. Nella nebbia vedo il sorriso di Marco, la sua recettività in grado di rispondere alla mia presenza: è più stabile durante il colloquio, più disposto ad ascoltare.
Quando lascia la stanza anche io sorrido ripensando a quello che Marco mi ha voluto comunicare nel momento in cui ha accennato, con la velocità del fulmine, delle numerose profferte sessuali che riceve alla Caritas e delle sue passate esperienze come spogliarellista nel periodo in cui lavorava per la televisione. Vuole essere visto come uomo… o meglio… vuole esibire la sua mascolinità dato che non ce la fa a sostenere il rapporto con una donna. Bella trappola! Lascio correre. Forse è la stessa velocità usata nell’accennare a momenti di ubriachezza vissuti subito dopo la morte di Angelo, che mi porta a sorvolare anche su questo argomento.
Marco è entrato nella relazione e sta cercando di manovrare il rapporto per il timore di essere portato su un terreno che avverte pericoloso per lui, ha paura che anche io gli porti via qualcosa. Mi metterò in ascolto dei suoi tempi interni, quelli che cercano in silenzio nella nebbia. Quanto tempo occorrerà?
Quando lascia la stanza anche io sorrido ripensando a quello che Marco mi ha voluto comunicare nel momento in cui ha accennato, con la velocità del fulmine, delle numerose profferte sessuali che riceve alla Caritas e delle sue passate esperienze come spogliarellista nel periodo in cui lavorava per la televisione. Vuole essere visto come uomo… o meglio… vuole esibire la sua mascolinità dato che non ce la fa a sostenere il rapporto con una donna. Bella trappola! Lascio correre. Forse è la stessa velocità usata nell’accennare a momenti di ubriachezza vissuti subito dopo la morte di Angelo, che mi porta a sorvolare anche su questo argomento.
Marco è entrato nella relazione e sta cercando di manovrare il rapporto per il timore di essere portato su un terreno che avverte pericoloso per lui, ha paura che anche io gli porti via qualcosa. Mi metterò in ascolto dei suoi tempi interni, quelli che cercano in silenzio nella nebbia. Quanto tempo occorrerà?
Siamo al terzo incontro.
Cosa porterà Marco? In che modo mi aiuterà a sbrogliare la matassa della confusione e della paralisi?
Esordisce dicendo che è stata una settimana d’inferno. Dice di avere sognato che il figlio lo chiamava a sé e ritorna sul tema del suicidio.Argomenti strumentali, penso, eppure Marco porta una crisi reale rispetto ai propri vissuti. È entrato davvero in risonanza con la sua depressione e sento come per lui sia molto difficile sostenere questo stato.
Il lavoro lo aiuta, lo aiuta aiutare gli altri, anche se, per la prima volta, si lamenta degli atteggiamenti di questi ultimi, che lo svuotano e tentano di portargli via sempre tutto.Come fa ad affidarsi se anche io posso diventare una che lo svuota? Lascio cadere, almeno per il momento. Seguo il filo di Angelo e...
...gli dico che il richiamo del figlio nel sogno è un richiamo alla presenza, ad esserci e a non scappare di fronte a tutto, per prima cosa alle sue emozioni. La morte del figlio, unica causa, secondo il suo punto di vista, del suo stato attuale, ha messo a nudo una malattia preesistente che si concretizza in un profondo senso di disperazione rispetto alla possibilità di incontrare veramente l’altro. “Lei è sempre stato solo e non solo da quando Angelo è morto”.Marco è serio, assorto, presente. Quando parlo di malattia ha un sussulto interno, ma poi i muscoli del suo viso si rilassano come se finalmente potesse parlare di qualcosa o di qualcuno dimenticato.
Gli dico che sento di fare mia questa richiesta del figlio ad esserci e gli chiedo se, nel rispetto dei suoi tempi, lui intende riprendersi la sua vita affrontando la sua malattia psichica ed uscire dal ciclo assistenziale in cui si è immesso.Ecco… mi ha messo su di un piatto d’argento la possibilità di lanciargli una sfida. Sento che Marco ha paura di me, proprio come quando Angelo lo chiamava nei suoi sogni. Ho ripreso il filo del tempo e sono uscita fuori dalla palude istituzionale dell’assenteismo. Ora la mano passa a lui…
Fisso un ulteriore incontro per sentire come Marco elabora quanto emerso da questi primi tre colloqui e per potere discutere del caso con il collega.Soltanto ora mi fermo a riflettere su questa prima visita. È una mia abitudine, per non interferire sul processo che si innesca nell’arco di tempo dei tre incontri.
Marco ha messo in gioco una grande capacità di entrare in relazione, e la risposta immediata al rapporto attraverso i suoi sogni ne è un aspetto chiaro per chi lo sa leggere. Come è chiara la sua angoscia di mettere insieme gli eventi per arrivare ad una definizione del loro significato: il fatto che Marco si sia sempre presentato sotto gli effetti dell’alcool, anche se in modo contenuto, rinforza quello stato nebbioso, comunque presente, percepito costantemente nei nostri incontri.
All’interno del rapporto Marco, pur mostrandosi espansivo, è guardingo e manipolativo. L’esaltazione di alcune sue capacità hanno il solo scopo di carpire un giudizio nei suoi confronti, piuttosto che di riconoscersi davvero qualcosa. Così Marco diventa bugiardo nel tentativo, peraltro riuscito, di non fare emergere degli aspetti di Sé collegati ad un possibile giudizio negativo. In fondo, diventare barboni, depressi e alcoolisti dopo la morte di un figlio, è un fatto umanamente comprensibile e difficilmente deprecabile. In questa ottica, la suprema bugia sta nel senso che attribuisce al suo essere barbone, una sorta di “scelta romantica dettata dalla sorte” che nulla ha a che fare con la realtà cruda della sua storia che emerge a tratti.
È strano a dirsi, ma al di là delle bugie, Marco si mostra esattamente per ciò che è. Una sorta di forza interna lo porta a rappresentare concretamente ed esattamente cosa vive nella profondità del suo essere: un senso di abbandono e di solitudine, messo a tale distanza da non potere essere provato. Ed è proprio l’angoscia di non provare nulla che lo porta a vestire ogni verità possibile con degli abiti carnevaleschi - le storie - che rappresentano una continua provocazione per vedere se ottiene dall’altro la risposta di sempre: “Sei solo un bugiardo”. La conferma del suo pensiero.
Verità e bugia e, al di sotto, l’angoscia, che porta il filo del pensiero sempre ai bordi della realtà: una sorta di stato oniroide che non altera più di tanto il rapporto con la realtà. L’alcool, che accentua tale stato, sembra avere il compito di proteggere Marco dall’impatto con quella malattia psichica che nasce da una profonda lesione narcisistica e che si esprime non solo con uno scompenso affettivo costantemente attivo, ma anche con modalità di rapporto di tipo psicotico dove i confini tra sé stesso e il mondo esterno si sfumano. Dove è la realtà e dove comincia l’incubo? Marco non lo sa. Una parte di lui sa solo che è ad un passo dalla follia e proprio non può renderla evidente al suo stesso sguardo e a quello altrui: meglio mostrarsi impazzito per un dolore che non prova piuttosto che essere pazzo senza saperne il motivo.
La nebbia che sale nel rapporto con gli altri gli permette di mettere loro dentro i suoi contenuti emotivi ed affettivi e viverli attraverso questo gioco di identificazioni proiettive. Per questo si sente poi così terribilmente svuotato dagli altri: nulla rimane dentro di lui dopo, quando l’altro non c’è più lì davanti per essere ascoltato e vissuto, e... d’altra parte è l’unico modo che conosce per non sentirsi definitivamente morto.
Così i suoi affetti e le sue emozioni si disperdono negli altri, in quelli che lo circondano: da sempre lui è un barbone negli affetti, anche se solo da qualche tempo il barbonismo affettivo è diventato un “agito”, fatto concreto e materiale che parla di una crisi psichica non più contenibile.
Mentre si fa strada dentro di me l’ipotesi diagnostica, avverto che Marco si trova di fronte ad un bivio: continuare a scappare da sé stesso e dagli altri rimanendo ancorato, attraverso l’alcoolismo negato, al cordone ombelicale dell’assistenzialismo senza via di scampo, oppure riuscire ad esprimere la rabbia narcisistica, da sempre coatta per il timore di esplicitare la malattia mentale.
Nell’incontro successivo Marco si presenta puntuale, curato e ben lucido. Dice di avere passato una settimana difficile, ma vuole parlare subito di un sogno: “Mi trovavo in macchina insieme con un altro uomo che era alla guida; quest’ultimo aveva una sorta di paralisi e mi chiedeva se potevo mettermi al volante. Io mi mettevo al volante della macchina e proseguivo. Compare mio figlio Angelo e mi chiede di non mollare, di resistere”.
Ecco che Marco racconta attraverso il mondo onirico, del passaggio da una condizione assistenziale a un farsi carico della malattia: mettersi al volante e riprendere in mano la sua vita...
E infatti porta degli aspetti di sincerità rispetto all’alcoolismo, peraltro non richiesti da me: per la prima volta dice che beve il vino durante il giorno, non tanto per ubriacarsi, ma per stordirsi un po’. Dice anche che ha tentato di impasticcarsi con alcuni farmaci antidepressivi dati dal medico della Caritas, ma si è provocato immediatamente il vomito.Ha paura, ha paura di me. È questo che penso mentre sento la sua voce che mi chiede…
...di poter fare un incontro congiunto anche con il collega che l’ha visto prima di me.Il paralitico lo rassicura. Forse vuole chiedere qualcosa che non si sente di chiedere a me direttamente, per il timore che io lo rifiuti. Ancora una volta Marco sta covando una soluzione. Sorrido.
Dopo una consultazione con il collega, decidiamo di vederlo insieme. In questo incontro Marco fa esplicita richiesta di un ricovero. Tale richiesta trova un duplice senso, che viene restituito a Marco in modo chiaro: da una parte la necessità di uno spazio dove potere vivere la profonda depressione che sta emergendo, dall’altra la necessità di un luogo più adeguato dove potere eventualmente riallacciare “senza vergogna” il rapporto con i familiari.Contattata una clinica psichiatrica, Marco viene messo in lista d’attesa mentre, dopo molte peripezie, riusciamo a trovare un posto letto in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC). All’interno della struttura ospedaliera continuano i nostri incontri settimanali.
Lo scontro con le istituzioni: transfert istituzionale
Nel periodo di ricovero ospedaliero, durato quattro settimane, Marco vive uno stato di grave depressione in cui si presentano assordanti idee di morte. È questo il momento in cui raccolgo nuovi dati anamnestici, che continuano tuttavia a rimanere assai vaghi e come sospesi nel tempo.
Ecco… attraverso la sua storia Marco racconta le sue storie bugiarde. Ma almeno la maschera del clown giocoliere e giocherellone è caduta, per lasciare posto ad un volto segnato dalle cicatrici affettive dei ricordi che cercano frammenti di memoria.
Marco ha avuto un’altra storia importante con una donna, divenuta sua moglie, da cui ha avuto Paolo, ora undicenne, che non vede da molti anni e di cui ha sempre sospettato la paternità. “Era una donna facile, di quelle che si conoscono nei bar. Non mi fidavo di lei e così la storia è finita”. Solo dopo quella separazione si è legato alla madre di Angelo. A suo dire, mentre lui diminuiva i lavori che lo portavano lontano dalla famiglia, la compagna, lanciata nella sua realizzazione professionale, per motivi di lavoro cominciava a spostarsi per l’Italia. I “feroci litigi” culminano nella rottura dopo circa quattro anni di convivenza.La depressione avanza a grandi passi mentre Marco, per la prima volta, parla di periodi di alcoolismo importanti che precedono la morte del figlio. L’attitudine all’alcool lo ha accompagnato nei vari passaggi della sua vita, facilitata sicuramente anche dalla sua professione di barman. Marco ha sempre bevuto vino e superalcolici e, in molte occasioni, queste sostanze sono state “degli autentici supporti rispetto ai vissuti depressivi che insorgevano di fronte alle difficoltà della vita”.
Continua con la sua storia bugiarda. Non sono gli eventi difficili che lo fanno cadere in depressione, ma è la depressione che lo imprigiona in continuazione negli eventi difficili. Lo affronto sempre in modo deciso ogni qualvolta vuole insinuare questa sua verità bugiarda.
Ed ecco emergere in maniera molto netta e dolorosa la sensazione di avere rinunciato alla sua vera vita. Da quando il padre gli ha impedito di seguire la sua strada come giocatore di pallone, l’odio per lui si è manifestato in tutta la sua forza e quando poi il padre è morto, il senso di colpa sembra avere seppellito i suoi desideri e i suoi vissuti più profondi. Poi il collegio, dove i vissuti abbandonici rispetto alla famiglia si sono sommati all’angoscia legata alle molestie sessuali subìte.Scappato da quel luogo, ha continuato la sua fuga nel mondo e i suoi vissuti di depressione e di angoscia sono stati coperti da un personaggio “simpatico e accattivante sempre disponibile”, sempre in grado di proporsi come vincitore: nasce Ribot, come il mitico cavallo destinato a dovere vincere sempre. È così che veniva chiamato sul luogo di lavoro.
La maniacalità di Ribot impattava con la realtà degli affetti sia della sua famiglia d’origine che delle famiglie che andava faticosamente costruendo. I fallimenti facevano crescere i vissuti depressivi e questi ultimi, poiché non dovevano essere ascoltati, creavano uno scollamento sempre crescente tra il suo vero Sé possibile e il falso Sé costruito difensivamente, creando una lettura del mondo comunque sostenuta da una sorta di percezione delirante latente che agiva, e continua a farlo, soprattutto nel giudizio costruito nel confronto con gli altri.
La morte di Angelo… la crisi… fa emergere tutto in modo drammatico: la fuga diventa deriva individuale e sociale, l’alcoolismo diventa un sintomo ancora più evidente per annegare gli altri sintomi… quelli più temuti… quelli della follia: le pseudoallucinazioni visive e uditive collegate alle continue e assordanti idee di morte, ai suoi annullamenti.
Questo è il momento in cui ottengo delle indicazioni telefoniche per contattare i familiari di Marco, ma loro da tempo non vogliono saperne più niente. “Marco è bugiardo e inaffidabile”, dicono. Sono ancora molto arrabbiati con lui, perché dopo averlo ospitato per aiutarlo nella disassuefazione all’alcool attraverso dei gruppi di auto-aiuto frequentati anche dal fratello maggiore, “dopo avere combinato un sacco di guai con le sue bugie”, Marco è scomparso nel nulla. Sapevano del naufragio dell’ultima storia affettiva, ma non della morte di Angelo.La morte di Angelo… la crisi… fa emergere tutto in modo drammatico: la fuga diventa deriva individuale e sociale, l’alcoolismo diventa un sintomo ancora più evidente per annegare gli altri sintomi… quelli più temuti… quelli della follia: le pseudoallucinazioni visive e uditive collegate alle continue e assordanti idee di morte, ai suoi annullamenti.
Marco sente molto la relazione terapeutica ed esplicita in più di una occasione, e non solo attraverso i sogni, la paura che io lo abbandoni, “come tutte le donne della sua vita”. Riconosce la sua malattia psichica, la depressione e si affida a me per quanto riguarda la cura psichica. D’altra parte le cure farmacologiche somministrate in Ospedale gli danno molti effetti collaterali e, tutto sommato, non producono effetti significativi.
Sento il coinvolgimento che Marco mi chiede e sento la sua calma quando pongo dei limiti, non sul piano affettivo del rapporto, ma sul livello nascosto della violenza della malattia mentale, che si gioca attraverso le modalità manipolative e di controllo del rapporto stesso. È questo il momento in cui affrontiamo la sua difficoltà a fidarsi e ad affidarsi e, conseguentemente a ciò, il suo bisogno di giocare sempre di anticipo con l’altro, soprattutto in vista di qualche separazione.
Sotto i miei sensi, il mondo interno di quest’uomo sta riemergendo dalla nebbia, parte dopo parte… eppure… rimane un costante non detto… che decido di accettare… come ho accettato già da diverso tempo di lasciarmi guidare dai tempi di ricostruzione interna di Marco, perché al di là della malattia, sento in lui un livello di affettività che da sempre gli permette di non precipitare completamente nell’annullamento e nella degenerazione psicotica.
Rifletto sul fatto che il disturbo psichiatrico è andato emergendo in modo inequivocabile a partire dal mese di ottobre, proprio quando ho cominciato a seguirlo: come se Marco avesse sentito una possibilità. È strano come la malattia mentale esca allo scoperto di fronte alla identità di uno psichiatra che sa fare la differenza tra intervento assistenziale e intervento di cura, tra l’impossibilità della guarigione e la certezza di una guarigione possibile. Mi ha riconosciuto riconoscendosi. Questo è il momento di strutturare il nostro lavoro secondo una progettualità specificatamente psicoterapeutica.
Mi trovo a rileggere ad alta voce la relazione diagnostica che ho preparato per l’inserimento di Marco in Clinica Psichiatrica: “Il Sig. ... presenta un disturbo dissociativo nell’ambito di un disturbo narcisistico di personalità che, su un piano psicopatologico, si configura come una patologia al limite tra una dissociazione isterica e un bipolarismo affettivo (assai simile ai quadri di «psicosi isterica» di fine Ottocento) dove l’alcoolismo è un’espressione sintomatica (che a tratti assume le connotazioni di un’entità psicopatologica a sé stante) del grave disturbo psicopatologico preesistente”. Perché ho la netta sensazione che posso continuare a credere in ciò cui nessuno deve credere?Sento il coinvolgimento che Marco mi chiede e sento la sua calma quando pongo dei limiti, non sul piano affettivo del rapporto, ma sul livello nascosto della violenza della malattia mentale, che si gioca attraverso le modalità manipolative e di controllo del rapporto stesso. È questo il momento in cui affrontiamo la sua difficoltà a fidarsi e ad affidarsi e, conseguentemente a ciò, il suo bisogno di giocare sempre di anticipo con l’altro, soprattutto in vista di qualche separazione.
Sotto i miei sensi, il mondo interno di quest’uomo sta riemergendo dalla nebbia, parte dopo parte… eppure… rimane un costante non detto… che decido di accettare… come ho accettato già da diverso tempo di lasciarmi guidare dai tempi di ricostruzione interna di Marco, perché al di là della malattia, sento in lui un livello di affettività che da sempre gli permette di non precipitare completamente nell’annullamento e nella degenerazione psicotica.
Rifletto sul fatto che il disturbo psichiatrico è andato emergendo in modo inequivocabile a partire dal mese di ottobre, proprio quando ho cominciato a seguirlo: come se Marco avesse sentito una possibilità. È strano come la malattia mentale esca allo scoperto di fronte alla identità di uno psichiatra che sa fare la differenza tra intervento assistenziale e intervento di cura, tra l’impossibilità della guarigione e la certezza di una guarigione possibile. Mi ha riconosciuto riconoscendosi. Questo è il momento di strutturare il nostro lavoro secondo una progettualità specificatamente psicoterapeutica.
Nei mesi successivi Marco continua il suo percorso psicoterapeutico con me. Ci incontriamo una volta alla settimana e sono io per tre mesi ad andare in Clinica; successivamente è Marco a venire settimanalmente al Ser.T. per il colloquio terapeutico. Il lavoro di psicoterapia dinamica ricostruttiva si concentra sulla possibilità di fare emergere il suo vero Sé: i sogni su Angelo, a questo proposito, sono degli indicatori importanti. Emerge inoltre l’angoscia di potere essere omosessuale: le donne, con le loro continue richieste - anche sul piano sessuale - sono fonte di persecuzione.
“Sta parlando di me?”, gli chiedo spesso ridendo, e Marco fa la sua pantomima caricando le sue movenze di atteggiamenti femminei. Ma la vera questione in gioco è l’odio e il terrore nei confronti dell’immagine femminile, che allungano i loro neri tentacoli oscurando ogni possibilità creativa e trasformativa.
In concomitanza con tali vissuti persecutori, vengono a galla aspetti francamente allucinatori: si tratta di voci che lo incitano al suicidio, spesso talmente veloci nella sua testa da non comprenderne il contenuto. Col tempo queste voci cominciano a proteggerlo e, con questo passaggio, Marco ricomincia a sentire la sua sessualità... e a viverla con alcune donne, come lui, ricoverate. È questo il periodo in cui riempie fogli e fogli di scritti, linee e colori. Nei nostri incontri mi porta spesso attraverso il percorso emotivo dei suoi disegni che divengono sempre meno strutturati e meno finti. Mi affida poco alla volta tutti i suoi lavori. Mi lascio condurre in quel fiume di immagini che sostituiscono i fiumi di parole. Ancora una volta Marco mi sta chiedendo di ascoltare e di tracciare una linea fondamentale che unisca i frammenti significativi per delinearli dal brodo primordiale. Forse è così che si sente un’ape quando nel mare verde che non si vede individua i fiori da cui succhierà il suo nettare di vita. Mi sta chiedendo tempo. Gli sto dando tempo.
Nel frattempo mi trovo a stabilire dei contatti con i contesti istituzionali in cui Marco si trova ad agire ed interagire. Il lavoro di cura da me proposto all’interno del processo psicoterapeutico, diventa inevitabilmente e inesorabilmente scontro con la dimensione assistenziale presente sia in Marco che nelle suddette istituzioni.Se all’interno dell’Ospedale il livello di partecipazione garantito dall’assistenza psichiatrica non interferiva con il lavoro terapeutico, ben altra situazione vivo nel rapporto con i colleghi della Clinica, che sono fin troppo attivi e interventisti sul “caso di Marco”. In Clinica gli aspetti francamente psichiatrici che emergono in Marco in modo intermittente e indipendentemente dal trattamento farmacologico, portano i medici a porsi numerose domande rispetto alla diagnosi. Pertanto Marco viene sottoposto a numerosi colloqui e io stessa in più occasioni mi rendo disponibile ad un confronto diagnostico con i colleghi della Clinica.
Non serve a nulla dare psicofarmaci, mi trovo a ripetere senza sosta ai colleghi. Marco si sposta continuamente in un stato oniroide della mente, in cui i confini tra realtà e sogno si fanno sfumati… e infatti lui tratta le sue immagini pseudoallucinatorie, in modo alterno, come fatti reali e come fatti onirici. Il disturbo di Marco si mantiene al limite, lui stesso si mantiene al limite. Può la “Psichiatria” accettare questa posizione senza angoscia di definire sempre tutto?
Le prime avvisaglie di guerra sono date dall’invito al solito volontariato, sollecitato ora in Clinica come lo era nella Caritas, in netto contrasto con “la strada dei no” da me proposta attraverso l’invito a non nascondersi dietro l’assistenzialismo a oltranza nei confronti degli altri pazienti.Quando l’atteggiamento degli operatori della Clinica da disponibile si trasforma in invasivo, Marco comincia ad invadere il reparto dei suoi disegni. Si comincia ad evidenziare una psichiatrizzazione diffusa e sicuramente eccessiva “del caso”, sia per quanto riguarda gli aspetti farmacologici che psicoterapeutici: “il paziente viene inserito in un programma di colloqui individuali settimanali”, senza tenere conto del lavoro psicoterapeutico già in corso con me e, per di più, viene contemporaneamente invitato, senza alcuna consultazione o preavviso nei miei confronti, a partecipare ad un gruppo terapeutico aperto anche agli esterni.
Spesso mi chiedo se non sia l’angoscia di una chiarezza diagnostica (la stessa di Marco rispetto al suo vero Sè) ad innescare un movimento pseudoterapeutico, cioè un agìto, volto più a soddisfare i propri bisogni piuttosto che a muoversi secondo le esigenze del paziente.
Questi “interventi” hanno il risultato di provocare in Marco uno scompenso maniacale assolutamente iatrogeno, tra l’altro sedato con dosi “generose” di psicofarmaci: con questo motivo materiale gli operatori della Clinica hanno impedito a Marco di essere presente per ben due volte alle sedute terapeutiche con me presso il Ser.T.Tutto questo scempio è accaduto perché è stata rinforzata l’onnipotenza di Ribot. Le difficoltà e le angoscie di Marco non esistono più nel momento in cui lui si annulla per dare spazio a quel cavallo vincente che può affrontare qualsiasi cosa, anche contemporaneamente. I colleghi della Clinica hanno puntato tutto sul falso Sé di Marco e lui, da bravo paziente, ha risposto. L’attacco al lavoro psicoterapeutico, attraverso l’interruzione della continuità terapeutica… un tipico caso di trasfert istituzionale, pensavo…
...e subito se ne affacciava un altro, più grave ancora.Se la Clinica Psichiatrica si proponeva con l’esaltazione folle della parte psichiatrica di Marco, da parte del Dipartimento di Salute Mentale si presentava il tentativo opposto: la negazione della malattia specificatamente psichiatrica si nascondeva dietro la falsa diagnosi di alcoolismo - guarda caso la stessa copertura usata da Marco - e pertanto avviava il disconoscimento delle competenze psichiatriche istituzionali, fino ad arrivare alla negazione della conferma della autorizzazione al ricovero in Clinica. Anche con i colleghi del DSM, improvvisamente tempestati da lacune mnesiche degne dei più gravi alcoolisti, si arriva allo scontro prima di superare, per così dire... “le difficoltà burocratiche”.
Riflettevo su quel mio fare terapeutico che aveva sollevato, ed evidentemente continuava a farlo, non poche questioni.
Mi tornava alla mente la domanda che mi aveva posto la psicologa della Clinica, che aveva seguito Marco nella valutazione psicologica fiume iniziale (e che tra l’altro era anche conduttrice dei gruppi aperti agli esterni), durante una telefonata giunta in un pomeriggio nel mio studio professionale.
“Insomma, Marco chi lo segue?”, mi aveva chiesto in modo brusco e perentorio. Avevo risposto che era nel mio stile terapeutico continuare a seguire i pazienti anche durante le fasi di ricovero e che, come peraltro lei sicuramente sapeva, io andavo ogni settimana in Clinica per potere fare in modo che Marco proseguisse il suo percorso. Avevo anche detto che questo stile ha a che fare con la presenza, con l’esserci del terapeuta, come lei avrebbe dovuto ben sapere. La collega, abbassando la cresta, aveva detto scusandosi che lei era solita avere a che fare con psichiatri che parcheggiano i loro pazienti e così lei aveva dato “semplicemente” per scontato che anche io fossi uno dei tanti.
“Poteva avere dimenticato che andavo settimanalmente?”, mi ero chiesta. Certamente no. Evidentemente erano in gioco altre cose, cose che esulavano anche dalla impostazione teorica di base che in fondo rappresentava il punto di incontro tra i colleghi della Clinica e me. Cosa non poteva essere accettato? La presenza dello psichiatra oppure quella presenza nomade che mi era sempre appartenuta nel rapporto con quei colleghi e quella Storia?
Marco corre il rischio di diventare uno strumento per attaccare me. Lo mettono in mezzo per ricreare la vecchia storia di quando i genitori strumentalizzano i figli per non affrontare direttamente le loro questioni. Devo salvaguardare il rapporto terapeutico con Marco e per fare questo non devo cadere in quei meccanismi osceni e violenti con cui il concretiamo istituzionale vuole sancire l’annullamento di ogni storia terapeutica che non segua i canoni prestabiliti. La follia istituzionale del controllo onnipotente. Ma io non sono onnipotente e non posso fare tutto da sola. C’è bisogno di una figura maschile che protegga la tana mentre continuo ad allattare il bimbo.
Decido di parlare con il collega del Ser.T. che mi aveva inviato inizialmente Marco e che Marco aveva chiamato a sé nel momento in cui aveva avuto paura di me: la paralisi dell’istituzione, la paralisi della malattia mentale. Il collega capisce e risponde prontamente alla mia richiesta di aiuto dandomi la sua disponibilità per garantire ogni forma di comunicazione su aspetti concreti, tra Ser.T., Clinica e Dipartimento di Salute Mentale.Mi tornava alla mente la domanda che mi aveva posto la psicologa della Clinica, che aveva seguito Marco nella valutazione psicologica fiume iniziale (e che tra l’altro era anche conduttrice dei gruppi aperti agli esterni), durante una telefonata giunta in un pomeriggio nel mio studio professionale.
“Insomma, Marco chi lo segue?”, mi aveva chiesto in modo brusco e perentorio. Avevo risposto che era nel mio stile terapeutico continuare a seguire i pazienti anche durante le fasi di ricovero e che, come peraltro lei sicuramente sapeva, io andavo ogni settimana in Clinica per potere fare in modo che Marco proseguisse il suo percorso. Avevo anche detto che questo stile ha a che fare con la presenza, con l’esserci del terapeuta, come lei avrebbe dovuto ben sapere. La collega, abbassando la cresta, aveva detto scusandosi che lei era solita avere a che fare con psichiatri che parcheggiano i loro pazienti e così lei aveva dato “semplicemente” per scontato che anche io fossi uno dei tanti.
“Poteva avere dimenticato che andavo settimanalmente?”, mi ero chiesta. Certamente no. Evidentemente erano in gioco altre cose, cose che esulavano anche dalla impostazione teorica di base che in fondo rappresentava il punto di incontro tra i colleghi della Clinica e me. Cosa non poteva essere accettato? La presenza dello psichiatra oppure quella presenza nomade che mi era sempre appartenuta nel rapporto con quei colleghi e quella Storia?
Marco corre il rischio di diventare uno strumento per attaccare me. Lo mettono in mezzo per ricreare la vecchia storia di quando i genitori strumentalizzano i figli per non affrontare direttamente le loro questioni. Devo salvaguardare il rapporto terapeutico con Marco e per fare questo non devo cadere in quei meccanismi osceni e violenti con cui il concretiamo istituzionale vuole sancire l’annullamento di ogni storia terapeutica che non segua i canoni prestabiliti. La follia istituzionale del controllo onnipotente. Ma io non sono onnipotente e non posso fare tutto da sola. C’è bisogno di una figura maschile che protegga la tana mentre continuo ad allattare il bimbo.
Da quel momento uscivo di scena dalle ragnatele del concretismo istituzionale.
Continuando a raccordare i fili della memoria, mi rendo conto che le crisi “psicotiche” istituzionali si ripresentano puntuali ogni volta che il cammino terapeutico fa un balzo in avanti. Negli ultimi periodi poi, la situazione si è esacerbata con l’avvicinarsi della possibilità di spostare Marco in una struttura più idonea al proseguio del cammino terapeutico. La mia convinzione è che Marco, dopo il ricovero in Clinica Psichiatrica, abbia la necessità di fare un percorso comunitario protetto in cui potere continuare, con modalità più attive, il difficile percorso iniziato.
Il lavoro psicoterapeutico continua fra questi terremoti istituzionali, arginati in modo eccellente dal collega, mentre contemporaneamente comincia la ricerca della struttura comunitaria. A dire il vero io pensavo ad una Comunità Psichiatrica, convinta com’ero della assoluta secondarietà dell’alcoolismo, ma il Diparimento di Salute Mentale mi sbarrava la strada in modo inequivocabile. Non rimanevano che le Comunità per Doppia Diagnosi, ma quale, dato che molte di quelle Comunità si spacciano per terapeutiche senza esserlo?Rimango in una attesa vigile, ferma nella mia prospettiva, mentre anche l’eccellente collega mi esorta ad arrendermi all’idea di far fare a Marco un percorso assistenziale all’interno di una Comunità per alcoolisti, magari una di quelle con la classica figura carismatica che continua a inchiodarti sulla croce.
Come posso fare una cosa del genere? Marco si è affidato a me affrontando le nubi nere della sua malattia mentale e lo ha fatto perché ha sentito la possibilità della cura. E io dovrei abbandonarlo, tradirlo? Per una realtà materiale che al momento proprio non mi viene incontro, mentre tutti sono lì solleciti a ricordarmi la strada della impossibilità? Chi con il dolore della depressione, chi con il ghigno ebete della follia fredda e controllata?
Ho freddo e cerco di trovare un luogo caldo al riparo dal gelo dell’annullamento, in fiduciosa attesa delle fioriture primaverili. Ho dalla mia la capacità di riconoscere il coraggio di Marco nella sua scelta scomoda di precipitare nella malattia mentale. In fondo quando un paziente fa una crisi è vero che da una parte ripropone in modo violento la coazione a ripetere della malattia “come se nulla di terapeutico ci fosse stato”, ma dall’altra , attraverso questa provocazione profondamente cerca nel terapeuta una risposta diversa. La sola in grado di superare quella coazione a ripetere dettata dalla ideologia dell’impossibilità.
Nell’attesa degli eventi continuo a cercare e a lavorare con Marco, che ormai viene ogni settimana al Ser.T. già da qualche mese.Ho freddo e cerco di trovare un luogo caldo al riparo dal gelo dell’annullamento, in fiduciosa attesa delle fioriture primaverili. Ho dalla mia la capacità di riconoscere il coraggio di Marco nella sua scelta scomoda di precipitare nella malattia mentale. In fondo quando un paziente fa una crisi è vero che da una parte ripropone in modo violento la coazione a ripetere della malattia “come se nulla di terapeutico ci fosse stato”, ma dall’altra , attraverso questa provocazione profondamente cerca nel terapeuta una risposta diversa. La sola in grado di superare quella coazione a ripetere dettata dalla ideologia dell’impossibilità.
Marco porta le sue voci che ormai sono diventate interne, porta i suoi sensi di colpa. Quasi sentisse il mio momento di solitudine, si fa giullare – ma mai Ribot – per non appesantire il rapporto con quelle sue sofferenze che cercano la strada del dolore.
Ha paura di andare via dalla Clinica, ma sente che vuole tornare alla vita. Non parla più così tanto di Angelo, parla di sé e delle sue morti. Le parole sono diminuite, come pure i disegni che sembrano cercare un loro stile. Nella sua agenda “degli angeli” – si chiama proprio così – segna i suoi appuntamenti con me e scrive i pensieri e i sogni della settimana. Io stessa divento, con divertito disappunto, un angelo.
Ultimamente sento che il non detto assume un nuovo senso: non sembra più essere un ponte che unisce due mari. Rido tra me e me pensando che mi vengono proprio delle immagini curiose. Chissà cosa significa? Aspetto. Mi fido del mio inconscio.
Ha paura di andare via dalla Clinica, ma sente che vuole tornare alla vita. Non parla più così tanto di Angelo, parla di sé e delle sue morti. Le parole sono diminuite, come pure i disegni che sembrano cercare un loro stile. Nella sua agenda “degli angeli” – si chiama proprio così – segna i suoi appuntamenti con me e scrive i pensieri e i sogni della settimana. Io stessa divento, con divertito disappunto, un angelo.
Ultimamente sento che il non detto assume un nuovo senso: non sembra più essere un ponte che unisce due mari. Rido tra me e me pensando che mi vengono proprio delle immagini curiose. Chissà cosa significa? Aspetto. Mi fido del mio inconscio.
La terapia continua: riproposizione della speranza
Aspettavo la risposta e la risposta venne. Venne attraverso un altro paziente che avevo cominciato a seguire già da qualche mese. Capitato a Roma per motivi di lavoro, lui proveniva da una Comunità Terapeutica del nord ed era una di quelle rarissime testimonianze del buon lavoro che può essere fatto anche all’interno di una Comunità Terapeutica. Grazie ai contatti con i colleghi di questa Comunità per raccordarci nel lavoro con questo paziente, nasceva un confronto teorico importante e non frequente. Parlando con loro di Marco, trovo la massima disponibilità ad accoglierlo. Nel mese della vendemmia affrontiamo con Marco i vissuti della separazione, dalla Clinica, da Roma e dai pochi amici… da me.
Non tutte le attese vengono per nuocere, visto che la Comunità trovata ha una connotazione fortemente psicoterapeutica e considera il disturbo tossicomanico una malattia psichiatrica. Ho trovato la strada.
Nel penultimo incontro Marco dice di avere riacceso il suo cellulare e immediatamente è arrivata la telefonata della madre di Angelo. Le ha dato il numero di telefono del Ser.T. perché potesse parlare con me. Quando questa donna emerge dal silenzio in cui Marco l’aveva relegata, telefonicamente esprime tutta la sua preoccupazione rispetto alla malattia di lui, soprattutto per le ripercussioni nei confronti del loro figlio che, a causa delle sofferenze psicologiche, è seguito da uno specialista.In quel momento, come in una folgorazione, capisco quello che avevo sempre saputo. Lei sta parlando di Angelo.
Senza dire nulla del racconto di Marco, le chiedo qualche chiarimento rispetto alla loro storia. Dalla nebbia emergono lampi di luce. Angelo ha sei anni, ma prima di lui c’è stata un’altra gravidanza in cui lei aveva deciso di abortire perché Marco beveva.Ecco il figlio morto. Il fallimento della speranza e i conseguenti sensi di colpa.
Dopo quell’aborto Marco decide di non bere più, ma quando lei rimane nuovamente incinta Marco comincia a rifiutarla sessualmente e, dopo la nascita di Angelo, ricomincia a bere. Da quel momento nasce in lei la decisione di separarsi. È carina nel suo essere sinceramente affranta per quella storia capitatale tra capo e collo in un momento così particolare della sua vita. Sta ancora cercando di coglierne il senso. La ringrazio per la disponibilità.
Ecco il figlio morto, continuo a ripetermi mentre riaggancio: il fallimento della storia con una donna che aveva tentato di amare. Una donna così diversa dalle altre e così diversa da lui, troppo diversa per non sentirsi estromesso ancora una volta dal rapporto madre-figlio. E così si è fatto fuori, come un cane rognoso, per ripetere la storia; ma Marco non ha più la vitalità dei vent’anni e questa donna ha tentato di amarla davvero, davvero ha sperato che lei lo salvasse. Comincia la decadenza e probabilmente il barbonismo è cominciato due anni fa, quando una notte Marco si è presentato nella casa di vacanza dei suoceri, a reclamare Angelo, la sua presenza di padre, forse la sua stessa vita. Poi… il buio gelido della strada. Volti anonimi come il suo con cui confondersi, da cui ricominciare. Si era gettato sulla strada buttando via anche la possibilità di pensarsi in un altro modo, con un’altra donna, in un sogno altro che non fosse il mondo delle illusioni di Ribot.
Marco ha voluto farmi sapere queste cose dalla madre di Angelo prima della sua partenza per la Comunità. Mi torna alla mente il nostro anno di lavoro, la sofferenza, la sua fatica: l’accettazione del difficile percorso psichiatrico. Nella commozione mi sembra davvero poco importante sapere se la sua sia stata una pseudologia fantastica oppure no. Io so che la sua nebbia era reale, come lo erano i suoi vissuti che andava mettendo a fuoco durante il percorso.
Ecco il figlio morto, continuo a ripetermi mentre riaggancio: il fallimento della storia con una donna che aveva tentato di amare. Una donna così diversa dalle altre e così diversa da lui, troppo diversa per non sentirsi estromesso ancora una volta dal rapporto madre-figlio. E così si è fatto fuori, come un cane rognoso, per ripetere la storia; ma Marco non ha più la vitalità dei vent’anni e questa donna ha tentato di amarla davvero, davvero ha sperato che lei lo salvasse. Comincia la decadenza e probabilmente il barbonismo è cominciato due anni fa, quando una notte Marco si è presentato nella casa di vacanza dei suoceri, a reclamare Angelo, la sua presenza di padre, forse la sua stessa vita. Poi… il buio gelido della strada. Volti anonimi come il suo con cui confondersi, da cui ricominciare. Si era gettato sulla strada buttando via anche la possibilità di pensarsi in un altro modo, con un’altra donna, in un sogno altro che non fosse il mondo delle illusioni di Ribot.
Marco ha voluto farmi sapere queste cose dalla madre di Angelo prima della sua partenza per la Comunità. Mi torna alla mente il nostro anno di lavoro, la sofferenza, la sua fatica: l’accettazione del difficile percorso psichiatrico. Nella commozione mi sembra davvero poco importante sapere se la sua sia stata una pseudologia fantastica oppure no. Io so che la sua nebbia era reale, come lo erano i suoi vissuti che andava mettendo a fuoco durante il percorso.
Nell’ultimo colloquio Marco entra in stanza con lo sguardo assorto. Mi guarda con uno sguardo interrogativo e mi chiede se ho sentito la madre di Angelo. Annuisco. Gli dico che abbiamo parlato di molte cose e anche di Angelo. Marco è tranquillo. Continuo a parlare.
Gli chiedo da quanto tempo sa che Angelo è vivo. Marco mi dice che negli ultimi due mesi ha cominciato ad avere un dubbio sulla morte del figlio, ma ne ha avuto la conferma solo quando ha sentito la madre. Non me ne ha parlato subito e in modo diretto perché ha avuto paura che io non gli credessi; in fondo lui è sempre stato considerato un bugiardo, uno che prende in giro gli altri.
Ha voluto vedere se anche io lo etichetto come bugiardo, come hanno sempre fatto tutti, per poi cacciarlo via. Lo ascolto mentre dice che non sa capacitarsi di come questo pensiero della morte del figlio sia diventato un fatto reale. È angosciato quando mi chiede perché è accaduto tutto questo.
Gli rispondo che la morte di Angelo nel nostro lavoro di psicoterapia è sempre andata a rappresentare una parte di sé che lui aveva fatto sparire e noi, all’interno del lavoro terapeutico fatto insieme, l’abbiamo letto sempre in questo modo a prescindere dal fatto concreto. Angelo ha sempre rappresentato il custode delle sue possibilità di vivere finalmente con sé stesso, quel sé stesso continuamente schiacciato dalla iperattività megalomanica di Ribot che si innescava per ottenere un buon giudizio dagli altri. In questi mesi lui ha combattuto strenuamente per ridare spazio dentro di sé ad Angelo, e quindi a sé stesso, in modo diverso. Ora questo nuovo spazio interno ha trovato un corrispettivo nella realtà materiale: Angelo è vivo e può ricostruire con lui un rapporto. E poi… c’è anche Paolo, l’altro figlio...Mi chiede se ce la farà. Gli rispondo che lo aspetta ancora molto lavoro. Marco piange sommessamente, quasi un pianto tra sé e sé, ed avverto per la prima volta, non una sofferenza angosciata, ma un dolore profondo che lo porta a dire: “Dottoressa, ero proprio tanto malato”. Gli rispondo di sì.
I lineamenti del volto sono distesi quando parla del futuro che lo aspetta. È contento ora di andare nel nord perché anche suo figlio è lassù e il saperlo così vicino accorcia anche le distanze interne.
Grandi emozioni si muovono dentro di me mentre chiudo la porta dietro Marco. Ora può partire senza troppi sensi di colpa. Mentre torno alla mia scrivania mi chiedo la differenza tra bugia e falsità.
Io non chiedo la verità dei fatti materiali, dei risultati, quelli li lascio alla falsità della psichiatria e della psicoterapia “organicista”. Chiedo piuttosto la possibilità di costruire la verità del rapporto e, in questa ottica, riconosco ad ogni essere umano il diritto di raccontarsi come meglio crede e può. E in fondo le “bugie dimenticate” di Marco sono state più vere di un qualsiasi fatto materiale che mi avrebbe potuto raccontare, perché attraverso queste lui mi ha parlato di una sua morte interiore.
Ora… mi torna alla mente quando, durante il ricovero di Marco in Ospedale, mi era venuto alla mente che avrei potuto sapere “di più” di lui, ma qualcosa dentro di me mi aveva fermato. Questo sapere “di più”, materialmente di più, mi avrebbe forse aiutato nel percorso di cura? Ritengo di no. Almeno non nel senso che è importante per me, avevo scelto di non conoscere la realtà materiale. La verità dei fatti materiali spesso offusca la verità dell’inconscio, unica via di accesso al percorso di cura… come accade per la voce quando si deve fare strada attraverso i nodi dolenti del corpo per ritrovare il suono perduto.
La bugia detta con il suono vero, quello del precipizio depressivo, si è fusa con la verità dei fatti: ora anche la verità dei fatti ha il suo suono vero, la sua voce.
Io non chiedo la verità dei fatti materiali, dei risultati, quelli li lascio alla falsità della psichiatria e della psicoterapia “organicista”. Chiedo piuttosto la possibilità di costruire la verità del rapporto e, in questa ottica, riconosco ad ogni essere umano il diritto di raccontarsi come meglio crede e può. E in fondo le “bugie dimenticate” di Marco sono state più vere di un qualsiasi fatto materiale che mi avrebbe potuto raccontare, perché attraverso queste lui mi ha parlato di una sua morte interiore.
Ora… mi torna alla mente quando, durante il ricovero di Marco in Ospedale, mi era venuto alla mente che avrei potuto sapere “di più” di lui, ma qualcosa dentro di me mi aveva fermato. Questo sapere “di più”, materialmente di più, mi avrebbe forse aiutato nel percorso di cura? Ritengo di no. Almeno non nel senso che è importante per me, avevo scelto di non conoscere la realtà materiale. La verità dei fatti materiali spesso offusca la verità dell’inconscio, unica via di accesso al percorso di cura… come accade per la voce quando si deve fare strada attraverso i nodi dolenti del corpo per ritrovare il suono perduto.
La bugia detta con il suono vero, quello del precipizio depressivo, si è fusa con la verità dei fatti: ora anche la verità dei fatti ha il suo suono vero, la sua voce.
È un lunedì mattina quando vado a prendere Marco in Clinica per accompagnarlo alla Stazione. Ha tante valigie e ridiamo mentre cerchiamo di stiparle nel bagagliaio capace della mia auto. Aspettando l’orario della partenza del treno, passeggiamo in silenzio per i luoghi della desolazione di quando era barbone. Prendiamo un caffé e sorseggiamo insieme questa separazione che diventa il viaggio nella speranza ritrovata. Le emozioni continuano a circolare su una profonda sensazione di calma.
La memoria costruisce la storia e... la storia riconduce alla memoria
Sono passati due anni da quella mattina. In questo periodo Marco ha mantenuto un contatto telefonico costante con me. Da parte mia ho dato la massima disponibilità di confronto agli operatori della Comunità e sono andata due volte, una per ogni anno, lassù a Torino.
Marco ha dato sempre meno spazio a Ribot affrontando così la realtà dei suoi limiti. Ha continuato a disegnare e a dipingere ed è diventato davvero bravo: ha anche vinto dei premi e venduto alcune sue opere. Da qualche mese ha cominciato a cimentarsi nel suo lavoro di un tempo: sente la fatica del lavoro... e dei suoi anni, ma ha buona volontà ed è sempre molto comunicativo. Vede regolarmente Angelo ed è stato anche presente in alcuni momenti sociali importanti della sua vita. Era molto emozionato mentre mi mostrava le foto di questi eventi. Ora si veste da uomo e non più da ragazzo, anche se non rinuncia al suo estro.
Le emozioni continuano a scorrere morbide mentre mi fa vedere con la foga di un tempo i suoi disegni. Ha voluto regalarmene uno: rappresenta il volto di una donna che guarda il suo osservatore. È una immagine quieta, pur nei suoi colori sgargianti.
Nel recente incontro torinese abbiamo ripercorso alcuni passi della nostra lunga storia. Come quando siamo andati a vedere insieme il Museo del Cinema e ci siamo tuffati nelle immagini della nostra Storia, delle nostre storie. O come quando, l’anno precedente, per degli improvvisi intoppi burocratici, lo stesso Ser.T. era stato colto da una crisi psicotica che avrebbe potuto culminare con l’interruzione del percorso terapeutico. Ancora una volta! E ancora una volta ero stata costretta a scendere nel campo di guerra a giocarmi il tutto per tutto, anche il mio possibile licenziamento, pur di salvaguardare quel percorso terapeutico. E ora che ne stiamo parlando, la crisi, vestita sempre di aspetti materiali, sembra avere investito la stessa Comunità che accoglie Marco. Ma lui si sta preparando da mesi per la sua uscita dalla Comunità... la sua rinascita, così la chiama. Sta pensando di tornare a Roma perché in questa città sente le sue radici affettive.Qualche giorno fa è venuto a Roma per sbrigare delle pratiche burocratiche. Ci siamo trovati, dopo due anni, nuovamente in quel luogo fatiscente del nostro primo incontro. Ha tirato fuori dallo zaino un regalo che ha fatto con le sue mani: è una mela di cartapesta. Dice che simbolicamente mi vuole consegnare la sua tentazione a bere. Prendo la mela in mano: è davvero bella!
Gli dico che non credo proprio che quella mela abbia quel significato. Mi guarda divertito, poi diventa serio e ribadisce che vuole tornare a Roma. “Io sono nato con lei ed è con lei che voglio continuare il mio percorso. Voglio capire perché ho ancora tanto bisogno di dire le bugie”. Allude al fatto che in Comunità ha raccontato, questa volta lucidamente, della morte di Paolo, il primogenito, che ha ricercato inutilmente nell’ultimo anno.
Marco non è mai stato così diretto in un incontro. E anche io sento una nuova libertà di esprimere e di dire. La mela... forse la scoperta della sessualità può non diventare fatto peccaminoso che determina la cacciata dal paradiso terrestre. Ora può tentare di sostenere un rapporto con me.
Gli dico che c’è ancora un’altra nascita che dobbiamo cercare dentro di lui e questa volta riguarda il suo modo di diventare un uomo. Lavoreremo su questo quando tornerà a Roma. Ci salutiamo con un abbraccio.Quando, come sempre, la porta si chiude e rimango sola, le immagini e le emozioni si affollano. Mi torna alla mente la gioia nella voce di Marco, mentre mi accoglie in Comunità, sollevandomi da terra, dicendo: “Dov’è la mia dottoressa? Finalmente”. E questa immagine mi riporta a quell’uomo, vestito da barbone e barbone negli affetti, che continuamente mi commuoveva con la disperazione vera di un figlio immaginario morto. Molti perdono i loro figli, intendo quelli psichici, le proprie nascite. Alcuni si rifugiano nell’indifferenza continuando la loro esistenza priva di vita come se nulla fosse accaduto. Altri si ammalano per queste perdite… tra questi Marco… che aveva dovuto costruirsi e costruire una storia per narrare della disperazione della perdita di una nascita. Come in un film. E questo mi commuoveva allora e… mi commuove ancora.
Forse anche io, con Marco e per Marco, dovevo ritrovare il coraggio di affrontare di nuovo, ma in modo diverso, lo scontro con la realtà istituzionale, dopo essermi nascosta nell’ombra di una tana a riprendere fiato e a leccarmi le ferite… per un figlio morto, ucciso dalla violenza istituzionale, sotto i miei stessi occhi… senza che avessi potuto fare nulla…
Allora ero “una ragazzetta” alla mia prima esperienza istituzionale e il fatto di ricoprire un ruolo dirigenziale (in qualità di aiuto primario) non mi inibiva minimamente, anzi mi rendeva ancora più determinata nella proposizione della cura. Gli scontri quotidiani con gli orribili colleghi, più e più volte, non riuscivano ad interrompere la mia azione terapeutica e, benché avessi trovato operatori che mi sostenevano, in realtà il processo della cura ricadeva totalmente sulle mie spalle. Non c’erano validi colleghi in grado di difendere un rapporto terapeutico quando viene attaccato dalla follia istituzionale, come era accaduto invece nel Ser.T.
Fin da allora avevo chiaro l’esistenza, nella nostra cultura, della contrapposizione tra la speranza, la libertà e la creatività, da una parte; e dall’altra la disperazione e la schiavitù ad un meccanismo di identificazione e di coazione a ripetere. Fare per creare e trasformare da una parte, e fare per riprodurre, anche dei cambiamenti, purchè nulla cambi, di gattopardiana memoria. E se è necessario rispondere in termini assistenziali in caso di cronicizzazione della malattia mentale, la proposizione dell’assistenza a chi cronico non è, diventa atto lesivo e violento nei confronti delle possibilità psichiche di trasformazione, e quindi di guarigione, insite in molti casi di malattia psichica. La violenza consiste nel seguente giochetto: io non ho la speranza, la speranza non esiste, la malattia mentale è incurabile.
Mi scontravo giorno dopo giorno con questa ideologia della morte che mi portava a riconoscere il ghigno disumano della madre pazza che preferisce un figlio morto unito nella di lei morte, piuttosto che un figlio guarito e libero. Mi pareva di essere pronta ad affrontare la sfinge dell’indifferenza anche se ancora non conoscevo il dolore che si prova quando i malati diventano ignari strumenti della pulsione di annullamento istituzionale nei confronti della proposizione della realtà della cura. Quel figlio morto doveva servire come monito ad una ragazzetta, nel tentativo folle di ridurla ad una ragione che proprio non può conoscere la conoscenza.
Il dolore per quel figlio ucciso mi aveva annichilito. Per un attimo durato un’eternità, forse la stessa eternità di Marco, avevo avuto paura che quel figlio fosse morto davvero. Avevo dimenticato che la malattia, ogni forma di malattia, diventa fatto materiale quando viene meno la possibilità di rispondere in termini umani. Avevo dimenticato che la prognosi di una malattia mentale è legata alla capacità che ha il terapeuta di mantenere la speranza, la recettività e la resistenza di fronte alle strutture di morte più o meno istituzionalizzate. Avevo dimenticato quella legge disumana che vuole la malattia mentale: appropriarsi di guerrieri di nobile stirpe, quella umana, per deformarli in macchine di guerra asservite alla cultura della morte.
“E così accade che si perdano le anime più belle, quelle più care, in una guerra che non conosce esclusione di colpi, perché ciò che è in gioco, l’essenza umana dell’uomo, la sua conoscenza e la sua libertà di espressione, è una posta in gioco troppo alta. E se il cuore per un attimo, un solo interminabile attimo, si ferma sconquassato da un dolore che attraversa il corpo lacerandone le membra, quello stesso cuore, memore di una lunga storia di annullamenti, può riprendere a pulsare perché per un guerriero che si perde nel nulla, ce ne sono altri che reclamano una loro esistenza. L’esistenza di quello spirito selvaggio, che potremmo forse chiamare meglio nomade, che è insieme movimento di azione, di pensiero, di arte, sempre pronto a disegnare una linea di presenza creatrice.
Si dice che i nomadi abbiano solo una geografia e non una dimensione storica. È che la loro storia è incisa nei loro corpi, è in quelle tracce dense di affetti che delineano gli spazi, perché il loro tempo è spazio vissuto: traccia o chiazza di colore lasciata in un momento, in un incontro, in un raccordo di emozioni.
Forse, per potere vivere e raccontare la storia di Marco era necessario ritrovare un bambino, la certezza della propria nascita e del proprio coraggio nell’esprimerla, per sapere che non era morto di dolore. Per restituirlo ad una ragazzetta costretta al nomadismo per salvaguardare il suo desiderio e la sua sessualità, pensavo un tempo; per realizzare la sua essenza, mi sento di dire ora con assoluta certezza.
Dovevo uscire dal lavoro istituzionale e istituzionalizzato dove si consumano le guerre di sempre, per realizzare l’immagine della ragazzetta e, con lei, l’immagine del guerriero. Per mettere le basi più solide del mondo, quelle del mare, nella prassi della cura della malattia mentale. Ritrovare in quel flusso di materia che non è materialità, quella realtà in continuo divenire che combatte visceralmente ciò che è immobile, omogeneo e senza tempo: l’indifferenza che provoca, alimenta e sostiene la malattia mentale”.
Quel dolore mi aveva portato ad una scelta. Per salvare la mia nascita, quella certezza della propria identità umana su cui si fonda ogni possibilità di cura psichica da parte dello psichiatra, era necessario uscire dall’istituzione e, nel mio divenire nomade, rischiare di essere considerata io stessa un barbone senza identità, per quella storia vecchia e falsa per cui solo chi è dentro le mura dell’istituzione ottiene come premio l’identità… per identificazione con la sfinge. Marco mi aveva ricondotto alla mia storia e il coraggio che lui mi aveva dimostrato nell’affidarsi a me, attraverso l’esplicitazione della sua malattia mentale, mi aveva detto che quel figlio non poteva essere morto. Il coraggio della prassi di un terapeuta è a volte seguire le intuizioni di un paziente che ti sa riconoscere, e lasciarsi condurre per un po’…
Forse anche io, con Marco e per Marco, dovevo ritrovare il coraggio di affrontare di nuovo, ma in modo diverso, lo scontro con la realtà istituzionale, dopo essermi nascosta nell’ombra di una tana a riprendere fiato e a leccarmi le ferite… per un figlio morto, ucciso dalla violenza istituzionale, sotto i miei stessi occhi… senza che avessi potuto fare nulla…
Allora ero “una ragazzetta” alla mia prima esperienza istituzionale e il fatto di ricoprire un ruolo dirigenziale (in qualità di aiuto primario) non mi inibiva minimamente, anzi mi rendeva ancora più determinata nella proposizione della cura. Gli scontri quotidiani con gli orribili colleghi, più e più volte, non riuscivano ad interrompere la mia azione terapeutica e, benché avessi trovato operatori che mi sostenevano, in realtà il processo della cura ricadeva totalmente sulle mie spalle. Non c’erano validi colleghi in grado di difendere un rapporto terapeutico quando viene attaccato dalla follia istituzionale, come era accaduto invece nel Ser.T.
Fin da allora avevo chiaro l’esistenza, nella nostra cultura, della contrapposizione tra la speranza, la libertà e la creatività, da una parte; e dall’altra la disperazione e la schiavitù ad un meccanismo di identificazione e di coazione a ripetere. Fare per creare e trasformare da una parte, e fare per riprodurre, anche dei cambiamenti, purchè nulla cambi, di gattopardiana memoria. E se è necessario rispondere in termini assistenziali in caso di cronicizzazione della malattia mentale, la proposizione dell’assistenza a chi cronico non è, diventa atto lesivo e violento nei confronti delle possibilità psichiche di trasformazione, e quindi di guarigione, insite in molti casi di malattia psichica. La violenza consiste nel seguente giochetto: io non ho la speranza, la speranza non esiste, la malattia mentale è incurabile.
Mi scontravo giorno dopo giorno con questa ideologia della morte che mi portava a riconoscere il ghigno disumano della madre pazza che preferisce un figlio morto unito nella di lei morte, piuttosto che un figlio guarito e libero. Mi pareva di essere pronta ad affrontare la sfinge dell’indifferenza anche se ancora non conoscevo il dolore che si prova quando i malati diventano ignari strumenti della pulsione di annullamento istituzionale nei confronti della proposizione della realtà della cura. Quel figlio morto doveva servire come monito ad una ragazzetta, nel tentativo folle di ridurla ad una ragione che proprio non può conoscere la conoscenza.
Il dolore per quel figlio ucciso mi aveva annichilito. Per un attimo durato un’eternità, forse la stessa eternità di Marco, avevo avuto paura che quel figlio fosse morto davvero. Avevo dimenticato che la malattia, ogni forma di malattia, diventa fatto materiale quando viene meno la possibilità di rispondere in termini umani. Avevo dimenticato che la prognosi di una malattia mentale è legata alla capacità che ha il terapeuta di mantenere la speranza, la recettività e la resistenza di fronte alle strutture di morte più o meno istituzionalizzate. Avevo dimenticato quella legge disumana che vuole la malattia mentale: appropriarsi di guerrieri di nobile stirpe, quella umana, per deformarli in macchine di guerra asservite alla cultura della morte.
“E così accade che si perdano le anime più belle, quelle più care, in una guerra che non conosce esclusione di colpi, perché ciò che è in gioco, l’essenza umana dell’uomo, la sua conoscenza e la sua libertà di espressione, è una posta in gioco troppo alta. E se il cuore per un attimo, un solo interminabile attimo, si ferma sconquassato da un dolore che attraversa il corpo lacerandone le membra, quello stesso cuore, memore di una lunga storia di annullamenti, può riprendere a pulsare perché per un guerriero che si perde nel nulla, ce ne sono altri che reclamano una loro esistenza. L’esistenza di quello spirito selvaggio, che potremmo forse chiamare meglio nomade, che è insieme movimento di azione, di pensiero, di arte, sempre pronto a disegnare una linea di presenza creatrice.
Si dice che i nomadi abbiano solo una geografia e non una dimensione storica. È che la loro storia è incisa nei loro corpi, è in quelle tracce dense di affetti che delineano gli spazi, perché il loro tempo è spazio vissuto: traccia o chiazza di colore lasciata in un momento, in un incontro, in un raccordo di emozioni.
Forse, per potere vivere e raccontare la storia di Marco era necessario ritrovare un bambino, la certezza della propria nascita e del proprio coraggio nell’esprimerla, per sapere che non era morto di dolore. Per restituirlo ad una ragazzetta costretta al nomadismo per salvaguardare il suo desiderio e la sua sessualità, pensavo un tempo; per realizzare la sua essenza, mi sento di dire ora con assoluta certezza.
Dovevo uscire dal lavoro istituzionale e istituzionalizzato dove si consumano le guerre di sempre, per realizzare l’immagine della ragazzetta e, con lei, l’immagine del guerriero. Per mettere le basi più solide del mondo, quelle del mare, nella prassi della cura della malattia mentale. Ritrovare in quel flusso di materia che non è materialità, quella realtà in continuo divenire che combatte visceralmente ciò che è immobile, omogeneo e senza tempo: l’indifferenza che provoca, alimenta e sostiene la malattia mentale”.
Quel dolore mi aveva portato ad una scelta. Per salvare la mia nascita, quella certezza della propria identità umana su cui si fonda ogni possibilità di cura psichica da parte dello psichiatra, era necessario uscire dall’istituzione e, nel mio divenire nomade, rischiare di essere considerata io stessa un barbone senza identità, per quella storia vecchia e falsa per cui solo chi è dentro le mura dell’istituzione ottiene come premio l’identità… per identificazione con la sfinge. Marco mi aveva ricondotto alla mia storia e il coraggio che lui mi aveva dimostrato nell’affidarsi a me, attraverso l’esplicitazione della sua malattia mentale, mi aveva detto che quel figlio non poteva essere morto. Il coraggio della prassi di un terapeuta è a volte seguire le intuizioni di un paziente che ti sa riconoscere, e lasciarsi condurre per un po’…
POESIA DI MARCO
Ho sentito il tuo sguardo
prendere i miei sogni per mano
ed ho visto il mare
chiamare a sé il suo spirito.
La mia vita balla
sul confine che separa il mio mondo
dal tuo.
E sentivo il suo buio
attenuare la mia sofferenza
come un canto di un artista
che lascia cadere i suoi capelli
in un abbraccio della croce.
E né mai incontrerai sul suo sentiero
l’ingenuo sentire
che riempiva i deserti
delle poche anime perse nel vento.
E né scorderò mai un solo istante
che così poco la vita
è stata importante.
Ho sentito il tuo sguardo
prendere i miei sogni per mano
ed ho visto il mare
chiamare a sé il suo spirito.
La mia vita balla
sul confine che separa il mio mondo
dal tuo.
E sentivo il suo buio
attenuare la mia sofferenza
come un canto di un artista
che lascia cadere i suoi capelli
in un abbraccio della croce.
E né mai incontrerai sul suo sentiero
l’ingenuo sentire
che riempiva i deserti
delle poche anime perse nel vento.
E né scorderò mai un solo istante
che così poco la vita
è stata importante.
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La proposizione della cura psichica. IL PRIMO COLLOQUIO PSICHIATRICO COME PRASSI DI INTERVENTO di Concetta Turchi. Anno 2005
IL PRIMO COLLOQUIO PSICHIATRICO COME PRASSI DI INTERVENTO
Concetta Turchi
Questo scritto, preparato per una discussione sul tema dell’accoglienza presso un Dipartimento di Salute Mentale di Roma, risale al dicembre 1990. Pur trovandolo datato rispetto alle mie successive evoluzioni professionali, ho ritenuto importante riproporlo perché, a quindici anni di distanza, le problematiche diagnostiche all’interno dei Servizi pubblici, rimangono una questione irrisolta. Di fatto, in questi lunghi quindici anni, è andata perdendosi l’abitudine a pensare e a fare una diagnostica come quella proposta in questo scritto, ma, cosa ancora più atroce, con l’appiattimento della pensabilità, si è assistito ad un assottigliamento inevitabile dell’intervento terapeutico che, sempre di più, si è uniformato sui presidi farmacologici o psicologici di supporto, con la conseguente cronicizzazione delle malattie psichiche.
In quegli anni intorno al ’90 si discuteva ancora di un qualcosa che è andato scomparendo negli anni successivi: la possibilità di una cura psichica e la guarigione della malattia mentale attraverso di essa. Rimane sempre viva in me la domanda che mi ponevo allora: se sparisce all’interno degli operatori deputati alla cura della malattia psichica, l’idea stessa della cura, come potrà essere considerata curabile la malattia mentale?
Nell’ambito dell’incontro tra utente e Servizio Dipartimentale di Salute Mentale un ruolo estremamente importante, nella sua specificità, spetta allo psichiatra che nel primo colloquio è chiamato a dare un senso alla richiesta dell’utente; è il ruolo specifico di chi promuove la trasformazione dell’utente, portatore di una generica richiesta, in paziente, portatore di una malattia che potrà essere curata solo nella misura in cui verrà riconosciuta.
La necessità di tale trasformazione è legata alla peculiarità del soggetto che cade sotto la nostra osservazione: il paziente psichiatrico è infatti portatore di una sofferenza la cui origine gli è sconosciuta e fa una richiesta per qualcosa che non conosce. La sofferenza, come pure la richiesta, rappresentano cioè una copertura per sofferenze e richieste più profonde e reali. Se da un lato il paziente chiede di essere “guarito” dalla sofferenza, dall’altra chiede che il sintomo gli sia conservato nella misura in cui esso serve per nascondere il conflitto di fondo la cui emergenza potrebbe fargli perdere quei “privilegi” che ha acquisito all’interno del gruppo in cui vive.
Questa ambiguità di fondo del paziente psichiatrico, espressione della sua malattia, può entrare in risonanza con le ambiguità istituzionali, in cui troppo spesso troneggia la mancata distinzione tra assistenza e cura. Tale confusione istituzionale collude con le istanze regressive del paziente volte a ottenere sostegno e assistenza, e nega le sue istanze vitali volte verso una espansione e una autonomia del Sé.
Fin dall’inizio è pertanto fondamentale riconoscere e dare voce al latente che c’è dietro la realtà manifesta del paziente; mettere quindi in crisi la sua confusione e ricondurlo, attraverso una chiara prassi di intervento, alla responsabilità di fare una scelta per sé stesso. Non possiamo certo pretendere che il paziente veda ciò che non può vedere a causa del suo stato di malattia, ma noi dobbiamo essere per lui quegli occhi che sanno vedere ciò che in lui non è realizzato allo stato attuale, ma che potrà esserlo grazie ad un intervento terapeutico specifico.
Fin dal primo contatto con il Servizio, sia esso diretto o mediato, è importante che il paziente si scontri con la chiarezza di tale prassi: non ci può essere possibilità di collusione da parte del Servizio con le sue richieste ambigue e manipolative, mentre c’è la proposizione di una crisi in cui il paziente è chiamato ad affrontare il riconoscimento del suo stato di malattia e ad effettuare una scelta in relazione alla indicazione terapeutica proposta.
Riconoscimento e scelta nascono e si sviluppano all’interno del primo colloquio psichiatrico, che non equivale pertanto a una automatica presa in carico del paziente, né tanto meno a una presa in carico psicoterapeutica. Si tratta di un “setting” a termine, fatto di 3-4 incontri, che si propone i seguenti obiettivi: riconoscimento del latente (diagnosi); valutazione delle risorse che il paziente ha a disposizione per modificare la sua realtà attuale (prognosi); scelta da parte dello psichiatra e proposizione al paziente di un progetto terapeutico (terapia).
Il primo colloquio psichiatrico è uno strumento clinico fondamentale per la conoscenza della realtà psichica del paziente, espressione della sintesi temporale delle due fasi fondamentali della semeiotica medica: la raccolta dell’anamnesi e l’esame obiettivo. Infatti, lo psichiatra integra continuamente ciò che osserva con l’ascolto della storia raccontata dal paziente; solo integrando ciò che ascolta con ciò che vede lo psichiatra potrà recepire la globalità della persona che gli sta di fronte, e potrà verbalizzare e interpretare quello che accade nella realtà di quel rapporto medico-paziente. È possibile inventare qualsiasi storia, ma non si può mentire sulla propria realtà psichica, non si può cioè nascondere chi si è, come si pensa e come ci si pone in relazione con gli altri. Per questo l’esame obiettivo nella visita psichiatrica è più importante della raccolta dei dati anamnestici.
Seguendo questa ottica di base, enumeriamo i punti specifici che lo psichiatra andrà a considerare nella sua osservazione-interazione clinica:
Pertanto al clinico che conduce il primo colloquio psichiatrico saranno richieste competenze specifiche: conoscenza della psicopatologia e della medicina somatica, capacità di osservazione, di ascolto e di empatia, conoscenza della gamma dei diversi trattamenti possibili (da quelli psicofarmacologici a quelli assistenziali, a quelli psicoterapeutici) con particolare attenzione alle indicazioni e controindicazioni di ciascuno di essi, capacità di integrare diagnosi descrittive con ipotesi biologiche, psicodinamiche e relazionali, al fine di offrire al paziente l’elaborato del proprio lavoro, e cioè l’indicazione del trattamento più adeguato, considerata la realtà attuale, interna ed esterna, del paziente stesso.
La restituzione della diagnosi al paziente e l’indicazione al trattamento non è una semplice comunicazione dei risultati desunti dall’osservazione dell’oggetto paziente, ma è una comunicazione che nasce, cresce e matura nell’interazione medico-paziente, ed è pertanto inseribile nella realtà emotiva del paziente.
È soltanto in questa fase che il primo colloquio psichiatrico ritrova la sua completa integrità, spaziale e temporale: non solo viene accolta la sofferenza del paziente, dando spazio alla sua sofferenza reale, ma l’interazione tra psichiatra e paziente porta, nell’arco di tempo della prima visita, alla decisione da parte dello specialista di poter fare qualcosa e che cosa. Il nodo di questa interazione è una scelta fatta dallo psichiatra sulla base della sua competenza, conoscenza, responsabilità e presenza: questa scelta ha un significato promotivo nel paziente, nel senso che lo porta di fronte al significato reale della sua richiesta e lo conduce alla responsabilità di una sua scelta implicante un cambiamento, nei limiti consentitigli dal suo stato di malattia.
È all’interno della équipe multidisciplinare che andranno vagliate le possibilità di rispondere in modo adeguato al paziente. Sarà pertanto utile effettuare una riunione di équipe prima dell’ultimo incontro dello psichiatra con il paziente, in modo da discutere e valutare le possibilità di risposta da parte del Servizio. Tali incontri risultano imprescindibili quando è necessario dare una risposta integrata (con interventi psicoterapeutici individuali, interventi psicofarmacologici e assistenziali, interventi sulla famiglia).
La possibilità di attingere alle specifiche competenze all’interno dell’équipe rappresenta un tesoro prezioso che il Servizio ha a disposizione, soprattutto se consideriamo che tali risposte sono necessarie in alcuni quadri psicopatologici quali schizofrenie, tossicomanie, disturbi della condotta alimentare, disturbi borderline, crisi adolescenziali, ecc. Nell’intervento integrato si tratta di creare una rete funzionale di risposte che riuniscono ciò che nel paziente è frammentato e disorganizzato. L’integrazione dinamica e coerente delle varie funzioni sarà dotata di una grossa valenza terapeutica, nel senso di una opposizione-resistenza continua ai tentativi di evasione attraverso la frammentazione, avanzata dai pazienti e dalle loro famiglie.
In sintesi, il primo contatto del paziente psichiatrico con il Dipartimento di Salute Mentale consta di tre momenti successivi:
In questa breve relazione non ho usato il termine accoglienza, se non riferito al primo contatto dell’utente con il servizio di segreteria: infatti, se si considerano tutte le implicazioni cliniche viste in precedenza, il termine accoglienza diventa generico e aspecifico, destinato più a confondere che a chiarire. Accogliere la richiesta del paziente vuol dire accettare che ciò che viene portato e richiesto in modo manifesto rappresenti la sua unica realtà: intervenire sul manifesto vuol dire negare al paziente le sue possibilità vitali ed evolutive, che attingono nel latente.
Il primo colloquio psichiatrico come prassi di intervento vuol dire accogliere il paziente in termini spaziali e, nell’arco di tempo della prima visita psichiatrica, portarlo ad una scelta; vuol dire proporgli, in nuove coordinate spaziotemporali, la possibilità di un rapporto nuovo con la realtà esterna e con la propria realtà psichica.
In quegli anni intorno al ’90 si discuteva ancora di un qualcosa che è andato scomparendo negli anni successivi: la possibilità di una cura psichica e la guarigione della malattia mentale attraverso di essa. Rimane sempre viva in me la domanda che mi ponevo allora: se sparisce all’interno degli operatori deputati alla cura della malattia psichica, l’idea stessa della cura, come potrà essere considerata curabile la malattia mentale?
Nell’ambito dell’incontro tra utente e Servizio Dipartimentale di Salute Mentale un ruolo estremamente importante, nella sua specificità, spetta allo psichiatra che nel primo colloquio è chiamato a dare un senso alla richiesta dell’utente; è il ruolo specifico di chi promuove la trasformazione dell’utente, portatore di una generica richiesta, in paziente, portatore di una malattia che potrà essere curata solo nella misura in cui verrà riconosciuta.
La necessità di tale trasformazione è legata alla peculiarità del soggetto che cade sotto la nostra osservazione: il paziente psichiatrico è infatti portatore di una sofferenza la cui origine gli è sconosciuta e fa una richiesta per qualcosa che non conosce. La sofferenza, come pure la richiesta, rappresentano cioè una copertura per sofferenze e richieste più profonde e reali. Se da un lato il paziente chiede di essere “guarito” dalla sofferenza, dall’altra chiede che il sintomo gli sia conservato nella misura in cui esso serve per nascondere il conflitto di fondo la cui emergenza potrebbe fargli perdere quei “privilegi” che ha acquisito all’interno del gruppo in cui vive.
Questa ambiguità di fondo del paziente psichiatrico, espressione della sua malattia, può entrare in risonanza con le ambiguità istituzionali, in cui troppo spesso troneggia la mancata distinzione tra assistenza e cura. Tale confusione istituzionale collude con le istanze regressive del paziente volte a ottenere sostegno e assistenza, e nega le sue istanze vitali volte verso una espansione e una autonomia del Sé.
Fin dall’inizio è pertanto fondamentale riconoscere e dare voce al latente che c’è dietro la realtà manifesta del paziente; mettere quindi in crisi la sua confusione e ricondurlo, attraverso una chiara prassi di intervento, alla responsabilità di fare una scelta per sé stesso. Non possiamo certo pretendere che il paziente veda ciò che non può vedere a causa del suo stato di malattia, ma noi dobbiamo essere per lui quegli occhi che sanno vedere ciò che in lui non è realizzato allo stato attuale, ma che potrà esserlo grazie ad un intervento terapeutico specifico.
Fin dal primo contatto con il Servizio, sia esso diretto o mediato, è importante che il paziente si scontri con la chiarezza di tale prassi: non ci può essere possibilità di collusione da parte del Servizio con le sue richieste ambigue e manipolative, mentre c’è la proposizione di una crisi in cui il paziente è chiamato ad affrontare il riconoscimento del suo stato di malattia e ad effettuare una scelta in relazione alla indicazione terapeutica proposta.
Riconoscimento e scelta nascono e si sviluppano all’interno del primo colloquio psichiatrico, che non equivale pertanto a una automatica presa in carico del paziente, né tanto meno a una presa in carico psicoterapeutica. Si tratta di un “setting” a termine, fatto di 3-4 incontri, che si propone i seguenti obiettivi: riconoscimento del latente (diagnosi); valutazione delle risorse che il paziente ha a disposizione per modificare la sua realtà attuale (prognosi); scelta da parte dello psichiatra e proposizione al paziente di un progetto terapeutico (terapia).
Il primo colloquio psichiatrico è uno strumento clinico fondamentale per la conoscenza della realtà psichica del paziente, espressione della sintesi temporale delle due fasi fondamentali della semeiotica medica: la raccolta dell’anamnesi e l’esame obiettivo. Infatti, lo psichiatra integra continuamente ciò che osserva con l’ascolto della storia raccontata dal paziente; solo integrando ciò che ascolta con ciò che vede lo psichiatra potrà recepire la globalità della persona che gli sta di fronte, e potrà verbalizzare e interpretare quello che accade nella realtà di quel rapporto medico-paziente. È possibile inventare qualsiasi storia, ma non si può mentire sulla propria realtà psichica, non si può cioè nascondere chi si è, come si pensa e come ci si pone in relazione con gli altri. Per questo l’esame obiettivo nella visita psichiatrica è più importante della raccolta dei dati anamnestici.
Seguendo questa ottica di base, enumeriamo i punti specifici che lo psichiatra andrà a considerare nella sua osservazione-interazione clinica:
1) i segni verbali e non verbali della malattia, e i suoi sintomi con la loro insorgenza e il loro decorso. Una buona conoscenza della psicopatologia e della medicina generale sono basilari per discriminare quadri psichiatrici da quadri psicoorganici;
2) il decorso della malattia, che comprende anche la modalità di reazione del paziente ad altri programmi terapeutici, eventualmente affrontati nel pubblico e/o nel privato;
3) le modalità di relazione oggettuale del paziente, valutate all’interno della relazione medico-paziente;
4) lo studio longitudinale del passato del paziente per determinare la sua deviazione patologica dal normale processo evolutivo di maturazione;
5) la valutazione delle dinamiche familiari attraverso la vita del paziente, compresa la situazione attuale. Tale valutazione e l’incontro con i familiari, sempre in presenza del paziente, appare imprescindibile nelle crisi adolescenziali e nel caso di pazienti affetti da schizofrenia, tossicomanie o disturbi della condotta alimentare.
La valutazione clinica così concepita prende in considerazione punti di vista dinamici, economici, strutturali e, soprattutto, evolutivi. Non si tratta pertanto di fare riferimento a una diagnosi nosografico-descrittiva cristallizzata, ma piuttosto ad una diagnosi interpretativo-esplicativa, funzionale a uno specifico intervento terapeutico.2) il decorso della malattia, che comprende anche la modalità di reazione del paziente ad altri programmi terapeutici, eventualmente affrontati nel pubblico e/o nel privato;
3) le modalità di relazione oggettuale del paziente, valutate all’interno della relazione medico-paziente;
4) lo studio longitudinale del passato del paziente per determinare la sua deviazione patologica dal normale processo evolutivo di maturazione;
5) la valutazione delle dinamiche familiari attraverso la vita del paziente, compresa la situazione attuale. Tale valutazione e l’incontro con i familiari, sempre in presenza del paziente, appare imprescindibile nelle crisi adolescenziali e nel caso di pazienti affetti da schizofrenia, tossicomanie o disturbi della condotta alimentare.
Pertanto al clinico che conduce il primo colloquio psichiatrico saranno richieste competenze specifiche: conoscenza della psicopatologia e della medicina somatica, capacità di osservazione, di ascolto e di empatia, conoscenza della gamma dei diversi trattamenti possibili (da quelli psicofarmacologici a quelli assistenziali, a quelli psicoterapeutici) con particolare attenzione alle indicazioni e controindicazioni di ciascuno di essi, capacità di integrare diagnosi descrittive con ipotesi biologiche, psicodinamiche e relazionali, al fine di offrire al paziente l’elaborato del proprio lavoro, e cioè l’indicazione del trattamento più adeguato, considerata la realtà attuale, interna ed esterna, del paziente stesso.
La restituzione della diagnosi al paziente e l’indicazione al trattamento non è una semplice comunicazione dei risultati desunti dall’osservazione dell’oggetto paziente, ma è una comunicazione che nasce, cresce e matura nell’interazione medico-paziente, ed è pertanto inseribile nella realtà emotiva del paziente.
È soltanto in questa fase che il primo colloquio psichiatrico ritrova la sua completa integrità, spaziale e temporale: non solo viene accolta la sofferenza del paziente, dando spazio alla sua sofferenza reale, ma l’interazione tra psichiatra e paziente porta, nell’arco di tempo della prima visita, alla decisione da parte dello specialista di poter fare qualcosa e che cosa. Il nodo di questa interazione è una scelta fatta dallo psichiatra sulla base della sua competenza, conoscenza, responsabilità e presenza: questa scelta ha un significato promotivo nel paziente, nel senso che lo porta di fronte al significato reale della sua richiesta e lo conduce alla responsabilità di una sua scelta implicante un cambiamento, nei limiti consentitigli dal suo stato di malattia.
È all’interno della équipe multidisciplinare che andranno vagliate le possibilità di rispondere in modo adeguato al paziente. Sarà pertanto utile effettuare una riunione di équipe prima dell’ultimo incontro dello psichiatra con il paziente, in modo da discutere e valutare le possibilità di risposta da parte del Servizio. Tali incontri risultano imprescindibili quando è necessario dare una risposta integrata (con interventi psicoterapeutici individuali, interventi psicofarmacologici e assistenziali, interventi sulla famiglia).
La possibilità di attingere alle specifiche competenze all’interno dell’équipe rappresenta un tesoro prezioso che il Servizio ha a disposizione, soprattutto se consideriamo che tali risposte sono necessarie in alcuni quadri psicopatologici quali schizofrenie, tossicomanie, disturbi della condotta alimentare, disturbi borderline, crisi adolescenziali, ecc. Nell’intervento integrato si tratta di creare una rete funzionale di risposte che riuniscono ciò che nel paziente è frammentato e disorganizzato. L’integrazione dinamica e coerente delle varie funzioni sarà dotata di una grossa valenza terapeutica, nel senso di una opposizione-resistenza continua ai tentativi di evasione attraverso la frammentazione, avanzata dai pazienti e dalle loro famiglie.
In sintesi, il primo contatto del paziente psichiatrico con il Dipartimento di Salute Mentale consta di tre momenti successivi:
1) accoglienza dell’utente da parte di un servizio di segreteria che avrà la funzione di dare informazioni generali sul funzionamento del Servizio;
2) primo colloquio psichiatrico, che ha lo scopo di trasformare l’utente in paziente, attraverso la proposizione di una diagnosi, una prognosi e un trattamento;
3) presa in carico del paziente sulla base di uno specifico trattamento.
2) primo colloquio psichiatrico, che ha lo scopo di trasformare l’utente in paziente, attraverso la proposizione di una diagnosi, una prognosi e un trattamento;
3) presa in carico del paziente sulla base di uno specifico trattamento.
In questa breve relazione non ho usato il termine accoglienza, se non riferito al primo contatto dell’utente con il servizio di segreteria: infatti, se si considerano tutte le implicazioni cliniche viste in precedenza, il termine accoglienza diventa generico e aspecifico, destinato più a confondere che a chiarire. Accogliere la richiesta del paziente vuol dire accettare che ciò che viene portato e richiesto in modo manifesto rappresenti la sua unica realtà: intervenire sul manifesto vuol dire negare al paziente le sue possibilità vitali ed evolutive, che attingono nel latente.
Il primo colloquio psichiatrico come prassi di intervento vuol dire accogliere il paziente in termini spaziali e, nell’arco di tempo della prima visita psichiatrica, portarlo ad una scelta; vuol dire proporgli, in nuove coordinate spaziotemporali, la possibilità di un rapporto nuovo con la realtà esterna e con la propria realtà psichica.
BIBLIOGRAFIA
L. CANCRINI, La psicoterapia: grammatica e sintassi, Nuova Italia Scientifica Ed., Roma 1987.
M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane, Roma 1986.
N. LALLI, Il primo colloquio psichiatrico, La Goliardica Ed., Roma 1979.
P.N. PAO, Disturbi schizofrenici, Raffaello Cortina Ed., Milano 1985.
A.A. SEMI, Tecnica del colloquio, Raffaello Cortina Ed., Milano 1985.
H.S. SULLIVAN, Il colloquio psichiatrico, Feltrinelli Ed., Milano 1983.
Nel 1990 in occasione del Seminario Annuale S.I.R.P.A. dal titolo Il successo in psicoterapia e del Convegno Annuale S.I.R.P.A. dal titolo Il cambiamento in psicoterapia, ho proposto i seguenti articoli:
QUANDO IL SUCCESSO DIVENTA UN QUADRO DA DIPINGERE.
IL FRUTTO PROIBITO E L'EMERGENZA DEL DESIDERIO.
QUANDO IL SUCCESSO DIVENTA UN QUADRO DA DIPINGERE.
IL FRUTTO PROIBITO E L'EMERGENZA DEL DESIDERIO.
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Memoria e Psiche. EDIFICARE LA MEMORIA CON I RICORDI IN CHIAVE DI VIOLINO di Concetta Turchi. Anno 2004
EDIFICARE LA MEMORIA CON I RICORDI IN CHIAVE DI VIOLINO
Concetta Turchi
“L’albero cosmico lo si ritrova in quasi tutte le tradizioni,
da un capo all’altro del pianeta
e si può supporre che esistesse ovunque,
anche là dove la sua immagine si è perduta”.
(J. BROSSE, Mythologie des arbres, 1993).
da un capo all’altro del pianeta
e si può supporre che esistesse ovunque,
anche là dove la sua immagine si è perduta”.
(J. BROSSE, Mythologie des arbres, 1993).
Orchestravagante di Gabriele Miracle
Avevo 12 anni quando l’insegnante di disegno, una donna sfiorita e triste nella sua bellezza di un tempo, ci chiese di disegnare un albero. Mi piacevano gli alberi. Li trovavo divertenti con i loro suoni e i loro movimenti; così cominciai a lavorare di buona lena. Ne venne fuori un albero, a dire il vero poco realistico, ma assolutamente chiassoso e divertente nei mille colori della sua rigogliosa chioma. Tragico errore! Quella tempesta di colori impattava con il grigiore di quella donna sfiorita e triste che, visto il mio disegno, mancò poco che lo strappasse. La vidi divenire rossa di rabbia, mentre minacciava di rimandarmi in disegno se non avessi fatto un albero vero, - “di quelli con le foglioline” - sibilò. Il cuore batteva forte nella nebbia e nel gelo, finché salì un’ondata calda di furore: voleva un albero realistico? Bene... l’avrebbe avuto!
Con la matita sanguigna, che utilizzavo solo in casi particolari, disegnai tutto d’un fiato un tentacolare albero autunnale i cui rami secchi tentavano inutilmente di allungarsi verso il cielo, attorcigliandosi fra di loro a impedirne la vista. Ero ferocemente soddisfatta del mio lavoro: quell’albero lunare poteva sembrare assolutamente realistico e... non avevo disegnato neppure una delle sue maledettissime foglioline. La mia soddisfazione divenne trionfo quando la strega, nel vedere il suo ritratto impietoso, disse a mezza bocca e senza guardarmi in volto, che era sufficientemente realistico. Quell’albero autunnale, bellissimo e tristissimo, fu l’occasione per scoprire l’impatto emotivo di fronte ad un campo percettivo inaccettabile.
Un ricordo rimane solo un ricordo se non spalanca le porte della Storia e, quando riesce in questa impresa, esso si fa memoria ossia capacità di percepire e desiderio di recepire quanto cade sotto i nostri sensi per aprire la strada della reinterpretazione attraverso l’azione: in effetti non esiste azione senza percezione, senza affetti, senza che perfino il pensiero non vi sia incluso, seppure in modo inconsapevole. E se le azioni degli uomini nel loro intersecarsi si incontrano per fare la Storia, accade che anche la Storia sia in grado di costruire l’Uomo per una sua intrinseca capacità di conservare il riassunto delle puntate precedenti: testimone biologico e storico delle trasformazioni vissute, la memoria, passando di corpo in corpo, assume in sé la capacità di custodire il segreto delle immagini, di come formarle e riattualizzarle. L’albero evolutivo si è costruito grazie a queste radici in cui ogni uomo sviluppa la capacità di costruire la sua storia personale attraverso il suo fare e fare immagini.
Milioni e milioni di anni fa accadeva che uno scimmione un po’ più evoluto scoprisse la realtà della morte: egli vedeva cadere i compagni di percorso nella lotta quotidiana contro le avversità del mondo esterno. Essi perdevano definitivamente nello strazio dei loro visceri ogni movimento, eppure quando l’Uomo volgeva lo sguardo da quei corpi inerti compariva inattesa la rievocazione nitida, fatta di movimento, di coloro che non c’erano più. Ad un certo punto però quelle fisionomie, sfumate dai contorni del tempo, diventavano indefinite, proprio come accade nei primi mesi di vita quando si costruisce la capacità di immaginare. La morte, linea nera di separazione senza ritorno, tracciava quella protoconoscenza che portava l’Uomo a lasciare dietro di sé in modo definitivo il mondo animale: la certezza che tutto ciò che non è più non è perduto, ma ritrovato e trasformato. Affacciato su quel baratro da cui attingeva questo livello di sapienza, l’Uomo conquistava quella relazione con il tempo che avrebbe trasformato il suo agire. E se tutte le sue azioni fino a quel momento avevano avuto lo scopo di portare a sé o dentro di sé la materia del mondo per crescere e rinforzare il suo diritto alla sopravvivenza - come un qualsiasi altro animale - ora quello stesso Uomo aveva la possibilità di cambiare la direzione dell’azione e volgerla verso il mondo esterno scavando sempre più profondamente la via del non ritorno: fu così che dal confronto con la realtà materiale nacquero inizialmente quegli oggetti della quotidianità che lo resero più forte nell’affrontare l’impietosa natura; dal rapporto con le altre realtà umane in formazione nacque il linguaggio.
Lasciata la via solitaria degli istinti del suo antenato animale l’Uomo imboccava ora la strada della cooperazione che lo rendeva più forte da una parte, ma anche più esposto alla impietosa morte che strappa via gli affetti: gocce salate come quelle del mare sgorgavano sulle sue gote ad ogni rimembranza. E quando la Morte divenne la sfida onnipresente alla sua caducità, impossibile da dimenticare, per calmare l’angoscia non bastarono più gli utensili, ci vollero le strutture architettoniche; non bastarono più gli aedi che cantavano di verità e bellezza, divenne necessaria la scrittura. Alcuni inventarono un Dio onnisciente e onnipotente, proiezione del loro bisogno di non sentirsi mortali e senza conoscenza: quando i vissuti della mancanza prenderanno il sopravvento (dopo la crisi greca del V secolo a.C.) i poeti non saranno più la voce della memoria. Privata così del rapporto con il corpo essa diventerà realtà divina interna - e quindi anima – che affollerà le pagine di una noiosissima, quanto inutile, speculazione filosofica.
Monca della poesia e della affettività, la memoria diviene il magazzino oscuro e polveroso dei ricordi e, nel migliore dei casi, delle reminiscenze. La follia dell’onnipotenza fa ammalare l’albero della conoscenza rendendo sempre più difficile la possibilità di cogliere quel mondo delle immagini interne che va di pari passo con la realtà materiale: come se gli oggetti non avessero un suono, come se il linguaggio non fosse musica, come se la realtà psichica dell’uomo non fosse anche inconscio. Noi che conosciamo come questo livello di dissociazione sia alla base della malattia mentale, sappiamo anche come il processo di cura psichica non possa prescindere dal tentativo di riannodare i fili della integrità umana per sancire quell’antico nesso tra memoria e affetti, per ribadire che l’arte della memoria è lavoro interiore, creazione di immagini belle. Essa è conoscenza.
“Negli esseri viventi ogni azione, sia essa volontaria oppure no, ha la sua origine da una sensazione. La sensazione nasce come capacità, insita in ogni organismo vivente, di rispondere agli stimoli in cui è immerso, grazie alla presenza di recettori sensoriali più o meno complessi in grado di raccogliere le informazioni più varie sulla realtà circostante: prima tappa di quel filo diretto con il mondo che permette l’adattamento partendo da circuiti neuronali molto semplici, come i riflessi.
Seguendo lo sviluppo filogenetico, la centralizzazione della sensazione permette di collegare ogni parte della struttura corporea, e lo spazio corrispondente, alla temporalità: infatti, ogni tipo di messaggio sensoriale (tattile, acustico, visivo, ecc.) arriva al cervello come serie numerica di dati ordinati nel tempo, analizzabili e confrontabili con altri registrati nelle precedenti esperienze. In questa ascesa al Sistema Nervoso Centrale, la sensazione localizzata in uno spazio trova quel tempo che la trasforma in percezione, cioè nella possibilità di conoscenza del senso della sensazione. Questa ascesa conoscitiva crea il primo livello di integrazione, cerniera fondamentale per arrivare in seguito alle possibilità espressive della vita specificatamente umana, attraverso una danza di sincronismi neuronali: a tale riguardo, è fondamentale lo sviluppo degli organi di senso che si strutturano e si completano per rispondere in modo sempre più adeguato e specie specifico.
Nell’acquisizione di questa specificità che ha portato nel campo dell’umano, un ruolo fondamentale viene svolto dagli integratori cerebrali che compaiono in funzione degli imperativi evolutivi: essi sono, secondo l’ordine di comparsa, l’integratore vestibolare e rinoencefalico, visivo, cocleare e, infine, piramidale.
L’integratore vestibolare controlla la struttura dinamica automatica che gestisce attraverso una organizzazione protopatica, cioè al di fuori del campo cosciente. Con il controllo che opera su tutte le funzioni motorie, assicura la statica e la cinetica del corpo, consentendo di prepararlo a quel movimento che viene comandato dall’integratore piramidale: munito di questo sistema, l’Uomo potrà soddisfare i suoi bisogni e le sue esigenze, andare incontro ai suoi desideri e... molto di più.
L’integratore olfattivo è il primitivo organo con funzione di orientamento: l’integratore vestibolare lo porta, dietro uno stimolo, là dove occorre andare, per necessità o desiderio. Viene soppiantato ben presto dall’integratore visivo, che ha la stessa funzione, ma permette una maggior precisione. L’integratore cocleare fa la sua comparsa nei mammiferi, trasformando tutte le relazioni esistenti fino a quel momento tra i vari integratori. La coclea assume la direzione del sistema e, con la collaborazione del vestibolo, porta all’acquisizione delle caratteristiche specificatamente umane: la verticalizzazione, la liberazione della mano, il linguaggio”.
(C. TURCHI E M. MORTILLARO, Dalla sensazione alla percezione e alla recettività: il cammino verso l’ascolto, sul sito www.traiettorieblu.it)
Sia l’integratore vestibolare che quello cocleare hanno come punto di riferimento sensoriale l’orecchio interno, la cui complessità è un punto d’arrivo della evoluzione. In parallelo allo sviluppo progressivo dell’orecchio anche il sistema nervoso progredisce in termini esponenziali: punto nodale di questa progressione è il passaggio dell’informazione attraverso la formazione reticolare, una rete neuronale particolarmente fitta presente nel tronco dell’encefalo, che costruisce la funzione neurofisiologica della memoria (attraverso le sue proiezioni talamiche e talamo-corticali). Distribuita in tutto il corpo, la memoria diventa uno degli elementi fondanti di questa struttura funzionale e dinamica del sistema nervoso che integra al contempo il movimento, il gesto, lo sguardo, il contatto, l’olfatto, l’udito. L’integratore vestibolare fa in modo che ogni informazione sonora abbia la sua corrispondenza corporea secondo una forma grammaticale non verbale che solo successivamente, attraverso l’integratore cocleare, avrà possibilità e diritto di parola: a quest’ultimo spetta pertanto il duplice compito della assimilazione linguistica da un lato e della verbalizzazione delle memorie somatiche dall’altro.
Nel fitto bosco dei neuroni i rami e i tronchi nervosi si sono intersecati secondo un ordine e una priorità stabilite di volta in volta dalla struttura filogeneticamente più recente. In questo modo l’orecchio interno, attraverso la funzione dell’ascolto, ha guidato ogni organismo verso la comunicazione profonda con l’ambiente circostante fino ad arrivare al vertice di questo sistema complesso: quella possibilità di verbalizzazione che costruisce il sentiero verso l’identità specificatamente umana. L’orecchio è pertanto il nostro sentiero nel bosco, quella conchiglia raccolta nella notte dei tempi che ci riporta al gorgoglio di un mare interno profondo e calmo. Con il completo sviluppo della coclea l’udito da fenomeno sensoriale passivo legato alla messa in vibrazione del corpo indotta da una sorgente sonora, si può trasformare in ascolto come atto recettivo, ossia come fenomeno attivo legato al desiderio di mettersi in ascolto per comunicare.
Quello che è avvenuto nei millenni come sviluppo filogenetico si riepiloga continuamente attraverso l’ontogenesi (lo sviluppo di ogni individuo). Oggi sappiamo che l’orecchio completa il suo sviluppo a partire dal quarto mese di vita intrauterina. Sappiamo inoltre che il neonato è in grado di riconoscere, dopo la nascita, la voce della madre: questo significa che il feto già sentiva la voce di lei quando era immerso nel suo mare amniotico. Quel mare è un mondo multisonoro con un rumore di fondo simile al suono di una cascata, che parla della vita viscerale della madre, dei suoi respiri come dei battiti del suo cuore o dei borborigmi. Tutti quei suoni gravi, che fanno vibrare ritmicamente quel corpo in formazione, sarebbero insopportabili se non venissero filtrati dal liquido amniotico: funzionando come un filtro passa-alto, esso rende ovattata questa orchestra viscerale. Su questo rumore di fondo ovattato, continuo e rassicurante, compare ad un certo momento (terminato lo sviluppo embrionale della coclea e delle vie nervose cocleari) la voce della madre. Immediatamente riconoscibile dagli altri suoni in quanto ricca di tonalità acute, questo suono arriva al feto come fatto assolutamente nuovo: discontinuo e intermittente, esso è in grado di metterlo in vibrazione in un modo diverso. Quella voce potrà essere armoniosa od ostile, a seconda di come le parole vengono suonate dal corpo della madre: l’interpretazione sonora, che dipende dalla qualità affettiva della madre, rappresenta la base su cui il feto costruirà la sua carica vitale originaria, primo mattone di quel tempo che si renderà percepibile solo al momento della nascita.
La comparsa della voce materna potenzia la capacità esplorativa della funzione vestibolare portando il feto ad un costante riequilibrio all’interno del suo universo uterino attraverso quella organizzazione di reazioni che in un momento successivo acquisteranno le caratteristiche di automatismi. In questo scambio continuo tra periferia e centro, nei due sensi, il feto comincia a modulare le sue reazioni corporee sulla voce della madre e tali modulazioni rimarranno come una sorta di linguaggio base, molecolare e neurofisiologico, anche dopo la nascita: il contatto con l’acqua lo riporterà agli automatismi motori corrispondenti (sia sul piano muscolare che respiratorio), la percezione di un abbraccio caldo ed avvolgente oppure di una voce vibrante lo ricondurrà ad un rilassamento muscolare e ad una diminuzione della frequenza respiratoria, e così via. Ogni stimolazione dopo la nascita andrà a risvegliare quella protomemoria uterina determinando una risposta inconscia, riemersione corporea di ciò che era già custodito, prima ancora di essere percepito.
Con il terremoto della nascita l’orecchio del neonato, abituato come era ad un ascolto liquido, si deve adattare al nuovo mezzo aereo con i suoi rumori assordanti. Questo passaggio sarebbe oltremodo traumatico se non rimanesse nel suo condotto uditivo del liquido amniotico che continua a funzionare come un ammortizzatore dei suoni provenienti dal mondo esterno. Nel passaggio al nuovo mondo, in quel salto accecante nella luce, è la voce della madre che dopo il parto il neonato cercherà e riconoscerà tra mille altre: la berrà insieme con il latte che ella gli porge continuando così quel nutrimento materiale ed affettivo che, iniziato nel mondo intrauterino, porterà il neonato a crescere nel corpo e nella vitalità. Questo riconoscimento getterà il ponte, il primo, tra una sensazione attuale e una sensazione passata. In quel suo primo riconoscere, la sensazione, divenuta percezione, troverà nella memoria la prima possibilità di rappresentazione psichica e, con essa, il suo primo spazio mentale. Solo in quel momento il liquido amniotico che avvolgeva e accarezzava il feto diventa spazio interno, prima traccia mnesica che comprende la realtà materiale e concreta dello spazio e del tempo del rapporto, e la realtà non materiale - la musica degli affetti - che hanno dato vita al movimento, alla bellezza e alla verità di quel rapporto interumano.
“Catapultati in un nuovo mondo accecante e rumoroso, cerchiamo una voce conosciuta, quella che ci ha accompagnato mentre eravamo sospesi nel liquido amniotico. Quella voce che porta verso un nuovo abbraccio, verso una nuova sospensione che restituisce i confini, ci salva dalla pericolosa tentazione di chiudere gli occhi sul nuovo mondo per renderlo non esistente. La percezione ritrovata traccia il primo ricordo che è anche la prima fantasia umana. ‘Inconscio mare calmo’, la chiama il mio Maestro di un tempo: immagine sonora, espressione al contempo di una ricerca e di una sanità psichica”. (C. TURCHI, “Al chiaro di luna”, in L’ArcoAcrobata, I, O, Associazione Musicalificio Grande Blu Ed., Roma 2002, p. 12.)
Quando alla nascita la rete neuronale si centralizza grazie alla acquisizione del campo percettivo che la rende operativa, si spalancano le porte della motivazione e il neonato comincia a stabilire un legame con ciò che desidera. Sin dall’inizio egli si apre alla realtà nuova confrontando la prima immagine interna (inconscio mare calmo) con il mondo che lo circonda. Da questa prima immagine nasce la speranza, che è certezza insieme, di trovare un essere umano che risponda alle sue richieste di nutrimento materiale e affettivo, al suo desiderio: il nutrimento sonoro e il movimento calmo della madre gli sono necessari quanto il latte che succhia avidamente ad ogni poppata. Dopo la nascita e negli anni successivi soltanto la spinta della motivazione, legata alla esperienza viscerale della soddisfazione del desiderio, potrà liberare le informazioni più antiche custodite silenziosamente nel corpo permettendo che le nuove sensazioni possano essere raccolte nel cervello, senza memoria alcuna di quel ricordo. Come a dire che il ricordo conservato e diventato inconscio è sempre pronto ad essere attivamente rievocato quando una nuova situazione di rapporto lo farà rinascere alla coscienza come possibilità di trasformazione della esperienza passata, cioè come fantasia. La sanità di un uomo è data proprio dalla sua capacità di dimenticare, affinché i ricordi non impediscano il processo senza fine della memoria per cui l’uomo è nato e continua a svilupparsi.
Se la madre nel rapporto col neonato non esprimerà la musica degli affetti, quella prima immagine andrà perduta e con essa la capacità di immaginare: di conseguenza si perderà anche la certezza della propria nascita, cioè della propria realtà umana che è al contempo corporea e psichica. A questo punto rimarrà la sola realtà materiale, propria e altrui, e gli istinti biologici correlati. Il desiderio insoddisfatto determinerà un affollamento sensoriale collegato ai bisogni del suo corpo confondendolo e compromettendo in continuazione la trasmissione delle informazioni ricevute: le dinamiche psichiche di negazione e annullamento trovano in questi luoghi neuronali la loro base disfunzionale. La realtà viene continuamente letta sulla base dei dati passati e non sulla base di ciò che è davanti ai nostri sensi in quel dato istante: la psicopatologia e la psicosomatica trovano qui le loro radici. Vi trova la sua ragione d’essere anche quella “patologia della normalità” che si sclerotizza su schemi d’azione codificati e prevedibili: ombre di uomini la cui consistenza è data dalla riproduzione di stati di coscienza passati che si solidificano nello spazio e nel tempo. Privati della vita e resi oggetto, tali ricordi di marmo vengono diligentemente accumulati e inventariati.
Seguendo il filo della narra-azione, cioè di quel rapporto tra voce e azione che produce il racconto della memoria, è evidente fin dai primi giorni di vita come la voce materna produca nel neonato delle risposte muscolari e sonore, spesso all’unisono. E lui ricerca in quel rapporto così significativo quel movimento e quel suono in grado di restituirgli momento dopo momento il nutrimento affettivo e il conseguente stato di calma già vissuto, anche se non ancora provato, nei mesi acquatici precedenti alla sua venuta al mondo. A volte quel rapporto sarà completamente armonico e soddisfacente, altre volte meno: in relazione a queste due condizioni ci saranno nel neonato degli accadimenti muscolari e sonici differenti. Saranno visibili, ad esempio, un allentamento del tono muscolare collegato alla possibilità di lasciarsi andare tra le braccia dell’altro, oppure la comparsa di scariche muscolari toniche accompagnate da agitazione motoria prive di qualsiasi forma di coordinazione: le variazioni del tono muscolare sono nel neonato, e rimarranno nell’adulto, l’espressione diretta di uno stato emozionale collegato o meno alla soddisfazione del desiderio. La continua scoperta del piacere e la possibilità di incontrare le vie del dolore si inscrivono profondamente nel corpo del neonato, nei suoi movimenti, nei suoi gesti e nella sua mimica.
Gli atteggiamenti altrui sono ascoltati dal corpo e si traducono sempre in risposte del tono muscolare, il che vuole dire che le risonanze emozionali e corporee si accordano continuamente con l’ambiente umano circostante. I movimenti espressivi (i primi a comparire, come abbiamo visto) consentono di sentire il corpo nell’attuazione di qualsiasi movimento, sia esso una reazione (parziale) o una azione (globale); quest’ultima, che ha in sé la possibilità di modificare l’ambiente circostante (oltre che accomodarsi ad esso), potrà essere legata ad un utile evidente e riconoscibile (azione pragmatica), oppure senza uno scopo evidente: solo i movimenti attivati attraverso la seconda modalità saranno rivelatori del mondo emozionale di quel particolare organismo in relazione al suo contesto. Nel mondo degli umani, in quanto espressione di uno specifico vissuto, essi diverranno gesto, equilibrio dinamico tra il mondo interno dell’individuo e l’ambiente che va affrontando. È la qualità specificatamente umana legata alle cose che si fanno per niente, il piacere dell’azione a prescindere dallo scopo da raggiungere, a rendere il movimento sempre più plastico e meno dipendente da schemi innati: tale indeterminatezza dell’azione motoria, che è alla base del gioco, fa sì che la spontaneità del gesto parli in continuazione di una integrazione psicocorporea dove ricondurre l’espressione a livello del corpo vissuto. Quando l’intenzionalità della comunicazione si appropria del corpo vissuto il gesto si fa segno, acquistando una potenza di rappresentazione dove a parlare è direttamente la fantasia del nostro mondo interno.
A proposito degli accadimenti sonici, all’inizio il neonato dialoga con la voce della madre per rispondere o per avere una risposta. Quella voce, che solo più tardi il bambino assocerà al volto, continua a produrre in lui fremiti e gemiti inconsulti che parlano dell’emozione di quell’attimo vissuto, proprio come accadeva quando nuotava nel suo mare uterino: il cicalio iniziale è la sua interpretazione di quello spazio acquatico. Il cucciolo di uomo va dipingendo con pennellate sempre più raffinate il suo quadro sonoro da regalare a quella figura nebulosa che lo nutre alimentando la sua motivazione alla vita: per lei associa il colore di un suono da regalarle per avere quella risposta che lo ha già reso felice altre volte. Insomma, quel suo balbettio è il linguaggio che crea per la madre, è l’espressione del suo amore per lei, della sua pretesa umana di essere capito e di avere sempre una risposta da lei. A causa di questo legame affettivo profondo, un abbandono della madre, (psichico e/o materiale) oppure una malattia del neonato, possono compromettere l’elaborazione del suono che nasce e si costruisce all’interno di questa relazione e, conseguentemente, alterare lo sviluppo psicomotorio e affettivo, del bambino.
L’immagine che va costruendo il lattante attraverso i suoni e le sensazioni propriocettive che registrano la sua immagine muscolare e viscerale, è assai simile a quanto viene risvegliato nel corpo attraverso il tatto: si tratta di una immagine-oggetto del corpo visceralmente vissuto (me) collocato al centro di un mondo di cui il bambino desidera impadronirsi unicamente per comunicare con l’altro. La costruzione dell’Io sento e dell’Io mi sento, che fanno la affettività della percezione, diventano possibilità di conoscenza della realtà esterna e della propria realtà interna. Tale costruzione si rivela ascoltando la asimmetria sonora del balbettio che ad un certo punto dello sviluppo compare: essa diventa l’espressione della necessità di un dialogo tra questo me corporeo e l’Io pensante che comincia a delinearsi sia su un piano neurologico che psicologico. Il balbettio, infatti, per quanto forte sul piano affettivo e quindi particolarmente significativo sul piano semantico, non è una lingua sociale; si deve trasformare per raggiungere il resto del mondo. Alla base di tale trasformazione c’è l’avvio del processo di lateralizzazione che radicalizza le diversità dei due emicorpi portando ad acquisire le basi neurologiche per l’apprendimento della lingua del padre, lingua in cui tutto si soggettivizza e si complementarizza: ecco che il corpo può diventare lo strumento, intriso di affettività, del pensiero che vuole esprimersi.
Il suono si articolerà nelle parole soltanto quando la motricità troverà un ulteriore livello di coordinazione. Quando il bambino si impadronisce del proprio balbettio è all’incrocio di tre strade motorie (la destra, la sinistra e la mediana): è nuovamente nel bosco come l’eroina di una fiaba o come quel primo essere, non più scimmia e non ancora uomo, che aprì i sentieri dell’umanizzazione, o come quelle prime molecole organiche che, per una strana e potente attrazione, milioni e milioni di anni fa, andarono ad embricarsi fra di loro per formare quella struttura elicoidale, assai simile alla coclea, che poneva le basi senza ritorno di una memoria biologica. Ancora una volta, e come sempre, sarà importante l’ambiente affettivo in cui il bambino è immerso: quando i richiami rimangono senza risposta ogni gesto vocale perde di significato, di un senso affettivo. Il bimbo potrà anche imparare a parlare, ma il suo parlare sarà meccanico, svincolato da un desiderio profondo di comunicare con l’altro. Quando si verifica una frattura affettiva siffatta il mondo sonoro diventa doloroso: il bambino può continuare ad udire, ma non riuscirà più ad ascoltare. L’orecchio, con la sua funzione più elevata - quella dell’ascolto -, si disattiva, per riprendere solamente la sua funzione primaria, animalesca, di difesa in relazione ad un pericolo.
Abbiamo visto come l’asimmetria sia alla base della nascita della vita biologica e di quella umana. Il passaggio dalla materia inorganica alla materia biologica (vivente), è stato un percorso senza ritorno determinato proprio dalla asimmetria: la materia vivente, infatti, utilizza soltanto le catene destrogire degli zuccheri, o levogire degli aminoacidi. Milioni di anni dopo un’altra asimmetria, anatomica e funzionale, ha realizzato un ulteriore passaggio della materia vivente, la nascita dell’Uomo, grazie alla lateralizzazione (emisfero dominante). Con essa e per essa l’uomo ha acquisito quella verticalità che lo ha portato alla stazione eretta, ha conquistato quella liberazione della mano per costruire e dare forma alle sue immagini interne, ha acquisito il linguaggio. Infine è sempre l’asimmetria alla base della nostra sanità psichica: la sanità è l’espressione di una identificazione dall’altro, laddove ogni processo di identificazione con l’altro, per il principio del “dover” essere uguali, è malattia mentale. Anche sul piano viscerale nulla è simmetrico e l’informazione neuronica di questa asimmetria di base, utilizzata per il controllo della fonazione, imprime una asimmetria corticale funzionale e sonica: la lateralità ha delle ripercussioni sulla emissione vocale. Il corpo umano, infatti, come le molecole proteiche, può essere investito fisicamente e linguisticamente in modo destrogiro o levogiro: la voce destrogira, modulata e ricca di alte frequenze, si compenetra con l’impedenza dell’ambiente esterno determinando una risonanza specifica dell’aria circostante; la voce levogira, piatta e senza modulazione, è quasi “autistica” nella sua incapacità di connettersi con l’ambiente circostante. La prima è una voce che scolpisce e modella nell’esprimere la costante disponibilità al cambiamento, quella condizione di recettività che più volte abbiamo collegato alla funzione dell’ascolto; la seconda esprime l’immobilismo psicocorporeo rispetto al mondo.
In sintesi, la lateralità non è che la traduzione della asimmetria organica sottostante, che si trasmette attraverso la differenziazione dei due emisferi cerebrali. L’emisfero encefalico destro, con l’insieme delle sue ramificazioni nervose, assume il ruolo di strumento, mentre l’altro emisfero, quello sinistro, diviene nel suo insieme il sistema nervoso esecutore. I collegamenti tra i due emisferi, attraverso il corpo calloso, assicurano il dialogo costante fra il Maestro e la sua orchestra, fra il cielo e la sua luna. Quando l’Io si sente in grado di produrre un’idea nasce la grammatica che, attraverso la costruzione delle frasi costruite per il desiderio di entrare in relazione con l’altro, diventa una rappresentazione neurologica applicata al linguaggio. L’idea trova la sua struttura e il linguaggio diviene architettura nella misura in cui il pensiero riesce ad abitare il proprio corpo, per costruire e lasciarsi costruire.
Quindi la acquisizione dell’immagine corporea scaturisce dalla memoria per la memoria, dal linguaggio per il linguaggio, in funzione del desiderio che ha l’uomo di comunicare. Collegata allo sviluppo dell’integratore cocleare, essa si struttura nell’ambito di una relazione attraverso la comunicazione. Basti pensare che il corpo è immerso in un bagno d’aria che viene continuamente modificato dalle sollecitazioni delle onde di frequenza vocale, determinando l’integrazione di una immagine in funzione delle stimolazioni propriocettive periferiche. Alcune zone sensoriali rispondono meglio a quelle onde vibratorie e si sensibilizzano: su questa base la voce andrà a costruire una immagine del corpo intimamente scolpita dalla voce propria e altrui. L’immagine del corpo, attraverso questo rimodellamento, diventa la possibilità concreta di narra-azione della propria storia personale e della storia che quell’uomo costruisce nel luogo geografico in cui vive (caratterizzato da una certa impedenza) con le persone della stessa etnia con cui sperimenta uno scambio linguistico. Queste radici ancestrali lo portano ad identificarsi dal resto del mondo per costruire la propria identità.
La fondamentale certezza di essere e di sentire consente ad ogni essere umano di conoscere il nuovo, di affrontare la paura e trasformarsi... per poi giocare con le immagini che in un tempo divenuto ormai lontano lo terrorizzavano. È il confronto con il nuovo ad aumentare lo spazio interno di un individuo, a fargli trovare i suoi mille volti, per regredire e rappresentare. Non siamo più nel bosco, immobili nelle rappresentazioni ridondanti di “sempre”, dove “sempre” e “mai” diventano parole senza senso, figlie di un immobilismo mentale e corporeo che uccide la fantasia.
“Una immagine del corpo sana si ha quando la realtà corporea risuona continuamente con il corpo immaginato in modo da arrivare ad una integrazione di sé che consentirà di porsi in modo creativo con l’ambiente circostante. Tutto questo significa che è possibile rimodellare l’immagine del corpo a partire dal linguaggio proprio e altrui. La chiave di volta di questa trasformazione possibile è la recettività, che vuol dire ampliamento dei propri confini percettivi per arrivare al senso profondo della comunicazione con gli altri. Significa porsi attivamente in ascolto di fronte ad un avvenimento verbale che ci può trasformare”. (C. TURCHI E M. MORTILLARO, Dalla sensazione alla percezione e alla recettività: il cammino verso l’ascolto )
Per opera del suono l’immagine visiva si trasforma in segno, cosicché la figura può scomparire per fare emergere quanto di invisibile era presente nella figura stessa. È il ricordo di un suono, di una percezione tattile o di un odore, a farci disegnare una linea curva immersa tra lampi di luce e di colori. Difficile da rappresentare, eppure essa diventa rappresentabile nella misura in cui quelle sensazioni iniziali vengono cancellate e rimangono solo delle percezioni diffuse da cui parte la possibilità di reinterpretare: trasformazione possibile quando l’assenza dell’oggetto innesca la possibilità di rievocare l’oggetto stesso. È ciò che accade al neonato quando cerca di accordarsi in termini sonici con il mondo umano che lo circonda trasformando le parole che ascolta nelle sue sperimentazioni vocali e corporee che, grazie al continuo raccordo di emozioni, gli permette di reinterpretare i contenuti affettivi del mondo umano intorno a lui. Ed è la riemersione di quanto ascoltato senza comprensione alcuna di quei suoni, a creare immagini mentali prima ancora che la visione nitida delle cose costringa all’oblio e al sogno.
“Immagine senza figura che fa la memoria, e non sappiamo cosa sia la memoria senza figura perché non sappiamo cosa sia l’immagine senza figura. E il ricordo dell’odio e dell’amore, del dolore e della gioia, ... ma il ricordo non può essere senza immagine. Senza immagine il ricordo non può essere perché la sensazione svanirebbe nel nulla, non potrebbe essere conservata. Con la figura ricordiamo il passato, conserviamo la nostra storia. (...) L’abbiamo chiamata memoria cosciente e tutti ci hanno detto che era l’unica memoria possibile, e tutti ci hanno detto che era impossibile pensare ad altro, che era impossibile sapere che cosa era accaduto prima della comparsa della coscienza”. (M. FAGIOLI, Se avessi disegnato una donna, prefazione al libro “Bambino, Donna e Trasformazione dell’Uomo”, Nuove Edizioni Romane, Roma 1996).
Ma noi intendiamo parlare di un’altra memoria... Quella che riesce a cadere nella nebulosità e nella indeterminatezza dei primi mesi di vita, quando il mondo sonoro ci avvolge come le braccia di una nutrice. Quella memoria che si lega all’immagine sonora, immagine che si forma per quei suoni ascoltati senza comprendere, quando il mondo delle sensazioni dominava il nostro campo percettivo. E quando rinunciamo alla voce per mantenerci in ascolto, quell’ascolto può restituirci ad una voce che reclama una appartenenza al campo dell’umano per quella capacità che acquista la coscienza di tornare alla realtà inconscia dei primi mesi di vita, laddove può trovare i segni per esprimersi: disegno, forse dipinto, scritto o partitura musicale, qualsiasi cosa che non dia luogo ad una immagine visibile come figura. Disegnare, scrivere o dipingere, senza descrivere, in quel mistero per cui la parola imparata può disimparare nuovamente in questa regressione e narrare, anche attraverso il linguaggio sonoro, del rifiuto della parola imparata, per rivendicare l’unico diritto ad essere per fare immagini. In quel luogo di confine tra il sonno e la veglia ritroviamo quell’ascolto che comprendeva senza capire, e in quella comprensione inconscia iniziava a fare immagini. È quello il luogo della memoria: quello è il luogo dove non esistono più i ricordi come descrizione di quanto è effettivamente accaduto. Qualcuno sostiene che questo luogo non è rappresentabile, altri sostengono che è rappresentabile solo con il movimento senza parola. Io sostengo che quel luogo è rappresentabile, oltre che con l’azione, nella forma sonora del linguaggio e nella costruzione del linguaggio come architettura sonora e poetica.
“Evidentemente l’immagine perduta dal ricordo cosciente diventò suono, poi segno deposto sul foglio... poi immagine nella mente degli altri... poi nulla quando fu dimenticata...”. (M. FAGIOLI, Se avessi disegnato una donna, p. 307).
La certezza che l’oblio non è amnesia fa trovare una forma nuova alla memoria, come capacità di selezionare ciò che può essere dimenticato e fatto riemergere; finalmente come libertà di narrazione, possibile solamente quando ci teniamo ai margini di quel mondo tra il sonno e la veglia, perché fin troppo bene sappiamo come il linguaggio umano della vita diurna abbandoni spesso, e impunemente, le immagini del sogno. Ma quando questo non avviene allora nasce la poesia intesa come fare corpo con il linguaggio, come corpo ritrovato, come narra-azione. E allora la poesia diventa quel linguaggio che va oltre il visibile, nella misura in cui, pur partendo dalla realtà, quella del corpo, il materiale viene meno. Esso viene meno come fatto fotografico, ma obbliga alla realtà del divenire film: il linguaggio delle immagini sonore. E quando la veglia si fa sogno, possiamo tentare di scrivere per ritrovare la voce perduta, quell’urlo della nascita che squarcia il silenzio, quell’urlo all’unisono della madre e del figlio che apre il varco ad una realtà mai ascoltata o vista prima.
Ero una ragazzetta, quando nel mio diario scolastico appuntai questa riflessione: “La materia può produrre il pensiero, ma il pensiero non può produrre la materia. È forse questa la forza insostituibile della materia?”. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, eppure la mia continua ricerca sulla realtà psichica non ha mai potuto prescindere dalla domanda che mi sono posta in quel tempo e in quello spazio corporeo che andavo vivendo. Ora so che la realtà psichica non può prescindere dalla realtà materiale. Ora so che la vita vissuta può rimanere un albero bellissimo e tristissimo, legato ad un passato cristallizzatosi nel presente. Oppure può diventare memoria e, attraverso di lei, modificazione della realtà circostante attraverso la relazione tra fantasia e gesto.
L’albero della vita ritrova i suoi colori in un movimento appena accennato che spalanca le porte della immaginazione, là dove tutto è reale, perché reali sono gli affetti che la sostengono. E allora possiamo finalmente sederci lungo le rive del sogno e, sollevando gli occhi al cielo, ritrovare i cerchi lasciati dal sasso gettato nel fiume, colorati come in un ridente arcobaleno. Per sapere che quell’albero ha trovato una nuova vita nel momento stesso in cui si è liberato da quelle radici che lo nutrivano. Feto e placenta, placenta e feto: l’albero della vita. E poi l’albero si separa dalle sue radici per diventare un’altra cosa, e ogni volta diventa un’altra cosa quando il sonno ci consegna a quelle braccia e a quel seno che ci hanno nutrito e scaldato. Quel fatto che non è più non diventa mancanza nella misura in cui si fa memoria: costruzione di una immagine interna dell’evento vissuto. Ora la radice è il seno della madre. E poi anche questa radice sarà superata e, con essa, la stessa immagine dell’albero.
E in questo superamento che ha in sé il seme della poesia, c’è il nome ritrovato a restituire un rapporto con l’universo, in un gioco di risonanze profonde. Ci sono i ricordi in chiave di violino... che immediatamente si dimenticano quando c’è la certezza della propria realtà umana, materiale e psichica, laddove i suoni, espressione degli affetti, scolpiscono il corpo di chi parla e di chi ascolta. Per questo essi non cadranno nell’oblio. Essi rimarranno vivi dentro di noi, nel nostro presente, dandone un significato profondo che inventa momento dopo momento la strada per il futuro.
Questa invenzione è fantasia, capacità di rappresentazione di quanto è stato dimenticato. Questa invenzione diventa Arte quando si fa memoria storica di immagini in continuo movimento verso il futuro e l’Artista è colui che riesce ad andare oltre il racconto privato per proporre l’Arte della Memoria, quei ricordi in chiave di violino dove immagine e suono si fondono per rappresentare la forma di ricerca più elevata della nostra realtà umana.
BIBLIOGRAFlA
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JACQUES BREL: IL DIRITTO DI SOGNARE di Concetta Turchi. Anno 2003
JACQUES BREL: IL DIRITTO DI SOGNARE
Concetta Turchi
“Ciò che dovete fare è prendere una mano
Affinché in due si possa sognare”.
(Ce qu‘il vous faut, 1953)
Affinché in due si possa sognare”.
(Ce qu‘il vous faut, 1953)
Jacques Brel 1968, da “Jacques Brelle droit de rêver”,
a cura della Fondation Internationale Jacques Brel, Bruxelles 2003, p.121.
a cura della Fondation Internationale Jacques Brel, Bruxelles 2003, p.121.
I riflessi dorati dei palazzi si rispecchiano l’un l’altro, confondendosi tra di loro e con il piacevole chiacchericcio della gente seduta sui ciottoli o ai tavoli dei Caffè. La “Grande Place”, col disordine armonioso del rinascimento fiammingo, rivela una città inattesa: Bruxelles, sede del Parlamento Europeo e luogo di nascita di Jacques Brel, si presenta con la sua miscela di cacao e di etnie.
È il mese di giugno, la città è piacevolmente temperata. Gli ombrelli, diligentemente aperti alle prime gocce dell’immancabile pioggia che cade a tratti sulla città, fanno scivolare con facilità, “come perle di pioggia”, verso il mondo borghese e cattolico cantato da Brel con la sua sferzante ironia: due aspetti di uno stesso volto che l’artista rifiuterà per tutta la vita, alla ricerca di una forma altra, di un modo altro di essere e di vivere.
Il vento scuote i manifesti che giganteggiano nelle vie, riflettendo il volto multiforme di un uomo con gli occhi fanciulli sgranati sul mondo: si ricorda, con questa manifestazione che spunta ad ogni angolo della città come un vecchio nomade, la vita e le opere di Jacques Brel, morto prematuramente venticinque anni fa, per le complicanze di un cancro al polmone o forse, più semplicemente, per le complicanze della... vita.
Ufficialmente mi trovo qui per motivi professionali, ma so che l’unico buon motivo per essere a Bruxelles è Jacques Brel, e lo so ogni momento di più dato che è la ricerca di lui per le strade della città a farmi superare i disagi che scaturiscono da uno scambio professionale manchevole e costantemente privo di poesia. Sono i manifesti svolazzanti a condurmi verso l’Esposizione ed è la sua voce a guidarmi lungo il percorso interno.
Si comincia dal tempo delle origini... una infanzia in cui non accadeva quasi nulla e dove il valore del denaro dominava tutto l’ambiente borghese. “La borghesia è una forma di materialismo. È tutto ciò che uccide il sogno. È tutto quello che uccide ciò che è grazioso. È la sicurezza. È una forma di mediocrità dell’anima. È ciò che fa diventare vecchi, è tutto quello che non mi piace”.
È il mese di giugno, la città è piacevolmente temperata. Gli ombrelli, diligentemente aperti alle prime gocce dell’immancabile pioggia che cade a tratti sulla città, fanno scivolare con facilità, “come perle di pioggia”, verso il mondo borghese e cattolico cantato da Brel con la sua sferzante ironia: due aspetti di uno stesso volto che l’artista rifiuterà per tutta la vita, alla ricerca di una forma altra, di un modo altro di essere e di vivere.
Il vento scuote i manifesti che giganteggiano nelle vie, riflettendo il volto multiforme di un uomo con gli occhi fanciulli sgranati sul mondo: si ricorda, con questa manifestazione che spunta ad ogni angolo della città come un vecchio nomade, la vita e le opere di Jacques Brel, morto prematuramente venticinque anni fa, per le complicanze di un cancro al polmone o forse, più semplicemente, per le complicanze della... vita.
Ufficialmente mi trovo qui per motivi professionali, ma so che l’unico buon motivo per essere a Bruxelles è Jacques Brel, e lo so ogni momento di più dato che è la ricerca di lui per le strade della città a farmi superare i disagi che scaturiscono da uno scambio professionale manchevole e costantemente privo di poesia. Sono i manifesti svolazzanti a condurmi verso l’Esposizione ed è la sua voce a guidarmi lungo il percorso interno.
Si comincia dal tempo delle origini... una infanzia in cui non accadeva quasi nulla e dove il valore del denaro dominava tutto l’ambiente borghese. “La borghesia è una forma di materialismo. È tutto ciò che uccide il sogno. È tutto quello che uccide ciò che è grazioso. È la sicurezza. È una forma di mediocrità dell’anima. È ciò che fa diventare vecchi, è tutto quello che non mi piace”.
Racconta con voce lieve e con lo sguardo dritto quel grigiore, rotto solo dalle sue folli corse in bicicletta, quando correva fin quasi a cadere. Per poi tornare nella sua stanza dai mobili bui come le identificazioni che tentavano di avvilupparlo e da cui si difendeva con la cartina di quel mondo, sospeso sopra il suo letto scuro, come talismano contro l’oscurantismo familiare. Piccola borghesia da cui si difendeva con l’immagine del Capitano Nemo, relegato a stento dentro il libro adagiato su quel comodino di legno scuro che tentava di sfumare l’azzurro dei suoi sogni. Nello scrittoio, anch’ esso di legno scuro, la pagella scolastica eccellente si confonde con i giornalini di TinTin e con gli appunti chiari della sua immaginazione. Adagiata sul muro, di fronte alla mappa del mondo, la chitarra, forse la prima. Non ho difficoltà a credere alle sue parole che escono da un monitor: “Non rimpiango affatto il tempo dell’infanzia, perché credo che non si possa sopportare che una sola volta”.
Disordine e colore che, seppure non apertamente in contrasto con il legno scuro dei mobili borghesi, con le grigie foto di famiglia appese al muro e i vecchi tappeti appena un po’ impolverati, si opponevano tenacemente alle immagini di un futuro già passato e di un passato che non può avere il diritto ad un futuro.
Disordine e colore che, seppure non apertamente in contrasto con il legno scuro dei mobili borghesi, con le grigie foto di famiglia appese al muro e i vecchi tappeti appena un po’ impolverati, si opponevano tenacemente alle immagini di un futuro già passato e di un passato che non può avere il diritto ad un futuro.
E forse, proprio per collocarlo una volta per tutte nell’album di famiglia, il padre lo portò un giorno, attraversando Bruxelles, nella fabbrica di cartone ondulato di famiglia, dicendogli: “È lì che lavorerai”. Ed è proprio lì che Brel, dopo essersi sposato, va a lavorare anche se, dopo cinque lunghissimi anni e la nascita di due figlie, decide di fare altro.
“Ho provato a fare delle canzoni soprattutto perché avevo voglia di raccontare qualcosa come un adolescente. Ed ho provato a fare delle canzoni piuttosto che altro per delle ragioni ben precise. In realtà, avrei voluto sinceramente, scrivere dei quartetti d’archi, o delle sinfonie e, d‘altra parte, avrei certamente voluto scrivere dei romanzi. Ma non ho né la cultura musicale sufficiente per scrivere una sinfonia e non ho certamente la maturità e senza dubbio il talento necessario per scrivere un romanzo. Allora, ho preso una via di mezzo che è la canzone e che mi soddisfaceva quasi pienamente lo stesso e che si riallaccia, da una parte, ad una linea letteraria, ad una disciplina che è la letteratura e a un’altra disciplina che è la musica”.
Sembra quasi chiedere scusa per avere cercato la sua strada, anche se il volto è radioso quando parla di quel lontano 1953: è per lui la scoperta di Parigi. Mi siedo come lui in un vecchio Caffè, prendo un vecchio tram con i sedili in legno e... ammiro Montmartre, “... l’ultimo angolo del passato, un angolo di libertà... qui si ha il tempo di sognare”. Mi sembra di ritrovare l’angolo della stanza con la mappa del mondo e “Ventimila leghe sotto i mari”.
A Parigi trova la sua prima casa calda e accogliente, con il disordine quà e là, pentagrammi in ogni dove, una chitarra appoggiata al muro e... sempre la sua fantasia.
Nel salotto della sua casa, comodamente seduta sul divano, lo ascolto mentre racconta che per lui “... la canzone è un disegno. Le linee sono le parole. I colori sono le armonie. E i volumi rappresentano la linea musicale”. Sprofondo nella morbidezza di quel divano mentre guardo da un televisore il suo volto scavato e quel corpo sottile e inquieto intorno alla chitarra. Sta raccontando con il solito trasporto, come nasce una canzone: comincia a canticchiare abbracciando la sua chitarra e disegna per prima cosa lo stato d’animo. “Si può fare, per esempio, una canzone sull’assenza. Ecco, una canzone su quando uno ha vent’anni, quando piove, quando si è completamente soli... - il movimento della mano quasi distratta sulle corde, delinea l’immagine corrispondente allo stato d’animo. Ecco... - È un ragazzo di vent’anni. Ed è senza famiglia. Gli manca sua madre, suo padre. Si comincia dalla madre: è ciò che è vitale...”. Le immagini cominciano a legarsi le une alle altre e fanno trovare le parole... soltanto alla fine si arriva alla melodia.
“Ho provato a fare delle canzoni soprattutto perché avevo voglia di raccontare qualcosa come un adolescente. Ed ho provato a fare delle canzoni piuttosto che altro per delle ragioni ben precise. In realtà, avrei voluto sinceramente, scrivere dei quartetti d’archi, o delle sinfonie e, d‘altra parte, avrei certamente voluto scrivere dei romanzi. Ma non ho né la cultura musicale sufficiente per scrivere una sinfonia e non ho certamente la maturità e senza dubbio il talento necessario per scrivere un romanzo. Allora, ho preso una via di mezzo che è la canzone e che mi soddisfaceva quasi pienamente lo stesso e che si riallaccia, da una parte, ad una linea letteraria, ad una disciplina che è la letteratura e a un’altra disciplina che è la musica”.
Sembra quasi chiedere scusa per avere cercato la sua strada, anche se il volto è radioso quando parla di quel lontano 1953: è per lui la scoperta di Parigi. Mi siedo come lui in un vecchio Caffè, prendo un vecchio tram con i sedili in legno e... ammiro Montmartre, “... l’ultimo angolo del passato, un angolo di libertà... qui si ha il tempo di sognare”. Mi sembra di ritrovare l’angolo della stanza con la mappa del mondo e “Ventimila leghe sotto i mari”.
A Parigi trova la sua prima casa calda e accogliente, con il disordine quà e là, pentagrammi in ogni dove, una chitarra appoggiata al muro e... sempre la sua fantasia.
Nel salotto della sua casa, comodamente seduta sul divano, lo ascolto mentre racconta che per lui “... la canzone è un disegno. Le linee sono le parole. I colori sono le armonie. E i volumi rappresentano la linea musicale”. Sprofondo nella morbidezza di quel divano mentre guardo da un televisore il suo volto scavato e quel corpo sottile e inquieto intorno alla chitarra. Sta raccontando con il solito trasporto, come nasce una canzone: comincia a canticchiare abbracciando la sua chitarra e disegna per prima cosa lo stato d’animo. “Si può fare, per esempio, una canzone sull’assenza. Ecco, una canzone su quando uno ha vent’anni, quando piove, quando si è completamente soli... - il movimento della mano quasi distratta sulle corde, delinea l’immagine corrispondente allo stato d’animo. Ecco... - È un ragazzo di vent’anni. Ed è senza famiglia. Gli manca sua madre, suo padre. Si comincia dalla madre: è ciò che è vitale...”. Le immagini cominciano a legarsi le une alle altre e fanno trovare le parole... soltanto alla fine si arriva alla melodia.
La semplicità di quella nascita mi emoziona fino a velare lo sguardo. Ancora una volta, come mi accadeva da bambina, Brel mi porta in un’altra dimensione: mi rapisce con la timidezza e con la semplicità, la dolcezza e la forza, con quella potenza dell’immagine che introduce, senza mediazioni di sorta, nell’attimo vivente del personaggio che va creando. Le canzoni, scritte tutte al presente e in prima persona, portano infatti nell’immediato di quello stralcio di vita, dapprima con pochi elementi che, strofa dopo strofa si arricchiscono, fino ad arrivare ad un bilancio finale che non sarà la somma delle verità successive rivelate, ma sarà un bilancio assolutamente originale, profondo e, spesso, poco comprensibile se non addirittura sinistro. Brel, il cantore del momento emozionale, dipinge l’attimo fugace dell’impressione, la penetrazione potente e delicata in un grumo di emozioni. E capisco fin troppo bene quando dice che “una canzone definitiva è votata al fallimento”.
II vecchio trovatore prende “una nuvola della giovinezza” (Je prendrai, 1964) per raccontare il mondo e l’umano nel mondo.
“Ho incontrato una nozione di libertà. Credo mi fosse indispensabile. Ho incontrato una nozione di dignità. Ho incontrato degli uomini e delle donne che non erano in vendita e che non erano acquistabili. Ho incontrato l’orgoglio in quello che c’è di bello, in quello che c’è di nobile e, soprattutto, ho incontrato la tenerezza, la tenerezza degli uomini. Così l’ho incontrata... e l’ho incontrata ancora... e questo mi emoziona molto, mi scuote fortemente”.
È viva la ricerca di una immagine di artista che gli impone l’assolutezza della sua ricerca. E anche se il contenuto delle sue canzoni rimane più anticonformista e rivoluzionario della sua stessa vita, “il diritto di sognare” rimane la struttura portante del suo modo di essere artista. “Credo che un uomo si completi verso i 16-17 anni. Non si può fare una regola generale, ma verso i 16-17 anni un uomo ha avuto tutti i suoi sogni. Non li conosce, ma sono passati, sono passati in lui. Egli sa se ha voglia di brillantezza, o di sicurezza, o di avventura. Lo sa, non lo sa bene, ma ha conosciuto il gusto delle cose... E passa la vita a voler realizzare questi sogni”.
“Ho incontrato una nozione di libertà. Credo mi fosse indispensabile. Ho incontrato una nozione di dignità. Ho incontrato degli uomini e delle donne che non erano in vendita e che non erano acquistabili. Ho incontrato l’orgoglio in quello che c’è di bello, in quello che c’è di nobile e, soprattutto, ho incontrato la tenerezza, la tenerezza degli uomini. Così l’ho incontrata... e l’ho incontrata ancora... e questo mi emoziona molto, mi scuote fortemente”.
È viva la ricerca di una immagine di artista che gli impone l’assolutezza della sua ricerca. E anche se il contenuto delle sue canzoni rimane più anticonformista e rivoluzionario della sua stessa vita, “il diritto di sognare” rimane la struttura portante del suo modo di essere artista. “Credo che un uomo si completi verso i 16-17 anni. Non si può fare una regola generale, ma verso i 16-17 anni un uomo ha avuto tutti i suoi sogni. Non li conosce, ma sono passati, sono passati in lui. Egli sa se ha voglia di brillantezza, o di sicurezza, o di avventura. Lo sa, non lo sa bene, ma ha conosciuto il gusto delle cose... E passa la vita a voler realizzare questi sogni”.
Per quindici anni inventa i personaggi delle sue canzoni. “lo mi invento il mio moribondo - racconta nel bel mezzo di una tavolata di persone - mi invento il tipo che dice ‘Non lasciarmi’, mi invento tutti i personaggi... questo fa sì che su questa isola deserta spuntino degli uomini, delle piante, degli uccelli”.
Per quindici anni canta le sue canzoni e poi lascia perché ha voglia di fare altro. “Sono quindici anni che canto. Nessuno ha voluto che iniziassi e nessuno vuole che io smetta. Ho voglia di respirare un po’, di guardare, di offrirmi il tempo di tacere. Questa si chiama libertà. Voglio amare delle cose che sono ancora sconosciute. Può darsi che io abbia bisogno di ricevere altre cose ed abbia anche bisogno di dare altre cose”, ripete. Forse ha l’impressione di non avere più niente da scoprire sulla scena e lascia perché rifiuta quella abilità che rischia di rimpiazzare la sincerità.
Il suo addio alle scene è memorabile: nel 1966, all’Olympia, a trent’anni. Il corpo accompagna frenetico l’andamento musicale, mentre le parole chiare si levano nell’aria a incontrare il corpo di quel pubblico che non finisce di applaudirlo. La capacità interpretativa di Brel è sconcertante, come è la sua abilità a passare e a calarsi rapidamente da un personaggio all’altro. È simpatico, serio, mai accattivante.
“Ne me quitte pas” (1959) è la sua canzone d’addio.
Per quindici anni canta le sue canzoni e poi lascia perché ha voglia di fare altro. “Sono quindici anni che canto. Nessuno ha voluto che iniziassi e nessuno vuole che io smetta. Ho voglia di respirare un po’, di guardare, di offrirmi il tempo di tacere. Questa si chiama libertà. Voglio amare delle cose che sono ancora sconosciute. Può darsi che io abbia bisogno di ricevere altre cose ed abbia anche bisogno di dare altre cose”, ripete. Forse ha l’impressione di non avere più niente da scoprire sulla scena e lascia perché rifiuta quella abilità che rischia di rimpiazzare la sincerità.
Il suo addio alle scene è memorabile: nel 1966, all’Olympia, a trent’anni. Il corpo accompagna frenetico l’andamento musicale, mentre le parole chiare si levano nell’aria a incontrare il corpo di quel pubblico che non finisce di applaudirlo. La capacità interpretativa di Brel è sconcertante, come è la sua abilità a passare e a calarsi rapidamente da un personaggio all’altro. È simpatico, serio, mai accattivante.
“Ne me quitte pas” (1959) è la sua canzone d’addio.
Dopo una pausa dedicata al cinema approda alla tenerezza straordinaria di Don Chisciotte, “un uomo folle che ha bruciato la sua vita”.
L’homme de la Mancha, da “Jacques Brel. Chansons et textes illustrés” par Gabriel Lefebvre.
La Renaissance du Livre, Tournai 2001, p.121.
La Renaissance du Livre, Tournai 2001, p.121.
Don Chisciotte e Jacques Brel si fondono e si confondono in quel diritto di sognare che apre le porte alla passione d’amore, nel rifiuto di un’età adulta di matrice borghese che non prevede rapporto alcuno con il mondo onirico. Si fondono e si confondono nella loro poetica, in quello slancio che fa entrare in risonanza con tutto il mondo, laddove tutti i movimenti del cuore diventano i propri. E quando Brel canta in prima persona, affermando il proprio lo, non vi è dubbio alcuno che è proprio l’eroe della Mancha a parlare attraverso la sua voce, il suo sudore, le sue ferite e la sua ironia.
Come Don Chisciotte, Brel si arrabbia e diventa pungente quando vede gli altri tradire il loro movimento. Come Don Chisciotte, trova quelle parole d’amore legate all’esigenza di andare verso gli altri per comunicare loro, con la stessa semplicità di un bambino, ciò che ha trovato nel fondo di sé stesso. Come il suo eroe, è sempre pronto per un tempo nuovo, per un fare diverso, per il prossimo amore: ecco come il diritto di sognare si collega con la passione delle partenze. Il desiderio è legato al movimento: “arrivare è un po’ morire”.
C’è chi sostiene che il bisogno di sognare sempre nuovi sogni abbia in sé il conflitto tra il desiderio di libertà e il bisogno di essere amato. Forse il conflitto appartiene proprio a chi ne parla, perché è difficile amare chi è sempre pronto a partire. L’amore viene sovente concepito come qualcosa che lega e non qualcosa che libera, uno spazio “in cui deporre delle uova” e non il tempo di una nuova nascita: sembra che la libertà si debba sempre pagare a caro prezzo e il prezzo più alto è sempre il rischio di perdere l’altro che ti ricorda quanto è forte il tuo bisogno di essere amato... il suo bisogno di essere amato.
Eppure l’amore cantato da Brel sembra più concentrarsi sullo scontro nei confronti di un’idea votata all’impossibilità. Per rappresentare tutto ciò, egli porta con sé sia l’immagine maschile che lo richiama costantemente all’avventura, sia l’immagine femminile che lo riporta verso la tenerezza e la nostalgia, aprendo le danze di una dialettica in cui rimane viva la difficoltà esistenziale di imporre il desiderio di uomo per la difficoltà e il dolore di sostenere quella solitudine che lo scegliere sempre comporta.
Diventare adulti è sostenere la passione di un sogno che può essere vissuto e realizzato, ma Brel, diffidente degli adulti e delle loro trappole razionali, rimane appeso ad un tempo che egli consuma forse troppo velocemente, per evitare di essere consumato dal tempo stesso.
Come Don Chisciotte, Brel si arrabbia e diventa pungente quando vede gli altri tradire il loro movimento. Come Don Chisciotte, trova quelle parole d’amore legate all’esigenza di andare verso gli altri per comunicare loro, con la stessa semplicità di un bambino, ciò che ha trovato nel fondo di sé stesso. Come il suo eroe, è sempre pronto per un tempo nuovo, per un fare diverso, per il prossimo amore: ecco come il diritto di sognare si collega con la passione delle partenze. Il desiderio è legato al movimento: “arrivare è un po’ morire”.
C’è chi sostiene che il bisogno di sognare sempre nuovi sogni abbia in sé il conflitto tra il desiderio di libertà e il bisogno di essere amato. Forse il conflitto appartiene proprio a chi ne parla, perché è difficile amare chi è sempre pronto a partire. L’amore viene sovente concepito come qualcosa che lega e non qualcosa che libera, uno spazio “in cui deporre delle uova” e non il tempo di una nuova nascita: sembra che la libertà si debba sempre pagare a caro prezzo e il prezzo più alto è sempre il rischio di perdere l’altro che ti ricorda quanto è forte il tuo bisogno di essere amato... il suo bisogno di essere amato.
Eppure l’amore cantato da Brel sembra più concentrarsi sullo scontro nei confronti di un’idea votata all’impossibilità. Per rappresentare tutto ciò, egli porta con sé sia l’immagine maschile che lo richiama costantemente all’avventura, sia l’immagine femminile che lo riporta verso la tenerezza e la nostalgia, aprendo le danze di una dialettica in cui rimane viva la difficoltà esistenziale di imporre il desiderio di uomo per la difficoltà e il dolore di sostenere quella solitudine che lo scegliere sempre comporta.
Diventare adulti è sostenere la passione di un sogno che può essere vissuto e realizzato, ma Brel, diffidente degli adulti e delle loro trappole razionali, rimane appeso ad un tempo che egli consuma forse troppo velocemente, per evitare di essere consumato dal tempo stesso.
È nella sua natura continuare la ricerca per andare oltre... alla scoperta del mare, del mare del Nord... alla ricerca di un sogno “insensato” che faceva da bambino: “Ho sempre sognato di poter mettere delle vele sulle torri delle cattedrali. Tutto il paese si metterebbe in viaggio. Sarebbe un paese con 200 alberi maestri, una nave formidabile”. Portare via le cattedrali, sradicare il mondo borghese e cattolico della sua infanzia, arrivare a sradicare ciò che lo ha fatto ammalare nel corpo.
Sono nella grande stanza rettangolare completamente vuota. Nei lati lunghi si fronteggiano due scenari di mare. E, mentre Brel parla, sento e vedo le cose dal suo punto di vista: sono sulla sua barca e guardo il mare, guardo le terre che si allontanano, i gabbiani che volano. Tengo le linee verticali della sua ricerca attraverso i suoni che vanno e vengono dal mare.
Sono nella grande stanza rettangolare completamente vuota. Nei lati lunghi si fronteggiano due scenari di mare. E, mentre Brel parla, sento e vedo le cose dal suo punto di vista: sono sulla sua barca e guardo il mare, guardo le terre che si allontanano, i gabbiani che volano. Tengo le linee verticali della sua ricerca attraverso i suoni che vanno e vengono dal mare.
Da lì alle Isole Marchesi il passo è breve. La scoperta della malattia apre la ricerca del mare... si allontana dal mondo per difendere la sua creatività, almeno quella, dato che non è riuscito a difendere il suo corpo dalla violenza di chi non ammette neppure il diritto di sognare.
In questa stanza, che mi parla di uno spazio e di un tempo da oltrepassare, sento quella rara convergenza che esiste sempre, nelle canzoni di Brel, tra la musica e il testo: la musica, prima ancora delle parole, crea un’atmosfera in grado di evocare il personaggio della storia prima che egli si presenti, con la sua gestualità accurata, a narrare il momento della sua storia. La capacità di rappresentazione si fa potente perché tutte le canzoni, drammatiche e non, sono costruite come delle “pièces” teatrali, dove la strofa corrisponde ad una scena (se non addirittura ad un atto), in cui si concentra tutta una vita, rivelatrice di tutti i giorni dell’ esistenza di un essere umano.
Nella asimmetria del suo volto, che vedo bene in primo piano, è impresso il tempo che diviene oggetto di una curiosa dialettica: egli si mette nei panni del distruttore dei sogni e si mette contemporaneamente nei panni di chi mantiene una speranza irragionevole che non si può reprimere. Il tempo, come il suo volto, diviene l’espressione di una speranza che continua anche quando la speranza sembra vana, facendo appello a quella cosa stessa che rende le speranze illusorie. E se l’autenticità degli argomenti, il travaglio della scrittura, la drammatizzazione della canzone, sono alla base della emozione intensa suscitata dalle canzoni di Brel, tuttavia resta qualcosa di indefinito, legato alla sua voce e alla sua immagine, che fanno sì che questa poesia ci tocchi e ci penetri.
Il tempo impresso su quel volto crea una poetica dello spazio in cui egli si riappropria dell’universo infantile attraverso le sensazioni corporee, soprattutto tattili e olfattive. Per Brel quella che viene impropriamente chiamata nostalgia dell’infanzia, è in realtà non un fatto mentale, ma una realtà psicocorporea che lo porta continuamente ad una riconquista poetica del mondo dell’infanzia, sulle vie della memoria. È soltanto questo che fa vivere da adulti: sentire che l’infanzia è stata salvata... l’infanzia... per la poesia: “Un bambino è l’ultimo poeta di un mondo che si ostina a diventare grande”.
Forse è così che Brel cerca di addomesticare continuamente una realtà che lui ha ben presente: la realtà della morte. “Oggi, credo che la gente si creda in perfetta salute. E da credersi in perfetta salute a credersi eterni, non c’è che un passo e, mi sembra, a momenti, che un certo numero dei loro problemi siano dei problemi da immortali, quando invece si è mortali. Bisogna sapere tutti i giorni di essere mortali. E l’idea della morte non è un’idea triste, è un’idea di una salubrità fantastica”.
Ed è nelle parole cantate, nella dialettica del cambiamento e della ripetizione, oltre che nella poetica dello spazio, ad essere scongiurato lo spauracchio del tempo. Laddove continuamente si va evocando la marcia sempre vittoriosa del tempo dentro il quale tutti si possono sentire vittime, l’artista trova la sua padronanza del tempo e noi siamo là con lui, a vivere un tempo che non miete più le sue vittime.
E la poesia del tempo diviene un po’ come l’amore.
In questa stanza, che mi parla di uno spazio e di un tempo da oltrepassare, sento quella rara convergenza che esiste sempre, nelle canzoni di Brel, tra la musica e il testo: la musica, prima ancora delle parole, crea un’atmosfera in grado di evocare il personaggio della storia prima che egli si presenti, con la sua gestualità accurata, a narrare il momento della sua storia. La capacità di rappresentazione si fa potente perché tutte le canzoni, drammatiche e non, sono costruite come delle “pièces” teatrali, dove la strofa corrisponde ad una scena (se non addirittura ad un atto), in cui si concentra tutta una vita, rivelatrice di tutti i giorni dell’ esistenza di un essere umano.
Nella asimmetria del suo volto, che vedo bene in primo piano, è impresso il tempo che diviene oggetto di una curiosa dialettica: egli si mette nei panni del distruttore dei sogni e si mette contemporaneamente nei panni di chi mantiene una speranza irragionevole che non si può reprimere. Il tempo, come il suo volto, diviene l’espressione di una speranza che continua anche quando la speranza sembra vana, facendo appello a quella cosa stessa che rende le speranze illusorie. E se l’autenticità degli argomenti, il travaglio della scrittura, la drammatizzazione della canzone, sono alla base della emozione intensa suscitata dalle canzoni di Brel, tuttavia resta qualcosa di indefinito, legato alla sua voce e alla sua immagine, che fanno sì che questa poesia ci tocchi e ci penetri.
Il tempo impresso su quel volto crea una poetica dello spazio in cui egli si riappropria dell’universo infantile attraverso le sensazioni corporee, soprattutto tattili e olfattive. Per Brel quella che viene impropriamente chiamata nostalgia dell’infanzia, è in realtà non un fatto mentale, ma una realtà psicocorporea che lo porta continuamente ad una riconquista poetica del mondo dell’infanzia, sulle vie della memoria. È soltanto questo che fa vivere da adulti: sentire che l’infanzia è stata salvata... l’infanzia... per la poesia: “Un bambino è l’ultimo poeta di un mondo che si ostina a diventare grande”.
Forse è così che Brel cerca di addomesticare continuamente una realtà che lui ha ben presente: la realtà della morte. “Oggi, credo che la gente si creda in perfetta salute. E da credersi in perfetta salute a credersi eterni, non c’è che un passo e, mi sembra, a momenti, che un certo numero dei loro problemi siano dei problemi da immortali, quando invece si è mortali. Bisogna sapere tutti i giorni di essere mortali. E l’idea della morte non è un’idea triste, è un’idea di una salubrità fantastica”.
Ed è nelle parole cantate, nella dialettica del cambiamento e della ripetizione, oltre che nella poetica dello spazio, ad essere scongiurato lo spauracchio del tempo. Laddove continuamente si va evocando la marcia sempre vittoriosa del tempo dentro il quale tutti si possono sentire vittime, l’artista trova la sua padronanza del tempo e noi siamo là con lui, a vivere un tempo che non miete più le sue vittime.
E la poesia del tempo diviene un po’ come l’amore.
“È molto difficile dire alla gente che la si ama... questa parola è stata talmente saccheggiata che non vuoi dire più niente esattamente. Eppure, io arrivo a dirmelo, ma non arrivo bene a dirlo a loro. lo scrivo delle canzoni che mi sembrerebbero non d’amore, ma di quella forma di amore che mi tiene in piedi finalmente dentro la vita”. Il rapporto tra l’amore, il tempo e le parole si fa più chiaro nel passo successivo: “Per prima cosa io amo le parole... le parole che fanno parte di noi perché doniamo loro un senso, una terza dimensione. Sono quelle le parole che ci permettono di prendere il volo e, quando questo accade, doniamo loro un peso”.
Il percorso volge al termine e, dall’ultima stanza inizialmente silenziosa e al buio, emergono come da un sogno le parole dette e le parole scritte sulle pareti. Jacques Brel ci avvolge con le sue braccia lunghissime in un caldo e umido abbraccio.
Quelle parole risuonano dentro di me. Continuo a cercare nella città... Ora, che i miei impegni professionali sono finiti, è più facile. Anche io, come Brel, sento l’esigenza di andare verso il mare: un treno poco affollato e grigio mi porta verso “il Mare del Nord come ultimo terreno deserto e delle ondate di dune per fermare le onde”, con le nuvole basse che sembrano quasi carezzare il mare. Canticchio “Le plat pays” (1959): “…Avec des cathédrales pour uniques montagnes/Et de noirs clochers come mâts de cocagne/Où des diables en pierre décrochent les nuages/Avec le fil des jour pour unique voyage/Et des chemins de pluie pour unique bonsoir/Avec le vent d‘ouest écoutez-le vouloir/Le plat pays qui est le mien...”.
Mentre passeggio su quella spiaggia un po’ cinerea che sembra non finire mai, tiro fuori dalla tasca un foglio su cui avevo stampato un articolo dedicato a Brel e lo leggo ad alta voce, accucciata sulla sabbia.
“Avevamo l’eskimo verde e sognavamo rivoluzioni che sembravano a portata di mano. Avevamo l’eskimo verde e urlavamo per le strade la pace in Vietnam e la guerra dell’imperialismo americano. Avevamo l’eskimo verde e piangevamo la morte di Ernesto Che Guevara. E vedevamo sullo schermo quella faccia da metéque di Jacques Brel assaltare banche con la sua Banda Bonnot e portar via denari alle pance grasse, ai borghesi ‘che sono come i maiali, più diventano vecchi e più assomigliano alle bestie: hanno bruciato i nostri vent’anni... ’. Brividi di piacere, la sensazione che i conti tornano, che si può far tabula rasa. L’incoscienza, la forza delle immagini che conquista, l’immatura incapacità di mettere una distanza storica e ideologica tra di esse e noi. (...)
Il progetto al quale tiene di più è la realizzazione de ‘L’uomo della Mancha’, nel quale Dario Moréno ha il ruolo di Sancho e che Brel tenta di mettere in scena nel fatidico ’68. Una scelta che lo avvicina ancor più all’utopia comune a milioni di giovani che in quell’anno - specie a Parigi - vorrebbero l’immaginazione al potere. Ma Dario Moréno muore e il progetto subisce un rinvio. (...) Poi comincia a circolare la voce di una sua malattia, un tumore a un polmone (quanto fumava, accidenti), e si sparge la notizia che Jacques acquista un veliero e annuncia di voler fare il giro del mondo. Ma no, Jacques, tu non vuoi fare il giro del mondo, tu vuoi andare a morire da solo, correndo intorno al sole e sulle acque primigenie, pensano tutti. E comincia la leggenda che porta ad accrescere l’ammirazione verso di lui. Con qualche delusione. Ma che fai, Jacques, adesso ti compri un aereoplano per tornare in Francia e ritornare in quelle Isole Marchesi dove hai lasciato la barca e ci rovini il bel sogno di pensarti come Don Chisciotte della Mancha che parte e va contro i mulini a vento dell’oceano sconfinato? E firmi pure nuovi contratti che ti legano alle case discografiche per decine d’anni? Ma allora ci hai raccontato balle, tu non stai per morire! Guarda che se abbiamo l’eskimo verde e facciamo a botte con la polizia e ci sentiamo eroi, abbiamo il diritto di sognare, di crederti immacolato e al di sopra di vili calcoli monetari. (...)
Già, ma anche l’eskimo verde è ormai da qualche parte in cantina e tu e lui ve ne andate assieme... Ma almeno tu riposi accanto a Gauguin, tu pittore della parola e della canzone. Riposi a Hiva-Oa, per chi capitasse da quelle parti e volesse deporre un fiore. E davanti a quella pietra che porta il tuo nome, volesse sussurrare ‘ne me quitte pas’, come farei io, e come invece faccio davanti ad un computer, che non ha vele”.
Lascio cadere il foglio e guardo il mare. Sento il vento gelido del Nord. Del ’68 ho un ricordo confuso mentre di Jacques Brel ho un ricordo indelebile: il volto scavato, gli occhi carezzevoli e sognanti che contrastavano con la magrezza ispida e vivace del suo corpo, le braccia lunghissime e i movimenti da saltimbanco (a volte quasi da scimmia), la voce chiara e ferma e... il sudore, quanto sudore! Ripenso sorridendo alle sue parole: “Per una canzone c’è il 5% di ispirazione e il 95% di sudorazione”. Aveva un grande senso dell’ironia. Quel ragazzo poeta che sembrava letteralmente sciogliersi nel canto, mi portava lontano. Ero una bambina ed ero rapita dalla voce e dalle immagini... le parole le ho incontrate solo tempo dopo... e in quel nuovo incontro ho aggiunto il contenuto a ciò che era già... contenuto: la liberazione dal potere dei padri... la ricerca di una forma di libertà. È così che Brel ha dato la sua voce alla rivolta degli anni ’60 e lo ha fatto senza mai lasciare la poesia.
Ha dato voce a quella rivoluzione che scendeva per le strade non per rivendicare un potere, ma a rivendicare una libertà e una sessualità, a urlare contro quel divieto con cui Freud aveva chiuso il secolo precedente: “Si prega di chiudere gli occhi”. Divieto che aveva lasciato aperta la strada alle guerre del 20° secolo, ritenute ineliminabili, come la natura bestiale dell’uomo: proprio su questo bisognava chiudere gli occhi, sulla responsabilità dei padri e, per estensione, della Società, nel generare il disagio e la malattia mentale dei figli. E i figli scendevano in piazza folgorati dall’innamoramento nei confronti di Karl Marx che, con il suo materialismo storico, apriva le strade rassicuranti di una “terapia sociale” che spazzava via il sentire dell’uomo. Le due teorie dell’uomo senza l’uomo divennero le nuove Colonne d’Ercole, le sfingi pronte ad incenerire e a terrorizzare coloro che desideravano avventurarsi nell’oceano, convinti della originaria sanità dell’essere umano. E così, mentre i figli continuavano ebbri a scendere in piazza per festeggiare la liberazione dall’assedio del razionalismo dei padri, il cavallo di Troia portava nel ventre il tradimento perpetrato nei confronti della realtà umana: il credo sulla natura originariamente perversa dell’uomo che finiva col minare alla radice il diritto. Di sognare. Si chiedeva a gran voce “l’immaginazione al potere” e, al contempo, si apriva quella stagione lunghissima di una rivoluzione senza immagini che, inglobando tutto, avrebbe spianato la strada alla globalizzazione di cui il computer “che non ha vele” è servomeccanismo.
E mentre i figli abbracciavano, invece delle loro donne, le parole e le baionette dei padri, una serpe ancora più sottile si insinuava. La rivoluzione industriale, con il frastuono delle sue macchine, andava rosicchiando irrimediabilmente, fino ad interrompere per sempre, i grandi silenzi. Il cambiamento dei paesaggi divenne solo l’espressione evidente di cambiamenti sonori ancora più importanti, perché invisibili: cambiava in modo impercettibile ma sostanziale, la dimensione aerea in cui porre la propria voce, il proprio corpo, la propria realtà psichica. Da quel passaggio irreversibile al mondo delle macchine, siamo stati introdotti nel mondo dei suoni interrotti (di cui il frastuono assordante della guerra è l’estrema conseguenza) che ha aperto la strada ad una familiarità sonora con il mondo dell’orribile.
E in quelle urla che nel ’68 finalmente uscivano dai luoghi istituzionali per andare nelle strade, a rappresentare una possibilità di nascita, nel loro prolungamento forzato e sterile che costringeva l’ascolto a richiudersi (come accade fisiologicamente davanti ad uno stimolo troppo forte e prolungato nel tempo), mi pareva di sentire l’eco di quelle macchine divoratrici di suono che attaccano i visceri, i sogni, i pensieri di un Uomo in divenire. La rivolta fatta senza il rifiuto viscerale dei meccanismi di identificazione con il padre, diventava ancora una volta ribellione castrante votata al fallimento. “Il ’68 morì con il ’68, la nascita dell’uomo che usciva dalla preistoria per entrare nella storia, auspicata da Carlo Marx, non ci fu... Il non posso e il corrispettivo identico di un possiamo onnipotente e non reale era stato affidato alla storia di un ’68 che non aveva saputo sognare e comprendere. Un ’68 che aveva fatto senza essere”.
E mentre i cartelli dei divieti diventavano usuali, l’attacco formidabile all’integrità umana, sancita e “benedetta” dalle ideologie freudiana e marxista, diventava attacco silente a quel desiderio di ascolto umano che faceva amare uno come Brel. La frattura potente portò alla droga, al terrorismo, al suicidio e... alla terrificante normalità.
La strada era votata al fallimento proprio perché quel sogno non si accompagnava alla possibilità di conoscere attraverso i propri sogni: la via della conoscenza attraverso la conoscenza dell’inconscio. Alcuni, come Brel, continuavano a sancire il diritto di sognare, con passione... ma la ricerca sulle donne, da sempre padrone senza potere di questo territorio interno, rimaneva per lui difficile e contorta: difficile e contorta la possibilità di vivere il desiderio senza conflitto alcuno. E forse è per questo che Brel si è ammalato nel corpo, cadendo, come molti, nella trappola di mettere le vele alle cattedrali. Lui, come altri, non sapeva che le cattedrali portate altrove (e quindi rimosse) continuano ad agire nell’oscurità, ancorando i sogni e appesantendo il corpo.
Quando le cattedrali si sgretoleranno, le vele porteranno i sogni liberati verso i mari del Sud, laddove aspettano altri sogni. E tutti insieme partiranno verso la realizzazione di un grande sogno comune.
Il percorso volge al termine e, dall’ultima stanza inizialmente silenziosa e al buio, emergono come da un sogno le parole dette e le parole scritte sulle pareti. Jacques Brel ci avvolge con le sue braccia lunghissime in un caldo e umido abbraccio.
Quelle parole risuonano dentro di me. Continuo a cercare nella città... Ora, che i miei impegni professionali sono finiti, è più facile. Anche io, come Brel, sento l’esigenza di andare verso il mare: un treno poco affollato e grigio mi porta verso “il Mare del Nord come ultimo terreno deserto e delle ondate di dune per fermare le onde”, con le nuvole basse che sembrano quasi carezzare il mare. Canticchio “Le plat pays” (1959): “…Avec des cathédrales pour uniques montagnes/Et de noirs clochers come mâts de cocagne/Où des diables en pierre décrochent les nuages/Avec le fil des jour pour unique voyage/Et des chemins de pluie pour unique bonsoir/Avec le vent d‘ouest écoutez-le vouloir/Le plat pays qui est le mien...”.
Mentre passeggio su quella spiaggia un po’ cinerea che sembra non finire mai, tiro fuori dalla tasca un foglio su cui avevo stampato un articolo dedicato a Brel e lo leggo ad alta voce, accucciata sulla sabbia.
“Avevamo l’eskimo verde e sognavamo rivoluzioni che sembravano a portata di mano. Avevamo l’eskimo verde e urlavamo per le strade la pace in Vietnam e la guerra dell’imperialismo americano. Avevamo l’eskimo verde e piangevamo la morte di Ernesto Che Guevara. E vedevamo sullo schermo quella faccia da metéque di Jacques Brel assaltare banche con la sua Banda Bonnot e portar via denari alle pance grasse, ai borghesi ‘che sono come i maiali, più diventano vecchi e più assomigliano alle bestie: hanno bruciato i nostri vent’anni... ’. Brividi di piacere, la sensazione che i conti tornano, che si può far tabula rasa. L’incoscienza, la forza delle immagini che conquista, l’immatura incapacità di mettere una distanza storica e ideologica tra di esse e noi. (...)
Il progetto al quale tiene di più è la realizzazione de ‘L’uomo della Mancha’, nel quale Dario Moréno ha il ruolo di Sancho e che Brel tenta di mettere in scena nel fatidico ’68. Una scelta che lo avvicina ancor più all’utopia comune a milioni di giovani che in quell’anno - specie a Parigi - vorrebbero l’immaginazione al potere. Ma Dario Moréno muore e il progetto subisce un rinvio. (...) Poi comincia a circolare la voce di una sua malattia, un tumore a un polmone (quanto fumava, accidenti), e si sparge la notizia che Jacques acquista un veliero e annuncia di voler fare il giro del mondo. Ma no, Jacques, tu non vuoi fare il giro del mondo, tu vuoi andare a morire da solo, correndo intorno al sole e sulle acque primigenie, pensano tutti. E comincia la leggenda che porta ad accrescere l’ammirazione verso di lui. Con qualche delusione. Ma che fai, Jacques, adesso ti compri un aereoplano per tornare in Francia e ritornare in quelle Isole Marchesi dove hai lasciato la barca e ci rovini il bel sogno di pensarti come Don Chisciotte della Mancha che parte e va contro i mulini a vento dell’oceano sconfinato? E firmi pure nuovi contratti che ti legano alle case discografiche per decine d’anni? Ma allora ci hai raccontato balle, tu non stai per morire! Guarda che se abbiamo l’eskimo verde e facciamo a botte con la polizia e ci sentiamo eroi, abbiamo il diritto di sognare, di crederti immacolato e al di sopra di vili calcoli monetari. (...)
Già, ma anche l’eskimo verde è ormai da qualche parte in cantina e tu e lui ve ne andate assieme... Ma almeno tu riposi accanto a Gauguin, tu pittore della parola e della canzone. Riposi a Hiva-Oa, per chi capitasse da quelle parti e volesse deporre un fiore. E davanti a quella pietra che porta il tuo nome, volesse sussurrare ‘ne me quitte pas’, come farei io, e come invece faccio davanti ad un computer, che non ha vele”.
Lascio cadere il foglio e guardo il mare. Sento il vento gelido del Nord. Del ’68 ho un ricordo confuso mentre di Jacques Brel ho un ricordo indelebile: il volto scavato, gli occhi carezzevoli e sognanti che contrastavano con la magrezza ispida e vivace del suo corpo, le braccia lunghissime e i movimenti da saltimbanco (a volte quasi da scimmia), la voce chiara e ferma e... il sudore, quanto sudore! Ripenso sorridendo alle sue parole: “Per una canzone c’è il 5% di ispirazione e il 95% di sudorazione”. Aveva un grande senso dell’ironia. Quel ragazzo poeta che sembrava letteralmente sciogliersi nel canto, mi portava lontano. Ero una bambina ed ero rapita dalla voce e dalle immagini... le parole le ho incontrate solo tempo dopo... e in quel nuovo incontro ho aggiunto il contenuto a ciò che era già... contenuto: la liberazione dal potere dei padri... la ricerca di una forma di libertà. È così che Brel ha dato la sua voce alla rivolta degli anni ’60 e lo ha fatto senza mai lasciare la poesia.
Ha dato voce a quella rivoluzione che scendeva per le strade non per rivendicare un potere, ma a rivendicare una libertà e una sessualità, a urlare contro quel divieto con cui Freud aveva chiuso il secolo precedente: “Si prega di chiudere gli occhi”. Divieto che aveva lasciato aperta la strada alle guerre del 20° secolo, ritenute ineliminabili, come la natura bestiale dell’uomo: proprio su questo bisognava chiudere gli occhi, sulla responsabilità dei padri e, per estensione, della Società, nel generare il disagio e la malattia mentale dei figli. E i figli scendevano in piazza folgorati dall’innamoramento nei confronti di Karl Marx che, con il suo materialismo storico, apriva le strade rassicuranti di una “terapia sociale” che spazzava via il sentire dell’uomo. Le due teorie dell’uomo senza l’uomo divennero le nuove Colonne d’Ercole, le sfingi pronte ad incenerire e a terrorizzare coloro che desideravano avventurarsi nell’oceano, convinti della originaria sanità dell’essere umano. E così, mentre i figli continuavano ebbri a scendere in piazza per festeggiare la liberazione dall’assedio del razionalismo dei padri, il cavallo di Troia portava nel ventre il tradimento perpetrato nei confronti della realtà umana: il credo sulla natura originariamente perversa dell’uomo che finiva col minare alla radice il diritto. Di sognare. Si chiedeva a gran voce “l’immaginazione al potere” e, al contempo, si apriva quella stagione lunghissima di una rivoluzione senza immagini che, inglobando tutto, avrebbe spianato la strada alla globalizzazione di cui il computer “che non ha vele” è servomeccanismo.
E mentre i figli abbracciavano, invece delle loro donne, le parole e le baionette dei padri, una serpe ancora più sottile si insinuava. La rivoluzione industriale, con il frastuono delle sue macchine, andava rosicchiando irrimediabilmente, fino ad interrompere per sempre, i grandi silenzi. Il cambiamento dei paesaggi divenne solo l’espressione evidente di cambiamenti sonori ancora più importanti, perché invisibili: cambiava in modo impercettibile ma sostanziale, la dimensione aerea in cui porre la propria voce, il proprio corpo, la propria realtà psichica. Da quel passaggio irreversibile al mondo delle macchine, siamo stati introdotti nel mondo dei suoni interrotti (di cui il frastuono assordante della guerra è l’estrema conseguenza) che ha aperto la strada ad una familiarità sonora con il mondo dell’orribile.
E in quelle urla che nel ’68 finalmente uscivano dai luoghi istituzionali per andare nelle strade, a rappresentare una possibilità di nascita, nel loro prolungamento forzato e sterile che costringeva l’ascolto a richiudersi (come accade fisiologicamente davanti ad uno stimolo troppo forte e prolungato nel tempo), mi pareva di sentire l’eco di quelle macchine divoratrici di suono che attaccano i visceri, i sogni, i pensieri di un Uomo in divenire. La rivolta fatta senza il rifiuto viscerale dei meccanismi di identificazione con il padre, diventava ancora una volta ribellione castrante votata al fallimento. “Il ’68 morì con il ’68, la nascita dell’uomo che usciva dalla preistoria per entrare nella storia, auspicata da Carlo Marx, non ci fu... Il non posso e il corrispettivo identico di un possiamo onnipotente e non reale era stato affidato alla storia di un ’68 che non aveva saputo sognare e comprendere. Un ’68 che aveva fatto senza essere”.
E mentre i cartelli dei divieti diventavano usuali, l’attacco formidabile all’integrità umana, sancita e “benedetta” dalle ideologie freudiana e marxista, diventava attacco silente a quel desiderio di ascolto umano che faceva amare uno come Brel. La frattura potente portò alla droga, al terrorismo, al suicidio e... alla terrificante normalità.
La strada era votata al fallimento proprio perché quel sogno non si accompagnava alla possibilità di conoscere attraverso i propri sogni: la via della conoscenza attraverso la conoscenza dell’inconscio. Alcuni, come Brel, continuavano a sancire il diritto di sognare, con passione... ma la ricerca sulle donne, da sempre padrone senza potere di questo territorio interno, rimaneva per lui difficile e contorta: difficile e contorta la possibilità di vivere il desiderio senza conflitto alcuno. E forse è per questo che Brel si è ammalato nel corpo, cadendo, come molti, nella trappola di mettere le vele alle cattedrali. Lui, come altri, non sapeva che le cattedrali portate altrove (e quindi rimosse) continuano ad agire nell’oscurità, ancorando i sogni e appesantendo il corpo.
Quando le cattedrali si sgretoleranno, le vele porteranno i sogni liberati verso i mari del Sud, laddove aspettano altri sogni. E tutti insieme partiranno verso la realizzazione di un grande sogno comune.
BIBLIOGRAFIA DI BASE
Jacques Brel le droit de rèver, Catalogo della mostra a cura della Fondation International Jacques Brel, Bruxelles 2003.
B. HONG RE - P. LIDSKY , L’Univers poétic de Jacques Brel, L’Harmattan, Paris 1998.
G. LEFEBRE, Jacques Brel, La Renaissance du Livre, Tournai 2001.
DISCOGRAFIA
Febbraio 1953 - Esce il suo primo singolo registrato a Bruxelles: La Foire/Il y a.
Febbraio 1954 - Esce il suo primo album: Jacques Brel et ses chansons.
Marzo 1957 - Quand on n’a que l’amour, Heureux Pardons, ...
Giugno 1958 - Primo disco con Rauber: Je ne sais pas, Au printemps, ...
Ottobre 1958 - Disco per «Le magazine Marie-Claire». Comprende: L’Introduction à la Nativité et L’Evangile selon St Luc.
1959 - La valse à mille temps, Ne me quitte pas, Je t’aime, Isabelle, La mort, ...
1961 - Marieke, Le moribond, …
1962 - Olympia, Ottobre 1961.
1963 - Les Bigotes, Les vieux, La Fanette, ...
Marzo 1964 - Jef, Les bonbons, Mathilde, ...
1964 - Olympia, 1964.
Novembre 1965 - Ces gens-là, Fernand,
Gennaio 1967 - 67, album che comprende Mon enfance, A jeun.
Settembre 1968 - Vesoul, L’éclusier.
1969 - Pierre et le Loup. L’Histoire de Babar.
1970 - L’Homme de la Mancha.
1972 - Nouveaux enregistrements.
1977 - Les Marquises.
1988 - L’opera integrale di Brel esce in occasione dei dieci anni dalla sua morte. Contiene tutte le sue registrazioni e anche degli inediti.
TRADUZIONI
Tutti i testi contenuti in questo articolo sono stati tradotti da Concetta Turchi e Marco Mortillaro.
B. HONG RE - P. LIDSKY , L’Univers poétic de Jacques Brel, L’Harmattan, Paris 1998.
G. LEFEBRE, Jacques Brel, La Renaissance du Livre, Tournai 2001.
DISCOGRAFIA
Febbraio 1953 - Esce il suo primo singolo registrato a Bruxelles: La Foire/Il y a.
Febbraio 1954 - Esce il suo primo album: Jacques Brel et ses chansons.
Marzo 1957 - Quand on n’a que l’amour, Heureux Pardons, ...
Giugno 1958 - Primo disco con Rauber: Je ne sais pas, Au printemps, ...
Ottobre 1958 - Disco per «Le magazine Marie-Claire». Comprende: L’Introduction à la Nativité et L’Evangile selon St Luc.
1959 - La valse à mille temps, Ne me quitte pas, Je t’aime, Isabelle, La mort, ...
1961 - Marieke, Le moribond, …
1962 - Olympia, Ottobre 1961.
1963 - Les Bigotes, Les vieux, La Fanette, ...
Marzo 1964 - Jef, Les bonbons, Mathilde, ...
1964 - Olympia, 1964.
Novembre 1965 - Ces gens-là, Fernand,
Gennaio 1967 - 67, album che comprende Mon enfance, A jeun.
Settembre 1968 - Vesoul, L’éclusier.
1969 - Pierre et le Loup. L’Histoire de Babar.
1970 - L’Homme de la Mancha.
1972 - Nouveaux enregistrements.
1977 - Les Marquises.
1988 - L’opera integrale di Brel esce in occasione dei dieci anni dalla sua morte. Contiene tutte le sue registrazioni e anche degli inediti.
TRADUZIONI
Tutti i testi contenuti in questo articolo sono stati tradotti da Concetta Turchi e Marco Mortillaro.
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Percorsi di cura in terapia psicodinamica. AL CHIARO DI LUNA di Concetta Turchi. Anno 2002
AL CHIARO DI LUNA
Concetta Turchi
Collana di perle di Marco Lanzetta
Svegliarsi al chiaro di luna per sorprendersi di come sia facile trovare i suoni e le linee tra le pieghe del legno. Ogni volta che scrivo mi sorprendo perché tra i giochi di luci e di ombre le parole sonore incarnano un'immagine che trova nella mano che scrive l'immediatezza della sua espressione. Immagini verbali, portatrici ad un tempo di un valore semantico e di un valore affettivo, edificate per quella musica che è il flusso e il ritmo delle vocali, delle sillabe, delle parole. Quella musica che, mentre le parole parlano di tante cose, racconta di una strana e piacevole dissonanza tra la calma che accompagna l’immagine e la rapidità della mano che scolpisce e rivela, per poi ritrovare nelle immagini che suonano la memoria di quell’orgasmo che narra di ciò che è stato, di ciò che è, di ciò che potrà essere.
Quando quel ragazzo, entrando nel mio studio professionale, si era trovato davanti l’altra struttura lignea, era rimasto stupito nel vedere che molte di quelle assi di legno sembravano come sospese nell’aria; quella libreria, semplice nelle sue linee, esprimeva il suo rapporto stabile con la terra, ma anche la sfida a rimanere in sospensione come il pene eretto di un uomo di fronte ad una donna bella e desiderabile. “Come si regge?”, aveva chiesto il ragazzo con curiosità mista ad angoscia. Poi dopo essersi avvicinato con occhi piccoli e indagatori, aveva sentenziato con tono sprezzante che bisognava inventare un sistema per farla stare su, in tutta la sua potenza, senza i buchi nel muro. “Senza trucchi né inganni” aveva detto, “gli architetti servono a questo, non lo sapeva?”. Avevo saputo in quel momento della sua splendida pretesa: lui voleva stare su senza trucchi né inganni, lui voleva riuscire a tenere il desiderio di fronte ad una donna bella e desiderabile. Tenni per me quella pretesa, mentre si componevano i suoni con le immagini.
Quel gioco di mensole attaccate al muro, libere in ogni momento di fare un’altra rappresentazione, gli sembrava un trucco, come se quei cilindri che penetravano il muro potessero inchiodare per sempre un’immagine... e farla morire. Come le farfalle dei collezionisti di morte. La storia di Chiaro di Luna cominciò in quel momento. Dovevo conservare la memoria di quello spazio che cercava il suo divenire nel tempo. Ridevo tra me e me, pensando che proprio non avrei potuto dimenticare a cosa serve un architetto senza perdere allo stesso tempo la mia identità di psicoterapeuta: creare un’immagine bella che si sostiene da sé.
Era quello che il giovane laureando in architettura tentava di rappresentare, ma la sua andatura era troppo lenta e larga, come quella dei pistoleri sempre pronti a giocarsi la vita nelle strade polverose, per un’onta subita. La postura, troppo eretta, mancava di morbidezza, come la sua voce i cui picchi striduli si conficcavano nella mia pelle facendola sanguinare; proprio come gli spilli dei collezionisti di morte con le loro farfalle più belle. Con quegli acuti privi di corpo esprimeva la rabbia sorda per quell’urlo negato, per la sua vita bloccata nel movimento e nell’espressione creativa.
A quel tempo viveva ancora nella sua famiglia d’origine e i suoi studi procedevano lentamente, un po' come la sua andatura. Diceva di amare l’architettura, ma come ogni cosa che diceva d’amare, tendeva a fuggirla per dedicarsi ad altro, perché non teneva lo stupore che si accompagna sempre alla comparsa del desiderio.
“Deve imparare a tenere lo stupore”, pensavo mentre ascoltavo il racconto del suo sogno. E intanto portava nel presente della relazione terapeutica, la violenta e delirante certezza della sua storia passata, della sua storia con le donne, che troppe volte lo avevano accolto tra le loro braccia, per poi lasciarlo precipitare in un’esistenza divenuta improvvisamente triste e vuota.
Cadere nel vuoto per un desiderio troppe volte deluso. La terribile storia di come si perde la speranza di trovare il proprio simile: ricerca che inizia con la nascita, quando, catapultati in un nuovo mondo accecante e rumoroso, cerchiamo una voce conosciuta, quella che ci ha accompagnato mentre eravamo sospesi nel liquido amniotico. Quella voce che porta verso un nuovo abbraccio, verso una nuova sospensione che restituisce i confini, ci salva dalla pericolosa tentazione di chiudere gli occhi sul nuovo mondo per renderlo non esistente. La percezione ritrovata traccia il primo ricordo che è anche la prima fantasia umana. “Inconscio mare calmo”, la chiama il mio Maestro di un tempo: immagine sonora, espressione al contempo di una ricerca e di una sanità psichica. Da quel momento la ricerca, sostenuta dall’ascolto, si struttura come desiderio di ritrovare e come capacità di riconoscere. E l’acquisizione della stazione eretta e del linguaggio non sono che momenti successivi di uno sviluppo volto alla ricerca e all’espressione dell’Umano.
Troppe volte, però, le braccia si allargano per una disattenzione che si chiama indifferenza o per un rancore che deve negare ad ogni costo la possibilità di una storia diversa. La difesa estrema diventa perdere l’ascolto, quell’ascolto che è recettività: atto volontario a cercare l’Umano intorno a sé. Il bambino, e l’adulto poi, continua meccanicamente ad udire, ma non ha più la motivazione a cercare suoni dentro e fuori di sé: in quel momento gli occhi che si chiudono annullano inesorabilmente il mondo esterno e quello interiore ad esso affettivamente legato. Il corpo che si raddrizzava per trovare quella verticalità che sostenesse e potenziasse l’ascolto, si contorce, si chiude, si sclerotizza in posture distorte che sostengono la perdita dell’ascolto. I muscoli diventano marmorei e la realtà psichica si pietrifica su quanto è andato perduto: la reattività diventa turba neurovegetativa, il desiderio di cambiamento diventa angoscia e ansia, le possibilità di fronte al mondo esterno diventano impotenza e depressione. Un blocco di marmo che non riesce più a trovare quello scultore che possa restituirgli un’immagine. Poiché il cammino verso l’umanizzazione è sbarrato, insorge la malattia psichica, ultimo canto del cigno, come lamento estremo per quella prima perla perduta o come castrazione per non riuscire ad esprimere quella nascita in un modo sufficientemente bello.
E così, per una lunga storia di tradimenti, si diventa terribili sicari di una storia terribile. Il sogno dell’aspirante architetto raccontava questa storia di tradimenti, però, questa volta, contrariamente ai sogni ricorrenti di un passato precedente alla nostra relazione terapeutica, lui non si sfracellava; il paracadute salvava lui ed anche il pilota. “Quelle mensole le hanno parlato di un’immunità dal fallimento”, avevo risposto. Immunità intuita nella nostra relazione terapeutica, per la prima volta in un rapporto.
L’angoscia di rimanere per sempre inchiodato tra le braccia dell’altro, nel mondo magico dei sensi appagati, si mescolava con l’angoscia di cadere dalle braccia dell’altro. Di conseguenza la distanza lo faceva precipitare in balìa degli eventi mentre la vicinanza lo faceva sentire inchiodato, prigioniero. Era come avere a che fare, oltre che con la malattia, con una ragazzetta bellissima e selvatica. Da sempre gli avevano detto che era troppo selvatica e che sarebbe stato necessario addestrarla; farla rientrare nei canoni istituzionali di quella Santa Alleanza che benedice la bellezza estetica priva di vita, la bellezza che non suscita il desiderio, che non fa saltare per i campi all’inseguimento dei mille colori in volo verso la vita. E quel ragazzo ne aveva inseguite tante di farfalle, ma erano farfalle che, nella coazione di cercare colui che le uccidesse, tentavano di trasformarlo in un collezionista di morte. Lui, però, aveva continuato a dibattersi tra il bisogno di legare al muro quella bellissima ragazzetta e l’esigenza di sciogliere quei lacci che impedivano un libero movimento in una libera espressione della fantasia.
Questo era uno dei motivi per cui mal sopportava le mie interpretazioni: le sentiva come gli spilloni di una strega che prepara di nascosto i suoi sortilegi. Fata Morgana o Maga Circe, streghe condannate a ricreare continuamente e senza alcuna via di uscita il mondo magico dei sensi appagati, solamente per ingannare ed esercitare il proprio dominio sugli uomini, il proprio odio verso il diverso da sé. Figuriamoci se poteva accettare l’idea che io fossi un pilota diverso, in grado di portarlo a sentire le voci delle stelle per poi ricondurlo salvo, felice e soddisfatto a terra, dopo una notte d’amore. I piloti sono così distanti nel loro sapere...
In ogni caso mi accettava come paracadute che lo avvolgeva e lo sosteneva nel suo planare verso terra. Strano stupore... simile forse a quello dei neonati quando sono cullati dal corpo della madre o dal loro canto. Rinunciai, almeno per un po', alle interpretazioni dirette; alla conoscenza verbalizzata di quel mondo inconscio che lo spaventava, da cui si sentiva giudicato, inchiodato; rinunciai alla conoscenza superba e arrogante che lo angosciava e lo rendeva pesante, incapace di librarsi nei cieli. Come gli aerei... o come le farfalle.
Dovevo trovare dentro di me la resistenza e la leggerezza di quelle sete con cui un tempo si costruivano i paracadute, per essere trascinata dai venti come i semi dei fiori quando partono per fecondare nuove terre. E, come i semi, atterrare dolcemente, seduta dopo seduta, evitando quegli impatti che avrebbero scatenato la sua pulsione di annullamento: la sua morte e quella del pilota. Solo la percezione della morbidezza lo avrebbe riportato nella stanza dove aveva trovato quella libreria la cui immagine lo aveva riempito di angoscia e di stupore. Angoscia e stupore nei miei confronti perché la libreria era nata da una mia idea. Solo quella morbidezza avrebbe alleviato l’urlo per quella ferita insopportabile: libertà propria e dell’altro; per una conoscenza ritenuta impossibile, propria e dell’altro.
Le sue parole, stridule e fitte, come spilli che appuntano e uccidono i pensieri prima ancora di ascoltarne il suono, cominciarono a dilatarsi, a lasciare spazi, pause che permettevano l’ascolto. In una di quelle pause, nel chiaroscuro del suo tormentato mondo di affetti, comparve nel sogno l’immagine di una contadina.
Quel lampo improvviso, cui il ragazzo aveva risposto con l’immediatezza del corpo, fu soffocato da un risveglio implacabile che mi inchiodava nuovamente sul mio trono professionale. Non voleva le mie interpretazioni e si spaventava davanti ad una recettività e ad un movimento che risponde solo con i propri visceri, senza quella ragione che da sempre è strumento di potere e di violenza sugli uomini. Su quel trono avrebbe continuato a confondermi con la sua Fata Morgana.
E così accadeva che per un’immagine di donna che faceva capolino nell’ombra, catapultava in mezzo a noi tutte le madri e le figlie delle madri del mondo esterno. Le metteva lì, in fila, a ribadire che doveva essere un uomo ‘libero’, che proprio non poteva sentirsi legato. Tenni per me questa bugia, come avevo fatto con la sua prima pretesa. Lui continuava a parlare delle sue donne, dei suoi studi e di mille altre cose, guardando la libreria e guardando me. “Si dimentica del rapporto con me” ripetevo, ridendo.
D’altra parte dovevo essere solamente un paracadute che, seduta dopo seduta, doveva cercare di atterrare lontano dagli alberi. Di quel pilota rimaneva il suono della voce e le risate; queste ultime esplosive ed impudenti, forse, a volte, imprudenti. Esse continuavano ad interpretare senza interpretare; unico segnale di una libertà interna che non si arrende di fronte alla violenza di una deformazione di immagine. E lui rispondeva a quella mia presenza lanciandomi occhiate di disappunto e di stupore; sempre, tornava il suo splendido stupore. Io stessa mi chiedevo con stupore in quale mondo mi stesse portando quel puntuto ragazzo che a tratti, ora, mi faceva sentire una morbidezza nuova. Sorridevo per quella mia impotenza che era la sua. Sorridevo per quella rappresentazione a cui il ragazzo mi costringeva per sfidare la mia recettività, rappresentazione in cui cominciava a dilatarsi la sua recettività.
E vennero i fiumi in piena, con le acque piene di fango. Acqua dovunque, acqua che cercava una nuova limpidezza per un’immagine sporcata. Tra le righe dei suoi scritti che oscillavano tra amplessi di fuoco e parole di neve, cominciò a farsi strada quella nuova morbidezza che arrivò al suo corpo, al suo sguardo, al suo sorriso. Quando anche la sua voce cominciò a cullarmi come fossi un neonato tra le braccia della madre, scesi finalmente da quel terribile trono in cui mi aveva relegato: libero movimento in una libera espressione della fantasia. E, seduta per terra, guardai insieme con lui i suoi tappeti di carta in cui si stagliava limpida la sua idea. Nero su bianco: il nero di morte, divenuto memoria inconscia, si muoveva a delineare le figure geometriche sul bianco della sua nascita. La sua tesi di architettura: il suo pensiero su come poteva diventare quella magnifica ragazzetta.
Quella nuova possibilità, immagine ancora indefinita ma reale, non poteva più vivere nella casa di sempre e accadde che il ragazzo, ormai laureatosi in architettura, lasciò la casa del padre; di quel padre che aveva rinunciato ormai da molto tempo a quell’amore irragionevole, limpido e puro, per la ragazzetta. Il pensiero nuovo si confrontò con altre donne che lottavano disperatamente per uscire dalle trappole delle madri, dalle trappole delle streghe. Quelle immagini isolate divennero delle perle che lui riuscì ad unire con il filo della memoria e dell’affetto che in essa è contenuto. Quella collana un giorno l’avrebbe regalata alla sua donna: la materializzazione nel mondo esterno della sua immagine femminile interna. E avrebbe conosciuto l’amore.
“Il bacio di Rodin. La dilatazione del tempo degli amanti...”, dissi, e questa volta gli parlai di quei baci e di quelle carezze legati alla sospensione del tempo vissuto dagli amanti quando non si accorgono del mondo intorno a loro. La situazione di rimanere fisicamente sospeso con il paracadute, per planare verso terre sconosciute, si era trasformata in una sospensione temporale: una pausa musicale. La sospensione del tempo era diventata certezza della presenza dell’altro e non più vuoto mortale in cui operavano gli spilloni delle streghe. La stessa certezza che ha il neonato quando cerca quella voce e quel seno che possa placare prima di tutto il suo desiderio di rapporto umano. Trovare la sospensione del tempo voleva dire non sentirsi più solo, caduto dalle braccia dell’altro.
Purtroppo rimaneva spesso ancora legato ai bisogni delle donne e l’idea di doverle soddisfare lo faceva fuggire via pieno di rancore. La terra, allora, sembrava divenire improvvisamente sterile e il suo sguardo stupito si riempiva di odio per quello che di diverso avvertiva dentro di sé. “Non so cosa mi sta succedendo”, diceva. “Si sta chiedendo come ho fatto”, rispondevo. Avevo un segreto che lui non riusciva a fare suo. Sapeva ora riconoscere con certezza gli attacchi del mondo esterno per quella sua nuova bellezza, ma non sapeva come modificare la realtà umana intorno a sé. Cominciava a cogliere in modo sempre più chiaro una differenza che lo faceva impazzire di odio.
E allora, come un moderno Prometeo, provava a prendere dei corpi di donna, uccise e fatte a pezzi dalla cultura dei padri, e tentava di dare vita ad una nuova creatura, con un cervello diverso, con un’altra intelligenza, utilizzando parole di lava come fossero quelle stesse scosse elettriche che in un tempo remoto avevano dato origine a quella prima catena proteica portatrice di una memoria biologica che trasformava la terra stessa. Nascita di quel mondo, che sarebbe poi sfociato nell’Umano, in un giorno che non era ancora giorno e in un tempo che non era ancora divenuto tempo.
Scienziato folle che da solo, con l’ausilio della tecnica, costruisce il mondo senza arrendersi agli eventi naturali ritenuti di origine divina. Per quella tecnica divinizzata che è identificazione mortale per un mancato rifiuto del divino: farsi Dio per non arrendersi ad un dio. Annullamento di sé e dell’altro; annullamento di quel mondo femminile, prima di ogni cosa corporeo, che ha bisogno solo delle scosse dell’orgasmo per lasciare vivere dentro di sé la risposta dell’uomo al rapporto con la donna. Quell’orgasmo che non può essere elettroshock, che non è fulmine lanciato da un dio o scarica elettrica applicata dall’esterno da uno scienziato geniale, ma è onda che viene da dentro, onda che muove e che dilata; onda che volge verso il ventre delle donne, dove si è spostato il mistero della vita, nel corso dei millenni.
Il giovane architetto si disperava di fronte a quei corpi privati delle loro risonanze psichiche e, poiché non sapeva ancora della fertilità delle donne e della loro tenace resistenza a combattere la pulsione di morte, si difendeva nell’idea onnipotente di creare da solo la vita. Scienziato reso pazzo dalla solitudine e dall’angoscia di non essere riuscito a salvare il suo primo oggetto d’amore avvizzito anzitempo nel suo vecchio castello di pietra. Per tanto tempo era stato convinto che nel rapporto terapeutico si sarebbe ripetuta la vecchia storia di una sterilità ritenuta immodificabile e io avrei dovuto creare in perfetta solitudine, con la tecnica psicoterapeutica, una creatura. Una creatura privata della propria nascita e di quel nome che ne sancisce l’avvento: un mostro pieno di rabbia e di odio.
Con queste immagini oniriche portava la rabbia e l’odio allo scoperto. La sua rabbia per quelle donne che avevano perduto la fertilità lasciandolo cadere dalle loro braccia, per andare verso i padri che solidificavano la loro assenza. Quei padri che uccidono le speranze dei figli e i loro ardori, che li divorano, costringendoli a prendere i loro abiti, la loro postura, la loro voce e i loro pensieri senza suono, in un’identificazione senza speranza. Venne l’odio perché scoprì che dietro al fatto che non lo lasciavo cadere, c’era una conoscenza del mondo inconscio che lui non aveva, c’era una recettività che non ritrovava e, soprattutto, c’era il coraggio di volere scrivere proprio con lui, che portava il suo vecchio e sterile mondo, una storia diversa.
Poiché la sua pazzia aveva trovato la via della rappresentazione onirica, essa diventava meno pericolosa, ma lui si spaventava lo stesso e scappava via ogni volta che comparivano i suoi mostri. Per poi ritornare sempre, perché le perle si erano unite a formare una collana che lo teneva senza renderlo prigioniero. Tornava perché aveva la certezza delle donne che non vogliono far cadere i bambini dalle loro braccia, che non vogliono diventare sterili, che non vogliono riscrivere la storia di sempre fatta di uomini che uccidono i bambini e stuprano le donne.
Occorreva un nuovo spazio per un nuovo divenire nel tempo. Così lanciai a quell’architetto novello la sfida di una nuova avventura in un nuovo spazio, pieno di immagini sonore tutte da inventare. Mi aveva detto al nostro primo incontro che per fare una libreria occorreva un architetto, ma io sapevo che per fare un architetto occorre una donna. E così venne finalmente il momento di affrontare quella ragazzetta che voleva diventare donna; quella ragazza fiera del suo rapporto con la realtà materiale, realtà materiale essa stessa, cercava dentro di sé che qualcuno le ricordasse di non essere sterile.
Volevo per il mio nuovo spazio professionale che non era più soltanto uno studio, ma un laboratorio di ricerca delle immagini sonore, una libreria in movimento nello spazio, in movimento verso il mondo. Volevo che il tempo divenisse spazio, come in passato avevo voluto che lo spazio divenisse tempo: lo svezzamento che cerca la via della rappresentazione e della realizzazione creativa.
A quel tempo il giovane architetto si occupava di fare architettura solo nel tempo libero. E gliene rimaneva davvero poco, preso com’era da una nuova attività, peraltro ben retribuita, che lo portava a vedere più le intelaiature politiche che permettono o meno l’esprimersi dell’architettura, piuttosto che a farla. I nostri incontri erano pertanto sempre rubati ai suoi molteplici impegni. Bisognava comprendere: era ancora una ragazza selvatica che non riusciva ad avvicinarsi senza il timore di essere fatta prigioniera. Il timore di essere fecondato lo portò a disegnare nella solitudine di sempre la sua immagine: uscì allo scoperto Fata Morgana. Bella e imponente, una regina opprimente dalle lunghe braccia che si muovevano nel cielo della stanza, oscurandolo.
Mi tornarono alla mente le parole del mio Maestro di un tempo: “...Il volto visto senza immagine interiore propria, fatta per una creatività di visione che non copia il mondo esterno, è figura opprimente che si affaccia sul vuoto...”. Il giovane architetto era riuscito a rappresentare quella Fata Morgana che impediva alla ragazzetta di trovare la sua strada di donna. Dovevo trasformare quella rappresentazione perché lui potesse realizzare la sua immagine interiore, “...perché il volto visto senza immagine interiore propria vuol dire non potere amare; è non poter pensare il tuo volto è la mia immagine interiore...”.
Ora che Fata Morgana era emersa nella sua realtà di rappresentazione, bisognava lasciarla nel suo passato di morte per svelare il cuore pulsante, l’azzurro cuore di oceano della ragazzetta. E furono nuovi incontri e molti suoni e nuove linee. Io parlavo e lui disegnava. Riusciva a rifare il movimento del terapeuta, di quando lui parlava e io interpretavo disegnando i suoi sogni con le frequenze della mia voce. Disegnammo le onde e i venti del mare, e... una vela in cui tenere i libri più belli, su cui scrivere un giorno le mie pagine più sentite. Quella vela, gioco di equilibrio tra i due elementi, fatta per solcare i mari secondo la direzione dei venti o delle correnti, come fanno i delfini quando seguono per gioco le imbarcazioni. Di notte, quando i delfini vanno a dormire, la vela avrebbe avuto la compagnia della luna. Disegnammo tutto questo come fanno i bambini quando giocano con le matite colorate.
A tratti sembrava contrariato per quelle immagini che parevano forse troppo elementari all’architetto che era riuscito a disegnare Fata Morgana; ma la donna selvatica si affacciava nella stanza dei bimbi e strappava l’assenso. Il caldo del sole sulla pelle e il vento tra i capelli era una sensazione troppo bella e troppo intensa. In quei momenti mi tornavano alla mente i suoi capelli costantemente spettinati. Fin dal primo incontro mi avevano lasciato un profumo di selvatico che solo ora riuscivo a visualizzare in un’immagine: un lupo, un animale selvatico che vive da sempre fuori le mura di una città rassicurante dove tutti si promettono reciproca assistenza. Una città murata da una cultura dominante che ha trovato nel freudismo il suo vessillo di disperazione e di impossibilità: addestramento dell’Uomo ad un controllo che lo allontana dalla sua realtà umana. Dominio della ragione su ciò che è ritenuto mostruoso e pericoloso: la realtà inconscia.
Vivere fuori le mura per tentare di salvaguardare quella prima perla, la realtà umana. “Come fanno le contadine”, dissi. Con quella immediatezza viscerale che non è animalità, perché gli animali non hanno fantasia; perché gli animali possono vivere solo soddisfando i propri bisogni, mentre l’uomo può vivere solo seguendo i propri desideri.
Quel lupo parlava di una realtà animalesca, ma esprimeva l’esigenza di non essere addestrato: esigenza tipicamente umana. Esprimeva, però, anche il bisogno di non essere addomesticato. Si presentò improvvisa l’immagine del Piccolo Principe e della sua rosa nell’asteroide B 612, la più importante e la più bella per lui, perché l’aveva innaffiata giorno dopo giorno riparandola dalle intemperie. Ricordavo le sue parole: “...Gli uomini hanno dimenticato questa verità... Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato...”.
Composizione di suoni e di linee. Mentre sorridevo a quel bimbo dai capelli d’oro che non risponde alle domande dell’aviatore precipitato con il suo aereo nel deserto, il giovane architetto mi disse: “Lo sa, hanno trovato i resti dell’aereo guidati da Antoine de Saint-Exupéry. Hanno ritrovato un bracciale su cui era inciso il suo nome”. Era emozionato. Lo sapevo, certo che lo sapevo cosa lui stava ritrovando in quel grande blu profondo e calmo. Il volto si affilò e il movimento morbido divenne più elegante in quella figura divenuta più snella e rapida, capace di orientarsi con un sorriso. C’era quel certo non so cosa che accompagna un’immagine nascente, quel certo non so cosa che hanno le donne in gravidanza, quando il seme fecondato cresciuto dentro il loro ventre le costringe ad una verticalità che le espone al mondo come fossero antenne nell’Universo; un’antenna al servizio di quella vita ai suoi primi passi.
E quando l’architetto riuscì a dare un’immagine alla sua essenza, allora fu la felicità che arrivò inaspettata con tutta la passione e lo stupore che accompagna un atto creativo. La donna rimase colpita da quella contrazione di ventre inaspettata e prepotente e se ne andò per un po' di tempo, serbando, questo io lo sapevo, la memoria di quell’incontro. Aspettai, perché quella ragazzetta, divenuta una donna feconda, non era più solamente un’idea, ma una realtà umana in grado di generare nuove idee, nuove possibilità. Era divenuta memoria indelebile.
Fino all’ultimo i sicari di morte volevano farci credere che questa vittoria sulla pulsione di morte non doveva essere possibile: dipingere di scuro un legno naturalmente chiaro. Far credere che quello che c’è di spontaneo e luminoso, la sanità della nascita, non può esistere, non deve esistere. Legno dipinto di scuro per quella vecchia storia con cui gli uomini giustificano la loro violenza, perché la violenza, dicono, è insita nella natura umana, perché il mostro giace nelle profondità dell’inconscio, pronto sempre ad un nuovo ed orribile risveglio appena viene meno il controllo della ragione. Ideologia del disumano che si pone come vernice scura su un legno naturalmente chiaro che aspetta solo di essere riconosciuto per ciò che è. Tornò per difendere, insieme con me, quel figlio dalla pelle chiara come il sole, tornò per rivendicare quel colore naturale che è il suono di una nascita psichica perché ormai lui sapeva, per averla vissuta sulla sua pelle, di una storia che parlava di una nuova possibilità vissuta e realizzata.
A quel punto l’architetto lasciò il suo comodo lavoro, con tutte le sue noiose intelaiature, per occuparsi solo della sua professione... e della sua arte; lasciò la tela di ragno di quei bisogni materiali che gli altri prendono per esigenza o desiderio. Il nome lo scelse lui: Chiaro di Luna. Immagine di donna che solo in alcuni momenti si fa piena e chiara, per poi ritornare nell’ombra e riemergere nuovamente, come la melodia di una canzone. “Per quel miracolo del rinnovamento che è il non ripetersi del ripetersi”. Forse perché i lupi cantano il loro desiderio più vivo allungandosi languidamente verso quel disco d’argento che da sempre induce il canto dei poeti. Per rubarla alle stelle.
Chiaro di Luna si staglia davanti a noi con la vela che si apre come le ali di una farfalla pronta a spiccare il volo, vela sostenuta da un tuffo nell’aria di un delfino, pronto a diventare luna nascente quando le ali si chiudono; con le sue onde di carta colorata, con il movimento verso quella linea dell’orizzonte che sembra sempre la stessa, ma che in verità cambia continuamente, senza sosta, senza stancarsi mai. Miracolo della fantasia che ci fa giocare con i suoi mille volti. Chiaro di Luna riesce a rompere le distanze e si porta verso di noi con quella intensità assoluta che viene dagli angoli, con le diagonali che tagliano tutte le distanze, infrangendo lo spazio. Come fosse un’opera del Bernini, Chiaro di Luna non si può soltanto contemplare, perché infrange lo spazio personale, perché costringe ad un impegno attivo di rapporto. Costringe alla presenza, come una donna con un’immagine interiore, consapevole della propria identità. Non più statua inerte, ma scultura di visceri e di carni che pretende nel rapporto quel suono e quell’immagine che la modifichi, che la trasformi. Una scultura sonora che, infrangendo lo spazio, si rifiuta di diventare una commemorazione per i soliti ricordi, ma si rende memoria umana che ci parla nel qui ed ora del nostro vivere, del nostro passato e del nostro futuro. E lo scopo di un artista non è forse quello di creare una memoria?
Riflettevo così sul mio fare psicoterapeutico e, più in generale, su quella prassi psicoterapeutica che utilizza la voce e l’immagine come strumenti di cura. Riflettevo su questo agire dei suoni sulla superficie dei corpi e dentro i loro visceri come fossero le mani di uno scultore che ammorbidisce la creta per modellare l’immagine. L'arte di fare psicoterapia è proprio in quel suono che scolpisce e modella l’immagine. La voce che penetra nel corpo dell’altro costringe ad una vibrazione che è tanto più simile all’orgasmo quanto più quella voce racconta di una ricerca della realtà umana; voce che invita e che costringe, voce che porta a ritrovare quella umanità nascosta, a volte perduta.
Il mondo che suona e la nostra capacità di ascolto trasformano il silenzio in una pausa musicale che toglie dall’angoscia di essere muti, di non abitare il proprio corpo. Ed è la percezione del corpo vissuto che permette di utilizzare il linguaggio non più come strumento di comunicazione, ma come forma espressiva dell’umano; immagine interna sonora che si muove nel mondo con quel suono che è insieme colore e movimento. Tanto da potere dire che non ha senso parlare di immagine se non c’è il suono corrispondente a quella frequenza che fa vibrare nel corpo, perché l’assenza di suono è assenza del corpo e, pertanto, assenza di immagine.
Quei suoni che sembrano avere la stessa ‘inconsistenza’ dell’inconscio: entrambi, infatti, non si colgono direttamente con gli occhi fisici, ma la loro esistenza è dimostrata dagli effetti che producono. Solo una sensibilità particolare, una particolare intelligenza può cogliere quell'essenziale che troppo spesso è invisibile agli occhi; sensibilità che poggia le sue basi corporee sulla capacità di ascolto che conduce verso una nuova percezione della realtà, verso quella intelligenza ‘altra’ che non si sclerotizza più nel campo del visibile e dell’oggettivabile. Nelle parole che esprimono un concetto che è fuori dal nostro corpo, come fossero linee nere, vestite a lutto, per una mancanza di colore che uccide chi ascolta o legge. Perché sono i suoni che possono uccidere e non le parole; perché sono i suoni che possono far amare la vita e non le parole; perché sono i suoni a dare un corpo ai nostri pensieri e a trasformare i pensieri in un’idea.
Forse la malattia psichica insorge come impossibilità a dare un suono al nostro mondo interiore, o a dare un suono sufficientemente bello. Un grande blu che suona potrebbe essere mare che si fa cielo quando si ascoltano le onde sonore che lo costituiscono: intelaiatura invisibile in cui si propaga il tam tam degli umani secondo quel ritmo che scandisce le note del tempo. Poiché il suono è tempo che è possibile ascoltare, esso ha in sé qualcosa di tipicamente umano: la relazione con il tempo, appunto. Quella nascita psichica che ha ogni volta la capacità di ritrovare e riscoprire una dimensione più profonda che va oltre la realtà materiale, la nascita fisica, senza tuttavia separarsene mai. In questa sua realtà corporea il suono si separa dal divino che rappresenta l’ideologia di un’eternità trascendente e senza tempo.
Il trascorrere e il pulsare del tempo fa dell’insieme dei suoni musica. Musica dell’uomo nella sua essenza psicocorporea: il suo linguaggio. Se la grammatica esprime l’essenza del linguaggio e la sintassi esprime il senso di un’espressione, è la prassi a dare alle parole il loro suono e quindi il loro significato invisibile: interpretazione di un’immagine interna, interpretazione di un sogno. “Non ha senso interpretare i sogni ben raccontati”, ripensavo alle parole del mio Maestro. Per questo non è più tempo di spiegare. La conoscenza può forse servire a qualcosa se non trova una via di rappresentazione?
Il suono, come il tempo, si muove con le ali di una farfalla, impercettibile fremito visibile solo attraverso i suoi colori e il suo movimento, impercettibile fremito in cui alloggia e si dilata la realtà psichica. Eterna sfida a ritrovare quei suoni che ci hanno cullato in quel primo mare che ci conteneva e che poi, con la nascita, si è trasformato in un’immagine interiore, sonora, in cui l’essenza umana è contenuta. E con questa immagine interiore tutto quello che viene detto dagli altri o letto sui libri, immediatamente, in quel battito d’ali di una farfalla, si fa suono, si fa rappresentazione, si fa sogno. Suono che scolpisce e che rivela. Suono che riconosce.
E ritornavano impetuose le parole cantate dal mio Maestro di un tempo: “...Riconoscere sé stessi nel volto dell’altro, vedere finalmente quanto non è dato di vedere agli occhi fisici; vedere fuori di sé la propria fisionomia interiore, il proprio sogno...”. Quel volto che ora posso riconoscere perché è stato scolpito dai miei suoni, mentre parlavo di tante cose che raccontavano, tutte, della ricerca dell’umano nell’Uomo. Ricerca che racconta di un bambino ritrovato, di una donna ritrovata e di un uomo che, forse, non era mai esistito prima se non in quel mondo di suoni interiori a cui non avevo osato dare ancora una voce.
E mentre i sogni delle donne e dei nuovi uomini continuavano a raccontare questa storia per nutrire quel processo che un tempo avevo chiamato cura collettiva, essa divenne stranamente oggetto del riconoscimento di quello stesso processo e, allo stesso tempo, il copione di quello che doveva ancora essere rappresentato: a volte le storie scrivono il futuro e questa storia la stiamo ancora scrivendo. “Chiaro di Luna” aveva trasformato il gruppo in un organismo pulsante da cui emergevano, come dalla lanterna magica, le immagini inconsce: da quel rinnovato luogo e tempo della cura spuntarono le farfalle che volevano la morte... e Fata Morgana... e il Piccolo Principe... e la ragazzetta... e tante altre immagini ancora. Gioco di rappresentazioni con cui quel giovane uomo nascente si cimentava cogliendo solo di tanto in tanto il senso della posta in gioco: per difendere la sua sanità e la sua creatività, doveva difendere la nostra storia. Doveva difendere “Chiaro di Luna”, che così tante emozioni aveva suscitato e che, con la sua morbida e potente presenza, continuava a raccontare di un processo di cura e di una guarigione possibile.
E si avvicinavano le farfalle che cercavano la morte per riportare la malattia dove non esisteva più... E avanzava Fata Morgana, con le sue richieste “innocenti” per ribadire che quel giovane, con dentro il seme dell’Uomo nuovo, doveva rimanere suo figlio per sempre... Ed esplodevano gli umori, fino a diventare incandescenti, di fronte a quella storia che parlava di una libertà possibile. La barriera di indifferenza era stata intaccata ed ora cominciava lo scontro nei confronti di un’ideologia che utilizza la percezione delirante per ribadire quello che non può essere, quello che non deve essere. Il giovane uomo riuscì a resistere alle farfalle che cercavano la morte, ma vacillò di fronte a Fata Morgana. Nella difficoltà di accettare le cose che si fanno per niente, se ne andò da quello che per lui, ora che aveva recuperato la sua sanità, poteva finalmente diventare il luogo della ricerca artistica; se ne andò per affermare l’autonomia della sua creatività di fronte a quell’immagine sonora che gli aveva regalato la capacità di tenere quella contrazione di ventre inaspettata e prepotente che non poteva più non ascoltare.
Quella contrazione di ventre che fa danzare verso l’altro per una nuova felicità di esistere, con le braccia che si aprono, con i visceri che si dilatano. Non più per bisogno o per dovere.
E, forse, neppure per amore.
PER UNA BIBLIOGRAFIA SONORA...
...ho tenuto presente l’intera opera e la prassi di due grandi medici e ricercatori dei nostri tempi che hanno in comune la passione e il coraggio nel portare avanti le loro scoperte.
Il dott. Massimo Fagioli, con la sua teoria psicoanalitica e la sua prassi poetica, è stato quel Maestro che ha forgiato in me gli strumenti umani e professionali indispensabili per chi voglia affrontare con coerenza la cura delle malattie mentali.
M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza (prima ed. 1972), Nuove Edizioni Romane, Roma 2000.
M. FAGIOLI, La marionetta e il burattino (prima ed. 1974), Nuove Edizioni Romane, Roma 1999.
M. FAGIOLI, Psicoanalisi della nascita e castrazione umana (prima ed. 1975), Nuove Edizioni Romane, Roma 1995.
M. FAGIOLI, Bambino donna e trasformazione dell’uomo (prima ed. 1980), Nuove Edizioni Romane, Roma 2000.
Il dott. Alfred Tomatis, con la sua scoperta sul ruolo dell’orecchio nella realtà psicocorporea dell’uomo, mi ha permesso di aprire un nuovo varco nella mia ricerca di psichiatra e psicoterapeuta.
A. TOMATIS, Educazione e dislessia, Edizioni Omega, Torino 1977.
A. TOMATIS, L’orecchio e la vita, Baldini & Castaldi Ed., Milano 1992.
A. TOMATIS, Dalla comunicazione intrauterina al linguaggio umano, Ibis Edizioni, Como-Pavia 1993.
A. TOMATIS, L’orecchio e la voce, Baldini & Castaldi Ed., Milano 1993.
A. TOMATIS, L’orecchio e il linguaggio, Ibis Edizioni, Como-Pavia 1995.
A. TOMATIS, Perché Mozart?, Ibis Edizioni, Como-Pavia 1996.
A. TOMATIS, La notte uterina, Red Edizioni, Como 1996.
A. TOMATIS, Ascoltare l’Universo, Baldini & Castaldi Ed., Milano 1998.
A. TOMATIS, Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red Edizioni, Como 2001.
In questa bibliografia sonora includo anche i primi tre lavori di Alice Miller, psicoanalista svizzera, per la forza e la limpidezza con cui ha affermato che la pedagogia classica ha avuto influssi nefasti non solo sulla nostra infanzia, ma anche sulla nostra formazione di terapeuti.
A. MILLER, Il dramma del bambino dotato, Bollati Boringhieri Ed., Torino 1979.
A. MILLER, La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri Ed., Torino 1987.
A. MILLER, Il bambino inascoltato, Bollati Boringhieri Ed., Torino 1990.
Tutti questi libri fanno parte di quella che mi piace chiamare bibliografia sonora, perché essi suonano con le parole di un Uomo che ha potuto e voluto realizzare la propria realtà umana.
Quando quel ragazzo, entrando nel mio studio professionale, si era trovato davanti l’altra struttura lignea, era rimasto stupito nel vedere che molte di quelle assi di legno sembravano come sospese nell’aria; quella libreria, semplice nelle sue linee, esprimeva il suo rapporto stabile con la terra, ma anche la sfida a rimanere in sospensione come il pene eretto di un uomo di fronte ad una donna bella e desiderabile. “Come si regge?”, aveva chiesto il ragazzo con curiosità mista ad angoscia. Poi dopo essersi avvicinato con occhi piccoli e indagatori, aveva sentenziato con tono sprezzante che bisognava inventare un sistema per farla stare su, in tutta la sua potenza, senza i buchi nel muro. “Senza trucchi né inganni” aveva detto, “gli architetti servono a questo, non lo sapeva?”. Avevo saputo in quel momento della sua splendida pretesa: lui voleva stare su senza trucchi né inganni, lui voleva riuscire a tenere il desiderio di fronte ad una donna bella e desiderabile. Tenni per me quella pretesa, mentre si componevano i suoni con le immagini.
Quel gioco di mensole attaccate al muro, libere in ogni momento di fare un’altra rappresentazione, gli sembrava un trucco, come se quei cilindri che penetravano il muro potessero inchiodare per sempre un’immagine... e farla morire. Come le farfalle dei collezionisti di morte. La storia di Chiaro di Luna cominciò in quel momento. Dovevo conservare la memoria di quello spazio che cercava il suo divenire nel tempo. Ridevo tra me e me, pensando che proprio non avrei potuto dimenticare a cosa serve un architetto senza perdere allo stesso tempo la mia identità di psicoterapeuta: creare un’immagine bella che si sostiene da sé.
Era quello che il giovane laureando in architettura tentava di rappresentare, ma la sua andatura era troppo lenta e larga, come quella dei pistoleri sempre pronti a giocarsi la vita nelle strade polverose, per un’onta subita. La postura, troppo eretta, mancava di morbidezza, come la sua voce i cui picchi striduli si conficcavano nella mia pelle facendola sanguinare; proprio come gli spilli dei collezionisti di morte con le loro farfalle più belle. Con quegli acuti privi di corpo esprimeva la rabbia sorda per quell’urlo negato, per la sua vita bloccata nel movimento e nell’espressione creativa.
A quel tempo viveva ancora nella sua famiglia d’origine e i suoi studi procedevano lentamente, un po' come la sua andatura. Diceva di amare l’architettura, ma come ogni cosa che diceva d’amare, tendeva a fuggirla per dedicarsi ad altro, perché non teneva lo stupore che si accompagna sempre alla comparsa del desiderio.
Mi trovo su un aereo, un aereo di linea diretto non so dove.
Siamo solamente in due su quell’aereo, il pilota ed io, anche se il pilota non lo vedo.
Improvvisamente l’aereo comincia a precipitare, ma scopro con stupore di avere il paracadute.
Mi lancio dall’aereo, e quando il paracadute si apre comincio a planare.
Anche il pilota si salva. Sono stupefatto e contento per lo scampato pericolo.
Siamo solamente in due su quell’aereo, il pilota ed io, anche se il pilota non lo vedo.
Improvvisamente l’aereo comincia a precipitare, ma scopro con stupore di avere il paracadute.
Mi lancio dall’aereo, e quando il paracadute si apre comincio a planare.
Anche il pilota si salva. Sono stupefatto e contento per lo scampato pericolo.
“Deve imparare a tenere lo stupore”, pensavo mentre ascoltavo il racconto del suo sogno. E intanto portava nel presente della relazione terapeutica, la violenta e delirante certezza della sua storia passata, della sua storia con le donne, che troppe volte lo avevano accolto tra le loro braccia, per poi lasciarlo precipitare in un’esistenza divenuta improvvisamente triste e vuota.
Cadere nel vuoto per un desiderio troppe volte deluso. La terribile storia di come si perde la speranza di trovare il proprio simile: ricerca che inizia con la nascita, quando, catapultati in un nuovo mondo accecante e rumoroso, cerchiamo una voce conosciuta, quella che ci ha accompagnato mentre eravamo sospesi nel liquido amniotico. Quella voce che porta verso un nuovo abbraccio, verso una nuova sospensione che restituisce i confini, ci salva dalla pericolosa tentazione di chiudere gli occhi sul nuovo mondo per renderlo non esistente. La percezione ritrovata traccia il primo ricordo che è anche la prima fantasia umana. “Inconscio mare calmo”, la chiama il mio Maestro di un tempo: immagine sonora, espressione al contempo di una ricerca e di una sanità psichica. Da quel momento la ricerca, sostenuta dall’ascolto, si struttura come desiderio di ritrovare e come capacità di riconoscere. E l’acquisizione della stazione eretta e del linguaggio non sono che momenti successivi di uno sviluppo volto alla ricerca e all’espressione dell’Umano.
Troppe volte, però, le braccia si allargano per una disattenzione che si chiama indifferenza o per un rancore che deve negare ad ogni costo la possibilità di una storia diversa. La difesa estrema diventa perdere l’ascolto, quell’ascolto che è recettività: atto volontario a cercare l’Umano intorno a sé. Il bambino, e l’adulto poi, continua meccanicamente ad udire, ma non ha più la motivazione a cercare suoni dentro e fuori di sé: in quel momento gli occhi che si chiudono annullano inesorabilmente il mondo esterno e quello interiore ad esso affettivamente legato. Il corpo che si raddrizzava per trovare quella verticalità che sostenesse e potenziasse l’ascolto, si contorce, si chiude, si sclerotizza in posture distorte che sostengono la perdita dell’ascolto. I muscoli diventano marmorei e la realtà psichica si pietrifica su quanto è andato perduto: la reattività diventa turba neurovegetativa, il desiderio di cambiamento diventa angoscia e ansia, le possibilità di fronte al mondo esterno diventano impotenza e depressione. Un blocco di marmo che non riesce più a trovare quello scultore che possa restituirgli un’immagine. Poiché il cammino verso l’umanizzazione è sbarrato, insorge la malattia psichica, ultimo canto del cigno, come lamento estremo per quella prima perla perduta o come castrazione per non riuscire ad esprimere quella nascita in un modo sufficientemente bello.
E così, per una lunga storia di tradimenti, si diventa terribili sicari di una storia terribile. Il sogno dell’aspirante architetto raccontava questa storia di tradimenti, però, questa volta, contrariamente ai sogni ricorrenti di un passato precedente alla nostra relazione terapeutica, lui non si sfracellava; il paracadute salvava lui ed anche il pilota. “Quelle mensole le hanno parlato di un’immunità dal fallimento”, avevo risposto. Immunità intuita nella nostra relazione terapeutica, per la prima volta in un rapporto.
L’angoscia di rimanere per sempre inchiodato tra le braccia dell’altro, nel mondo magico dei sensi appagati, si mescolava con l’angoscia di cadere dalle braccia dell’altro. Di conseguenza la distanza lo faceva precipitare in balìa degli eventi mentre la vicinanza lo faceva sentire inchiodato, prigioniero. Era come avere a che fare, oltre che con la malattia, con una ragazzetta bellissima e selvatica. Da sempre gli avevano detto che era troppo selvatica e che sarebbe stato necessario addestrarla; farla rientrare nei canoni istituzionali di quella Santa Alleanza che benedice la bellezza estetica priva di vita, la bellezza che non suscita il desiderio, che non fa saltare per i campi all’inseguimento dei mille colori in volo verso la vita. E quel ragazzo ne aveva inseguite tante di farfalle, ma erano farfalle che, nella coazione di cercare colui che le uccidesse, tentavano di trasformarlo in un collezionista di morte. Lui, però, aveva continuato a dibattersi tra il bisogno di legare al muro quella bellissima ragazzetta e l’esigenza di sciogliere quei lacci che impedivano un libero movimento in una libera espressione della fantasia.
Questo era uno dei motivi per cui mal sopportava le mie interpretazioni: le sentiva come gli spilloni di una strega che prepara di nascosto i suoi sortilegi. Fata Morgana o Maga Circe, streghe condannate a ricreare continuamente e senza alcuna via di uscita il mondo magico dei sensi appagati, solamente per ingannare ed esercitare il proprio dominio sugli uomini, il proprio odio verso il diverso da sé. Figuriamoci se poteva accettare l’idea che io fossi un pilota diverso, in grado di portarlo a sentire le voci delle stelle per poi ricondurlo salvo, felice e soddisfatto a terra, dopo una notte d’amore. I piloti sono così distanti nel loro sapere...
In ogni caso mi accettava come paracadute che lo avvolgeva e lo sosteneva nel suo planare verso terra. Strano stupore... simile forse a quello dei neonati quando sono cullati dal corpo della madre o dal loro canto. Rinunciai, almeno per un po', alle interpretazioni dirette; alla conoscenza verbalizzata di quel mondo inconscio che lo spaventava, da cui si sentiva giudicato, inchiodato; rinunciai alla conoscenza superba e arrogante che lo angosciava e lo rendeva pesante, incapace di librarsi nei cieli. Come gli aerei... o come le farfalle.
Dovevo trovare dentro di me la resistenza e la leggerezza di quelle sete con cui un tempo si costruivano i paracadute, per essere trascinata dai venti come i semi dei fiori quando partono per fecondare nuove terre. E, come i semi, atterrare dolcemente, seduta dopo seduta, evitando quegli impatti che avrebbero scatenato la sua pulsione di annullamento: la sua morte e quella del pilota. Solo la percezione della morbidezza lo avrebbe riportato nella stanza dove aveva trovato quella libreria la cui immagine lo aveva riempito di angoscia e di stupore. Angoscia e stupore nei miei confronti perché la libreria era nata da una mia idea. Solo quella morbidezza avrebbe alleviato l’urlo per quella ferita insopportabile: libertà propria e dell’altro; per una conoscenza ritenuta impossibile, propria e dell’altro.
Le sue parole, stridule e fitte, come spilli che appuntano e uccidono i pensieri prima ancora di ascoltarne il suono, cominciarono a dilatarsi, a lasciare spazi, pause che permettevano l’ascolto. In una di quelle pause, nel chiaroscuro del suo tormentato mondo di affetti, comparve nel sogno l’immagine di una contadina.
È forte e libera. Facciamo l’amore.
Quel lampo improvviso, cui il ragazzo aveva risposto con l’immediatezza del corpo, fu soffocato da un risveglio implacabile che mi inchiodava nuovamente sul mio trono professionale. Non voleva le mie interpretazioni e si spaventava davanti ad una recettività e ad un movimento che risponde solo con i propri visceri, senza quella ragione che da sempre è strumento di potere e di violenza sugli uomini. Su quel trono avrebbe continuato a confondermi con la sua Fata Morgana.
E così accadeva che per un’immagine di donna che faceva capolino nell’ombra, catapultava in mezzo a noi tutte le madri e le figlie delle madri del mondo esterno. Le metteva lì, in fila, a ribadire che doveva essere un uomo ‘libero’, che proprio non poteva sentirsi legato. Tenni per me questa bugia, come avevo fatto con la sua prima pretesa. Lui continuava a parlare delle sue donne, dei suoi studi e di mille altre cose, guardando la libreria e guardando me. “Si dimentica del rapporto con me” ripetevo, ridendo.
D’altra parte dovevo essere solamente un paracadute che, seduta dopo seduta, doveva cercare di atterrare lontano dagli alberi. Di quel pilota rimaneva il suono della voce e le risate; queste ultime esplosive ed impudenti, forse, a volte, imprudenti. Esse continuavano ad interpretare senza interpretare; unico segnale di una libertà interna che non si arrende di fronte alla violenza di una deformazione di immagine. E lui rispondeva a quella mia presenza lanciandomi occhiate di disappunto e di stupore; sempre, tornava il suo splendido stupore. Io stessa mi chiedevo con stupore in quale mondo mi stesse portando quel puntuto ragazzo che a tratti, ora, mi faceva sentire una morbidezza nuova. Sorridevo per quella mia impotenza che era la sua. Sorridevo per quella rappresentazione a cui il ragazzo mi costringeva per sfidare la mia recettività, rappresentazione in cui cominciava a dilatarsi la sua recettività.
E vennero i fiumi in piena, con le acque piene di fango. Acqua dovunque, acqua che cercava una nuova limpidezza per un’immagine sporcata. Tra le righe dei suoi scritti che oscillavano tra amplessi di fuoco e parole di neve, cominciò a farsi strada quella nuova morbidezza che arrivò al suo corpo, al suo sguardo, al suo sorriso. Quando anche la sua voce cominciò a cullarmi come fossi un neonato tra le braccia della madre, scesi finalmente da quel terribile trono in cui mi aveva relegato: libero movimento in una libera espressione della fantasia. E, seduta per terra, guardai insieme con lui i suoi tappeti di carta in cui si stagliava limpida la sua idea. Nero su bianco: il nero di morte, divenuto memoria inconscia, si muoveva a delineare le figure geometriche sul bianco della sua nascita. La sua tesi di architettura: il suo pensiero su come poteva diventare quella magnifica ragazzetta.
Quella nuova possibilità, immagine ancora indefinita ma reale, non poteva più vivere nella casa di sempre e accadde che il ragazzo, ormai laureatosi in architettura, lasciò la casa del padre; di quel padre che aveva rinunciato ormai da molto tempo a quell’amore irragionevole, limpido e puro, per la ragazzetta. Il pensiero nuovo si confrontò con altre donne che lottavano disperatamente per uscire dalle trappole delle madri, dalle trappole delle streghe. Quelle immagini isolate divennero delle perle che lui riuscì ad unire con il filo della memoria e dell’affetto che in essa è contenuto. Quella collana un giorno l’avrebbe regalata alla sua donna: la materializzazione nel mondo esterno della sua immagine femminile interna. E avrebbe conosciuto l’amore.
In una stazione affollata e piena di treni che passano in continuazione,
due treni si fermano l’uno accanto all’altro, in uno strano silenzio:
loro sono fermi mentre tutto continua a muoversi intorno.
Ho una piacevole sensazione, come se ci fosse una sorta di dilatazione del tempo.
due treni si fermano l’uno accanto all’altro, in uno strano silenzio:
loro sono fermi mentre tutto continua a muoversi intorno.
Ho una piacevole sensazione, come se ci fosse una sorta di dilatazione del tempo.
“Il bacio di Rodin. La dilatazione del tempo degli amanti...”, dissi, e questa volta gli parlai di quei baci e di quelle carezze legati alla sospensione del tempo vissuto dagli amanti quando non si accorgono del mondo intorno a loro. La situazione di rimanere fisicamente sospeso con il paracadute, per planare verso terre sconosciute, si era trasformata in una sospensione temporale: una pausa musicale. La sospensione del tempo era diventata certezza della presenza dell’altro e non più vuoto mortale in cui operavano gli spilloni delle streghe. La stessa certezza che ha il neonato quando cerca quella voce e quel seno che possa placare prima di tutto il suo desiderio di rapporto umano. Trovare la sospensione del tempo voleva dire non sentirsi più solo, caduto dalle braccia dell’altro.
Purtroppo rimaneva spesso ancora legato ai bisogni delle donne e l’idea di doverle soddisfare lo faceva fuggire via pieno di rancore. La terra, allora, sembrava divenire improvvisamente sterile e il suo sguardo stupito si riempiva di odio per quello che di diverso avvertiva dentro di sé. “Non so cosa mi sta succedendo”, diceva. “Si sta chiedendo come ho fatto”, rispondevo. Avevo un segreto che lui non riusciva a fare suo. Sapeva ora riconoscere con certezza gli attacchi del mondo esterno per quella sua nuova bellezza, ma non sapeva come modificare la realtà umana intorno a sé. Cominciava a cogliere in modo sempre più chiaro una differenza che lo faceva impazzire di odio.
E allora, come un moderno Prometeo, provava a prendere dei corpi di donna, uccise e fatte a pezzi dalla cultura dei padri, e tentava di dare vita ad una nuova creatura, con un cervello diverso, con un’altra intelligenza, utilizzando parole di lava come fossero quelle stesse scosse elettriche che in un tempo remoto avevano dato origine a quella prima catena proteica portatrice di una memoria biologica che trasformava la terra stessa. Nascita di quel mondo, che sarebbe poi sfociato nell’Umano, in un giorno che non era ancora giorno e in un tempo che non era ancora divenuto tempo.
Scienziato folle che da solo, con l’ausilio della tecnica, costruisce il mondo senza arrendersi agli eventi naturali ritenuti di origine divina. Per quella tecnica divinizzata che è identificazione mortale per un mancato rifiuto del divino: farsi Dio per non arrendersi ad un dio. Annullamento di sé e dell’altro; annullamento di quel mondo femminile, prima di ogni cosa corporeo, che ha bisogno solo delle scosse dell’orgasmo per lasciare vivere dentro di sé la risposta dell’uomo al rapporto con la donna. Quell’orgasmo che non può essere elettroshock, che non è fulmine lanciato da un dio o scarica elettrica applicata dall’esterno da uno scienziato geniale, ma è onda che viene da dentro, onda che muove e che dilata; onda che volge verso il ventre delle donne, dove si è spostato il mistero della vita, nel corso dei millenni.
Il giovane architetto si disperava di fronte a quei corpi privati delle loro risonanze psichiche e, poiché non sapeva ancora della fertilità delle donne e della loro tenace resistenza a combattere la pulsione di morte, si difendeva nell’idea onnipotente di creare da solo la vita. Scienziato reso pazzo dalla solitudine e dall’angoscia di non essere riuscito a salvare il suo primo oggetto d’amore avvizzito anzitempo nel suo vecchio castello di pietra. Per tanto tempo era stato convinto che nel rapporto terapeutico si sarebbe ripetuta la vecchia storia di una sterilità ritenuta immodificabile e io avrei dovuto creare in perfetta solitudine, con la tecnica psicoterapeutica, una creatura. Una creatura privata della propria nascita e di quel nome che ne sancisce l’avvento: un mostro pieno di rabbia e di odio.
Con queste immagini oniriche portava la rabbia e l’odio allo scoperto. La sua rabbia per quelle donne che avevano perduto la fertilità lasciandolo cadere dalle loro braccia, per andare verso i padri che solidificavano la loro assenza. Quei padri che uccidono le speranze dei figli e i loro ardori, che li divorano, costringendoli a prendere i loro abiti, la loro postura, la loro voce e i loro pensieri senza suono, in un’identificazione senza speranza. Venne l’odio perché scoprì che dietro al fatto che non lo lasciavo cadere, c’era una conoscenza del mondo inconscio che lui non aveva, c’era una recettività che non ritrovava e, soprattutto, c’era il coraggio di volere scrivere proprio con lui, che portava il suo vecchio e sterile mondo, una storia diversa.
Poiché la sua pazzia aveva trovato la via della rappresentazione onirica, essa diventava meno pericolosa, ma lui si spaventava lo stesso e scappava via ogni volta che comparivano i suoi mostri. Per poi ritornare sempre, perché le perle si erano unite a formare una collana che lo teneva senza renderlo prigioniero. Tornava perché aveva la certezza delle donne che non vogliono far cadere i bambini dalle loro braccia, che non vogliono diventare sterili, che non vogliono riscrivere la storia di sempre fatta di uomini che uccidono i bambini e stuprano le donne.
Occorreva un nuovo spazio per un nuovo divenire nel tempo. Così lanciai a quell’architetto novello la sfida di una nuova avventura in un nuovo spazio, pieno di immagini sonore tutte da inventare. Mi aveva detto al nostro primo incontro che per fare una libreria occorreva un architetto, ma io sapevo che per fare un architetto occorre una donna. E così venne finalmente il momento di affrontare quella ragazzetta che voleva diventare donna; quella ragazza fiera del suo rapporto con la realtà materiale, realtà materiale essa stessa, cercava dentro di sé che qualcuno le ricordasse di non essere sterile.
Volevo per il mio nuovo spazio professionale che non era più soltanto uno studio, ma un laboratorio di ricerca delle immagini sonore, una libreria in movimento nello spazio, in movimento verso il mondo. Volevo che il tempo divenisse spazio, come in passato avevo voluto che lo spazio divenisse tempo: lo svezzamento che cerca la via della rappresentazione e della realizzazione creativa.
A quel tempo il giovane architetto si occupava di fare architettura solo nel tempo libero. E gliene rimaneva davvero poco, preso com’era da una nuova attività, peraltro ben retribuita, che lo portava a vedere più le intelaiature politiche che permettono o meno l’esprimersi dell’architettura, piuttosto che a farla. I nostri incontri erano pertanto sempre rubati ai suoi molteplici impegni. Bisognava comprendere: era ancora una ragazza selvatica che non riusciva ad avvicinarsi senza il timore di essere fatta prigioniera. Il timore di essere fecondato lo portò a disegnare nella solitudine di sempre la sua immagine: uscì allo scoperto Fata Morgana. Bella e imponente, una regina opprimente dalle lunghe braccia che si muovevano nel cielo della stanza, oscurandolo.
Mi tornarono alla mente le parole del mio Maestro di un tempo: “...Il volto visto senza immagine interiore propria, fatta per una creatività di visione che non copia il mondo esterno, è figura opprimente che si affaccia sul vuoto...”. Il giovane architetto era riuscito a rappresentare quella Fata Morgana che impediva alla ragazzetta di trovare la sua strada di donna. Dovevo trasformare quella rappresentazione perché lui potesse realizzare la sua immagine interiore, “...perché il volto visto senza immagine interiore propria vuol dire non potere amare; è non poter pensare il tuo volto è la mia immagine interiore...”.
Ora che Fata Morgana era emersa nella sua realtà di rappresentazione, bisognava lasciarla nel suo passato di morte per svelare il cuore pulsante, l’azzurro cuore di oceano della ragazzetta. E furono nuovi incontri e molti suoni e nuove linee. Io parlavo e lui disegnava. Riusciva a rifare il movimento del terapeuta, di quando lui parlava e io interpretavo disegnando i suoi sogni con le frequenze della mia voce. Disegnammo le onde e i venti del mare, e... una vela in cui tenere i libri più belli, su cui scrivere un giorno le mie pagine più sentite. Quella vela, gioco di equilibrio tra i due elementi, fatta per solcare i mari secondo la direzione dei venti o delle correnti, come fanno i delfini quando seguono per gioco le imbarcazioni. Di notte, quando i delfini vanno a dormire, la vela avrebbe avuto la compagnia della luna. Disegnammo tutto questo come fanno i bambini quando giocano con le matite colorate.
A tratti sembrava contrariato per quelle immagini che parevano forse troppo elementari all’architetto che era riuscito a disegnare Fata Morgana; ma la donna selvatica si affacciava nella stanza dei bimbi e strappava l’assenso. Il caldo del sole sulla pelle e il vento tra i capelli era una sensazione troppo bella e troppo intensa. In quei momenti mi tornavano alla mente i suoi capelli costantemente spettinati. Fin dal primo incontro mi avevano lasciato un profumo di selvatico che solo ora riuscivo a visualizzare in un’immagine: un lupo, un animale selvatico che vive da sempre fuori le mura di una città rassicurante dove tutti si promettono reciproca assistenza. Una città murata da una cultura dominante che ha trovato nel freudismo il suo vessillo di disperazione e di impossibilità: addestramento dell’Uomo ad un controllo che lo allontana dalla sua realtà umana. Dominio della ragione su ciò che è ritenuto mostruoso e pericoloso: la realtà inconscia.
Vivere fuori le mura per tentare di salvaguardare quella prima perla, la realtà umana. “Come fanno le contadine”, dissi. Con quella immediatezza viscerale che non è animalità, perché gli animali non hanno fantasia; perché gli animali possono vivere solo soddisfando i propri bisogni, mentre l’uomo può vivere solo seguendo i propri desideri.
Quel lupo parlava di una realtà animalesca, ma esprimeva l’esigenza di non essere addestrato: esigenza tipicamente umana. Esprimeva, però, anche il bisogno di non essere addomesticato. Si presentò improvvisa l’immagine del Piccolo Principe e della sua rosa nell’asteroide B 612, la più importante e la più bella per lui, perché l’aveva innaffiata giorno dopo giorno riparandola dalle intemperie. Ricordavo le sue parole: “...Gli uomini hanno dimenticato questa verità... Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato...”.
Composizione di suoni e di linee. Mentre sorridevo a quel bimbo dai capelli d’oro che non risponde alle domande dell’aviatore precipitato con il suo aereo nel deserto, il giovane architetto mi disse: “Lo sa, hanno trovato i resti dell’aereo guidati da Antoine de Saint-Exupéry. Hanno ritrovato un bracciale su cui era inciso il suo nome”. Era emozionato. Lo sapevo, certo che lo sapevo cosa lui stava ritrovando in quel grande blu profondo e calmo. Il volto si affilò e il movimento morbido divenne più elegante in quella figura divenuta più snella e rapida, capace di orientarsi con un sorriso. C’era quel certo non so cosa che accompagna un’immagine nascente, quel certo non so cosa che hanno le donne in gravidanza, quando il seme fecondato cresciuto dentro il loro ventre le costringe ad una verticalità che le espone al mondo come fossero antenne nell’Universo; un’antenna al servizio di quella vita ai suoi primi passi.
E quando l’architetto riuscì a dare un’immagine alla sua essenza, allora fu la felicità che arrivò inaspettata con tutta la passione e lo stupore che accompagna un atto creativo. La donna rimase colpita da quella contrazione di ventre inaspettata e prepotente e se ne andò per un po' di tempo, serbando, questo io lo sapevo, la memoria di quell’incontro. Aspettai, perché quella ragazzetta, divenuta una donna feconda, non era più solamente un’idea, ma una realtà umana in grado di generare nuove idee, nuove possibilità. Era divenuta memoria indelebile.
Fino all’ultimo i sicari di morte volevano farci credere che questa vittoria sulla pulsione di morte non doveva essere possibile: dipingere di scuro un legno naturalmente chiaro. Far credere che quello che c’è di spontaneo e luminoso, la sanità della nascita, non può esistere, non deve esistere. Legno dipinto di scuro per quella vecchia storia con cui gli uomini giustificano la loro violenza, perché la violenza, dicono, è insita nella natura umana, perché il mostro giace nelle profondità dell’inconscio, pronto sempre ad un nuovo ed orribile risveglio appena viene meno il controllo della ragione. Ideologia del disumano che si pone come vernice scura su un legno naturalmente chiaro che aspetta solo di essere riconosciuto per ciò che è. Tornò per difendere, insieme con me, quel figlio dalla pelle chiara come il sole, tornò per rivendicare quel colore naturale che è il suono di una nascita psichica perché ormai lui sapeva, per averla vissuta sulla sua pelle, di una storia che parlava di una nuova possibilità vissuta e realizzata.
A quel punto l’architetto lasciò il suo comodo lavoro, con tutte le sue noiose intelaiature, per occuparsi solo della sua professione... e della sua arte; lasciò la tela di ragno di quei bisogni materiali che gli altri prendono per esigenza o desiderio. Il nome lo scelse lui: Chiaro di Luna. Immagine di donna che solo in alcuni momenti si fa piena e chiara, per poi ritornare nell’ombra e riemergere nuovamente, come la melodia di una canzone. “Per quel miracolo del rinnovamento che è il non ripetersi del ripetersi”. Forse perché i lupi cantano il loro desiderio più vivo allungandosi languidamente verso quel disco d’argento che da sempre induce il canto dei poeti. Per rubarla alle stelle.
Chiaro di Luna si staglia davanti a noi con la vela che si apre come le ali di una farfalla pronta a spiccare il volo, vela sostenuta da un tuffo nell’aria di un delfino, pronto a diventare luna nascente quando le ali si chiudono; con le sue onde di carta colorata, con il movimento verso quella linea dell’orizzonte che sembra sempre la stessa, ma che in verità cambia continuamente, senza sosta, senza stancarsi mai. Miracolo della fantasia che ci fa giocare con i suoi mille volti. Chiaro di Luna riesce a rompere le distanze e si porta verso di noi con quella intensità assoluta che viene dagli angoli, con le diagonali che tagliano tutte le distanze, infrangendo lo spazio. Come fosse un’opera del Bernini, Chiaro di Luna non si può soltanto contemplare, perché infrange lo spazio personale, perché costringe ad un impegno attivo di rapporto. Costringe alla presenza, come una donna con un’immagine interiore, consapevole della propria identità. Non più statua inerte, ma scultura di visceri e di carni che pretende nel rapporto quel suono e quell’immagine che la modifichi, che la trasformi. Una scultura sonora che, infrangendo lo spazio, si rifiuta di diventare una commemorazione per i soliti ricordi, ma si rende memoria umana che ci parla nel qui ed ora del nostro vivere, del nostro passato e del nostro futuro. E lo scopo di un artista non è forse quello di creare una memoria?
Riflettevo così sul mio fare psicoterapeutico e, più in generale, su quella prassi psicoterapeutica che utilizza la voce e l’immagine come strumenti di cura. Riflettevo su questo agire dei suoni sulla superficie dei corpi e dentro i loro visceri come fossero le mani di uno scultore che ammorbidisce la creta per modellare l’immagine. L'arte di fare psicoterapia è proprio in quel suono che scolpisce e modella l’immagine. La voce che penetra nel corpo dell’altro costringe ad una vibrazione che è tanto più simile all’orgasmo quanto più quella voce racconta di una ricerca della realtà umana; voce che invita e che costringe, voce che porta a ritrovare quella umanità nascosta, a volte perduta.
Il mondo che suona e la nostra capacità di ascolto trasformano il silenzio in una pausa musicale che toglie dall’angoscia di essere muti, di non abitare il proprio corpo. Ed è la percezione del corpo vissuto che permette di utilizzare il linguaggio non più come strumento di comunicazione, ma come forma espressiva dell’umano; immagine interna sonora che si muove nel mondo con quel suono che è insieme colore e movimento. Tanto da potere dire che non ha senso parlare di immagine se non c’è il suono corrispondente a quella frequenza che fa vibrare nel corpo, perché l’assenza di suono è assenza del corpo e, pertanto, assenza di immagine.
Quei suoni che sembrano avere la stessa ‘inconsistenza’ dell’inconscio: entrambi, infatti, non si colgono direttamente con gli occhi fisici, ma la loro esistenza è dimostrata dagli effetti che producono. Solo una sensibilità particolare, una particolare intelligenza può cogliere quell'essenziale che troppo spesso è invisibile agli occhi; sensibilità che poggia le sue basi corporee sulla capacità di ascolto che conduce verso una nuova percezione della realtà, verso quella intelligenza ‘altra’ che non si sclerotizza più nel campo del visibile e dell’oggettivabile. Nelle parole che esprimono un concetto che è fuori dal nostro corpo, come fossero linee nere, vestite a lutto, per una mancanza di colore che uccide chi ascolta o legge. Perché sono i suoni che possono uccidere e non le parole; perché sono i suoni che possono far amare la vita e non le parole; perché sono i suoni a dare un corpo ai nostri pensieri e a trasformare i pensieri in un’idea.
Forse la malattia psichica insorge come impossibilità a dare un suono al nostro mondo interiore, o a dare un suono sufficientemente bello. Un grande blu che suona potrebbe essere mare che si fa cielo quando si ascoltano le onde sonore che lo costituiscono: intelaiatura invisibile in cui si propaga il tam tam degli umani secondo quel ritmo che scandisce le note del tempo. Poiché il suono è tempo che è possibile ascoltare, esso ha in sé qualcosa di tipicamente umano: la relazione con il tempo, appunto. Quella nascita psichica che ha ogni volta la capacità di ritrovare e riscoprire una dimensione più profonda che va oltre la realtà materiale, la nascita fisica, senza tuttavia separarsene mai. In questa sua realtà corporea il suono si separa dal divino che rappresenta l’ideologia di un’eternità trascendente e senza tempo.
Il trascorrere e il pulsare del tempo fa dell’insieme dei suoni musica. Musica dell’uomo nella sua essenza psicocorporea: il suo linguaggio. Se la grammatica esprime l’essenza del linguaggio e la sintassi esprime il senso di un’espressione, è la prassi a dare alle parole il loro suono e quindi il loro significato invisibile: interpretazione di un’immagine interna, interpretazione di un sogno. “Non ha senso interpretare i sogni ben raccontati”, ripensavo alle parole del mio Maestro. Per questo non è più tempo di spiegare. La conoscenza può forse servire a qualcosa se non trova una via di rappresentazione?
Il suono, come il tempo, si muove con le ali di una farfalla, impercettibile fremito visibile solo attraverso i suoi colori e il suo movimento, impercettibile fremito in cui alloggia e si dilata la realtà psichica. Eterna sfida a ritrovare quei suoni che ci hanno cullato in quel primo mare che ci conteneva e che poi, con la nascita, si è trasformato in un’immagine interiore, sonora, in cui l’essenza umana è contenuta. E con questa immagine interiore tutto quello che viene detto dagli altri o letto sui libri, immediatamente, in quel battito d’ali di una farfalla, si fa suono, si fa rappresentazione, si fa sogno. Suono che scolpisce e che rivela. Suono che riconosce.
E ritornavano impetuose le parole cantate dal mio Maestro di un tempo: “...Riconoscere sé stessi nel volto dell’altro, vedere finalmente quanto non è dato di vedere agli occhi fisici; vedere fuori di sé la propria fisionomia interiore, il proprio sogno...”. Quel volto che ora posso riconoscere perché è stato scolpito dai miei suoni, mentre parlavo di tante cose che raccontavano, tutte, della ricerca dell’umano nell’Uomo. Ricerca che racconta di un bambino ritrovato, di una donna ritrovata e di un uomo che, forse, non era mai esistito prima se non in quel mondo di suoni interiori a cui non avevo osato dare ancora una voce.
E mentre i sogni delle donne e dei nuovi uomini continuavano a raccontare questa storia per nutrire quel processo che un tempo avevo chiamato cura collettiva, essa divenne stranamente oggetto del riconoscimento di quello stesso processo e, allo stesso tempo, il copione di quello che doveva ancora essere rappresentato: a volte le storie scrivono il futuro e questa storia la stiamo ancora scrivendo. “Chiaro di Luna” aveva trasformato il gruppo in un organismo pulsante da cui emergevano, come dalla lanterna magica, le immagini inconsce: da quel rinnovato luogo e tempo della cura spuntarono le farfalle che volevano la morte... e Fata Morgana... e il Piccolo Principe... e la ragazzetta... e tante altre immagini ancora. Gioco di rappresentazioni con cui quel giovane uomo nascente si cimentava cogliendo solo di tanto in tanto il senso della posta in gioco: per difendere la sua sanità e la sua creatività, doveva difendere la nostra storia. Doveva difendere “Chiaro di Luna”, che così tante emozioni aveva suscitato e che, con la sua morbida e potente presenza, continuava a raccontare di un processo di cura e di una guarigione possibile.
E si avvicinavano le farfalle che cercavano la morte per riportare la malattia dove non esisteva più... E avanzava Fata Morgana, con le sue richieste “innocenti” per ribadire che quel giovane, con dentro il seme dell’Uomo nuovo, doveva rimanere suo figlio per sempre... Ed esplodevano gli umori, fino a diventare incandescenti, di fronte a quella storia che parlava di una libertà possibile. La barriera di indifferenza era stata intaccata ed ora cominciava lo scontro nei confronti di un’ideologia che utilizza la percezione delirante per ribadire quello che non può essere, quello che non deve essere. Il giovane uomo riuscì a resistere alle farfalle che cercavano la morte, ma vacillò di fronte a Fata Morgana. Nella difficoltà di accettare le cose che si fanno per niente, se ne andò da quello che per lui, ora che aveva recuperato la sua sanità, poteva finalmente diventare il luogo della ricerca artistica; se ne andò per affermare l’autonomia della sua creatività di fronte a quell’immagine sonora che gli aveva regalato la capacità di tenere quella contrazione di ventre inaspettata e prepotente che non poteva più non ascoltare.
Quella contrazione di ventre che fa danzare verso l’altro per una nuova felicità di esistere, con le braccia che si aprono, con i visceri che si dilatano. Non più per bisogno o per dovere.
E, forse, neppure per amore.
PER UNA BIBLIOGRAFIA SONORA...
...ho tenuto presente l’intera opera e la prassi di due grandi medici e ricercatori dei nostri tempi che hanno in comune la passione e il coraggio nel portare avanti le loro scoperte.
Il dott. Massimo Fagioli, con la sua teoria psicoanalitica e la sua prassi poetica, è stato quel Maestro che ha forgiato in me gli strumenti umani e professionali indispensabili per chi voglia affrontare con coerenza la cura delle malattie mentali.
M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza (prima ed. 1972), Nuove Edizioni Romane, Roma 2000.
M. FAGIOLI, La marionetta e il burattino (prima ed. 1974), Nuove Edizioni Romane, Roma 1999.
M. FAGIOLI, Psicoanalisi della nascita e castrazione umana (prima ed. 1975), Nuove Edizioni Romane, Roma 1995.
M. FAGIOLI, Bambino donna e trasformazione dell’uomo (prima ed. 1980), Nuove Edizioni Romane, Roma 2000.
Il dott. Alfred Tomatis, con la sua scoperta sul ruolo dell’orecchio nella realtà psicocorporea dell’uomo, mi ha permesso di aprire un nuovo varco nella mia ricerca di psichiatra e psicoterapeuta.
A. TOMATIS, Educazione e dislessia, Edizioni Omega, Torino 1977.
A. TOMATIS, L’orecchio e la vita, Baldini & Castaldi Ed., Milano 1992.
A. TOMATIS, Dalla comunicazione intrauterina al linguaggio umano, Ibis Edizioni, Como-Pavia 1993.
A. TOMATIS, L’orecchio e la voce, Baldini & Castaldi Ed., Milano 1993.
A. TOMATIS, L’orecchio e il linguaggio, Ibis Edizioni, Como-Pavia 1995.
A. TOMATIS, Perché Mozart?, Ibis Edizioni, Como-Pavia 1996.
A. TOMATIS, La notte uterina, Red Edizioni, Como 1996.
A. TOMATIS, Ascoltare l’Universo, Baldini & Castaldi Ed., Milano 1998.
A. TOMATIS, Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red Edizioni, Como 2001.
In questa bibliografia sonora includo anche i primi tre lavori di Alice Miller, psicoanalista svizzera, per la forza e la limpidezza con cui ha affermato che la pedagogia classica ha avuto influssi nefasti non solo sulla nostra infanzia, ma anche sulla nostra formazione di terapeuti.
A. MILLER, Il dramma del bambino dotato, Bollati Boringhieri Ed., Torino 1979.
A. MILLER, La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri Ed., Torino 1987.
A. MILLER, Il bambino inascoltato, Bollati Boringhieri Ed., Torino 1990.
Tutti questi libri fanno parte di quella che mi piace chiamare bibliografia sonora, perché essi suonano con le parole di un Uomo che ha potuto e voluto realizzare la propria realtà umana.
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Luc Besson.
DA ‘LE GRAND BLEU’ A ‘IL QUINTO ELEMENTO’: EVOLUZIONE DI UNA IMMAGINE INTERNA di Francesca Bernardini e Marco Passeggieri. Anno 2002
DA ‘LE GRAND BLEU’ A ‘IL QUINTO ELEMENTO’:
EVOLUZIONE DI UNA IMMAGINE INTERNA
EVOLUZIONE DI UNA IMMAGINE INTERNA
Francesca Bernardini e Marco Passeggieri
“...Per parlare del nostro presente in forma di passato
preferisco avvalermi del genere fantascientifico...”
(Luc Besson)
preferisco avvalermi del genere fantascientifico...”
(Luc Besson)
Acrobazie di donna di Concetta Turchi
La carta d’identità di Besson ne documenta la nascita a Parigi il 18/3/1959. Eppure Luc Besson ha 17 anni. La nostra convinzione, che a parere dei più potrebbe sembrare delirante, nasce dalla considerazione del percorso intrapreso dal regista con i suoi films, per legare suoni e immagini con la forza e l’intensità tipica di un adolescente che, lasciando da parte ogni elemento razionale, ha il coraggio di immergersi in una prassi viscerale per sperimentare l’unica possibile ricerca sulla creatività umana.
D’altra parte Luc Besson si era allenato fin dall’infanzia a cercare tali collegamenti, favorito in questo dai numerosi viaggi fatti intorno al mondo per seguire i suoi genitori, istruttori di nuoto subacqueo e appassionati di mare. All’età di 10 anni vede un delfino, si getta dalla barca e nuota verso di lui; da quel momento i delfini diventano un’ossessione e comincia a studiarli, sperando di diventare da grande un biologo marino. Besson diventa così abitante di due mondi: quello di sopra e quello di sotto. Sembra che quest’ultimo, il mondo subacqueo, collegato a tutto ciò che non è immediatamente visibile, abbia continuato ad interessarlo nel corso della sua vita umana e professionale. Nel mare raccoglieva le emozioni e sulla terra coltivava quel filone creativo rappresentato dalle sue capacità narrative e di cantastorie: da qui è nata la scelta adolescenziale di diventare un fotografo subacqueo sempre più raffinato, tanto da avvalersi anche dell’uso delle videocamere in movimento. Cominciava a farsi strada prepotentemente quella passione per i films come punto di incontro di tutti i suoi interessi: musica, fotografia e scrittura. Era inevitabile che, ad un certo punto della sua vita, si innamorasse di Jacques Mayol, ricercatore e apneista, profondamente legato, come lui, al mare e ai suoi abitanti.
Età ricca di risonanze inconsce quella dei 17 anni. L’incontro reale con Mayol lo porta a fare le sue prime immersioni in apnea, arrivando a tenere l’aria per quattro minuti e a scendere a quaranta metri di profondità. Un incidente in mare, sempre in questo fatidico anno, lo obbliga a rinunciare alle immersioni e al suo progetto di specializzarsi nello studio dei delfini. “... È stato uno choc terribile, la mia vita si è mutilata, ho lasciato il mio dolce sogno ovattato all’improvviso, come strappato dal sonno risvegliandomi bruscamente ... Di colpo la mia visione del mondo è cambiata, ho aperto gli occhi, ho scoperto che esistevano gli altri ... La realtà mi è apparsa all’improvviso. Prima sentivo solo il vento, il rumore degli alberi, il canto degli uccelli; l’unico problema che mi ponevo era di sapere se, un giorno, si sarebbe potuto parlare con i delfini ... Allora, ho avuto paura, paura di non farcela...”. Tornato a Parigi, comincia a frequentare il mondo del cinema e a 19 anni si trasferisce a Hollywood: le immersioni nel mare reale prendono la strada delle immersioni creative.
Nel momento in cui Luc Besson viene fuori dal mare è lacerato da una doppia catastrofe interiore: da una parte il sogno spezzato di non potere più diventare colui che si aspettava di diventare e dall’altro l’impatto con un mondo reale da cui il mare lo aveva in parte protetto. Tale stato d’animo viene rappresentato artisticamente nel suo film d’esordio Le dernier combat, film muto realizzato in bianco e nero nel 1983, dove “...nella Parigi devastata da una catastrofe nucleare ed in mano a bande di disperati violenti, un uomo si aggira solo, sconfigge un cattivo, non riesce a salvare l’unica donna rimasta e riparte ...”. Fin da questo primo film la violenza rappresentata è carica di una corporeità in continuo e pressante dialogo con la realtà: urlo primordiale di una nascita che pretende la vita. Sarà questa pretesa a dare la direzione di tutta la sua cinematografia futura.
Anche nel film successivo, Subway(1985), il protagonista maschile vaga nei campi d’azione senza una reale direzione: morta la donna del suo primo film, l’uomo diventa “...un ladro che, per salvarsi la vita si rifugia nei sotterranei della metropolitana di Parigi, dove conosce una fauna stravagante...”. Visto che nell’infanzia ha avuto un incidente che gli impedisce di cantare, sogna di vedere qualcuno cantare per lui. Per questo lo scopo della sua vita diventa organizzare un concerto con i suoi nuovi amici. La protagonista femminile, sconvolta dall’uomo, abbandona la sua vita borghese per riprendere la sua adolescenza là dove l'aveva lasciata. Lei tenterà invano di salvarlo dalla morte.
La catastrofe toglie quelle possibilità date dal confronto dialettico con una immagine di donna, anche se l'azione di questi films si svolge nel luogo della sua nascita reale (Parigi) e la ricerca delle immagini sempre più si struttura come ricerca musicale. Non a caso nasce, proprio in questo periodo, il sodalizio artistico e personale con Eric Serra, compositore delle musiche di tutti i suoi films. Il rigore della ricerca creativa reclamava il ritorno a quel “grand bleu” delle origini e del suo punto di svolta, dentro cui aveva lasciato qualcosa: l’amore per il mare e per Jacques Mayol, la sua immagine femminile e, con essa, la capacità di creare davvero nuove storie, a partire dalla sua.
La scia d’acqua del Mare Egeo, scena d'apertura del film Le Grand Bleu (versione integrale in lingua originale), riporta alla intensità familiare e calda di un mare senza confini né strade precostituite, di un filtro di luce che richiama una purezza originaria. Una conoscenza che inizia e termina nel mare, unendosi ad esso e riemergendo per occupare l’aria circostante che diventa il tempo e lo spazio di una nascita appena realizzata.
Su quel mare, il piccolo villaggio di un’isola greca dove dei bambini giocano a fare le loro prime immersioni: Jacques Mayol è abituato a tuffarsi per giocare con i delfini, mentre gli altri bambini, capeggiati da Enzo, fanno a gara per recuperare dal fondo del mare delle monete, da loro stessi lanciate. Prima fondamentale differenza di una interiorità che parla del modo di accostarsi al mare e, più in generale, alle cose del mondo: per Jacques il mare è un contatto profondo e diretto con sé stesso e con quel gioco di luci che lo rende costantemente felice, mentre per Enzo è un mezzo entro il quale cimentarsi e misurare la sua forza con quella degli altri. L’immagine realistica del bambino Jacques Mayol osserva le cose con gli occhi riempiti di quel mare che riporta alle origini del nostro esistere, fondamentale conca ovattata laddove l’esterno è solo luce accecante ed artificiale. Nello sguardo di quel bambino Besson riesce a sintetizzare il punto in cui lo spazio e il tempo, così come la vita e la morte, dapprima fusi, cominciano a differenziarsi. La sensazione di apnea in chi osserva il film, deriva proprio dal vivere quel punto di fusione in cui la differenziazione non è ancora compiuta, esattamente come la luce del sole origina e finisce nel mare pur essendo cosa diversa da esso.
Della storia di Jacques, sappiamo solo che la madre, americana, è tornata negli Stati Uniti. La domanda del bambino (“Perché è andata via?”) rimane avvolta dal silenzio della profondità del mare e lo zio allude a quel misterioso contatto quando parla delle donne, “...imprevedibili, proprio come il mare...”. Il padre di Jacques, che ama le immersioni, muore in una delle prime scene, sotto gli occhi del figlio, per un incidente sott’acqua. Forse mangiava troppo prima di immergersi, e quella volta di troppo si era rivelata fatale. Enzo assiste, dall’alto di una roccia, a quella scena drammatica, di dolore e di morte, che li legherà fino alla fine. “... Nella scena dove si vede il padre affogare, la macchina da presa nell’acqua filma il mondo esterno come un riflesso del mondo acquatico. La superficie dell’acqua vista dall’interno diventa così uno specchio deformante, situato nella testa del personaggio. Si capisce subito che la vera vita per Jacques Mayol è altrove ...”. La scelta di utilizzare il bianco e il nero nel tratto iniziale del film fino alla morte del padre, sembra ricordo antico che non è riuscito ad integrarsi e ad evolversi in una memoria dai colori della vita. E Jacques, divenuto adulto, attraverso le sue immersioni, sembra ricercare proprio quel mondo in bianco e nero fissato ad un dolore che non riesce a superare.
L’incontro tra Jacques ed Enzo, dopo tanti anni, fa parte di una storia che cerca il suo superamento. Entrambi hanno continuato negli anni il loro rapporto con il mare: Enzo ha continuato a fare salvataggi e gare, mentre Jacques, nel continuo avvicinarsi al mondo dei delfini, ha sfidato sempre più i suoi limiti fisiologici durante le immersioni, rallentando il battito cardiaco e concentrando la circolazione sanguigna nel cervello, proprio come accade ai delfini. D’altra parte, come dirà successivamente a Johanna (la protagonista femminile), tra le lacrime, i delfini lo hanno adottato, diventando la sua famiglia: abbandonato dalla madre, lasciato in modo traumatico dal padre, Jacques ritrova nel mare e in quella originale famiglia, la sua stessa ragione di vita.
E proprio mentre si esercita a diventare un delfino, Jacques e Johanna si incontrano, sullo sfondo di un lago peruviano. Lei ha lo sguardo aperto sul mondo, mentre lui guarda le profondità delle acque: questa differenza li manterrà separati dall‘inizio fino alla fine. Sarà Johanna a cercarlo e a stabilire un contatto con Jacques e, sempre lei, lascerà ogni passato dietro le spalle, per tentare di costruire una storia con quest’uomo affascinante e misterioso. E Jacques risponde, anche se il richiamo del mare è talmente forte da non lasciare spazio ad altro sentimento; eppure lui sa di essere innamorato, per quella prima immagine in dormiveglia che ha di sé stesso mentre torna, insolitamente felice, da una immersione verso la luce del sole. Tenta di tuffarsi in questo amore, come per tante volte si era tuffato in mare, ma il canto dei delfini e il loro richiamo ad un gioco infantile e felice, è troppo forte. Jacques è già andato verso di loro, quando raccoglie la sfida di Enzo a chi va più in profondità. È una sfida che culminerà con l’incidente del suo amico il quale in punto di morte gli dice: “...Avevi ragione tu, il mondo lì sotto è più bello. Lasciami andare...”. D‘altra parte le immagini femminili che ruotano intorno ad Enzo sono la madre e le donne che vanno via, proprio come l’immagine di donna del padre di Jacques. E chissà! Forse è per questo che entrambi mangiano tanto anche prima di immergersi in acqua, con l’illusione di colmare quel vuoto profondo lasciato da una donna che se ne va. Senza sapere che le donne vanno via perché gli uomini si assentano.
Di nuovo un mare tanto amato porta via un affetto e a nulla vale che la sua Johanna, contrariamente alle donne dei padri, abbia il mare dentro. Jacques non riesce a separarsi dai ricordi che lo legano ad una realtà immanente; non riesce a dare spazio ad una voce di donna che gli urla: “...Io sono qui ... io sono reale ... aspetto un figlio tuo ... ti amo”. Gli unici acuti che si possono interamente accogliere sono quelli dei delfini, per la loro appartenenza al mare pur essendo dei mammiferi come l’Uomo. Jacques Mayol sceglie di andare a vedere “...cosa c’è sotto...” e non sappiamo esattamente cosa gli succederà. Nella scena finale del film, con l’aiuto di Johanna, va sotto e si stacca dalla fune per inseguire un delfino che è venuto a prenderlo. Chi si tuffa nel mare in fondo non si perde mai del tutto. Sappiamo, invece, che Besson riesce a tuffarsi, con questo film, in un altro mare per costruire quel nesso mancante tra passato e presente, tra il mondo di sopra e quello di sotto. Lo sappiamo fin dall’inizio, quando lo vediamo scegliere di far comparire il colore con l’immagine di Johanna... e già sappiamo che quella donna sarà in grado di riconoscere, di separarsi dalla sua storia precedente e di rischiare di amare.
Johanna si riconosce fin dal primo incontro in quegli occhi di lui che sanno di mare, mentre Jacques sente che solo quando è nel profondo del mare la risonanza tra l’abisso esterno e quello interno è completa. Per raggiungere questa risonanza lui deve materialmente andare giù, non può perdersi negli occhi di una donna o in un suo abbraccio: carenza di affettività, forse, per l’impossibilità di cogliere quella differenza che lo porterebbe a trovare il mare anche là dove non è immediatamente visibile. Vivere la realtà di un affetto e uscire dalla sua rappresentazione materiale... occasione per uscire dalla circolarità depressiva... ma la danza con i delfini, compagni di elemento, sembra fermare l’unico possibile momento di felicità, immobile e senza tempo, in quella tipica povertà di quando la Vita non riesce a prenderti per mano e portarti altrove, come accade in una naturale evoluzione. Jacques Mayol rimane con i suoi delfini, legato per sempre ad un’immagine consolatoria di mare e di donna. E nessun uomo può trovare una realizzazione interiore se rinnega il bambino e la donna. Besson, invece, sta dalla parte della donna e risale dalla profondità del mare grazie a quella immagine femminile, frutto di una resistenza all’impatto con un uomo che non sa vedere nei suoi occhi il mare. La donna-Besson, con nel grembo il figlio nato da questo rapporto, la separazione dal suo vecchio mondo “americano”, la alla fine una nuova nascita, quando riesce a dire a Jacques: “...vai, amore mio, vai a vedere cosa c’è lì sotto...”. E lo lascia andare a fare la sua ricerca, senza chiedere nulla in cambio.
E così il mare rimane costantemente protagonista, anche quando la sua immagine sembra sullo sfondo. I diversi paesi (Perù, Grecia, Italia) in cui il film è ambientato, sono solo ponti di terra, propaggini degli avvenimenti concreti… corpo di violino che racconta, attraverso il vento mosso dalle sue onde, di una universalità liberata da appartenenze parziali legate a questo o a quel paese. Ponti come punti in cui le onde si rompono fragorosamente per far nascere quella dimensione di desiderio, possibile solo attraverso l’incontro con il diverso da sé. Tale centralità, sostenuta e accompagnata dalla musica, riporta probabilmente a quella condizione umana di chi cerca di rimanere avvinghiato a qualcosa che sente scivolare via: il dramma e la bellezza di ogni nascita, la realtà emozionale di ogni separazione e di ogni cambiamento. D’altra parte la musica, in questo come negli altri films di Besson, segue il movimento inconscio dei protagonisti piuttosto che il loro movimento concreto e razionale. La collaborazione con Eric Serra racconta proprio questa ricerca continua di rapporto tra immagini e suoni per arrivare a quella “immagine sonora” che si rivolge senza mediazioni al nostro inconscio. Anche il loro modo di collaborare esprime il senso di questa ricerca: in genere Besson manda degli stralci di film al musicista che comincia la composizione ed è poi la musica che fa da filo conduttore alla evoluzione delle scene successive. In questo modo la musica non solo riesce a risuonare perfettamente con le immagini visive, ma scandisce il ritmo e rafforza l’impatto delle scene chiave.
L’interesse per tutto quello che è “sotto”, che non è immediatamente visibile, dà la possibilità a Luc Besson di entrare nel mondo delle immagini inconsce con la sensibilità incontaminata di Jacques Mayol e da cui emergeranno Nikita, Léon e Mathilda, Leeloo e Korben. Sono immagini pure in continua trasformazione, come è in continua evoluzione Luc Besson, con quella libertà profonda legata all’impossibilità di farsi annullare, di farsi cioè asservire profondamente da una razionalità “normalizzante”.
Ancora una volta le cose che si fanno per niente, senza secondi scopi, è uno dei temi portanti di Nikita. Nikita appare, fin dalle prime immagini, sbandata e selvaggia. Non interessa a Besson la descrizione del suo passato che potrebbe forse raccontarci l’origine di questa violenza; Besson ci lascia liberi di intuire e ricostruire Nikita attraverso le sue reazioni ai personaggi che cominciano a ruotare intorno a lei “nel qui ed ora”.
Il suo “supervisore” (uno dei capi dei servizi segreti) è il primo uomo nella storia che riconosce Nikita dietro la sua incomunicabilità. Il coraggio, la determinazione e l’intelligenza di lei possono essere asservite e diventare strumento di morte col fine di controllare ciò che lui non ha: la potenza della forza vitale. Alla fine dell’addestramento Nikita diventerà una donna seducente, anche se i suoi movimenti e i suoi lunghi silenzi continueranno a raccontare delle sue prime pitture murali e delle sue danze tribali. L’uscita da questa lunga prigionia non è una nascita per Nikita: la nascita, infatti, è un dono che viene dato senza chiedere nulla in cambio. E invece il “supervisore” è uno che fa sempre due richieste in una. “... Sei malato!”, gli urla Nikita come risposta al suo regalo di compleanno: una pistola che dovrà servire immediatamente per “festeggiare” l’iniziazione di lei alla sua nuova identità di killer. Il dono nasconde la trappola dell’utile, la doppia richiesta nasconde sempre la violenza di un rapporto deludente. Nikita supera questa prima prova, ottenendo in cambio una vita normale: una casa, uno stipendio, un’apparente libertà. Solo periodicamente e inaspettatamente riceverà l’ordine di uccidere qualcuno e Mr. Hyde potrà nuovamente uscire a comando, come si addice ai killers di tipo B. A Nikita è stato dato un contenimento e adesso la sua vitalità è pronta ad essere incanalata nell’incontro con un uomo diverso: lui, cassiere di un supermercato, è una persona presente, senza richieste doppie e, soprattutto, è uno che lascia fare. L’amore, però, è pericoloso per chi deve assolvere certi “compiti” e uscirne vivo: nel corso del primo attentato pianificato da sola, accadono degli “inconvenienti” che richiamano nella storia “l’eliminatore” (impersonato da Jean Réno, lo stesso attore che compare ne Le Grand Bleu e in Léon), la fredda macchina di morte che, nella ossessivizzazione del suo compito, salva la vita a Nikita consentendole di sparire da quella storia costruita da altri per lei.
Questa sparizione è per Nikita una nascita reale, perché porterà con sé l’immagine di un uomo che è riuscito ad amarla senza chiederle nulla in cambio, ma, forse, è anche per questo che va via da lui. Anche in questo caso, come ne Le Grand Bleu, non sappiamo cosa succederà di lei, eppure siamo certi che si salverà. La salvezza è da un sistema di uomini che, stando nello stesso tavolino, possono parlare tranquillamente dell’amore per lei, indissolubilmente uniti dalla loro “normalità”, materiale ed affettiva, rassicurante e protettiva. In fondo Nikita era lo strumento di due manipolatori diversi che provavano a programmarla secondo due funzioni divergenti: agente segreto-robot e casalinga standard. Evidentemente Nikita vuole di più.
Forse Nikita torna in quel mare di favola di Atlantis, film-documentario del 1991 sulla misteriosa città di Atlantide, scomparsa e ritornata nel mare. Da questo mondo sommerso emerge questa volta l’impossibilità di diventare pesce ed unirsi alle altre creature del mare: Besson esplicita la sua scelta nel confronto degli umani.
In un percorso a ritroso sugli umani emerge Mathilda, la bambina protagonista di Léon. Anche in questo caso le storie personali vengono narrate attraverso i personaggi nel corso delle loro interazioni. Così veniamo a sapere, attraverso il racconto di Léon a Mathilda, che lui vive in una dimensione monastica da quando, a 19 anni, gli hanno ucciso la ragazza: questo episodio coincide con lo sradicamento dalla sua terra natale e con la richiesta di protezione ad un “supervisore” che, questa volta, è un capomafia. Léon ha passioni infantili: beve continuamente latte (forse per purificarsi dai suoi omicidi a comando), gioca con un maialino di pezza e va matto per i musicals. L’analfabetismo affettivo, legato ad una mancata evoluzione del suo primo rapporto d’amore, viene espresso simbolicamente dalla pianta coltivata con cura, la quale sancisce costantemente il suo stato di sradicamento.
Mathilda è una bambina triste ed infelice, priva anche lei di riferimenti affettivi, ansiosa di crescere e per questo incline ad assumere atteggiamenti adulti, in contrasto con la sua età. Di nuovo c’è un uomo, un killer, che riconosce qualcosa, e questa volta è la bellezza: una bellezza che deve essere salvaguardata a qualsiasi costo, visto che, nella vita precedente, Léon non era riuscito a salvare la sua ragazza dall’odio del padre di lei. La bellezza di Mathilda è assolutamente fuori luogo nello squallore familiare che la circonda; è la libertà intrinseca di questo tipo di immagine di avere in sé una direzione naturale così potente da non lasciare alternative. Mathilda rappresenta la passione di Besson per la vita, una passione consapevole, risultato di un confronto profondo e costante con il brutto ed il violento, per poi riscoprire ogni volta la perentorietà di quella forza originaria. La vita raccontata attraverso questa immagine bella esprime ancora una volta la limpidezza, la pienezza, il coraggio, l’intensità leggera di una presenza che non lascia alternative, dove il brutto sembra quasi un momento di rilassatezza rispetto allo stupore potente che tale bellezza provoca e dove la tenerezza è la poesia di un quadro pennellato da un inconscio particolarmente intenso.
Anche Léon ha una sua bellezza nella presenza corporea, nello sguardo capace di stupirsi e di stupire, nella sua capacità di vedere ed entrare senza distruggere né deformare nulla, nonostante che nella vita egli sia un killer. Buffo paradosso che paradosso non è, nella misura in cui Besson ci vuole raccontare di una differenza fondamentale tra i due tipi di violenza rappresentati nel film: quella di Léon è la conseguenza dei fatti della vita e fa parte di essa come la bellezza di un’immagine che lui sa riconoscere ed amare, mentre l’altra non vede nulla, intrisa com’è di quello squallore che scolorisce le immagini e narcotizza gli affetti. Lo squallore è decisamente più offensivo della violenza perché, eliminando ogni dialettica, toglie la possibilità di combattere: la povertà e la miseria non hanno né vigore, né forza vitale.
L’incontro perentorio tra Léon e Mathilda può avvenire solo tra immagini che appartengono alla vita, indipendentemente dalle loro specifiche realtà. La passione e l’intensità tra Mathilda e Léon si stagliano come figure da uno sfondo dove di nuovo un mare profondo è protagonista nel raccontare di una realtà affettiva e di un desiderio più forte degli schemi normali legati all’età ed alle circostanze. Léon e Mathilda si scambiano continuamente ruoli di adulto e bambino, dando origine ad una reciprocità che risuona come delle onde musicali. Il desiderio di crescere e di prendersi la responsabilità di amare Mathilda porta Léon a parlare con il suo capo mafia di quei soldi, guadagnati col mestiere di killer, che non ha mai usato e che ha sempre lasciato gestire a lui, come il senso e la direzione della sua vita, per quella mancanza di radici che non consente di vedere e costruire oltre l’immediato. Vuole i suoi soldi per il futuro di Mathilda. Si apre lo spazio per un futuro, più precisamente nasce il desiderio di proteggere e far crescere qualcosa di veramente bello, quel desiderio, che è già realtà, di credere in una verità che si ritrova nell’altro. In questo Léon diventa adulto e radicato e, benché si faccia saltare in aria insieme con il poliziotto, lo ritroviamo nell’immagine finale della bambina che scava uno spazio nel prato della scuola per la loro pianta.
“... Lui vive, ma è morto. Lei dovrebbe morire, ma sopravvive. Lei gli porta la vita. Accettandola, accetta la sua morte. Morire per dare la vita...”. La pienezza, la tenerezza e la bellezza sono irrigidite dalla geometria, costrette ad una ripetitività di suoni, di scenari e di storia. Per questo la separazione completa dal brutto e dal violento non è affatto compiuta in Léon.
Soltanto con Il Quinto Elemento le immagini belle (Korben e Leeloo) sono libere dalle interruzioni della violenza da cui sono comunque circondati e con cui condividono in modo ironico un continuo minuetto. Mentre il titolo del film rimanda alla cultura filosofica dell’antica Grecia, dove quattro erano gli elementi costitutivi dell’Universo (acqua, aria, terra e fuoco) e il “quinto elemento” è la vita stessa, la pellicola è ambientata nel ventitreesimo secolo: l’eterno conflitto tra il Bene e il Male si dà appuntamento ogni cinquemila anni. Il Male è rappresentato da un enorme pianeta che distrugge ogni cosa nel suo percorso verso la Terra: palla di fuoco che immobilizza, annulla, abbaglia, incanta fino a divorare. Ciò che rimane del “quinto elemento” dal primo impatto con il nulla, è l’avambraccio destro di un corpo, ma tanto basta per ricostruire l’intero corpo di una ragazzetta bellissima “...assolutamente perfetta...”, anche se meravigliosamente vulnerabile. La bellezza ora è una “perfezione” che nasce dalla resistenza all’impatto con il nulla, capace di mantenere quei colori luminosi di Leeloo, sempre in sintonia con i ritmi veloci delle musiche e delle immagini.
E poi c’è Korben, immagine robusta e iperreale, assolutamente distante dalle immagini maschili dei precedenti films. La scelta di Bruce Willis nei panni di Korben, risponde bene alle esigenze di rappresentare un uomo moderno, assolutamente calato nel presente (e quindi aperto al futuro), senza ombre collegate al passato. Leeloo avrà bisogno della forza e dell’amore di Korben per ritrovare dentro di sè la motivazione a salvare la Vita, dopo avere visto e sentito tutti gli effetti del Male. Un amore che deve rivelarsi attraverso le parole, perché dichiararsi è un po’ come restituire il nome ad una Principessa che sta per essere inghiottita dal Nulla che avanza. La storia, assolutamente semplice, è narrata con un movimento e con una ricchezza di immagini favorite, queste ultime, dall’ambientazione fantascientifica realizzata attraverso le scenografie geniali di Moebius e i costumi esagerati di Jean-Paul Gaultier. L’eterna lotta tra il Male e il Bene, che sembra il contenuto prevalente della storia, è ormai paradossalmente inesistente, come un racconto di ciò che è stato e non è più, come la nostalgia per un passato che avrebbe potuto essere e non è stato. Il Male, persa la corporeità e la realtà dei films precedenti, è diventato memoria di un danno superato e di un pericolo vinto, ed è questo a rendere ridicola la rappresentazione del perfido servo del Male (magnificamente interpretato da Gary Oldmann, il poliziotto corrotto di Léon). Solo il potere divorante e annullante mantiene una sua pericolosità.
Mentre su un piano planetario le forze del Bene e del Male continuano la loro pantomima, ciascuno con i propri eroi, un altro scontro più sottile, ma non per questo meno sostanziale, si consuma nel “Pianeta dei divertimenti”, dove ogni cosa sembra fittizia: lo scontro tra il contenuto, rappresentato dalla magnifica cantante Blu che nasconde nelle sue viscere i quattro elementi, e tutto ciò che è involucro in perenne movimento, rappresentato dal gigionesco DJ, presentatore, amatore bisex, ovviamente opinionista Ruby Rhod. Quest’ultimo, figlio di tutto quello che è post di qualcosa, riesce a dare un senso alla propria vita soltanto copiando, imitando, banalizzando ogni forma di linguaggio. La musica e la voce della cantante riportano, con gli acuti mirabili, al blu profondo del mare e al ricongiungimento con ciò che è, a quel punto in cui la confusione sparisce, come l’aria mossa e mai percepita e i tempi agitati e mai vissuti. E il movimento di Leeloo sembra posseduto e modulato proprio da questo canto, che infonde i quattro elementi della vita, anche se, per salvare il mondo dal Male, occorre la parola dell’Uomo.
Luc Besson non è un autore molto amato dalla critica, che lo ha a più riprese accusato di mettere in scena tonnellate di violenza cinica e gratuita a scopo sostanzialmente commerciale e di attingere spudoratamente da altre opere. Altri critici reputano Besson “...un regista di alto livello, senz’altro astuto, ma di grande capacità. È vero che spesso ci sono elementi copiati da altre opere, ma i personaggi a tutto tondo che ci disegna, l’umorismo che riesce ad inserire, la padronanza della messa in scena, lo rendono un autore a cui riservare la massima attenzione ...”. A noi piace il modo ironico e appassionato insieme che ha Besson di fare citazioni cinematografiche perchè consideriamo queste ultime una espressione della sua passione e della sua capacità di ironizzare. In Léon, ad esempio, la storia prende spunti da Gloria, Arancia Meccanica, Il silenzio degli innocenti, Il bandito delle ore 11, Frank Costello faccia d’angelo. Eppure Besson prende le soluzioni sceniche di questi films per ricombinarle in un modo assolutamente nuovo e originale pur conservando intatta l’immagine originaria, peraltro sempre chiaramente riconoscibile da un appassionato di cinema; anzi, sembra proprio che Besson utilizzi questo sistema per stabilire con lo spettatore un rapporto di complicità, un po’ come tenta di fare Mathilda quando, davanti a Léon, fa le imitazioni di Madonna, Charlot e Gene Kelly, nel tentativo di giocare a farsi riconoscere e di stabilire un terreno comune di passioni.
Le sceneggiature, scritte dallo stesso Besson, sempre molto scarne e semplificate, sono solo il canavaccio per delle rappresentazioni che si rivolgono direttamente ai visceri dei telespettatori e non certo alla loro cerebralità; infatti le storie non vengono mai trattate in modo realistico, attraverso l’utilizzazione di un genere cinematografico definito. Ne Il Quinto Elemento la semplificazione della sceneggiatura “...è bilanciata da dialoghi frizzanti e gradevoli, dal senso perfetto del ritmo, dall’ironia sempre sopra la media e dalla cura dei dettagli davvero eccellente ...”. L’utilizzo della macchina da presa è in funzione di una rappresentazione corporea delle passioni. Egli è costantemente attratto “...dai corpi contundenti e dal loro rapporto con lo sfondo fin dal film d’esordio che si svolgeva sullo sfondo di rovine post-atomiche; dall’onda sorda di ‘Nikita’, sopravvissuta al disastro e diventata un killer, nel nulla invisibile della società di massa, alla coazione a ripetere de ‘Le Grand Bleu’, fatta di uomini in lotta che si stagliavano sull’azzurro intenso delle profondità marine; da ‘Léon’, corrispettivo romantico e franksteiniano di ‘Nikita’ a ‘Il Quinto Elemento’, vero catalogo di fisicità conflittuali in perpetuo nomadismo...”.
“... Molti dei suoi film cominciano con una carrellata in avanti su una superficie liscia, i selci per Nikita, l’acqua per Le Grand Bleu e Léon, come per introdurci nel proprio mondo. I suoi film sono tutti girati con il formato Cinemascope con corte focali, che Besson utilizza come nessun’altro, attribuendole allo stesso tempo un aspetto drammatico ed emotivo importante ... Per quel che riguarda il linguaggio luminoso, i film di Besson funzionano seguendo questo principio: gli universi paralleli alla realtà, questi mondi dove si rifugiano i personaggi, sono illuminati in modo cupo, tormentato ovvero irreale, allorché il mondo violento e cinico, è illuminato in modo iperrealista, sterilizzato...”.
Lo sfondo è sempre un elemento di primo piano che permette una stratificazione anteroposteriore degli eventi su cui se ne sovrappone una seconda, di tipo verticale; come se l’uso della macchina da presa corrispondesse alla rappresentazione di quella New York del futuro, disegnata per Il Quinto Elemento da Moebius (Jean Giraud) come una città multistratificata, dove le parti moderne si sono strutturate e collegate al di sopra della vecchia città, in alcuni punti ancora riconoscibile. Trasportando l’immagine visiva in una espressione musicale, è come ascoltare un’opera sinfonica in cui la complessità degli intrecci non impedisce di seguire gli elementi musicali semplici in quanto più façili da riconoscere. Chi può e vuole, può accedere alla complessità degli eventi musicali e delle immagini e passare da un livello all’altro, costruendo quel movimento esterno ed interno che restituisce il senso della propria storia personale e di relazione con il mondo, come accade a Korben e a Leeloo. Forse un film è veramente “democratico” quando si esprime a più livelli, lasciando all’altro la libertà di avvicinarsi e di cogliere ciò che può e vuole cogliere. Allusione evidente ai molteplici livelli di rappresentazione con cui il nostro inconscio entra in risonanza per sviluppare quella fantasia che parla di un nomadismo delle immagini psichiche, di un passaggio continuo da un livello all’altro, senza perdere il filo di ciò che si cerca o di ciò che si vuole salvare.
E allora la New York del ventitreesimo secolo non è differente, se non nella rappresentazione, allo spessore de Le Grand Bleu dove, si sa, che ad ogni livello di profondità del mare corrisponde una fauna e una flora differenti. Gli umani, contrariamente ai pesci, ai mammiferi del mare e alle piante acquatiche, hanno la libertà di muoversi continuamente da un piano all’altro ed è questo a permettere di raccontare una storia, che sia nuova o trita e ritrita non importa, in un modo sempre nuovo. Per questo troviamo un’assoluta continuità tra Le Grand Bleu e Il Quinto Elemento: la ricerca di una profondità che nel primo è solitaria, nel secondo si è trasformata in un continuo e pressante confronto con l’umano.
In questi livelli lo scontro-incontro con la violenza diventa condizione necessaria per liberare l’Uomo non da un Male che sembra la parodia di sé stesso, ma da una malattia chiamata cultura dell’apparire, dove ciò che è viene completamente soppiantato da ciò che sembra, dove il silenzio e la voce, che contengono gli elementi costitutivi della vita, vengono soppiantati da fastidiosi chiacchericci e da opinioni inutili. Besson con un riso sardonico e spietato ci indica, al di là del Bene e del Male, dove è insinuata la malattia della nostra cultura attuale la quale produce quella preoccupante normalità che nasconde il nulla o, nella migliore delle ipotesi, fabbrica i vari Mr. Hyde, sempre ampiamente coperti dalla indifferente correttezza del Dr. Jekyll. La ricerca è sull’essere umano in quanto tale, perché nessun ruolo è rassicurante: il poliziotto può essere corrotto, il killer può nascondere dei brandelli di umanità, l’affascinante uomo-delfino può nascondere una chiusura al senso profondo del vivere. E i vari “supervisori” dei suoi films servono solo per il mantenimento dello status quo di scissione e/o di dissociazione.
Besson, in questa ricerca sull’umano, sceglie di affidarsi alle donne: ...Johanna ... Nikita ... Mathilda... lunga carrellata di immagini femminili che portano a Leeloo, la ragazzetta da salvare dall’annullamento culturale incombente, la cui perfezione sta nell’equilibrio tra bellezza, potenza e vulnerabilità, quest’ultima indispensabile per non cadere nel narcisismo e nell’onnipotenza. Una semplice ragazzetta e non una superdonna; una semplice ragazzetta che vuole mantenere il rapporto con i vissuti della propria corporeità per decidere se le va di essere baciata o meno, per sentirsi morire di dolore di fronte agli orrori del mondo, ma per ritornare a vivere se un Uomo ha il coraggio di dichiararle il proprio amore, come fa un adolescente quando, con gli occhi bassi e il volto arrossato, prende per mano la sua compagna del cuore. Non a caso tutti i films di Besson sono dedicati a qualcuno. Spesso le trame sono state pensate nell’adolescenza, ma c’è sempre un rapporto reale e concreto nel qui ed ora, che fa scattare il desiderio di una realizzazione, il legame con quelle propaggini di terra. La realizzazione trova il suo significato più profondamente umano nella dedica fatta all’altro, nella dichiarazione d’amore. Forse è per questo che la scelta degli attori è sempre così precisa rispetto all’oggetto della rappresentazione.
Besson, però, se ve ne foste dimenticati, ha 17 anni, e lui può restituire al virile Korben la leggerezza di un sentimento reale di fronte ad una ragazzetta che ha lo sguardo di Johanna, i movimenti selvatici e tribali di Nikita, la pretesa-certezza di trovare qualcuno che l’aiuti di Mathilda. Ed è questa nuova immagine femminile a creare l’uomo nuovo. Un Uomo capace di salvaguardare ed esaltare quello che c’è di più profondo nella donna: il ‘quinto elemento’, quel modo di essere che diventa subito suono e movimento, capace di combattere ogni forma di distruttività per trovare in sé stessa la pretesa di amare e di essere amata.
Donne e uomini, nella passione dei loro sentimenti, si svincolano da ogni forma di asservimento profondo, nella misura in cui riescono a mantenere una forma melodica e armonica in mezzo alla ripetitività noiosa e assordante di una musica becera che non riesce più a trovare nel ritmo frenetico o nell’assenza di esso, un cuore umano pulsante. La pulzella d’Orléans non si separa da questo iter dialettico “...ed entra in scena fin dalla prima inquadratura con il suo carico di ossessioni e di energia visionaria: un carico reso esplosivo dalla compressione della sua sensualità sotto il macigno del misticismo e della sete di vendetta personale. Giovanna D’Arco nasce sotto il segno della demistificazione, donna resa invincibile dall’isteria e dalla cocciutaggine: in una sorta di sguardo all’indietro svela l’illusione di ogni visione mistica e la consegna, finalmente donna ed essere umano, al rogo”. Ancora una volta Besson salva una donna, una ragazzetta, che non è riuscita a salvarsi da sé stessa, rifiutando quella ideologia sulla ineluttabilità dell’autodistruzione quando si seguono sentimenti e passioni giovanili. Continua, la ricerca di Besson, sulle passioni adolescenziali e sulle sue trappole. Trappola è anche il rimanere legati ad una grave ferita, subìta durante l’infanzia o l’adolescenza, che rende solitari e introversi, in perenne fuga in mondi paralleli.
Così le profondità del mare risuonano con quelle dell’aria, la realtà della terra si confonde con la passione di un fuoco che brucia e tutti questi elementi risuonano con l’elemento interno che fa costruire quelle strutture armoniche complesse caratteristiche della musica di Mozart, l’eterno adolescente di una musica eterna. E allora la calma e la voglia di ridere, la vitalità e l’insolenza, la ricchezza di immagini e di invenzioni colorate fanno quell’immagine interiore adolescenziale che permette di continuare a sorridere profondamente alla Vita, nonostante tutto... di mantenere l’ascolto e lo sguardo aperto sul mondo. Il movimento di una ragazza è già suono se c’è un uomo, ricercatore e acrobata, che riesce a riconoscerla e ad ascoltarla, a prendere quella mano sopravvissuta a mille annullamenti che lei gli tende silenziosamente e a costruire per lei un palcoscenico dove possa ritrovare quella voce che gli altri non sanno ascoltare.
Besson è emerso dal mare con l’immagine interna dei suoi 17 anni e, grazie ad essa, ha ritrovato quello slancio vitale che è l’anticamera del desiderio e della passione creativa. Slancio che lo porta a trovare un linguaggio cinematografico complesso, punto di incontro tra la vecchia Europa e il Nuovo Mondo, dove i contenuti narrano la sostanzialità e la storicità “adulta” del vecchio continente, mentre i ritmi e le forme parlano dell’esperienza americana. Propaggini di terra si incontrano sullo sfondo di un filone creativo originario che permette una totale immersione nelle immagini.
Capriole colorate e danzanti che scivolano scorrendo su di uno spazio e un tempo che si fa onda sospinta da ridenti venti musicali, portatori di una certezza di esistere vivi e liberi con la presuntuosa e strafottente felicità di chi volta le spalle alla morte e si inchina alla Vita. Danze di vestiti e visi circensi pronti a rappresentare maschere abituali con movimenti e suoni che attingono al mito, a quei sogni collettivi che diventano storia dell’Uomo.
Certo, i tristi incontri di morte con chi sceglie di non essere ed allunga gambe e braccia solo per far cadere, sono sempre lì... ma dentro c’è Lei che, raccontando sempre “...di quell’orgasmo che narra di ciò che è stato, di ciò che è, di ciò che potrà essere...”, prende quella mano per portarti altrove, dentro quel vento che è storia dell’Uomo, per diventare finalmente parte di essa, con quel ritrovato coraggio e la calda presunzione di stagliare l’umano come figura da uno sfondo.
E allora il racconto diventa una canzone.
Una canzone da cui partire per realizzare quel “sogno lungo vent’anni” che porta da My Lady blue al canto della donna blu de Il Quinto Elemento. Un canto di donna che comincia con l’aria della follia (Spargi d’amaro pianto) dalla Lucia di Lammermoor, per poi andare altrove.
Il dolce suono mi colpì di sua voce! ...
Ah, quella voce m’è qui nel cor discesa! ...
Edgardo! lo ti son resa; Edgardo! Ah! Edgardo mio!
Si, ti son resa!
Fuggita io son dai tuoi nemici…
Un gelo mi serpeggia nel sen!...
Presso la fonte mecco fassidi alquanto (pausa)
E si interrompe il canto delle parole della donna blu, andando a sancire una separazione da Lucia che corre verso la sua follia e verso coloro che la vogliono folle. Le parole possono, a volte, confondere, quando non si coglie il senso del suono che le sostiene. La donna blu continua per una strada nuova, senza parole, scandita da un ritmo rock che impone il movimento del corpo su cui si agitano gli acuti certi e incandescenti. No, sembra affermare con sicurezza la donna blu, la storia delle donne può finire in un altro modo. Se soltanto si riesce a riprendere l’amore di una ragazzetta e restituirla alla propria immagine maschile (“... Io ti son resa...”, canta Lucia in quella intuizione che per lei è il preludio di un delirio)... se soltanto un Uomo riesce a trovare nelle parole il senso di un suono nuovo... allora le donne che amano non rischieranno più di impazzire o, peggio ancora, di sedere indifferenti accanto a uomini incoronati.
La fune tesa per scendere negli abissi si è trasformata in un arco variopinto su cui un acrobata può danzare lasciandosi toccare, con le mani e le gambe distese, dal mare, dal cielo, dalla terra e dal fuoco, elementi contenuti tutti in quei colori.
Dalla sincronia del gioco acrobatico nasce quel quinto elemento capace di trasformare l’arco in un ‘archetto’ che si muove, recettivo e appassionato, sulle corde protese del corpo di violino per pizzicare l’aria che risuonerà tra i venti per diffondere quel canto senza parole verso chiunque abbia la capacità e il desiderio di ascoltare. Un canto fatto di suono e ritmo, per raccontare di una immagine inconscia silenziosa sempre pronta a lasciarsi svelare da un manto di stelle.
D’altra parte Luc Besson si era allenato fin dall’infanzia a cercare tali collegamenti, favorito in questo dai numerosi viaggi fatti intorno al mondo per seguire i suoi genitori, istruttori di nuoto subacqueo e appassionati di mare. All’età di 10 anni vede un delfino, si getta dalla barca e nuota verso di lui; da quel momento i delfini diventano un’ossessione e comincia a studiarli, sperando di diventare da grande un biologo marino. Besson diventa così abitante di due mondi: quello di sopra e quello di sotto. Sembra che quest’ultimo, il mondo subacqueo, collegato a tutto ciò che non è immediatamente visibile, abbia continuato ad interessarlo nel corso della sua vita umana e professionale. Nel mare raccoglieva le emozioni e sulla terra coltivava quel filone creativo rappresentato dalle sue capacità narrative e di cantastorie: da qui è nata la scelta adolescenziale di diventare un fotografo subacqueo sempre più raffinato, tanto da avvalersi anche dell’uso delle videocamere in movimento. Cominciava a farsi strada prepotentemente quella passione per i films come punto di incontro di tutti i suoi interessi: musica, fotografia e scrittura. Era inevitabile che, ad un certo punto della sua vita, si innamorasse di Jacques Mayol, ricercatore e apneista, profondamente legato, come lui, al mare e ai suoi abitanti.
Età ricca di risonanze inconsce quella dei 17 anni. L’incontro reale con Mayol lo porta a fare le sue prime immersioni in apnea, arrivando a tenere l’aria per quattro minuti e a scendere a quaranta metri di profondità. Un incidente in mare, sempre in questo fatidico anno, lo obbliga a rinunciare alle immersioni e al suo progetto di specializzarsi nello studio dei delfini. “... È stato uno choc terribile, la mia vita si è mutilata, ho lasciato il mio dolce sogno ovattato all’improvviso, come strappato dal sonno risvegliandomi bruscamente ... Di colpo la mia visione del mondo è cambiata, ho aperto gli occhi, ho scoperto che esistevano gli altri ... La realtà mi è apparsa all’improvviso. Prima sentivo solo il vento, il rumore degli alberi, il canto degli uccelli; l’unico problema che mi ponevo era di sapere se, un giorno, si sarebbe potuto parlare con i delfini ... Allora, ho avuto paura, paura di non farcela...”. Tornato a Parigi, comincia a frequentare il mondo del cinema e a 19 anni si trasferisce a Hollywood: le immersioni nel mare reale prendono la strada delle immersioni creative.
Nel momento in cui Luc Besson viene fuori dal mare è lacerato da una doppia catastrofe interiore: da una parte il sogno spezzato di non potere più diventare colui che si aspettava di diventare e dall’altro l’impatto con un mondo reale da cui il mare lo aveva in parte protetto. Tale stato d’animo viene rappresentato artisticamente nel suo film d’esordio Le dernier combat, film muto realizzato in bianco e nero nel 1983, dove “...nella Parigi devastata da una catastrofe nucleare ed in mano a bande di disperati violenti, un uomo si aggira solo, sconfigge un cattivo, non riesce a salvare l’unica donna rimasta e riparte ...”. Fin da questo primo film la violenza rappresentata è carica di una corporeità in continuo e pressante dialogo con la realtà: urlo primordiale di una nascita che pretende la vita. Sarà questa pretesa a dare la direzione di tutta la sua cinematografia futura.
Anche nel film successivo, Subway(1985), il protagonista maschile vaga nei campi d’azione senza una reale direzione: morta la donna del suo primo film, l’uomo diventa “...un ladro che, per salvarsi la vita si rifugia nei sotterranei della metropolitana di Parigi, dove conosce una fauna stravagante...”. Visto che nell’infanzia ha avuto un incidente che gli impedisce di cantare, sogna di vedere qualcuno cantare per lui. Per questo lo scopo della sua vita diventa organizzare un concerto con i suoi nuovi amici. La protagonista femminile, sconvolta dall’uomo, abbandona la sua vita borghese per riprendere la sua adolescenza là dove l'aveva lasciata. Lei tenterà invano di salvarlo dalla morte.
La catastrofe toglie quelle possibilità date dal confronto dialettico con una immagine di donna, anche se l'azione di questi films si svolge nel luogo della sua nascita reale (Parigi) e la ricerca delle immagini sempre più si struttura come ricerca musicale. Non a caso nasce, proprio in questo periodo, il sodalizio artistico e personale con Eric Serra, compositore delle musiche di tutti i suoi films. Il rigore della ricerca creativa reclamava il ritorno a quel “grand bleu” delle origini e del suo punto di svolta, dentro cui aveva lasciato qualcosa: l’amore per il mare e per Jacques Mayol, la sua immagine femminile e, con essa, la capacità di creare davvero nuove storie, a partire dalla sua.
La scia d’acqua del Mare Egeo, scena d'apertura del film Le Grand Bleu (versione integrale in lingua originale), riporta alla intensità familiare e calda di un mare senza confini né strade precostituite, di un filtro di luce che richiama una purezza originaria. Una conoscenza che inizia e termina nel mare, unendosi ad esso e riemergendo per occupare l’aria circostante che diventa il tempo e lo spazio di una nascita appena realizzata.
Su quel mare, il piccolo villaggio di un’isola greca dove dei bambini giocano a fare le loro prime immersioni: Jacques Mayol è abituato a tuffarsi per giocare con i delfini, mentre gli altri bambini, capeggiati da Enzo, fanno a gara per recuperare dal fondo del mare delle monete, da loro stessi lanciate. Prima fondamentale differenza di una interiorità che parla del modo di accostarsi al mare e, più in generale, alle cose del mondo: per Jacques il mare è un contatto profondo e diretto con sé stesso e con quel gioco di luci che lo rende costantemente felice, mentre per Enzo è un mezzo entro il quale cimentarsi e misurare la sua forza con quella degli altri. L’immagine realistica del bambino Jacques Mayol osserva le cose con gli occhi riempiti di quel mare che riporta alle origini del nostro esistere, fondamentale conca ovattata laddove l’esterno è solo luce accecante ed artificiale. Nello sguardo di quel bambino Besson riesce a sintetizzare il punto in cui lo spazio e il tempo, così come la vita e la morte, dapprima fusi, cominciano a differenziarsi. La sensazione di apnea in chi osserva il film, deriva proprio dal vivere quel punto di fusione in cui la differenziazione non è ancora compiuta, esattamente come la luce del sole origina e finisce nel mare pur essendo cosa diversa da esso.
Della storia di Jacques, sappiamo solo che la madre, americana, è tornata negli Stati Uniti. La domanda del bambino (“Perché è andata via?”) rimane avvolta dal silenzio della profondità del mare e lo zio allude a quel misterioso contatto quando parla delle donne, “...imprevedibili, proprio come il mare...”. Il padre di Jacques, che ama le immersioni, muore in una delle prime scene, sotto gli occhi del figlio, per un incidente sott’acqua. Forse mangiava troppo prima di immergersi, e quella volta di troppo si era rivelata fatale. Enzo assiste, dall’alto di una roccia, a quella scena drammatica, di dolore e di morte, che li legherà fino alla fine. “... Nella scena dove si vede il padre affogare, la macchina da presa nell’acqua filma il mondo esterno come un riflesso del mondo acquatico. La superficie dell’acqua vista dall’interno diventa così uno specchio deformante, situato nella testa del personaggio. Si capisce subito che la vera vita per Jacques Mayol è altrove ...”. La scelta di utilizzare il bianco e il nero nel tratto iniziale del film fino alla morte del padre, sembra ricordo antico che non è riuscito ad integrarsi e ad evolversi in una memoria dai colori della vita. E Jacques, divenuto adulto, attraverso le sue immersioni, sembra ricercare proprio quel mondo in bianco e nero fissato ad un dolore che non riesce a superare.
L’incontro tra Jacques ed Enzo, dopo tanti anni, fa parte di una storia che cerca il suo superamento. Entrambi hanno continuato negli anni il loro rapporto con il mare: Enzo ha continuato a fare salvataggi e gare, mentre Jacques, nel continuo avvicinarsi al mondo dei delfini, ha sfidato sempre più i suoi limiti fisiologici durante le immersioni, rallentando il battito cardiaco e concentrando la circolazione sanguigna nel cervello, proprio come accade ai delfini. D’altra parte, come dirà successivamente a Johanna (la protagonista femminile), tra le lacrime, i delfini lo hanno adottato, diventando la sua famiglia: abbandonato dalla madre, lasciato in modo traumatico dal padre, Jacques ritrova nel mare e in quella originale famiglia, la sua stessa ragione di vita.
E proprio mentre si esercita a diventare un delfino, Jacques e Johanna si incontrano, sullo sfondo di un lago peruviano. Lei ha lo sguardo aperto sul mondo, mentre lui guarda le profondità delle acque: questa differenza li manterrà separati dall‘inizio fino alla fine. Sarà Johanna a cercarlo e a stabilire un contatto con Jacques e, sempre lei, lascerà ogni passato dietro le spalle, per tentare di costruire una storia con quest’uomo affascinante e misterioso. E Jacques risponde, anche se il richiamo del mare è talmente forte da non lasciare spazio ad altro sentimento; eppure lui sa di essere innamorato, per quella prima immagine in dormiveglia che ha di sé stesso mentre torna, insolitamente felice, da una immersione verso la luce del sole. Tenta di tuffarsi in questo amore, come per tante volte si era tuffato in mare, ma il canto dei delfini e il loro richiamo ad un gioco infantile e felice, è troppo forte. Jacques è già andato verso di loro, quando raccoglie la sfida di Enzo a chi va più in profondità. È una sfida che culminerà con l’incidente del suo amico il quale in punto di morte gli dice: “...Avevi ragione tu, il mondo lì sotto è più bello. Lasciami andare...”. D‘altra parte le immagini femminili che ruotano intorno ad Enzo sono la madre e le donne che vanno via, proprio come l’immagine di donna del padre di Jacques. E chissà! Forse è per questo che entrambi mangiano tanto anche prima di immergersi in acqua, con l’illusione di colmare quel vuoto profondo lasciato da una donna che se ne va. Senza sapere che le donne vanno via perché gli uomini si assentano.
Di nuovo un mare tanto amato porta via un affetto e a nulla vale che la sua Johanna, contrariamente alle donne dei padri, abbia il mare dentro. Jacques non riesce a separarsi dai ricordi che lo legano ad una realtà immanente; non riesce a dare spazio ad una voce di donna che gli urla: “...Io sono qui ... io sono reale ... aspetto un figlio tuo ... ti amo”. Gli unici acuti che si possono interamente accogliere sono quelli dei delfini, per la loro appartenenza al mare pur essendo dei mammiferi come l’Uomo. Jacques Mayol sceglie di andare a vedere “...cosa c’è sotto...” e non sappiamo esattamente cosa gli succederà. Nella scena finale del film, con l’aiuto di Johanna, va sotto e si stacca dalla fune per inseguire un delfino che è venuto a prenderlo. Chi si tuffa nel mare in fondo non si perde mai del tutto. Sappiamo, invece, che Besson riesce a tuffarsi, con questo film, in un altro mare per costruire quel nesso mancante tra passato e presente, tra il mondo di sopra e quello di sotto. Lo sappiamo fin dall’inizio, quando lo vediamo scegliere di far comparire il colore con l’immagine di Johanna... e già sappiamo che quella donna sarà in grado di riconoscere, di separarsi dalla sua storia precedente e di rischiare di amare.
Johanna si riconosce fin dal primo incontro in quegli occhi di lui che sanno di mare, mentre Jacques sente che solo quando è nel profondo del mare la risonanza tra l’abisso esterno e quello interno è completa. Per raggiungere questa risonanza lui deve materialmente andare giù, non può perdersi negli occhi di una donna o in un suo abbraccio: carenza di affettività, forse, per l’impossibilità di cogliere quella differenza che lo porterebbe a trovare il mare anche là dove non è immediatamente visibile. Vivere la realtà di un affetto e uscire dalla sua rappresentazione materiale... occasione per uscire dalla circolarità depressiva... ma la danza con i delfini, compagni di elemento, sembra fermare l’unico possibile momento di felicità, immobile e senza tempo, in quella tipica povertà di quando la Vita non riesce a prenderti per mano e portarti altrove, come accade in una naturale evoluzione. Jacques Mayol rimane con i suoi delfini, legato per sempre ad un’immagine consolatoria di mare e di donna. E nessun uomo può trovare una realizzazione interiore se rinnega il bambino e la donna. Besson, invece, sta dalla parte della donna e risale dalla profondità del mare grazie a quella immagine femminile, frutto di una resistenza all’impatto con un uomo che non sa vedere nei suoi occhi il mare. La donna-Besson, con nel grembo il figlio nato da questo rapporto, la separazione dal suo vecchio mondo “americano”, la alla fine una nuova nascita, quando riesce a dire a Jacques: “...vai, amore mio, vai a vedere cosa c’è lì sotto...”. E lo lascia andare a fare la sua ricerca, senza chiedere nulla in cambio.
E così il mare rimane costantemente protagonista, anche quando la sua immagine sembra sullo sfondo. I diversi paesi (Perù, Grecia, Italia) in cui il film è ambientato, sono solo ponti di terra, propaggini degli avvenimenti concreti… corpo di violino che racconta, attraverso il vento mosso dalle sue onde, di una universalità liberata da appartenenze parziali legate a questo o a quel paese. Ponti come punti in cui le onde si rompono fragorosamente per far nascere quella dimensione di desiderio, possibile solo attraverso l’incontro con il diverso da sé. Tale centralità, sostenuta e accompagnata dalla musica, riporta probabilmente a quella condizione umana di chi cerca di rimanere avvinghiato a qualcosa che sente scivolare via: il dramma e la bellezza di ogni nascita, la realtà emozionale di ogni separazione e di ogni cambiamento. D’altra parte la musica, in questo come negli altri films di Besson, segue il movimento inconscio dei protagonisti piuttosto che il loro movimento concreto e razionale. La collaborazione con Eric Serra racconta proprio questa ricerca continua di rapporto tra immagini e suoni per arrivare a quella “immagine sonora” che si rivolge senza mediazioni al nostro inconscio. Anche il loro modo di collaborare esprime il senso di questa ricerca: in genere Besson manda degli stralci di film al musicista che comincia la composizione ed è poi la musica che fa da filo conduttore alla evoluzione delle scene successive. In questo modo la musica non solo riesce a risuonare perfettamente con le immagini visive, ma scandisce il ritmo e rafforza l’impatto delle scene chiave.
L’interesse per tutto quello che è “sotto”, che non è immediatamente visibile, dà la possibilità a Luc Besson di entrare nel mondo delle immagini inconsce con la sensibilità incontaminata di Jacques Mayol e da cui emergeranno Nikita, Léon e Mathilda, Leeloo e Korben. Sono immagini pure in continua trasformazione, come è in continua evoluzione Luc Besson, con quella libertà profonda legata all’impossibilità di farsi annullare, di farsi cioè asservire profondamente da una razionalità “normalizzante”.
Ancora una volta le cose che si fanno per niente, senza secondi scopi, è uno dei temi portanti di Nikita. Nikita appare, fin dalle prime immagini, sbandata e selvaggia. Non interessa a Besson la descrizione del suo passato che potrebbe forse raccontarci l’origine di questa violenza; Besson ci lascia liberi di intuire e ricostruire Nikita attraverso le sue reazioni ai personaggi che cominciano a ruotare intorno a lei “nel qui ed ora”.
Il suo “supervisore” (uno dei capi dei servizi segreti) è il primo uomo nella storia che riconosce Nikita dietro la sua incomunicabilità. Il coraggio, la determinazione e l’intelligenza di lei possono essere asservite e diventare strumento di morte col fine di controllare ciò che lui non ha: la potenza della forza vitale. Alla fine dell’addestramento Nikita diventerà una donna seducente, anche se i suoi movimenti e i suoi lunghi silenzi continueranno a raccontare delle sue prime pitture murali e delle sue danze tribali. L’uscita da questa lunga prigionia non è una nascita per Nikita: la nascita, infatti, è un dono che viene dato senza chiedere nulla in cambio. E invece il “supervisore” è uno che fa sempre due richieste in una. “... Sei malato!”, gli urla Nikita come risposta al suo regalo di compleanno: una pistola che dovrà servire immediatamente per “festeggiare” l’iniziazione di lei alla sua nuova identità di killer. Il dono nasconde la trappola dell’utile, la doppia richiesta nasconde sempre la violenza di un rapporto deludente. Nikita supera questa prima prova, ottenendo in cambio una vita normale: una casa, uno stipendio, un’apparente libertà. Solo periodicamente e inaspettatamente riceverà l’ordine di uccidere qualcuno e Mr. Hyde potrà nuovamente uscire a comando, come si addice ai killers di tipo B. A Nikita è stato dato un contenimento e adesso la sua vitalità è pronta ad essere incanalata nell’incontro con un uomo diverso: lui, cassiere di un supermercato, è una persona presente, senza richieste doppie e, soprattutto, è uno che lascia fare. L’amore, però, è pericoloso per chi deve assolvere certi “compiti” e uscirne vivo: nel corso del primo attentato pianificato da sola, accadono degli “inconvenienti” che richiamano nella storia “l’eliminatore” (impersonato da Jean Réno, lo stesso attore che compare ne Le Grand Bleu e in Léon), la fredda macchina di morte che, nella ossessivizzazione del suo compito, salva la vita a Nikita consentendole di sparire da quella storia costruita da altri per lei.
Questa sparizione è per Nikita una nascita reale, perché porterà con sé l’immagine di un uomo che è riuscito ad amarla senza chiederle nulla in cambio, ma, forse, è anche per questo che va via da lui. Anche in questo caso, come ne Le Grand Bleu, non sappiamo cosa succederà di lei, eppure siamo certi che si salverà. La salvezza è da un sistema di uomini che, stando nello stesso tavolino, possono parlare tranquillamente dell’amore per lei, indissolubilmente uniti dalla loro “normalità”, materiale ed affettiva, rassicurante e protettiva. In fondo Nikita era lo strumento di due manipolatori diversi che provavano a programmarla secondo due funzioni divergenti: agente segreto-robot e casalinga standard. Evidentemente Nikita vuole di più.
Forse Nikita torna in quel mare di favola di Atlantis, film-documentario del 1991 sulla misteriosa città di Atlantide, scomparsa e ritornata nel mare. Da questo mondo sommerso emerge questa volta l’impossibilità di diventare pesce ed unirsi alle altre creature del mare: Besson esplicita la sua scelta nel confronto degli umani.
In un percorso a ritroso sugli umani emerge Mathilda, la bambina protagonista di Léon. Anche in questo caso le storie personali vengono narrate attraverso i personaggi nel corso delle loro interazioni. Così veniamo a sapere, attraverso il racconto di Léon a Mathilda, che lui vive in una dimensione monastica da quando, a 19 anni, gli hanno ucciso la ragazza: questo episodio coincide con lo sradicamento dalla sua terra natale e con la richiesta di protezione ad un “supervisore” che, questa volta, è un capomafia. Léon ha passioni infantili: beve continuamente latte (forse per purificarsi dai suoi omicidi a comando), gioca con un maialino di pezza e va matto per i musicals. L’analfabetismo affettivo, legato ad una mancata evoluzione del suo primo rapporto d’amore, viene espresso simbolicamente dalla pianta coltivata con cura, la quale sancisce costantemente il suo stato di sradicamento.
Mathilda è una bambina triste ed infelice, priva anche lei di riferimenti affettivi, ansiosa di crescere e per questo incline ad assumere atteggiamenti adulti, in contrasto con la sua età. Di nuovo c’è un uomo, un killer, che riconosce qualcosa, e questa volta è la bellezza: una bellezza che deve essere salvaguardata a qualsiasi costo, visto che, nella vita precedente, Léon non era riuscito a salvare la sua ragazza dall’odio del padre di lei. La bellezza di Mathilda è assolutamente fuori luogo nello squallore familiare che la circonda; è la libertà intrinseca di questo tipo di immagine di avere in sé una direzione naturale così potente da non lasciare alternative. Mathilda rappresenta la passione di Besson per la vita, una passione consapevole, risultato di un confronto profondo e costante con il brutto ed il violento, per poi riscoprire ogni volta la perentorietà di quella forza originaria. La vita raccontata attraverso questa immagine bella esprime ancora una volta la limpidezza, la pienezza, il coraggio, l’intensità leggera di una presenza che non lascia alternative, dove il brutto sembra quasi un momento di rilassatezza rispetto allo stupore potente che tale bellezza provoca e dove la tenerezza è la poesia di un quadro pennellato da un inconscio particolarmente intenso.
Anche Léon ha una sua bellezza nella presenza corporea, nello sguardo capace di stupirsi e di stupire, nella sua capacità di vedere ed entrare senza distruggere né deformare nulla, nonostante che nella vita egli sia un killer. Buffo paradosso che paradosso non è, nella misura in cui Besson ci vuole raccontare di una differenza fondamentale tra i due tipi di violenza rappresentati nel film: quella di Léon è la conseguenza dei fatti della vita e fa parte di essa come la bellezza di un’immagine che lui sa riconoscere ed amare, mentre l’altra non vede nulla, intrisa com’è di quello squallore che scolorisce le immagini e narcotizza gli affetti. Lo squallore è decisamente più offensivo della violenza perché, eliminando ogni dialettica, toglie la possibilità di combattere: la povertà e la miseria non hanno né vigore, né forza vitale.
L’incontro perentorio tra Léon e Mathilda può avvenire solo tra immagini che appartengono alla vita, indipendentemente dalle loro specifiche realtà. La passione e l’intensità tra Mathilda e Léon si stagliano come figure da uno sfondo dove di nuovo un mare profondo è protagonista nel raccontare di una realtà affettiva e di un desiderio più forte degli schemi normali legati all’età ed alle circostanze. Léon e Mathilda si scambiano continuamente ruoli di adulto e bambino, dando origine ad una reciprocità che risuona come delle onde musicali. Il desiderio di crescere e di prendersi la responsabilità di amare Mathilda porta Léon a parlare con il suo capo mafia di quei soldi, guadagnati col mestiere di killer, che non ha mai usato e che ha sempre lasciato gestire a lui, come il senso e la direzione della sua vita, per quella mancanza di radici che non consente di vedere e costruire oltre l’immediato. Vuole i suoi soldi per il futuro di Mathilda. Si apre lo spazio per un futuro, più precisamente nasce il desiderio di proteggere e far crescere qualcosa di veramente bello, quel desiderio, che è già realtà, di credere in una verità che si ritrova nell’altro. In questo Léon diventa adulto e radicato e, benché si faccia saltare in aria insieme con il poliziotto, lo ritroviamo nell’immagine finale della bambina che scava uno spazio nel prato della scuola per la loro pianta.
“... Lui vive, ma è morto. Lei dovrebbe morire, ma sopravvive. Lei gli porta la vita. Accettandola, accetta la sua morte. Morire per dare la vita...”. La pienezza, la tenerezza e la bellezza sono irrigidite dalla geometria, costrette ad una ripetitività di suoni, di scenari e di storia. Per questo la separazione completa dal brutto e dal violento non è affatto compiuta in Léon.
Soltanto con Il Quinto Elemento le immagini belle (Korben e Leeloo) sono libere dalle interruzioni della violenza da cui sono comunque circondati e con cui condividono in modo ironico un continuo minuetto. Mentre il titolo del film rimanda alla cultura filosofica dell’antica Grecia, dove quattro erano gli elementi costitutivi dell’Universo (acqua, aria, terra e fuoco) e il “quinto elemento” è la vita stessa, la pellicola è ambientata nel ventitreesimo secolo: l’eterno conflitto tra il Bene e il Male si dà appuntamento ogni cinquemila anni. Il Male è rappresentato da un enorme pianeta che distrugge ogni cosa nel suo percorso verso la Terra: palla di fuoco che immobilizza, annulla, abbaglia, incanta fino a divorare. Ciò che rimane del “quinto elemento” dal primo impatto con il nulla, è l’avambraccio destro di un corpo, ma tanto basta per ricostruire l’intero corpo di una ragazzetta bellissima “...assolutamente perfetta...”, anche se meravigliosamente vulnerabile. La bellezza ora è una “perfezione” che nasce dalla resistenza all’impatto con il nulla, capace di mantenere quei colori luminosi di Leeloo, sempre in sintonia con i ritmi veloci delle musiche e delle immagini.
E poi c’è Korben, immagine robusta e iperreale, assolutamente distante dalle immagini maschili dei precedenti films. La scelta di Bruce Willis nei panni di Korben, risponde bene alle esigenze di rappresentare un uomo moderno, assolutamente calato nel presente (e quindi aperto al futuro), senza ombre collegate al passato. Leeloo avrà bisogno della forza e dell’amore di Korben per ritrovare dentro di sè la motivazione a salvare la Vita, dopo avere visto e sentito tutti gli effetti del Male. Un amore che deve rivelarsi attraverso le parole, perché dichiararsi è un po’ come restituire il nome ad una Principessa che sta per essere inghiottita dal Nulla che avanza. La storia, assolutamente semplice, è narrata con un movimento e con una ricchezza di immagini favorite, queste ultime, dall’ambientazione fantascientifica realizzata attraverso le scenografie geniali di Moebius e i costumi esagerati di Jean-Paul Gaultier. L’eterna lotta tra il Male e il Bene, che sembra il contenuto prevalente della storia, è ormai paradossalmente inesistente, come un racconto di ciò che è stato e non è più, come la nostalgia per un passato che avrebbe potuto essere e non è stato. Il Male, persa la corporeità e la realtà dei films precedenti, è diventato memoria di un danno superato e di un pericolo vinto, ed è questo a rendere ridicola la rappresentazione del perfido servo del Male (magnificamente interpretato da Gary Oldmann, il poliziotto corrotto di Léon). Solo il potere divorante e annullante mantiene una sua pericolosità.
Mentre su un piano planetario le forze del Bene e del Male continuano la loro pantomima, ciascuno con i propri eroi, un altro scontro più sottile, ma non per questo meno sostanziale, si consuma nel “Pianeta dei divertimenti”, dove ogni cosa sembra fittizia: lo scontro tra il contenuto, rappresentato dalla magnifica cantante Blu che nasconde nelle sue viscere i quattro elementi, e tutto ciò che è involucro in perenne movimento, rappresentato dal gigionesco DJ, presentatore, amatore bisex, ovviamente opinionista Ruby Rhod. Quest’ultimo, figlio di tutto quello che è post di qualcosa, riesce a dare un senso alla propria vita soltanto copiando, imitando, banalizzando ogni forma di linguaggio. La musica e la voce della cantante riportano, con gli acuti mirabili, al blu profondo del mare e al ricongiungimento con ciò che è, a quel punto in cui la confusione sparisce, come l’aria mossa e mai percepita e i tempi agitati e mai vissuti. E il movimento di Leeloo sembra posseduto e modulato proprio da questo canto, che infonde i quattro elementi della vita, anche se, per salvare il mondo dal Male, occorre la parola dell’Uomo.
Luc Besson non è un autore molto amato dalla critica, che lo ha a più riprese accusato di mettere in scena tonnellate di violenza cinica e gratuita a scopo sostanzialmente commerciale e di attingere spudoratamente da altre opere. Altri critici reputano Besson “...un regista di alto livello, senz’altro astuto, ma di grande capacità. È vero che spesso ci sono elementi copiati da altre opere, ma i personaggi a tutto tondo che ci disegna, l’umorismo che riesce ad inserire, la padronanza della messa in scena, lo rendono un autore a cui riservare la massima attenzione ...”. A noi piace il modo ironico e appassionato insieme che ha Besson di fare citazioni cinematografiche perchè consideriamo queste ultime una espressione della sua passione e della sua capacità di ironizzare. In Léon, ad esempio, la storia prende spunti da Gloria, Arancia Meccanica, Il silenzio degli innocenti, Il bandito delle ore 11, Frank Costello faccia d’angelo. Eppure Besson prende le soluzioni sceniche di questi films per ricombinarle in un modo assolutamente nuovo e originale pur conservando intatta l’immagine originaria, peraltro sempre chiaramente riconoscibile da un appassionato di cinema; anzi, sembra proprio che Besson utilizzi questo sistema per stabilire con lo spettatore un rapporto di complicità, un po’ come tenta di fare Mathilda quando, davanti a Léon, fa le imitazioni di Madonna, Charlot e Gene Kelly, nel tentativo di giocare a farsi riconoscere e di stabilire un terreno comune di passioni.
Le sceneggiature, scritte dallo stesso Besson, sempre molto scarne e semplificate, sono solo il canavaccio per delle rappresentazioni che si rivolgono direttamente ai visceri dei telespettatori e non certo alla loro cerebralità; infatti le storie non vengono mai trattate in modo realistico, attraverso l’utilizzazione di un genere cinematografico definito. Ne Il Quinto Elemento la semplificazione della sceneggiatura “...è bilanciata da dialoghi frizzanti e gradevoli, dal senso perfetto del ritmo, dall’ironia sempre sopra la media e dalla cura dei dettagli davvero eccellente ...”. L’utilizzo della macchina da presa è in funzione di una rappresentazione corporea delle passioni. Egli è costantemente attratto “...dai corpi contundenti e dal loro rapporto con lo sfondo fin dal film d’esordio che si svolgeva sullo sfondo di rovine post-atomiche; dall’onda sorda di ‘Nikita’, sopravvissuta al disastro e diventata un killer, nel nulla invisibile della società di massa, alla coazione a ripetere de ‘Le Grand Bleu’, fatta di uomini in lotta che si stagliavano sull’azzurro intenso delle profondità marine; da ‘Léon’, corrispettivo romantico e franksteiniano di ‘Nikita’ a ‘Il Quinto Elemento’, vero catalogo di fisicità conflittuali in perpetuo nomadismo...”.
“... Molti dei suoi film cominciano con una carrellata in avanti su una superficie liscia, i selci per Nikita, l’acqua per Le Grand Bleu e Léon, come per introdurci nel proprio mondo. I suoi film sono tutti girati con il formato Cinemascope con corte focali, che Besson utilizza come nessun’altro, attribuendole allo stesso tempo un aspetto drammatico ed emotivo importante ... Per quel che riguarda il linguaggio luminoso, i film di Besson funzionano seguendo questo principio: gli universi paralleli alla realtà, questi mondi dove si rifugiano i personaggi, sono illuminati in modo cupo, tormentato ovvero irreale, allorché il mondo violento e cinico, è illuminato in modo iperrealista, sterilizzato...”.
Lo sfondo è sempre un elemento di primo piano che permette una stratificazione anteroposteriore degli eventi su cui se ne sovrappone una seconda, di tipo verticale; come se l’uso della macchina da presa corrispondesse alla rappresentazione di quella New York del futuro, disegnata per Il Quinto Elemento da Moebius (Jean Giraud) come una città multistratificata, dove le parti moderne si sono strutturate e collegate al di sopra della vecchia città, in alcuni punti ancora riconoscibile. Trasportando l’immagine visiva in una espressione musicale, è come ascoltare un’opera sinfonica in cui la complessità degli intrecci non impedisce di seguire gli elementi musicali semplici in quanto più façili da riconoscere. Chi può e vuole, può accedere alla complessità degli eventi musicali e delle immagini e passare da un livello all’altro, costruendo quel movimento esterno ed interno che restituisce il senso della propria storia personale e di relazione con il mondo, come accade a Korben e a Leeloo. Forse un film è veramente “democratico” quando si esprime a più livelli, lasciando all’altro la libertà di avvicinarsi e di cogliere ciò che può e vuole cogliere. Allusione evidente ai molteplici livelli di rappresentazione con cui il nostro inconscio entra in risonanza per sviluppare quella fantasia che parla di un nomadismo delle immagini psichiche, di un passaggio continuo da un livello all’altro, senza perdere il filo di ciò che si cerca o di ciò che si vuole salvare.
E allora la New York del ventitreesimo secolo non è differente, se non nella rappresentazione, allo spessore de Le Grand Bleu dove, si sa, che ad ogni livello di profondità del mare corrisponde una fauna e una flora differenti. Gli umani, contrariamente ai pesci, ai mammiferi del mare e alle piante acquatiche, hanno la libertà di muoversi continuamente da un piano all’altro ed è questo a permettere di raccontare una storia, che sia nuova o trita e ritrita non importa, in un modo sempre nuovo. Per questo troviamo un’assoluta continuità tra Le Grand Bleu e Il Quinto Elemento: la ricerca di una profondità che nel primo è solitaria, nel secondo si è trasformata in un continuo e pressante confronto con l’umano.
In questi livelli lo scontro-incontro con la violenza diventa condizione necessaria per liberare l’Uomo non da un Male che sembra la parodia di sé stesso, ma da una malattia chiamata cultura dell’apparire, dove ciò che è viene completamente soppiantato da ciò che sembra, dove il silenzio e la voce, che contengono gli elementi costitutivi della vita, vengono soppiantati da fastidiosi chiacchericci e da opinioni inutili. Besson con un riso sardonico e spietato ci indica, al di là del Bene e del Male, dove è insinuata la malattia della nostra cultura attuale la quale produce quella preoccupante normalità che nasconde il nulla o, nella migliore delle ipotesi, fabbrica i vari Mr. Hyde, sempre ampiamente coperti dalla indifferente correttezza del Dr. Jekyll. La ricerca è sull’essere umano in quanto tale, perché nessun ruolo è rassicurante: il poliziotto può essere corrotto, il killer può nascondere dei brandelli di umanità, l’affascinante uomo-delfino può nascondere una chiusura al senso profondo del vivere. E i vari “supervisori” dei suoi films servono solo per il mantenimento dello status quo di scissione e/o di dissociazione.
Besson, in questa ricerca sull’umano, sceglie di affidarsi alle donne: ...Johanna ... Nikita ... Mathilda... lunga carrellata di immagini femminili che portano a Leeloo, la ragazzetta da salvare dall’annullamento culturale incombente, la cui perfezione sta nell’equilibrio tra bellezza, potenza e vulnerabilità, quest’ultima indispensabile per non cadere nel narcisismo e nell’onnipotenza. Una semplice ragazzetta e non una superdonna; una semplice ragazzetta che vuole mantenere il rapporto con i vissuti della propria corporeità per decidere se le va di essere baciata o meno, per sentirsi morire di dolore di fronte agli orrori del mondo, ma per ritornare a vivere se un Uomo ha il coraggio di dichiararle il proprio amore, come fa un adolescente quando, con gli occhi bassi e il volto arrossato, prende per mano la sua compagna del cuore. Non a caso tutti i films di Besson sono dedicati a qualcuno. Spesso le trame sono state pensate nell’adolescenza, ma c’è sempre un rapporto reale e concreto nel qui ed ora, che fa scattare il desiderio di una realizzazione, il legame con quelle propaggini di terra. La realizzazione trova il suo significato più profondamente umano nella dedica fatta all’altro, nella dichiarazione d’amore. Forse è per questo che la scelta degli attori è sempre così precisa rispetto all’oggetto della rappresentazione.
Besson, però, se ve ne foste dimenticati, ha 17 anni, e lui può restituire al virile Korben la leggerezza di un sentimento reale di fronte ad una ragazzetta che ha lo sguardo di Johanna, i movimenti selvatici e tribali di Nikita, la pretesa-certezza di trovare qualcuno che l’aiuti di Mathilda. Ed è questa nuova immagine femminile a creare l’uomo nuovo. Un Uomo capace di salvaguardare ed esaltare quello che c’è di più profondo nella donna: il ‘quinto elemento’, quel modo di essere che diventa subito suono e movimento, capace di combattere ogni forma di distruttività per trovare in sé stessa la pretesa di amare e di essere amata.
Donne e uomini, nella passione dei loro sentimenti, si svincolano da ogni forma di asservimento profondo, nella misura in cui riescono a mantenere una forma melodica e armonica in mezzo alla ripetitività noiosa e assordante di una musica becera che non riesce più a trovare nel ritmo frenetico o nell’assenza di esso, un cuore umano pulsante. La pulzella d’Orléans non si separa da questo iter dialettico “...ed entra in scena fin dalla prima inquadratura con il suo carico di ossessioni e di energia visionaria: un carico reso esplosivo dalla compressione della sua sensualità sotto il macigno del misticismo e della sete di vendetta personale. Giovanna D’Arco nasce sotto il segno della demistificazione, donna resa invincibile dall’isteria e dalla cocciutaggine: in una sorta di sguardo all’indietro svela l’illusione di ogni visione mistica e la consegna, finalmente donna ed essere umano, al rogo”. Ancora una volta Besson salva una donna, una ragazzetta, che non è riuscita a salvarsi da sé stessa, rifiutando quella ideologia sulla ineluttabilità dell’autodistruzione quando si seguono sentimenti e passioni giovanili. Continua, la ricerca di Besson, sulle passioni adolescenziali e sulle sue trappole. Trappola è anche il rimanere legati ad una grave ferita, subìta durante l’infanzia o l’adolescenza, che rende solitari e introversi, in perenne fuga in mondi paralleli.
Così le profondità del mare risuonano con quelle dell’aria, la realtà della terra si confonde con la passione di un fuoco che brucia e tutti questi elementi risuonano con l’elemento interno che fa costruire quelle strutture armoniche complesse caratteristiche della musica di Mozart, l’eterno adolescente di una musica eterna. E allora la calma e la voglia di ridere, la vitalità e l’insolenza, la ricchezza di immagini e di invenzioni colorate fanno quell’immagine interiore adolescenziale che permette di continuare a sorridere profondamente alla Vita, nonostante tutto... di mantenere l’ascolto e lo sguardo aperto sul mondo. Il movimento di una ragazza è già suono se c’è un uomo, ricercatore e acrobata, che riesce a riconoscerla e ad ascoltarla, a prendere quella mano sopravvissuta a mille annullamenti che lei gli tende silenziosamente e a costruire per lei un palcoscenico dove possa ritrovare quella voce che gli altri non sanno ascoltare.
Besson è emerso dal mare con l’immagine interna dei suoi 17 anni e, grazie ad essa, ha ritrovato quello slancio vitale che è l’anticamera del desiderio e della passione creativa. Slancio che lo porta a trovare un linguaggio cinematografico complesso, punto di incontro tra la vecchia Europa e il Nuovo Mondo, dove i contenuti narrano la sostanzialità e la storicità “adulta” del vecchio continente, mentre i ritmi e le forme parlano dell’esperienza americana. Propaggini di terra si incontrano sullo sfondo di un filone creativo originario che permette una totale immersione nelle immagini.
Capriole colorate e danzanti che scivolano scorrendo su di uno spazio e un tempo che si fa onda sospinta da ridenti venti musicali, portatori di una certezza di esistere vivi e liberi con la presuntuosa e strafottente felicità di chi volta le spalle alla morte e si inchina alla Vita. Danze di vestiti e visi circensi pronti a rappresentare maschere abituali con movimenti e suoni che attingono al mito, a quei sogni collettivi che diventano storia dell’Uomo.
Certo, i tristi incontri di morte con chi sceglie di non essere ed allunga gambe e braccia solo per far cadere, sono sempre lì... ma dentro c’è Lei che, raccontando sempre “...di quell’orgasmo che narra di ciò che è stato, di ciò che è, di ciò che potrà essere...”, prende quella mano per portarti altrove, dentro quel vento che è storia dell’Uomo, per diventare finalmente parte di essa, con quel ritrovato coraggio e la calda presunzione di stagliare l’umano come figura da uno sfondo.
E allora il racconto diventa una canzone.
Una canzone da cui partire per realizzare quel “sogno lungo vent’anni” che porta da My Lady blue al canto della donna blu de Il Quinto Elemento. Un canto di donna che comincia con l’aria della follia (Spargi d’amaro pianto) dalla Lucia di Lammermoor, per poi andare altrove.
Il dolce suono mi colpì di sua voce! ...
Ah, quella voce m’è qui nel cor discesa! ...
Edgardo! lo ti son resa; Edgardo! Ah! Edgardo mio!
Si, ti son resa!
Fuggita io son dai tuoi nemici…
Un gelo mi serpeggia nel sen!...
Presso la fonte mecco fassidi alquanto (pausa)
E si interrompe il canto delle parole della donna blu, andando a sancire una separazione da Lucia che corre verso la sua follia e verso coloro che la vogliono folle. Le parole possono, a volte, confondere, quando non si coglie il senso del suono che le sostiene. La donna blu continua per una strada nuova, senza parole, scandita da un ritmo rock che impone il movimento del corpo su cui si agitano gli acuti certi e incandescenti. No, sembra affermare con sicurezza la donna blu, la storia delle donne può finire in un altro modo. Se soltanto si riesce a riprendere l’amore di una ragazzetta e restituirla alla propria immagine maschile (“... Io ti son resa...”, canta Lucia in quella intuizione che per lei è il preludio di un delirio)... se soltanto un Uomo riesce a trovare nelle parole il senso di un suono nuovo... allora le donne che amano non rischieranno più di impazzire o, peggio ancora, di sedere indifferenti accanto a uomini incoronati.
La fune tesa per scendere negli abissi si è trasformata in un arco variopinto su cui un acrobata può danzare lasciandosi toccare, con le mani e le gambe distese, dal mare, dal cielo, dalla terra e dal fuoco, elementi contenuti tutti in quei colori.
Dalla sincronia del gioco acrobatico nasce quel quinto elemento capace di trasformare l’arco in un ‘archetto’ che si muove, recettivo e appassionato, sulle corde protese del corpo di violino per pizzicare l’aria che risuonerà tra i venti per diffondere quel canto senza parole verso chiunque abbia la capacità e il desiderio di ascoltare. Un canto fatto di suono e ritmo, per raccontare di una immagine inconscia silenziosa sempre pronta a lasciarsi svelare da un manto di stelle.
BIBLIOGRAFIA
P. GELLI (a cura di), Dizionario dell’Opera, Baldini & Castoldi Ed., Milano 1996.
E. LUCANTONIO (a cura di), Luc Besson, Dino Audino Editore, Roma 2000.
P. MEREGHETTI (a cura di), Dizionario dei film, Baldini & Castoldi Ed., Milano 1995.
E. LUCANTONIO (a cura di), Luc Besson, Dino Audino Editore, Roma 2000.
P. MEREGHETTI (a cura di), Dizionario dei film, Baldini & Castoldi Ed., Milano 1995.
FILMOGRAFIA
Le Grand Bleu. Scritto e diretto da Luc Besson (co-sceneggiatori Robert Garland, Marylin Goldin, Jacques Mayol e Marc Perrier, da un’idea di Luc Besson). Musiche di Eric Serra. Direttore della fotografia: Carlo Varini. Montaggio di Olivier Mauffroy. Equipe delle riprese sottomarine: Luc Besson, Christian Pétron. Produzione: Patrice Ledoux per Gaumont. Distribuzione: Gaumont. Durata: 132’ (versione lunga: 170’), Francia 1988. Interpreti: Rosanna Arquette, Jean-Marc Barr, Jean Réno, Paul Shenar, Sergio Castellitto, Marc Duret, Griffin Dunne. Premi: César della migliore musica per Eric Serra e del migliore suono per Pierre Béfre e Pierre Excoffier.
Nikita. Scritto e diretto da Luc Besson. Musiche di Eric Serra. Direttore della fotografia: Thierry Arbogast. Montaggio di Olivier Mauffroy. Produzione: Nicolas Seydoux per Gaumont/Cecchi Gori Group Tiger Cinematografica. Distribuzione: Gaumont. Durata: 115’, Francia 1990. Interpreti: Anne Parillaud, Jean-Hughes Anglade, Tcheky Karyo, Jeanne Moreau, Philippe Leroy, Jean Réno. Premi: César della miglior attrice per Anne Parillaud.
Léon. Scritto e diretto da Luc Besson. Musiche di Eric Serra. Direttore della fotografia: Thierry Arbogast. Montaggio di Sylvie Landra. Produzione: Patrice Ledoux per Gaumont/Les Films du Dauphin. Distribuzione: Gaumont (Columbia per gli Stati Uniti). Durata: 108’, Francia 1994. Interpreti: Jean Réno, Gary Oldman, Natalie Portman, Danny Aiello, Peter Appel.
Il Quinto Elemento. Scritto e diretto da Luc Besson. Musiche di Eric Serra. Direttore della fotografia: Thierry Arbogast. Montaggio di Sylvie Landra. Costumi di Jean-Paul Gaultier. Supervisore agli effetti speciali visivi: Mark Stetson. Effetti speciali di scena: Nick Alder. Scenografia: Dan Weil. Direttori artistici: Moebius e Mézières. Produzione: Patrice Ledoux per Gaumont. Distribuzione: Columbia. Durata: 126’, Francia 1997. Interpreti: Bruce Willis, Gary Oldman, Ian Holm, Chris Tucker, Milla Jovovich. Premi: César al miglior regista per Luc Besson, alla migliore fotografia per Thierry Arbogast, e alla migliore scenografia per Dan Weil. Lumières al migliore regista per Luc Besson.
Nikita. Scritto e diretto da Luc Besson. Musiche di Eric Serra. Direttore della fotografia: Thierry Arbogast. Montaggio di Olivier Mauffroy. Produzione: Nicolas Seydoux per Gaumont/Cecchi Gori Group Tiger Cinematografica. Distribuzione: Gaumont. Durata: 115’, Francia 1990. Interpreti: Anne Parillaud, Jean-Hughes Anglade, Tcheky Karyo, Jeanne Moreau, Philippe Leroy, Jean Réno. Premi: César della miglior attrice per Anne Parillaud.
Léon. Scritto e diretto da Luc Besson. Musiche di Eric Serra. Direttore della fotografia: Thierry Arbogast. Montaggio di Sylvie Landra. Produzione: Patrice Ledoux per Gaumont/Les Films du Dauphin. Distribuzione: Gaumont (Columbia per gli Stati Uniti). Durata: 108’, Francia 1994. Interpreti: Jean Réno, Gary Oldman, Natalie Portman, Danny Aiello, Peter Appel.
Il Quinto Elemento. Scritto e diretto da Luc Besson. Musiche di Eric Serra. Direttore della fotografia: Thierry Arbogast. Montaggio di Sylvie Landra. Costumi di Jean-Paul Gaultier. Supervisore agli effetti speciali visivi: Mark Stetson. Effetti speciali di scena: Nick Alder. Scenografia: Dan Weil. Direttori artistici: Moebius e Mézières. Produzione: Patrice Ledoux per Gaumont. Distribuzione: Columbia. Durata: 126’, Francia 1997. Interpreti: Bruce Willis, Gary Oldman, Ian Holm, Chris Tucker, Milla Jovovich. Premi: César al miglior regista per Luc Besson, alla migliore fotografia per Thierry Arbogast, e alla migliore scenografia per Dan Weil. Lumières al migliore regista per Luc Besson.
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