ArteScienza 2009-2012
Appunti per una teoria psicodinamica. LE AFFINITÀ (S)ELETTIVE di Concetta Turchi. Anno 2012




Quando ho davanti ai miei sensi le mirabili imprese dell’uomo che svettano tra le altre per la loro bellezza, mi chiedo sempre se esse non siano nella quieta attesa di essere riconosciute; pregne della certezza di poter essere “mirate” e “ascoltate”, si stagliano pronte per evocare quell’ineffabile godimento, di cui sono riconoscente, che fa sentire una intima appartenenza al mondo degli umani: “afflato vitale” da cui sgorgano le questioni che cercano e costruiscono le vie della conoscenza.
E se la capacità di cogliere e raccogliere il Bello, ossia la dimensione estetica dell’umano esperire - costante antropologica che supera al contempo l’orizzonte culturale quanto quello soggettivo - fosse l’elemento strutturante, e pertanto imprescindibile, della identità umana? Una affermazione siffatta porterebbe inequivocabilmente a stabilire l’esistenza di un nesso tra la naturale ricerca del Bello (inteso come orientamento estetico), il funzionamento psichico individuale e l’agire sociale.
Nel “mirare” un paesaggio posso rimanere colpita da qualcosa che vedo e quando questo accade sento attivarsi dentro di me una sorta di attenzione “preterintenzionale” che costringe allo stesso tempo ad uno sguardo interiore; come se in questo frangente operasse un quid in grado di unificare attraverso l’attenzione le mie capacità percettive.
La funzione discriminativa propria della percezione porta alla capacità di distinguere un aspetto fra i tanti del paesaggio che mi circonda, sia esso umano oppure no; ma è lo stato d’animo emergente in me che osservo con attenzione a raccontare direttamente di come avviene la naturale selezione del Bello. Infatti, quel semplice “mirare” dello sguardo si fa visione nella misura in cui vi è il riconoscimento di ciò che è affine, e tale affinità è confermata dall’ascolto della accordatura emozionale e affettiva corrispondente proprio a quel nuovo sguardo sul mondo. E se il termine estetico deriva dal greco aisthonomai che significa percepire, andando a ritroso nel tempo a ripescare i miti cantati da Omero, vi posso ritrovare il significato più arcaico di inspirare, vale a dire avere dentro quell’alito vitale che fa sentire vivi e… significanti.
Quando il corpo si prepara per accogliere quell’alito (la psiché), a partire dalla sensazione e dalla percezione si fa strada un fenomeno recettivo in cui il corpo stesso è chiamato ad assumere una particolare postura per lasciarsi inondare completamente da quel campo percettivo che lo fronteggia, ampliandolo a sua volta: come accade per la funzione dell’ascolto, anche lo sguardo recluta l’intero corpo in modo tale da sistemarlo per attivare naturalmente una funzione estetica atta a cogliere il Bello e a godere di esso.
Così accade che dalle linee percettive temporalmente date emergano traiettorie in grado di orientarsi contemporaneamente verso il mondo esterno e verso quello interiore, alla ricerca di un reciproco accordo; in sintonia con tale ricerca si crea un particolare stato della mente le cui emozioni, affetti e cognizioni, continuamente si chiamano e si reclamano in un intreccio dinamico significante poiché è in grado di evocare un piacere che potremmo a questo punto chiamare estetico. Come dire che questa sintesi si fa “bella” nel momento in cui il riconoscimento di qualcosa fuori di noi si sintonizza con l’armonia che si determina nel nostro paesaggio interiore. L’orientamento estetico, altresì detta attitudine estetica, coincide quindi con l’identificazione di queste… affinità (s)elettive rivolte al riconoscimento del senso profondo della realtà umana: in fondo siamo fatti per trovarci.
Nella nostra vita sperimentiamo per la prima volta questo passaggio estetico quando, nei primi mesi di vita, ci accorgiamo di essere oggetto di attenzione; quando la voce e lo sguardo di nostra madre ci restituiscono al nostro corpo e al nostro volto. In questa “riflessione della percezione”, dove ha origine il dialogo tra Io e Sé, si trova una prima corrispondenza tra ciò che è fuori e ciò che di affine si va trovando o costruendo nel mondo interiore. Questa prima sintonia affettiva - che coincide con l’innamoramento - viene suggellata da un sorriso rivolto al contempo verso l’esterno e verso l’interno, espressione di un piacere legato alla possibilità di conoscere Sé stesso e il mondo.
Così, nel mentre la capacità di cogliere le qualità “belle” di un essere umano crea le basi per la conoscenza, il desiderio di rivivere quanto già vissuto apre alla coloritura della capacità di immaginare. In questo specchio di risonanze tra similitudini - o affinità (s)elettive che dir si voglia - si crea una divaricazione tra ciò che è simile e ciò che non lo è, attivando quel gioco desiderante che, nel mentre coglie le similitudini, in ogni momento insegue le diversità.
Eccola dunque… l’attitudine estetica… muoversi lungo la linea di confine tra attenzione e intenzione, andando naturalmente verso la comprensione immediata della manifestazione del Bello! Questa immediatezza, propria del Sé, non solo è in grado di anticipare la conoscenza rispetto alla coscienza dell’Io, ma è in grado di determinare nello stesso istante un preludio emozionale che supera inequivocabilmente ogni possibile aspettativa, esattamente come il desiderio va ogni volta oltre le attese dell’innamoramento: il desiderio d’altra parte vive di pretese e non di attese.
In questo dialogo serrato tra Sé e Io, in questo splendido corpo a corpo, il Bello pretende uno sviluppo psichico che reclama in ogni momento una forma atta a rappresentarlo e un nome “abile” a nominarlo: spinta mirabile alla produzione di forme simboliche, dal linguaggio all’Arte propriamente detta, in grado di collegarci direttamente e senza mediazioni all’interiorità degli altri. In questa prospettiva lo stesso significato delle parole, ben lungi dall’essere espressione concreta dell’oggetto a cui si riferisce, può diventare altro… grazie a quella “indeterminatezza di senso legata alla convergenza simpatetica e quindi estetica, di suono, gesto, senso”.
L’orientamento estetico, nello stesso tempo in cui dona una nuova visione di Sé stessi e del mondo, di Sé stessi nel mondo, pretende lo sviluppo di una azione che fin dalle origini ha una qualità etica: accordo tra il carattere tutto interiore delle risonanze affettive e il carattere esterno legato ad una pubblica condivisione. E se chi ci guarda reclama a gran voce il nostro sguardo che, se sintonizzati, si solleva, questa esperienza vissuta mille e mille volte ci racconta della profonda socialità del Sé che esprime l’attitudine estetica: la comprensione immediata del contenuto umano di un volto, legata fin dalle trame neurologiche dei neuroni a specchio alla “percezione riflessa”, crea uno stato della mente condiviso in cui letteralmente si incarna dentro di noi ciò che l’altro va vivendo.
Riprova che il Sé non è fatto per stare solo in un rispecchiamento narcisistico di morte, ma è fatto per intrecciare relazioni e dare forma ad una rete, alla base del comprendere, ove non c’è contrapposizione tra interno ed esterno e dove la stessa indeterminatezza dell’immagine che così si crea, va ad attivare quel gioco desiderante in grado di farci comprendere sempre qualcosa di più rispetto a ciò che viene detto.
Dalle profondità della memoria legata alla rete, neuralmente impressa, data dall’intrecciarsi delle esperienze umane, si strutturano modalità di relazione “under the influence” che aprono alla pluralità, vero soggetto dell’Etica e al contempo luogo privilegiato del gusto estetico.

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Corrispondenze in terapia psicodinamica. LA NEMICA PIÙ PREZIOSA di Valeria Amato. Anno 2012
SOLO A TE di Concetta Turchi. Anno 2012




A volte i racconti attendono a lungo, righe segrete e solitarie dentro un cassetto, che maturino il loro senso nel mentre cresce nello scrittore il coraggio e il linguaggio per esprimerli. Nel mio caso si trattò di una esigenza di dignità che mi permetteva di prendere tra le mani un destino segnato dal fallimento per tentare di trasformarlo. Sì, fallimento, prima ancora che di malattia.

Non me ne vogliano coloro che pensano alla salute e alla malattia come conseguenze di un caso fortuito o no. Non me ne vogliano coloro che identificano la parola cancro con la morte e la parola pazzia alla incurabilità: in entrambi i casi vi è la credenza che si tratti di un colpo basso della malasorte nella lotteria della genetica, per i quali resta soltanto da sperare che venga scoperta presto una cura chimica miracolosa in qualche recondito laboratorio di farmacologia. E non me ne vogliano neppure conoscenti, amici, parenti, compagni di viaggio, se spesso sarò brusca, odiosa, forse rabbiosa, cruda, scomoda nel ripercorrere la questione a partire da un evento che si slatentizzò una mattina di primavera.
Proprio io, che credevo di lottare per far vivere la mia identità, scoprivo di avere un cancro e, con esso e per esso, mettevo a fuoco la radicata convinzione di dovere morire disperata.

“Che gelida manina! Se la lasci riscaldar. Cercar che giova? Al buio non si trova. Ma per fortuna è una notte di luna, e qui la luna l’abbiam vicina. Aspetti, Signorina, le dirò con due parole chi son, che faccio e come vivo. Vuole? Chi son? Sono un poeta. Che cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo. In povertà mia lieta scialo da gran signore rime ed inni d’amore. Per sogni, per chimere e per castelli in aria l’anima ho milionaria. Talor dal mio forziere ruban tutti i gioielli due ladri: gli occhi belli. V’entrar con voi pur ora ed i miei sogni usati e i bei sogni miei tosto si dileguar! Ma il furto non m’accora, poiché vi ha preso stanza la dolce speranza! Or che mi conoscete, parlate voi. Chi siete? Vi piaccia dir?”.

Era una fredda mattina di novembre quando misi i piedi giù dal letto dopo essermi svegliata e, aggirandomi scalza per una casa tra i boschi, mi sentii spaventosamente sola. Quel sentire richiamava l’immagine di una bambina abbandonata a sé stessa, immagine muta che mi aveva accompagnato negli anni e che alimentava il vissuto di tradimento nei confronti di coloro che avrebbero dovuto proteggerla. Quel profondo vissuto di abbandono riemergeva attraverso il lutto per la scomparsa del mio amico a quattro zampe e mi attanagliò a tal punto da dirmi nel mutismo di sempre: “Voglio morire”.

Erano, quelli, tempi in cui avevo cominciato da poco a vivere una storia fatta di colori e suoni; segni, sogni e parole si articolavano di continuo nella redazione della Rivista di cui ero diventata redattrice e in cui mi sentivo per la prima volta assoluta protagonista. Si realizzava il sogno bohemienne di lasciare il certo per l’incerto che viveva silenziosamente in qualche angolo di me. Eppure… cosa succede in una donna quando un uomo a lei caro abbandona il sogno? Prende atto della differenza o cancella quella differenza tradendo una possibilità nascente? Io scelsi questa seconda strada e, in preda ai sensi di colpa, sprofondai nella ‘depressione più nera’. Sempre muta, pensai il pensiero di sempre: “Io sono cattiva, non ho diritto di vivere”.

I mesi passavano e mentre la ricerca nella Rivista andava avanti, io precipitavo sempre di più, fino a quando la perdita del mio secondo cane mi portò nella parte più buia della mia mente, laddove scelsi di morire e basta. Fu quella la primavera in cui sotto la doccia, mentre in qualche modo tentavo di darmi una ripulita, scoprii di avere una tumefazione al seno. Qualche giorno dopo arrivò la sentenza, data in modo freddo e violento: cancro. Ahimè, io utilizzai quello stesso modo per mettere a conoscenza di ciò che mi stava accadendo le persone a me più care che, con mio grande sollievo, reagirono in modo semplice e franco senza mai pronunciare frasi del tipo: “Non è nulla di grave, vedrai che ne uscirai”. Frasi fatte che arrivarono puntuali da altri, a pesare come macigni su di un cuore debole che si interrogava circa le proprie probabilità di sopravvivenza. Accade che i figli debbano sostenere i genitori che si possono sentire traditi nelle infinite aspettative riposte dentro di loro, a occuparne completamente il futuro. Fu in quel momento che scoprii il paradosso: nel mentre davo ai miei genitori una grande delusione, sentivo al contempo di riconquistare una ‘libertà’ mai avuta prima. Gli obblighi e le vessazioni subiti sin dalla prima infanzia venivano spazzati via d’un sol colpo perché non dovevo più ingaggiare quella corsa senza fine alla perfezione. Potere tirare il fiato e nello stesso tempo rendere concreto e visibile di fronte agli altri il vissuto di sempre: quello di essere una sfigata! Quale magnifico controllo potevo avere ora su ognuno di loro!

I giorni trascorrevano inesorabili tra ospedali, esami, accertamenti dello ‘stato di avanzamento della malattia’. Giorni in cui sentivo il terrore della morte stritolarmi, giorni in cui riaffioravano brutte e sporche questioni irrisolte che mi avevano vista protagonista, taciute per anni, e che ora mi presentavano il conto. Giorni in cui una donna, Limpida l’ho sempre chiamata, aiutandomi ad elaborare le annose questioni psicologiche dentro a quei tumori, mi disse: “Puoi dire basta!”. Che ricordo quello! Eravamo l’una di fronte all’altra e pensai che se la mia malattia aveva portato, anche, a quello ‘stare’ nuda di fronte a Lei, forse potevo prenderla come opportunità per realizzare quella limpidezza a cui aspiravo da anni, sin dal giorno del nostro primo incontro in cui, anche per questo, l’avevo scelta come mia terapeuta e in cui Lei aveva scelto me come paziente.

“Sì. Mi chiamano Mimì, ma il mio nome è Lucia. La storia mia è breve. A tela o a seta ricamo in casa e fuori… Son tranquilla e lieta ed è mio svago far gigli e rose. Mi piaccion quelle cose che han sì dolce malìa, che parlan d’amor, di primavere, di sogni e di chimere, quelle cose che han nome poesia… Lei m’intende?”.

Le vicende umane fatte di pensabilità e di scelte da sempre mi fanno interrogare sulle leve da agire per fare apprezzare a chi mi osserva e a chi mi frequenta una parvenza di coerenza; la sola, quest’ultima, che riuscirebbe a cambiare il corso della malattia, ne sono sicura, se davvero riuscissi ad affidare il ‘qui ed ora’ alla scoperta… ma per fare questo dovrei rinunciare una volta per tutte alla manipolazione… e credere nella possibilità di guarire! D’altra parte perché il ‘malato’ possa credere e accettare la sua possibilità di guarigione, è necessario che chi lo cura abbia la certezza che lui non ha e per la cui assenza si è ammalato. Quella assenza lo rende preda della logica della rassegnazione che lo porterà a dovere dimostrare di essere un caso disperato. In fondo quello scontro era stato all’inizio della storia tra me e Limpida.

Un inizio che, durante quegli inesorabili giorni per reparti di oncologia, tornò per ricordarmi chi ero, da dove venivo, come mi chiamavo, di cosa e di chi - negli anni - mi ero fatta carico e perché. In fondo l’essermi fatta carico di tutti e tutto andava ad appagare il mio bisogno di controbilanciare la certezza di essere cattiva. Distruggevo e poi riparavo occupandomi degli altri, unico modo che ritenevo esistere per essere accettata e amata, un modo che, negli anni, era diventato persino una ragione per vivere. All’improvviso tutto mi crollava addosso. Ero lì, nello scanner che avrebbe decretato l’immagine anatomica del mio tumore ‘primario’ quando, durante un rumore secco e costante come quello di una spranga di ferro che batte su altro ferro, realizzai che la mia vita rischiava di finire. Dopo tutto quello che pensavo di avere tentato di costruire negli anni, lo slancio fittizio che avevo improntato per quella idea della “memorabile realizzazione”, eccomi di fronte a me stessa e alla mia impossibilità primaria di avere un futuro. Ero sola che sprofondavo sempre più in quei pensieri sconfortanti, lo sguardo assorto su colate di cemento grigio, quando la voce della limpidezza, tra il primo ed il secondo atto della Bohème, mi parlò commossa: “Sai, è possibile che tutto ciò stia capitando proprio a te, e non è poi così grave scoprirsi pienamente e semplicemente umani”. Le sensazioni di paralisi e di colpa sparirono; quella notte riuscii a prendere sonno e l’indomani a ‘fare’ tutto il necessario per iniziare ad affrontare la mia malattia. Finalmente la mia stessa vita.

“Nella Mancha viveva un nobiluomo, di quelli che hanno e lancia nella rastrelliera e un vecchio scudo, un magro ronzino e un levriere da caccia. (…) La fantasia gli si riempì di tutto quel che leggeva nei libri, sia d’incantamenti che di litigi, di battaglie, sfide, ferite, di espressioni amorose, d’innamoramenti, burrasche e buscherati. E di tal maniera gli si fissò nell’immaginazione che tutto quell’edifizio di quelle celebrate, fantastiche invenzioni che leggeva fosse verità, che per lui non c’era al mondo altra storia più certa.
Col senno ormai bell’e spacciato, gli venne in mente pertanto il pensiero più bislacco che mai venisse a pazzo del mondo; e fu che gli parve opportuno e necessario farsi cavaliere errante, ed andarsene a cavallo, per tutto il mondo in cerca delle avventure e a provarsi in tutto quello che aveva letto essersi provati i cavalieri erranti, spazzando via ogni specie di sopruso. Quattro giorni trascorse a pensare che nome gli dovesse mettere al suo cavallo: Ronzinante! E nel qual pensiero durò altri otto giorni, finché riuscì a chiamarsi Don Chisciotte.
Ripulite, dunque, le armi, battezzato il ronzino e cresimato sé stesso, si dette a credere che altro non gli mancava se non cercare una dama di cui innamorarsi, giacché il cavaliere errante senza innamoramento era come albero senza foglie né frutto, corpo senz’anima. Avvenne, a quanto si crede, che in un paesetto presso al suo, ci fosse una giovane contadina di bellissima presenza, della quale egli era stato, un tempo, innamorato: ma, a quanto si dice, lei non lo seppe mai né ci fece mai caso. Gli parve bene pertanto proclamar costei signora dei suoi pensieri, e cercandole un nome che non contrastasse molto col suo e che tendesse e s’approssimasse a quello di principessa e gran signora, finì col chiamarla Dulcinea del Toboso”.

Eppure proprio non riesco ancora ad addolorarmi per me stessa e neppure questa cicatrice sul mio seno la sento come dovrebbe essere: un marchio a fuoco del mio pensiero delirante. Nonostante questo continuo a cercare, nel tentativo ancora troppo disperato di essere protagonista della mia vita fino all’ultimo. Sono chiamata a farlo per me stessa, è vero, ma anche per coloro che ho obbligato a vivere con me in una terra arida e infeconda… o quale sublime trappola! Imprigionare coloro che non hanno avuto paura di farsi sporcare per tenere in vita il mio respiro rantolante che sbatte prigioniero. Un respiro di morte fatto di fiaschi e bancarotte, pensieri sistemati per bene tali da non arrecare disturbo alla omertosa decisione di tacere, ma anche di gioie, scoperte, stupori, tornati tutti per reclamare ciò che gli spettava e gli spetta di diritto: un senso, una natura, una direzione, tutte parte della sospirata realtà umana.
Ricordo che stazionavo rassegnata nella piccola e accogliente camera della clinica, con il naso in aria a ricordarmi quasi nostalgica dell’odore di medicinali dei reparti di oncologia frequentati in precedenza, quando vidi alcune persone venirmi incontro: le conoscevo da tanti anni eppure, in quell’istante, mi parvero sconosciute. I miei pensieri, sempre all’ombra della fine, furono spazzati via dalla paura vera che, se non mi fossi risvegliata dall’intervento, non avrei mai potuto conoscerle quelle persone e in quell’istante un sentire nuovo si affacciò in me: la tenerezza verso la mia fragilità.

Di sale operatorie ne avevo viste, ma quella era proprio sui generis: piccola, calda, con pochi medici di cui una incinta; proprio lei, avvicinandosi e parlandomi ripetutamente, mi fece sentire tutti i movimenti della vita nella sua pancia. “Farò tutto ciò che posso per salvarti il seno”, disse.

Una piacevole sensazione di comodità e leggerezza invade in questi momenti lo scrigno toracico, come se il respiro sia guidato dall’attenzione posata su di esso. I pensieri diventano sempre più foglie sul pelo dell’acqua che salgono e scendono con le onde, facendosi trasportare da una sponda all’altra di isole. L’attenzione, di pari passo con la percezione di ogni respiro, lentamente si lascia condurre dalla lunga espirazione che lascia il corpo lentamente, con dolcezza, con grazia, fino all’ultimo filo d’aria appena percepibile. Poi lo scendere sempre più in profondità fino a contattare l’intimità: sentire il cuore battere per sostenere la vita e accorgersi di una piccola scintilla che si accende da sola e innesca una nuova inspirazione. È forse la scintilla stessa della vita? In quegli istanti le domande si fanno bolle di sapone.

Tutta incerottata mi risvegliai nella stanzetta della clinica iniziando a provare la strana sensazione che qualcuno mi avesse tolto il velo davanti agli occhi. Avevo sonno, tanto sonno, e poi fame, tanta fame, e ancora caldo, un caldo impressionante! Ma avevo anche arrossamenti, tumefazioni, lividi, dolori, che tentavo di nascondere alle persone intorno a me un po’ per esorcizzare quei disagi, un po’ per non farli preoccupare ulteriormente, un po’ per stimolare l’arrivo di un sorriso che potesse distrarmi in quel nuovo cantiere in costruzione che era il mio corpo. E il sorriso spuntò quando Limpida mi regalò una lingeriè, oserei dire sexi, che mi lasciò esterrefatta. Ma come, ero lì tutta ‘sbracata’, intubata, con pompette raccogli sangue e lividi, e Lei - con quei colori e tessuti per le mani - non solo me li donava ma riusciva anche a rendere l’essere più mostruoso che mi sentivo, una donna, e in più femminile?! Anche questo è un ricordo caro al mio cuore. Quando quella mattina Lei mi fece questo dono ebbi l’impressione di non essere mai riuscita ad incontrarla per davvero. Da che ero sdraiata, confusa e preda di continue nausee, riuscii a sedermi sul letto, con il busto eretto da quella lingeriè, a trarre dei profondi respiri e a concentrarmi sul piacevole odore che emanava la sua presenza. Fu questo che, a poco a poco, consentì al mio corpo di calmarsi e rilassarsi e, nel volgere di un quarto d’ora, che fece tornare il battito del mio cuore alla normalità e il colore sul mio viso.

Un momento di delizia che lasciò il posto all’angoscia quando mi rammentai che Lei da lì a poco si sarebbe presa qualche giorno di vacanza. Come si può amare chi è sempre pronto a partire?! Pensai: “Ecco! Ora che l’intervento si è compiuto, tolto il dente tolto il dolore, tutto si è risolto e se ne va. Proprio ora che ho più bisogno di Lei”. Il solito pensiero conosciuto, distorto, si riappropriava di me costruendo i giorni dell’abbandono. Lei non era ancora partita che già avevo spianato la strada alle parole paralizzanti come cancro, chemioterapia, morte. Quel caro e vecchio amico ancora una volta mi presentava il suo conto… e questa volta era assai salato. Potevo raccontarmela che c’era un buon motivo per circondarmi di quei fratelli e amici che dicevo (non so bene il perché) di avere tenuto lontano nei giorni dell’intervento. Potevo finalmente trovare una giustificazione all’annullamento che in realtà io avevo perpetrato molto prima. Ancora una volta tradivo due volte me stessa: Lei, loro. Di nuovo la questione: avevo diritto di far parte del mondo dei vivi, di portare in grembo una nascita e fare progetti per il futuro? Fui dimessa, tornai a casa e Limpida partì scegliendo di non rispondermi neppure al telefono in quei giorni. Non capii e neanche ora capisco bene.

Mi aggiravo per casa come un animale tra gli artigli di un predatore, col panico in agguato, incapace di muovere un dito o anche solo di pensare. Le ferite mi bucavano il ventre mentre le tempie mi martellavano sorde facendo dei miei occhi delle fessure strinte e lacrimose. La mia casa mi pareva vuota, grigia, con quell’orribile odore di morte che mi perseguitava anche nei sogni. Mi sentivo proprio come un piccolo Vanja.

“In fondo alla sua anima sapeva che stava morendo, ma non riusciva lo stesso ad abituarsi a quest’idea; non solo, non riusciva a capirla, non ci riusciva assolutamente. Il sillogismo elementare che aveva studiato nel manuale del Kizevetter: Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale, per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto ma solo in relazione a Caio, non in relazione a sé stesso.
Un conto era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri: era stato il piccolo Vanja, con la mamma, il papà, Mitja e Volodja, i giocattoli, il cocchiere, la governante, e poi Katen’ka, e tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza.
Aveva mai sentito Caio l’odore del pallone di cuoio che il piccolo Vanja amava tanto? Aveva mai baciato la mano alla mamma, Caio, e aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai strepitato tanto per avere i pasticcini quando andava a scuola? E Caio era mai stato innamorato? E Caio sapeva forse presiedere un’udienza in tribunale?
Caio è mortale, certo, è giusto che muoia. Ma per me, per me, piccolo Vanja, per me, Ivan Il’ìc, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, per me è tutta un’altra cosa. Non può essere che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile. Questi erano i suoi sentimenti.‘ Se dovessi morire anch’io, come Caio, lo saprei da me stesso, qualche voce interna me lo avrebbe detto, ma non ho mai sentito niente di simile in me; io e tutti i miei amici abbiamo sempre inteso che non doveva succedere a noi come a Caio. E adesso guarda un po’!’, diceva a se stesso. ‘Non può essere. Non può essere, e invece è così. Come mai? Cosa vuol dire?’ ”.

Avere paura della morte ed esserne terrorizzati sono due modi, due condizioni, due pensieri e due vissuti molto diversi tra loro. Se la paura porta a prendere in considerazione la morte tanto quanto la vita, il terrore no, non lascia altra via d’uscita che mettersi dal lato di coloro che sono convinti di essere perduti per sempre e per questo soccombono. “Sul ponte tibetano della crisi si può trovare sempre la combinazione dei due significati: ‘rischio’ e ‘opportunità’”, mi ripeteva Limpida. Aveva ragione: scegliere di guarire non era certo un capriccio del caso!

Eppure… dopo essere passata attraverso la chirurgia, nel mese di luglio approdai nei vari reparti oncologici dove i medici davano per scontato che per evitare una recidiva la chemio fosse indispensabile. “Nulla di particolare, faccia la sua vita di sempre. Faremo dai 6 agli 8 cicli. Verrà qui, le somministreremo la terapia e dopo nemmeno un paio di ore sarà a casa. Nel frattempo eseguiremo degli esami a intervalli regolari e, se il tumore dovesse riformarsi, lo individueremo allo stadio precoce”, fu l’affermazione a pagamento di un luminare della medicina istituzionale. Scoraggiata e sempre più stanca continuavo a farmi visitare da un dottore dopo l’altro, soppesando i pro e i contro delle varie terapie possibili in quel momento. Quando, infine, persino il mio omeopata-oncologo lasciò a me la scelta dell’intervento chimico, esausta optai per la chemioterapia: “Se gli eventi dovessero prendere una brutta piega, almeno i chimici non mi abbandoneranno”, pensai. È per questo motivo che si costruiscono le cattedrali nel deserto: la disperazione trova nella sicurezza concreta di un alloggio la sua impossibilità evolutiva. Si ratifica in quel sacrificio del mondo psichico l’impossibilità alla guarigione.

È mai possibile che la possibilità di vivere pienamente il presente sia legata costantemente al pensiero “vita mea mors tua”? E questo poteva avere a che fare con quanto mi aveva detto Limpida prima della pausa estiva: “C’è la questione del doppio da affrontare per potere finalmente scegliere per la vita”. Come già avevo avuto modo di notare, ciò che scorreva nelle stanze di quella cattedrale era morte istituzionalizzata. Ogni ventuno giorni mi recavo per ricevere la mia dose di veleno, la ‘rossa’ come la chiamano in gergo, da quei cosiddetti ricercatori che, sotto il camice bianco, tacchi a spillo o cravatte, erano depressi e disillusi quanto me, forse anche di più. Proprio loro che, senza neppure rendersene conto, si ritrovano a vendere l’anima per mettere a punto tecniche di misurazione dei recettori cellulari sempre più sofisticate, pubblicare fior di articoli sulle riviste scientifiche, darsi da fare per ottenere fondi e mandare avanti ‘laboratori’, nel mentre si allontanavano mille miglia dal dolore umano.

E intanto il veleno scorreva nelle mie vene facendomi finire sempre in un angolo di mondo perduto in cui non avevo più nome, volto, capelli, femminilità, sessualità, dignità. Una zona oscura in cui non interessava a nessuno chi fossi, cosa facessi nella vita o che grilli avessi per la testa; contavano solo il referto dell’ultima scansione e i globuli bianchi sufficienti per la dose di veleno successiva. Il mondo dei vivi sembrava sempre più inaccessibile quando cominciai a provare sgomento, in quell’annullamento subito, del mio stesso annullamento. Ero di fronte ad uno specchio e avevo scoperto di essere diventata invisibile a me stessa, cadavere prima ancora di essere morta. Sgomento che un giorno, dopo la settima seduta di chemioterapia, mi risparmiò quando vidi due occhi neri, straripanti di lacrime, venirmi incontro e stringermi tra le braccia. Restammo così, io e il mio compagno, abbracciati, a piangere per qualche istante al pensiero che una volta rientrati nella nostra casa avremmo dovuto affrontare l’ennesimo calvario che, questa volta, fu il peggiore di tutti. Ma di quel giorno voglio ricordarmi di come, nonostante tutto, egli riuscì a farmi ridere come solo lui sa fare, dicendomi che con il cranio rasato avevo proprio un look punk che mi si addiceva. Per lui, se non altro, rientravo ancora nel novero dei viventi.


A volte, anche quando la malattia ci sfiora, la vita continua a sembrarci eterna e si rimane nella convinzione di avere sempre del tempo: chi pensa alla laurea, chi al mutuo, chi a sposarsi e fare figli, rinviando sempre a domani la ricerca dell’essenza vitale. Questa forma di miopia di fronte alla vita ci rende prigionieri di noi stessi e delle convenzioni che abbiamo costruito come baluardo difensivo davanti alla provvisorietà.
Alla vigilia dell’ottava somministrazione chemioterapica la voce di Limpida tornò ‘spietata’ a ricordarmi chi ero e da dove venivo per cercare un modo per trovare dentro di me quella possibile scelta di salvezza, seppure provvisoria. Un unico sguardo, una sola parola, un’inconfondibile posizione del suo corpo, mi tesero quella mano, piccola ma tanto forte, che afferrai al volo quel tanto che bastò per trovare il coraggio, il giorno dopo, di presentarmi in ospedale e - con la dignità appena ritrovata - dire ‘basta’. Mi è sempre piaciuto che qualcuno mi ‘rimettesse a posto’ in modo diretto, senza fronzoli, caldo e deciso. E ancora una volta a farlo fu Lei. Quella nostra storia metteva a dura prova la mia sovrastruttura compiacente e finalmente il paradosso si affacciava sorridendomi: proprio io, la frettolosa per eccellenza, sempre combattuta fra la tenerezza ed il distacco, stavolta non avevo fretta. E Lei neppure. Mi diressi verso la cattedrale per sancire con la mia firma, e sotto la mia responsabilità, la fine di quel percorso chimico che avevo fatto mio. E fu proprio quella mattina piovosa e fredda di metà gennaio che feci uno di quegli incontri brevi, apparentemente insignificanti, che ci fanno capire, all’improvviso, quanto la vita sia fragile e come sia unico e prezioso il filo con gli altri mortali, nostri simili. Un episodio che a un osservatore potrebbe sembrare irrilevante, ma…

… Ero appena arrivata in ospedale con mia sorella e il mio compagno che cercavano parcheggio, un po’ perplessi e un po’ colpiti dalla determinazione di quella mia “scelta rischiosa”, quando all’ingresso vidi una signora di mezza età, appena dimessa, che stava tentando di andarsene via tutta sola. Aveva una pesante borsa e, dovendo usare le stampelle, non riusciva a salire a bordo della propria auto. Io la fissai, stupita che l’avessero lasciata uscire in quelle condizioni. Lei se ne rese conto, ma nel suo sguardo lessi distintamente che da me non si aspettava niente. Niente. Fu in quel momento che mi sentii spinta verso di lei da una forza irrefrenabile, uno slancio scaturito dalla mia stessa condizione di essere umano. Non era compassione la mia, ma un richiamo quasi viscerale: mi sentivo prodotto dello stesso stampo, infinitamente vicina a quella donna che, pur avendo bisogno di aiuto, non chiedeva alcunché. Le sistemai la borsa nel bagagliaio, mi misi al volante per uscire in retromarcia dal parcheggio, la aiutai a sistemarsi al posto di guida e le richiusi la portiera con un sorriso. Per quei pochi minuti lei non era stata lasciata sola. Ero stata felice di poterle tendere una mano, ma in realtà era stata lei a farmi un dono, con quel suo sguardo dignitoso, facendomi sentire parte di una comune condizione umana. Mi aveva fatto un regalo, sì, e ricordo ancora oggi nei suoi occhi quel mio averle risvegliato un po’ di fiducia negli esseri umani e nelle cose; proprio io rinforzavo l’idea che nella vita si potesse fare affidamento sull’arrivo di un aiuto giusto al momento giusto! Ma forse era un messaggio che stavo dando a me stessa.

I giorni e i mesi che da lì seguirono furono estremamente difficili. Scegliere di essere vulnerabile, farsi prendere dalla vita e lasciarsi trasformare, mi resi conto una volta di più che costavano cari. Tanto cari che, sola, di fronte allo specchio e alle mie ferite che vedevo malamente rimarginate, preda dello sconforto più nero, ricaddi nel nulla più assoluto pagando - questa volta - il biglietto di un viaggio che percepivo, forse a torto, spaventosamente solitario. E vennero i sogni di una bambina chiusa in una stanza buia con centinaia di topi che le giravano intorno impazziti, sogni di tessuti danneggiati irreparabilmente, il doppio volto di una donna nemica di sé stessa - quale che ero - che tornava a ricordarmi di chi ero figlia e quale eredità infelice mi sarebbe toccata se poco poco avessi parlato e svelato i ‘segreti di famiglia’. Sogni di ripetute violenze, mani sulla bocca che intimavano di tacere, tornavano ancora e ancora per sostenere che, per me, non era possibile guarire, perché se io vivevo qualcuno moriva. Come abbia fatto la mia terapeuta a prendersi l’impegno della cura ancora non lo so; credo proprio di averla ferita. Più tentavo di pugnalarla e più mi piaceva stare con Lei, non la potevo nemmeno vedere in volto quando poi bastava ascoltare la sua voce per sentirmi una stretta al cuore e piangere a dirotto. La odiavo profondamente ma mi davano un gusto mai provato le sue interpretazioni, anche quando erano talmente al limite della mia sopportazione che volevo picchiarla. Per non parlare di quando mi chiamava ‘matta’; “colpita e affondata”, mi ripetevo una volta a casa, e volevo solo sparire per la vergogna. La violenza va sempre a spasso con l’infelicità!

Un pomeriggio di quei tempi, dopo esser stata lontana da mia madre, malata anch’essa, per circa nove mesi, decisi di andarla a trovare. Misi il mio vestito più bello, spazzolai per bene la parrucca, mi truccai un po’ per nascondere il pallore e al volante iniziai a preparami a quell’incontro. Ero molto emozionata ma anche spaventata che potesse non riconoscermi. Emozione sopraffatta dall’ennesimo dolore che arrivò quando, nell’abbracciarla, lei mi rifiutò. Tornò quella vecchia sensazione che la vita non mi appartenesse, che per me non ci fosse proprio alcuna gioia ad attendermi se non, al più, un conflitto cronico. Così, come sempre accade quando una madre delude, mi avvicinai a mio padre. Mai errore più grosso, commisi! Da donne tradite e traditrici a uomini assenti e indifferenti. In quei giorni quanto ho guardato al mare mentre continuavo a ripetermi: “Prendi l’energia del mare e falla entrare dentro di te, nella tua mente, nelle vene, nei centomila cunicoli del tuo corpo. Lascia che ti scorra dentro e ti dia forza, la forza dell’Universo”. Uscii dalla casa di mio padre, sì, con un paio di costole malconce, ma avendo ben chiare tutte le occasioni che avevo sprecato per un malinteso senso di orgoglio, per valori di plastica, atti ipocriti, pensieri fraudolenti, per pretesi affronti patiti. Uscii dalla casa di mio padre finalmente con la vaga e dolorosa idea di non essere immortale e trovai sul sedile posteriore della mia auto proprio il numero unico della Rivista di cui ero redattrice. Quando tre anni prima ero stata invitata a farne parte, quasi non avevo osato crederci: ero stata scelta tra tanti, tutti seduti su sedie arancioni impertinenti, per il coraggio di avere detto. Che strano, impieghi una vita per imparare a dire ‘no’ - fondamentale - che, poi, d’un tratto ti accorgi che non sai dire ‘si’. Mi ero messa nei guai, anzi eravamo in due, visto che anche un’altra persona, un uomo, era stato scelto per lo stesso motivo. Mai giorni più felici vissi insieme con loro tre, rapiti tutti da colori, forme, parole, cene orientali, risate ma anche scontri per la ricerca di una espressione che perdesse quella sua durezza visiva e fosse lasciata libera di poter reinventare il mondo. Che notti e che giorni! Avrei voluto non finissero mai, avrei voluto proteggerli come non feci, avrei voluto viverli certa di non tradirli, come invece fu.
Il tradimento si era concretizzato quando ero stata lasciata sola da quegli uomini che con me avevano vissuto e fatto parte delle radici da cui quella Rivista proveniva. Per paura, per pressapochismo umano, per malattia, quei ‘compagni’ voltavano le spalle a quella avventura e anche a me che ne ero la protagonista… per la prima volta. Avrei potuto rimanere con tutta me stessa nella redazione, e invece mi sdoppiai, voltando le spalle a quel neonato che avevo contribuito a far venire alla luce. La storia della mia infanzia si ripeteva nuovamente ma, questa volta, ero io quella che abbandonava l’essere umano piccolo e indifeso. E, se dapprima fu crisi, poi mi spaccai del tutto: tornò il buio, il terrore, la manipolazione. Certo, continuavo ad andare agli incontri di redazione, ma mai con un sorriso sincero o una parola ‘gratuita’. Sentivo di tradire i miei ‘compagni’ quando nutrivo quel neonato, e sentivo di tradire quel neonato quando mi legavo a quei ‘compagni’. Percezione delirante? Più mi sporcavo le mani e più mi sembrava di morire giorno dopo giorno disperata. Forse sarei morta davvero se la redazione non avesse tenuto e risposto a tutto ciò tendendo sempre le orecchie, spalancando gli occhi, allargando le braccia, avendo cura di trasformare quei miei bui tentativi di fallire e far fallire, in nuovi stimoli.

E se la malattia fosse non una calamità ma piuttosto un tentativo dell’organismo per riparare i traumi subiti? E se i tumori che si crede di dover estirpare, combattere, distruggere, fossero soluzioni biologiche di sopravvivenza? Queste domande, partite dalla ricerca di Limpida, erano da una parte di me immediatamente riprogrammate: “Perché invece di pensare a estirparle o ucciderle, quelle cellule ‘maligne’, non si pensa di ri-programmarle affinché, morendo in modo naturale, possano trasformarsi in cellule sane, espressione dell’integrità e della coerenza dei sistemi che le manifestano?”. Le domande, se poste in malo modo, possono diventare delle trappole. In fondo anche Alex in Arancia meccanica viene riprogrammato, ma così perde perfino il rapporto con la musica che continuava a sopravvivere al suo odio.


Ricostruire la storia e scoprire che di storie come la mia ve ne sono tante. Sono la figlia minore di un figlio maggiore. Quando mia madre scoprì di essere incinta di me era già grandicella; tutte le liti e i tradimenti subiti e inferti fino a quel momento, di colpo nella mia famiglia furono fatti sparire come se non fossero mai esistiti. Sparirono con loro anche le poppate al seno e gli abbracci: una condizione che vide baby-sitter, zie, vicine di casa, amanti, prendersi cura di me al posto di mia madre che sempre di più andava fuori di testa. Il terrore nella mente e nel corpo cominciò da lì. Si potrebbe pensare che un sorriso, un tocco possano trasformare un reciproco vissuto di mancanza, ma non è così. Non c’è mai reciprocità tra il vissuto di mancanza di una madre e quello di un figlio: sarebbe come dire che un figlio ha la stessa responsabilità di chi l’ha messo al mondo. Sono diversi fin dal loro pianto.

Ancora oggi, quando ascolto qualcuno parlare con emozione di tutto ciò che la madre ha significato per lui, so bene di non poterlo capire fino in fondo. Ma se da una parte il mio corpo ha tenuto, per lungo tempo, fede a quel vissuto di vuoto, dall’altra, grazie a mia sorella - che si è occupata di me sin da quando avevo tre mesi - sono riuscita lo stesso a crescere e a cercare una via. Abbandonata sul piano emotivo e aggredita su quello fisico, sin da bambina ho imparato a sopravvivere tacendo e a fare ciò che ci si aspettava da me come figlia ‘rimasta’, visto che la primogenita era scappata da quella famiglia disastrata il più lontano possibile: niente capricci, niente sbotti di rabbia, ma solo disciplina e attenzione alle apparenze. Ho assolto al ruolo prestabilito per me, alla perfezione.

Quando a diciotto anni decisi di lasciare i miei genitori e, con lo strazio più assoluto nel cuore, la mia amata Lecce, rincontrai mia sorella nella Capitale. Roma, sebbene rappresentasse un tentativo disperato di ‘salvezza’, proprio non mi piaceva. Mi mancavano il mare, il dialetto della mia terra sempre così diretto e stringato, i miei amici, i caffè alle quattro del pomeriggio in piazza S. Oronzo, la pizzica ballata come una indemoniata nelle calde serate di agosto… ma anche il falso perbenismo, l’ipocrisia, il dovere essere belle a tutti i costi… insomma quella stessa indifferenza e depressione che ritrovavo nella mia famiglia prima ancora che dentro di me. In realtà la vita a Roma mi era difficile quanto quella vissuta a Lecce, con una differenza: non era bastato cambiare città per cambiare i miei vissuti e la modalità dei miei rapporti. Grazie a mia sorella, però, cominciò a farsi strada in me la possibilità di cercare… una ricerca.

Sfrega oggi, sfrega domani, dalla lampada uscì un genio che tutto aveva tranne le sembianze di un uomo muscoloso, con le braccia conserte e un turbante bianco in testa. Un ‘genio’ assai femminile iniziò a curare mia sorella sollevandomi di un grosso e delicato carico, anche se “quella lì” mi faceva incazzare come una bestia: avevo tutte le ragioni del mondo, io! Non solo qualcuno aveva osato intromettersi in questioni di famiglia che non poteva capire se non le aveva vissute in prima persona (oh quale arroganza!), ma osava - questo era il mio pensiero - pure volermi separare dall’unica ‘cosa’ buona che mi era rimasta. In realtà mi nutrivo indirettamente di quel loro rapporto fino al giorno in cui mia sorella terminò la sua terapia individuale per passare al gruppo. Fu proprio in quel momento - mi emoziona come allora ricordarlo - che su una seggiolina di legno bianca su cui strabordava la mia obesità, le chiesi: “Pensi che io debba curarmi?” E lei, sorridendomi: “Non lo so!”. Qualche giorno dopo incontrai colei che era stata per anni la mia ‘nemica’ e la sfidai raccontando la solita batteria di bugie. “Prova a prendermi”, pensai, ma Lei, con un sorriso disarmante non mi disse come mi aspettavo: “Sei solo una bugiarda”, ma mi ‘prese’ in terapia perché c’era una grave depressione da curare. Per fare questo avrei dovuto affrontare non solo la malattia depressiva di mia madre, l’assenza di mio padre e i tradimenti subiti da entrambi; ma dovevo anche mettere in discussione quel legame con mia sorella ‘salvatrice’ se volevo poco poco affacciarmi alla sola pensabilità di una guarigione. E fu guerra!

Dire di questi anni con Lei mi pare davvero troppo. Non perché abbia qualcosa da nascondere o tacere, figurarsi! Ma perché il rapporto che nacque tra me e Limpida, tra quelle calde onde di legno, i colori, i libri, è tutt’oggi “una storia del tutto singolare, molto meravigliosa ma tutta vera” ancora in corsa che, per il momento, voglio tenere tutta per me da egoista quale non sono mai stata. Forse un giorno scriveremo insieme di questa storia semplice che narra dell’incontro tra un randagio costretto a cacciare affetti per sopravvivere, e un’isola - la più bella, la più feconda - sulla quale e per la quale vivere con la pretesa di una presenza d’arte.

Un pomeriggio di questa estate, rimirando l’isola del film Il Postino, Salina, mi vennero in mente le parole del padre di Montgomery ne La 25ª ora: “Figlio mio, nel deserto si può vivere. Scappa, scappa lì ”. Parole che mi suonarono familiari e che mi fecero a dir poco rabbrividire. C’era stato un pusher nella mia vita? E se, da una parte, ammisi che avevo ancora molto su cui ‘lavorare’, dall’altra, iniziai a pensare da dove fosse venuta quella mia disposizione, praticata per anni, a eseguire virtù contrarie all’egoismo e atte a raggiungere il perfetto amore del prossimo, “l’amore come dio comanda”. Quella ‘virtù’ all’abnegazione che, raramente esercitata per niente, ma sempre dietro un corrispettivo, scoprii provenire dal rapporto con mio padre.

Le ventiquattro ore di Montgomery, prima della galera, dei denti rotti e degli stupri, della violenza e del sadismo, della miseria e della paura, sono necessarie affinché lui si riconcili con i suoi affetti, si congedi dagli amici, e decida del suo destino nella 25ª ora. Prigione? Suicidio? Fuga? Salvezza? E che tipo di salvezza? Vicino all’impudica scelta, in quella zona liminare che è lo specchio attraverso cui si confronta con il lato oscuro di sé stesso, in una luce che è aurora dentro un crepuscolo, Monty prova ad immaginare la sua vita da fuggiasco e, al solo pensiero di tradire la sua donna e ‘ricominciare’ nel deserto con una pseudo-identità, decide di far parte di quella 24ª ora comune a tutti i mortali. Un addio che, sullo sfondo di Ground Zero dilaniata dall’attentato dell’11 settembre 2001, racconta la separazione di un figlio dal padre.
Sforzarsi per tanti anni di tacere e fare buon viso a cattivo gioco un po’ con tutti. Quando è un padre ad insegnarlo proponendosi con un linguaggio da pubblicità - “Se c’è un problema, c’è un farmaco per curarlo” - è difficile alzare la voce, non fosse altro che per assicurarsi quel minimo di amore per sopravvivere. In questo modo ci si ritrova presi a tenaglia fra due ‘interessi’ assai potenti: da un lato quello ‘farmaceutico’ la cui logica impone soluzioni chimiche anziché spingere a ricercare nel proprio stile di vita e modificarlo; dall’altro quello ‘agroalimentare’ che a salvaguardia dei propri interessi impedisce la diffusione di informazioni troppo ‘pericolose’ sui legami tra alimenti e malattie. Difficile non allearsi con la rabbia nella convinzione di vincere il terrore. L’antilope viene divorata dal leone e il leone dal cacciatore che continua ad asserire a gran voce di come l’arte non porti il pane sulla tavola. Ma la malattia, che per fortuna non ci scivola sempre accanto come un cacciatore di frodo, se ascoltata e curata, non con i farmaci ma con la presenza quale òdo viscerale, insegna a lottare, mostra i ‘perché’ e i ‘come’, cerca e trova chi è disposto a scendere in campo e dimostrare, non solo che guarire si può, ma soprattutto che quella ‘maledetta’ felicità, opera inedita e straordinaria, può vivere dentro di sé. Quel ‘sé’ che, una volta ritrovato, è l’unico in grado di disinnescare un congegno micidiale e distruttivo e mostrare come fatto tangibile il progetto di un possibile futuro nell’Universo dei suoni.

Un’ora prima di lasciare l’isola di Salina, con queste parole nella mente, nella mia 24ª ora, mi vennero davanti i volti, le voci e le storie di tutti i miei ‘compagni di viaggio’, proprio tutti, con i quali avevo tanto condiviso e che da lì a poco avrei rivisto. La memoria dei contatti umani, gli abbracci, i sorrisi con loro, che tanto mi erano mancati nei mesi di buio pesto, tornavano soltanto ora al mio cospetto, riuscendo a sfilarmi dal volto quella sterile e soffocante maschera che mi aveva a lungo nascosta. La speranza, alla stregua di un girasole al centro di un mazzo di rose rosse, era forse tornata ad abitarmi con le sue migliaia di cellule ostinate, combattive, sane? Forse sì. Io ero ritornata da loro e provavo un profondo sentimento di riconoscenza per avermi mostrato in tempi di cecità quella che era stata, era e poteva ancora essere la mia vita.

Da dove veniamo? Veniamo forse dalle stelle, de sidera, dal nucleo primordiale di materia che si è formato alle origini dell’Universo? E se così è, i nostri desideria più profondi, sono quelli di collegarci all’Universo per esperire una conoscenza del nostro essere ed essere nel mondo? Unici ed irripetibili, essi ci fanno forse sentire parte del mondo umano che pretende di essere rispettato alla stregua del rispetto per noi stessi e per la vita? Un passaggio, questo, che mi ha ricordato di quando, appena scoperto il cancro, avevo chiesto a Limpida: “Perché, perché a me?”. E Lei: “Suppongo sia una questione di Etica…”. E, così dicendo, mi porgeva la relazione tra Etica e Vita. In quel dono mi sembrava di potere ritrovare la speranza, il luogo delle “sculture di corallo che danno forma all’oblio”… ma sentivo da qualche parte di non avere compreso fino in fondo.


La comprensione di quel rapporto tra Etica e Vita arrivò improvvisa e inaspettata una domenica mattina di ottobre in cui Limpida mi mise di fronte alla scelta se restare nel doppio di sempre, divario tra pubblico e privato, o riunire in modo coerente questi due aspetti per una ricerca etica, la sola in grado di portare ad una vera espressione artistica. Nemmeno fece in tempo a pronunciare la parola ‘etica’ che, in un’atmosfera lattescente di de-composizione, compresi che fare ricerca per acquisire credibilità e potere a Lei non era mai interessato. Decisi di tacere un po’ per la vergogna, un po’ per quella ciocca di capelli rossi che ricadendole aggraziata sul volto le scopriva gli occhi umidi, e più di un po’ per quel dolore di cui era pregna la sua voce. Lo stesso che, ancora oggi, mi parla nelle lunghe notti insonni: “Il legno è robusto, reggerà”. Toccavo le mie cicatrici e sentivo il dispiacere al solo pensiero di lasciare questa vicenda umana.

Andavo fuori dalla redazione della Rivista, è vero, ma non ne uscivo a mani vuote. Le forme e i colori delle pagine che avevamo scritto avevano creato, oltre ogni mia aspettativa o al contrario, tentativo di annullamento, quella superficie pulsante e dinamica chiamata immagine. E mai avrei pensato che quella sua ‘offerta’ potesse farmi ricordare delle dozzine di boe che spesso mi aveva lasciato in mezzo al mare affinché potessi nuotare con coraggio verso la successiva, fino a poter sognare di una donna bellissima al di là di un muro d’acqua. Voleva, Lei, non risultati ma suono - seppur gracchiante - che potessi sentire nei visceri come possibilità di costruire la verità del nostro rapporto e del mio con gli altri. Da quella domenica sono trascorsi, materialmente, pochi mesi; internamente, una quantità di tempo indefinita. Quel tanto che è bastato per accorgermi di quanto i miei capelli siano ricresciuti e dire “Sì, è vero, il tempo non è infinito”, mentre siedo tra le radici di una secolare quercia salentina e rileggo le interpretazioni dei sogni di questi ultimi due anni.

Quanto tempo perso in un groviglio di parole: “Lei non può capire. Nessuno può capire. Sto per morire e nessuno può farci nulla”. E quanto altrettanto tempo Limpida, il mio terapeuta, ha vissuto in solitudine ma con integrità quelle mie parole votate all’impossibilità. “L’arte della memoria è ... conoscenza”, scriveva in tempi di guerra, scolpendo - non manipolando - quella materia umana per liberarla dalla malattia del materialismo. Limpida, il luogo che ha ospitato le mie emozioni dimenticate, la mia memoria, la forma di energia che ha reinventato instancabile mille volte il mio scarno mondo interno, fatto, questo, di saltuarie espressioni intuitive e infinite costruzioni ragionate.

Uno scritto ‘definitivo’ è uno scritto già fallito in partenza! Ed è per questo che agitando la fronte e, centellinando quelle gocce di sudore che si sono raccontate in sei atti - Storia aperta -, mi preparo per la prossima corsa verso quel luogo e quel tempo in cui poter divenire “colui che riesce ad andare oltre il racconto privato per proporre l’Arte della Memoria”. Non ve n’abbiate a male, pertanto, Scrittori, Lettori, Artisti ed aspiranti Artisti se proprio debbo andare. Scusatemi, ma ho un appuntamento! E, benché sia materialmente donna, il mio uomo non può proprio farsi attendere, seppur cinque minuti, altrimenti mancherà all’appuntamento che Lei mi ha dato sotto l’orologio e il gelato si squaglierà.
BIBLIOGRAFIA
M. DE CERVANTES SAAVEDRA, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha,RCS Ed., Milano 2007.
L.N. TOLSTOJ, La morte di Ivan Il’iç, trad. di G. Buttafava, Garzanti Ed, Milano 2007.
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Solo a te, a te che sai ascoltare, le immagini parlano sussurrando le loro storie, laddove la vita e la morte articolano di continuo il senso della conoscenza tenendo il filo liquido della memoria che sgorga sempre novella dalla notte dei tempi.
Audace visione, come lampo che illumina la notte, essa ci parla di uno snodo, uno scambio che raccorda e separa le traiettorie umane. Punto di incontro di risonanze tutte le volte che i tam-tam delle foreste scendono lungo i fiumi per arrivare fino al mare... e poi ripartire.
Eccoci giunti di fronte a questa distesa azzurra, liquida, che, senza confini, sembra arrivare fino alla volta del cielo e uno stupore misto a timore ci prende: davvero questa distesa che occulta la visione di ciò che è sommerso, ci può fermare?
Ti odiamo, mare, per quel che non ci fai vedere, per quello che ci fai provare. Ti odiamo perché ci siamo immersi e abbiamo rischiato di affogare. Ma quando poi, stanchi e furenti ci siamo addormentati al chiarore della luna, un sogno ci ha riportato alle origini della vita dove tutto è sospensione: non passiamo forse i primi nove mesi di quella esistenza che non è ancora vita a galleggiare in un caldo e sonoro mare interno? Galleggiare… ricevere una spinta dal basso verso l’alto di intensità pari al peso del fluido spostato: quale meravigliosa scoperta, ratificata nei secoli a venire da Archimede con quel suo “Eureka!”.
Quello che sembrava un limite che ci lasciava straziati su quel lembo di terra a rimirare sconsolati il mare, è divenuta occasione per scoprire qualcosa che c’era fin dalle origini… è divenuta occasione per inventare un modo di muoversi nel mare, con il nuoto – faticoso a dire il vero, soprattutto per coprire le grandi distanze – o con le imbarcazioni.
Grazie mare, per esserti posto come limite. Grazie a te siamo stati costretti a reinventarci e a riconsiderare la nostra posizione nel mondo. Abbiamo così tracciato i confini di un altro mare interno, il Mediterraneo, e abbiamo cavalcato le onde in modo sempre più sicuro, anche se a volte decisamente più arrogante: quelle traiettorie di navigazione hanno costruito i movimenti delle civiltà, i loro incontri, i loro scambi, le loro guerre.
E mentre disegnavamo tronfi le carte geografiche del mondo conosciuto, abbiamo trovato un nuovo confine in quell’imbuto di acqua gorgogliante tra le colonne di roccia che, alte, spiovono verticali sul mare. Le Colonne d’Ercole – così le chiamano – si ergono come le intelaiature possenti di una porta spalancata sull’ignoto al cui cospetto ognuno è solo.
Mi volto. Lancio un ultimo sguardo a quel mare tra le terre che un tempo mi era sembrato immenso e in un battibaleno vedo il tentativo impareggiabile degli umani di restituire bellezza alla bellezza: tra i rivoli di sangue delle guerre di potere si stagliano i giardini di Babilonia, il palazzo di Knossos, la Biblioteca di Alessandria d’Egitto…
… Ma a ben guardare scorgo anche le tombe costruite per i loro defunti dalla pietas di coloro che rimanevano in vita. Nessun animale ha mai fatto tanto. E soprattutto mi pare di sentire la voce del primo uomo che una mattina, anziché uscire dalla grotta per cacciare, prese una pietra acuminata e tracciò le scene di caccia di cui era stato protagonista, illuminando la grotta e l’intero genere umano di una nuova luce.
Quello fu il momento della fatale scoperta: non si vive di solo cibo. Forse quel primo Uomo fu ucciso o morì di fame, fino a quando arrivò un secondo Uomo che comprese e si adoperò per proteggere quella forma e chi l’aveva partorita: fu così che nacque l’eroe. E proprio grazie a quel riconoscimento, quell’Uomo continua a vivere nell’eternità di quel primo atto creativo dove scopriva che non era nato solo per sopravvivere.
Questo io vedo e questo è ora in me. Come testimone lasciato dalla Storia, mi trovo nuovamente di fronte al crocevia: potrei rimanere al riparo di questo mare calmo o attraversare questa porta gigantesca che la natura sembra avere posto come memorabile sfida. Forse morirò, come quel primo artista, ma ora che so di questa porta rimanere sarebbe già morire.
Mi avventuro tra le colonne laddove le onde si fanno più tumultuose e spumeggianti, e annuso l’aria che sembra reclamare a gran voce nuovi polmoni. Forse gli anfibi che osarono lasciare il mezzo liquido per avventurarsi sulla terra, provarono la stessa sensazione fisica.
…E urlo… come un neonato alla fine del canale del parto per aprire i miei polmoni. Quelle cosce superbe sono ormai dietro di me come due guardiani che proteggono uno scrigno pieno di preziosi, prezioso a sua volta. La luce è abbagliante, ma il suono del mare è sempre quello, forse più intenso. Non c’è terra davanti ai miei occhi, solo mare… che sembra pretendere da me la stessa liquidità, “ove per poco il cor non si spaura”.
Quella luminosità accecante mi costringe a chiudere gli occhi, ma non c’è buio dentro di me mentre continuo ad ascoltare i suoni e ad annusare l’aria. Un bagliore diffuso si fa strada tra le spume di mare e l’isola di Creta si fonde e confonde con mille altre beltà. Una nuova forma di bellezza incede tra una realtà che non è più, ma allo stesso tempo è ancora, anche se in modo diverso. Questo bagliore, nel mentre mi parla, canta la sua storia, e tra tutte le storie…
… “Una supera tutte le altre in grandezza e valore: quella che parla di una grande potenza che veniva dall’Oceano Atlantico, un’isola posta di fronte agli stretti che voi chiamate Colonne d’Ercole, più grande della Libia e dell’Asia messe insieme. Il mare che si trova all’interno delle Colonne d’Ercole non è altro che un porto con un’angusta entrata, mentre l’altro è un vero mare e la terra che da ogni parte lo circonda può a buon diritto essere considerata un continente senza limiti”.
È che quando il cuore “si spaura”, abbiamo imparato a chiudere gli occhi, forse per rimanere soli con noi stessi a prendere coraggio. E lì, in quel mancamento degli occhi che apre alla visione, possiamo ritrovare ogni volta Atlantide, il riflesso di ciò che è stato, mescolato alla speranza che si fa certezza di ciò che ancora non è ma potrà essere.
E sebbene passeranno ancora secoli e secoli per scoprire il Nuovo Continente, io già so della sua esistenza. E lo so perché so di Atlantide, non la città perfetta vagheggiata da Platone o quella cercata ossessivamente dai vari studiosi per il mondo in ogni tempo, ma una civiltà di donne e uomini imperfetta e viva che tentava di fare della bellezza lo scopo della propria esistenza. La nostra civiltà. Atlantide racconta da sempre e per sempre la nostra capacità di riflettere su noi stessi e sulla nostra naturale capacità di fissare l’attenzione su ciò che è bello. Capacità che appartiene a tutti, per nascita, perché tutti possono rispondere a ciò che è Bello.
Mentre sono ancora qui tra le onde salate a pescare con i sensi le luminescenze riflesse di un mondo che è e non cesserà mai di esistere, ritrovo quello stato di intenso godimento che mi fa sapere in ogni momento di me, di come voglio essere e di dove voglio stare. Di tanto in tanto lascio andare qualche bottiglia galleggiante che porta con sé “quanti” di bellezza a quanti possono coglierla, ma immediatamente so che tutti lo possono fare... perché il godimento estetico si sperimenta fin dalla nascita e ci orienta nella relazione con il mondo alla ricerca di quelle affinità (s)elettive che ci restituiscono all’armonia dell’Universo.
Tutto questo sussurro solo a te, a te che sai ascoltare, nell’Agorà di ogni Tempo: la Bellezza per sua stessa natura chiama all’appello altra bellezza ed è proprio questa attitudine estetica che ci permette di evolvere, sia come individui, sia come Società.
È solo grazie a Lei che scopriamo il senso profondo della parola responsabilità, vale a dire abilità a rispondere. Non sto parlando, signori miei, della responsabilità come viene comunemente intesa, ossia cosa è doveroso fare per gli altri. No, io sto parlando del piacere che suscita in noi la nostra stessa abilità a rispondere, perché è presenza umana senza condizioni e senza reticenze che si apre alla nostra pluralità espressiva. E così scopro che proprio Lei, “l’antidemocratica” Bellezza che si staglia a sottolineare instancabilmente le differenze, apre sempre alla responsabilità di una evoluzione interiore che porta verso l’altro, vera essenza della democrazia.
E a coloro che parlano di come la Bellezza da sempre semini zizzania, rispondo che questo accade ogni qualvolta gli umani si convincono di non poterLe rispondere più e deformano quella condizione temporanea di essere potenzialmente abili anche se non ancora pronti, in una asserzione granitica di impotenza che apre inequivocabilmente alle vie dell’odio.
Non so proprio dirti se questa sia la strada giusta per tutti, ma mi piacerebbe che lo fosse perché è sicuramente l’unica che può portare ad una tale appartenenza di Sé al mondo che perfino la morte potrà diventare nostra amica nella misura in cui non ci toglierà nulla di ciò che abbiamo vissuto e condiviso con gli altri. Perché se il nostro movimento sarà stato Bello, rimarrà nella rete delle esperienze umane, archivi della memoria, finché un eroe girovago e incontentabile lo ripescherà dal fondo del mare e lo renderà conoscibile. In fondo tutto di noi, a partire dalle nostre radici biologiche, ci parla di come siamo fatti per evolvere.
È quanto ritrovo sempre dentro di me quando guardo ciò che non conosco. Come un neonato che alla nascita sa fare la differenza tra ciò che è umano e ciò che non lo è, mi avventuro con la calma propria di questa certezza… e so che “il naufragar m’è dolce in questo mare”.
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“Agora” di Alejandro Amenábar.
Ipazia. LA DONNA DELLE STELLE, recensione di Concetta Turchi. Anno 2010
LA DONNA DELLE STELLE


Una donna emerge prepotente da brandelli della Storia tramandata non solo dai pochi documenti ufficiali in mano agli storici, ma da scrittori, pittori e poeti che l'hanno voluta restituire alla poesia della sua nascita. Hypatia era il suo nome, scienziata e filosofa vissuta ad Alessandria d'Egitto tra il 370 e il 415 d.C.; figlia di Theone, studioso di matematica e di astronomia, superò in bravura il padre, perché riuscì a fare della conoscenza una occasione per diventare sapiente.

Fin dal III secolo a.C. Alessandria d'Egitto era diventata il centro della sapienza del mondo antico, da quando i nobili Tolomei l'avevano scelta come capitale. A loro si deve la fondazione della Biblioteca, del Museum e del Bruchium: la prima raccoglieva le opere dell'antichità; nel secondo vi si svolgevano gli studi propri della conoscenza umana; il terzo era un vero e proprio quartiere delle scienze e delle arti (una sorta di Ateneo) dove si tenevano le lezioni e le discussioni vive legate alla vita di ogni giorno. Con la caduta dei Tolomei ad opera dei Romani la luce di Alessandria d'Egitto si affievolì... ma non si spense. Non si spense neppure quando Aureliano, nel 273 d.C. fece distruggere gran parte di queste strutture: i sapienti, allora, gridando giustizia e non vendetta, si ritirarono con i loro tesori di carta sull'Acropoli della città, sede del Serapeo, il cui manto blu disseminato di pietre scintillanti esprimeva il mirabile connubio tra bellezza e sapienza, prima ancora di rappresentare il potere dei monarchi ellenici. Il Serapeo divenne così il simbolo della ricerca e al contempo della resistenza nei confronti della cecità dettata dalla ignoranza; basti pensare che, in accordo con l’esigenza di sviluppare ogni forma conoscitiva, intorno al 300 d.C. (prima quindi dell’editto di Milano) sorse anche una scuola in cui veniva insegnato il Nuovo Testamento.

Inizialmente non vi fu contrasto alcuno tra la formazione cristiana e quella ellenistica: non veniva ancora utilizzato per gli elleni, gli abitanti di origine greca, il termine dispregiativo di pagano. Ma con l’Editto di Costantino del 313 d.C., che concede la libertà di culto ai cristiani, si apre una stagione di profonde mutazioni culturali e politiche.

Strano a dirsi, ma con l’affermarsi del Cristianesimo si fa strada una feroce condanna dei sogni: la credenza sulla loro natura divina viene sovvertita da S. Agostino il quale nel 378 d.C., dopo la sua conversione al cristianesimo, teorizza la divisione dei sogni in tre categorie: quelli mandati da Dio, quelli mandati dal Diavolo e, infine, quelli legati ai malesseri del corpo. Poiché non è possibile fare la distinzione, i sogni in blocco vengono condannati e, con l’avvento di Teodosio, il successore di Costantino, anche coloro che interpretano i sogni rischiano la condanna a morte.

E le immagini si fanno frenetiche nel loro movimento vorticoso, a ricercare i nessi e, attraverso i nessi, arrivare al senso delle cose. E mentre Hypatia cominciava a parlare delle forze che legano tra loro i pianeti, le stelle e il sole, si scavava profondo il solco tra fede e conoscenza, strada della spaccatura paradossalmente aperta proprio da quel Platone tanto osteggiato dai Cristiani, ma tanto utile per ribadire negli anni a venire la dicotomia tra un corpo, sede di ogni lordura, e l’anima.

Il maestoso cavallo di legno di un mondo di uguali di fronte a Dio fu fatto entrare nella città di Ilio dalla porta principale, portando in sé un contenuto di morte e distruzione. E arrancavano le religioni politeiste riunite sotto la romanità perché, pur essendo portatrici di un contenuto irrazionale, si erano sempre occupate della sfera cosciente e del suo frutto più evidente, il comportamento. La nuova religione, che punta ad un contenuto interiore, vuole impossessarsi del rapporto con la realtà psichica e del suo frutto più succoso, il pensiero. Il mondo irrazionale precipita nella voragine del Male e la scienza medica viene usurpata per secoli e secoli della possibilità di studiare e curare quelle alterazioni del pensiero legate alle malattie psichiche.


La vita e la ricerca di Ipazia si svolsero dunque in questo particolare passaggio della nostra storia di umani: l'espansione del cristianesimo, la decadenza dell'Impero romano e le modificazioni strutturali degli stili di potere. Aveva circa venti anni, ed era già una brillante scienziata, quando Teodosio fa del cristianesimo la religione di stato: su sollecitazione del vescovo Teofilo, vengono emanate leggi contro i culti pagani e gli elleni, che ad Alessandria d'Egitto rappresentano il gruppo dominante, vengono “invitati” ad abbracciare la nuova religione. Teodosio ordina la distruzione dei templi degli elleni, ma questi ultimi insorgono occupando il Serapeo che sarà messo a ferro e a fuoco nel 391 d.C. e diventerà un nuovo luogo di culto per i cristiani.

Sembra proprio che papi e imperatori avessero un disegno comune: distruggere le biblioteche e asservire la conoscenza. Questo poteva essere anche il pensiero della giovane Ipazia, assai attiva nel salvaguardare la pluralità di quel mondo antico che affrontava il modello globalizzante cristiano. Lei che, nel seguire le orme del padre, non si limitava agli insegnamenti tecnico-matematici, ma da quelli partiva per le grandi riflessioni sull'uomo. Bella, appassionata, intelligente e dotata di grande capacità dialettica, Ipazia era al contempo scienziata e filosofo, cosa piuttosto frequente in quei tempi in cui la ricerca scientifica e l'espressione tecnica si ponevano come base imprescindibile per quelle riflessioni dell'uomo sull'uomo che viene denominata Filosofia. Come scienziata approfondì soprattutto il campo della matematica e dell'astronomia (studiò e realizzò l’astrolabio, l’idrometro, l’aerometro), come filosofa si allineò sulle riflessioni filosofiche di Platone e di Plotino.

Da questa illustre scienziata e pensatrice, che tra l’altro assunse per un periodo la direzione della scuola neoplatonica del Museum, andavano cristiani e “pagani”, avvinti da quel metodo che, molti secoli dopo, grazie a Galilei, si strutturò come metodo scientifico: “Noi dobbiamo scoprire l’origine della vita, elaborando un progetto, passando dalla teoria alla pratica, sperimentando ogni formula che abbiamo studiato a tavolino, affinché diventi infinito ciò che è finito, cosciente quello che non è cosciente, certezza quello che è ancora probabilità. E ci serviremo di qualunque materia, compresa la musica!”. Ipazia, donna di eccezionale intelligenza e capacità, ebbe allievi illustri che, nel tempo, andarono ad occupare posti di rilievo sia nell’ambito della nascente Chiesa, sia dell’Impero romano. Tra i suoi allievi primeggia Sinesio, divenuto in quegli anni Vescovo di Cirene, il quale manteneva una ricca corrispondenza epistolare con la sua Maestra (a lui si devono tra l’altro le notizie e i documenti più importanti che ci sono rimasti di lei).

Ipazia, però, non si limitava a costruire apparecchi o ad insegnare a quegli allievi della aristocrazia che avrebbero un giorno occupato posti di potere. No. Questo a lei proprio non bastava. Se fosse stata una donna avida di potere, come diversi storici hanno ipotizzato, questa sarebbe stata la via maestra per ottenere sempre più benefici e potere. Invece le sue lezioni erano aperte, come era aperta la sua visione del mondo e della ricerca, in netto contrasto con ogni posizione fideistica. E le sue lezioni continuarono anche dopo la distruzione del Serapeo nella sua casa in via del Sole, adibita per l’uso: nel Centro Studi si riunivano almeno una volta a settimana studiosi di ogni tipo e di ogni formazione, scientifica e religiosa.

Voce della aristocrazia, ma anche voce che si dava a chiunque la volesse ascoltare, Hypatia influenzava fortemente la politica della sua bella città. La si poteva vedere con il mantello nero del filosofo (il tribòn) gonfiato dai venti, scendere nella agorà, cuore pulsante della polis, per esprimere la sua funzione di garante civico: ed era ammirata e stimata per questo, forse anche venerata per la sua bellezza potente e casta.

Ma l’espansione inarrestabile del Cristianesimo sbarra la strada ad Ipazia e ad una intera comunità di scienziati: questa nuova religione, monoteista, si insinua nella vita politica dello stato e di conseguenza il filosofo viene progressivamente messo da parte: il vescovo diventa il nuovo garante civico. Sia chiaro, la “infinita bontà” della Chiesa non vuole fare fuori scienziati e filosofi: li vuole semplicemente asservire e tenerli relegati entro le mura della loro scuola a dare una conoscenza teorica che non sarà mai sapienza, perché sotto lo scacco del dogma; un po’ come l’albero della conoscenza dell’Eden i cui frutti non possono essere mangiati.

Eva costringe l'uomo al peccato originale per avere mangiato il frutto della conoscenza. Strano a dirsi, ma nella storia dei miti, i frutti sembrano essere terribilmente pericolosi! Il frutto dell'Eden sembra riprendere, con uno scivolamento di senso, il pomo di Paride. Conoscenza e bellezza. Di fronte al connubio tra queste due perle della realtà umana scatta il giudizio come dogma... e l'uomo e la donna vengono allontanati “per sempre”, l'uno nemico dell'altra.

Come sempre accade, i vari elementi di realtà si concatenano tra loro in modo esatto… e mai a caso. In concomitanza con la morte di Teodosio diventa vescovo Cirillo, il pater di quella metamorfosi definitiva del Cristianesimo che porterà il potere temporale sulle sponde del Medio Evo. In linea con questa nuova posizione assunta dal Cristianesimo all’interno dell’Impero, Cirillo assolda uomini violenti, cani randagi pieni di rabbia e di odio sociale contro il mondo civile e li assorbe nei parabolani: questo corpo di monaci infermieri con le sue squadracce della morte, stabilirà con la violenza e il terrore le future regole della cristianità.

Per Cirillo è importante l’alleanza con il cristiano Oreste, prefetto di Roma, anche se per stabilire tale alleanza deve insinuarsi tra le maglie della forte affinità culturale tra Oreste e Ipazia: deve allontanare il filosofo e lo scienziato per introdurre il credo religioso. Ipazia a quei tempi aveva quarantacinque anni e, seppure ancora molto bella, veniva venerata e rispettata come una anziana sacerdotessa. Si narra che “Phthonos personificato si levò in armi contro di lei”. Così denuncia Socrate Scolastico, uno dei più autorevoli commentatori storici del tempo, nel raccontare di come un giorno, passando davanti alla casa di Ipazia, Cirillo vedesse un grande assembramento di persone giunte da ogni dove per ascoltare una delle lezioni della illustre scienziata: l’invidia che si scatenò nei confronti della donna fu fatale a entrambi.

D’altra parte la nascente religione cristiana, a differenza di quella greco-romana ed egizia, non poteva neppure pensare alla esistenza di una donna come Ipazia: libera, presente, non subordinata politicamente, sapiente e, soprattutto, capace di parlare di tutto con tutti. Libertà di parola, quindi, in grado di esprimere presumibilmente pensieri di questo tipo: “Il ruolo della donna non è stato scritto da dio, ma da uomini come te, patriarca. La donna si è quasi sempre vista negare l’accesso al sapere… Tu sai perfettamente che chi detiene la conoscenza detiene un potere. Tu hai paura della mia scienza, di quello che io ho imparato e di quello che imparerò. Perché quello che io sto scoprendo può mettere in pericolo la tua posizione di vescovo e di patriarca”.

Le dinamiche si svolgono inesorabili. Nel 414 d.C. la comunità ebraica, da sempre antagonista dei cristiani, convince il prefetto Oreste, da molti considerato, non a torto, un sanguinario, ad arrestare e torturare un agitatore di Cirillo; quest'ultimo invia i suoi parabolani per aizzare i cristiani contro i giudei, che vengono cacciati dalla città. La lotta di potere tra Oreste e Cirillo si fa imponente e Ipazia si trova in mezzo ai due. L'assalto al corteo del prefetto augustale da parte dei parabolani fa precipitare gli eventi: una pietra scagliata da un certo Ammonio colpisce Oreste e quest'ultimo ne intima l'arresto e la morte sotto tortura. Gli animi dei cristiani si infuocano anche perché Oreste, nel fare torturare a morte Ammonio, agisce contro quelle stesse leggi che avrebbe dovuto difendere; quindi i cristiani si sentono legittimati a muoversi di conseguenza. La campagna di odio preparata nei confronti di Ipazia porta al naturale epilogo: è l’8 marzo del 415 d.C. quando Ipazia viene trucidata, mentre torna a cavallo nella sua abitazione in via del Sole. Nonostante il pericolo annunciato, non aveva voluto lasciare la sua Alessandria e il suo Centro Studi.

È Pietro il Lettore a guidare i parabolani. La accerchiano, la spogliano, le cavano gli occhi e poi… con delle conchiglie taglienti, le stesse che i bambini prendono per ascoltare il suono del mare, la fanno a pezzi. Infine, come sciacalli assetati di sangue, prendono i brandelli di carne ancora grondanti e, attraversando la Porta della Luna, li portano al Cinerone. La bruciano con l'immondizia… perché di lei non rimanga traccia.

Ipazia deve letteralmente sparire dietro il fantasma di quella strana assonanza tra il Male e il corpo delle donne, nella prova generale di quell'assalto alle streghe che alimenterà i roghi del Medio Evo. Deve sparire dalla scena il corpo delle donne.
Ma può davvero la malevolenza cancellare al contempo Ipazia, la Polis, la Scienza e la Conoscenza come patrimonio dell'umanità? Si può davvero concludere che si arrivò ad accusare Ipazia dell'inimicizia tra Oreste e Cirillo perché, essendo Oreste cristiano e lei “pagana”, Ipazia fu considerata la sobillatrice delle decisioni di Oreste? Di fatto lei disturbava, con la sua indipendenza, l’antagonismo fra i poteri, imperiale ed ecclesiastico, rappresentato dai due uomini. Fu questo? Fu la questione politica legata al potere del garante civico? O la questione non meno importante di sottomettere la scienza al nuovo credo religioso? Non ci è dato di sapere con certezza. Possiamo ipotizzare che Ipazia sia andata a sancire, attraverso il suo martirio umano e politico, la scellerata alleanza tra due poteri, quello della Chiesa armata da sempre contro la Scienza e quello dell’Impero armato sottilmente contro la Coscienza intesa come Etica della conoscenza.

Dovevano cancellare dalla Storia la fulgida stella d'Oriente, una donna la cui bellezza, ricerca della verità, stile di giustizia, mettevano a repentaglio il mondo razionale dell’Impero e il controllo razionale sul mondo irrazionale operato dalla Chiesa. Dovevano cancellare finanche il corpo di una donna per dare spazio ad una religione senza immagini e senza sogni che prendeva il posto del politeismo religioso dove vi erano le immagini e vi era la possibilità di mettersi in ascolto fiduciosi dei propri sogni. Sono ipotesi, letture, interpretazioni. Con certezza si sa soltanto che si apre in questa fase della Storia, un periodo di persecuzioni sempre più violente in cui la Scienza, la Filosofia e la Medicina dovranno subire una dissociazione forzata per molti secoli a venire asserviti alla religione cristiana. Così come il corpo della donna dovrà essere seviziato e separato dalla realtà della sua immagine interiore per ancora molti secoli.
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PERCHÉ SEMMELWEIS di Cinzia Sersante. Anno 2010


Ignác Fülöp Semmelweis era un giovane medico ungherese quando, verso la metà dell'Ottocento, ebbe una intuizione che avrebbe potuto segnare anzitempo un passo decisivo nell'evoluzione della scienza medica e della storia dell'umanità: infatti, sono dovuti trascorrere ben quaranta anni prima che Pasteur “vedesse” i germi che veicolano le malattie. Il suo nome è a tutt'oggi pressoché sconosciuto, o riportato in un breve accenno trattando le scoperte di Pasteur.
L'intuizione del dottor Semmelweis nacque dal tentativo di trovare un modo per sconfiggere la febbre puerperale che in quel secolo dilagava facendo strage di partorienti. Egli si interessò a questo problema quando iniziò a lavorare come assistente del professor Klin, direttore di un padiglione di Ostetricia e Ginecologia dell'Ospedale Generale di Vienna. Le donne che partorivano in ospedale erano soprattutto ragazze madri, perciò la morte poteva essere considerata la giusta punizione per i loro evidenti peccati; strascico di un pensiero medioevale in cui la sessualità della donna era temuta e punita, e che trovava alleanza nella razionalità del secolo dei Lumi e nel perbenismo ottocentesco. Pertanto non vi era un reale interesse, né scientifico né tantomeno umano, a comprendere quale fosse la causa di tali decessi. L'unica speranza per le donne viennesi era di essere accettate nel padiglione diretto dal professor Bartch, ove la mortalità era nettamente inferiore. La differenza principale tra i due padiglioni era che nel primo le puerpere venivano visitate dagli studenti di medicina, mentre nel secondo erano seguite dalle levatrici tirocinanti.
Era il 1848 quando Semmelweis fu in grado di dimostrare il coinvolgimento degli studenti nel contagio: capitava spesso che questi ultimi eseguissero esami autoptici prima di visitare le gestanti. Comprese la necessità di disinfettare le mani con una “soluzione di cloruro di calce”, poiché queste, attraverso il contatto, veicolavano il contagio. Scacciato da Klin, la sperimentazione venne effettuata con gli studenti presso il padiglione di Bartch. I risultati furono netti poiché i decessi delle puerpere scesero sotto l'1%. Quando la sperimentazione fu proposta nei vari ospedali europei, i medici si rifiutarono ottusamente di applicare correttamente una prassi ritenuta aprioristicamente inutile. I risultati quindi non furono altrettanto positivi e vennero utilizzati in modo mistificatorio, invalidando la sua ipotesi e gli esiti sperimentali da lui ottenuti.
Per la società dell'epoca cosa era inaccettabile nella prospettiva che lui andava delineando? Come era possibile che anche nel resto dell'Europa ottenesse la stessa ostilità? Allora non si aveva l'idea moderna di infezione, né gli strumenti a disposizione dei medici consentivano di individuare particelle e microrganismi veicolati attraverso le mani e gli strumenti operatori. L'unica traccia a cui Semmelweis poteva fare riferimento era l'odore. L'odore della morte. Egli si affidò a questa traccia ipotizzando che la causa del contagio fosse qualcosa di invisibile agli occhi: la vera rivoluzione era la proposizione di una visione della realtà non vincolata esclusivamente a ciò che è materialmente visibile.
Affermando la necessità di un passaggio costituito dalla disinfezione, Semmelweis sanciva che la vita e la morte dovessero essere trattate in modo differente. Sancire tale differenza rappresentava l'elemento sovversivo nei confronti di una ideologia incapace di distinguere la vita dalla morte. La sua realtà umana lo conduceva semplicemente ad affondare le mani nella ricerca dell'invisibile: non è nella natura umana scindere la realtà psichica da quella fisica. Quando si annulla la realtà psichica e l'uomo vive solo l'aspetto materiale, la morte psichica svuota la vita deformandola in solo contenitore di eventi materiali che si susseguono nell'attesa della morte fisica. D'altra parte nell'Europa che aveva attraversato la Rivoluzione Francese e il dominio napoleonico, terminato col Congresso di Vienna e la Restaurazione, la morte veniva proposta come strumento di giustizia sociale e collegata alla presunta nascita di qualcosa di nuovo. Il tentativo di cancellare con un colpo di spugna diversi anni di storia insanguinata, privava gli uomini della possibilità di elaborare ciò che era stato: stiamo parlando della dinamica di annullamento che rende indifferenti alla realtà psichica dell'altro.
Semmelweis, però, non era indifferente e ascoltava profondamente il dolore di quelle donne che rischiavano la propria esistenza nel tentativo di creare una nuova vita. Passava notti e giorni in ospedale cercando una soluzione, senza che la sua umanità gli permettesse di arrendersi. Non poteva comprendere come si potesse deliberatamente scegliere la morte pur di continuare a nascondersi nella propria ignoranza, intesa come espressione del non voler conoscere. L'alleanza dei più lo respingeva come un muro di gomma per ridurlo all'impotenza: non era ammissibile la sua forma di pensiero che lasciava trapelare nuove possibilità per l'essere umano. Questo metodo di conoscenza era ritenuto pericoloso perché sovvertiva tutti i vecchi schemi del sapere, modificando i rigidi equilibri sociali in cui il sapere cristallizzato era ormai divenuto strumento di potere.
Semmelweis, cosi impetuoso e immediato, non seppe difendersi e fu condotto alla pazzia. Nel tentativo estremo di far aprire gli occhi ai suoi contemporanei giunse delirante all'università durante un'autopsia, afferrò il bisturi e colpì una salma con violenza fino a ferirsi. Morì nello stesso modo delle donne che aveva cercato di difendere.
La storia di quest'uomo ci racconta dell'indifferenza che fa impazzire gli uomini in tutte le società e in tutti i tempi. Al giorno d'oggi, in cui dilagano livelli di malessere psichico sempre più ingravescenti, non possiamo dimenticare la responsabilità precisa di ogni individuo che si appiattisce passivamente ad una norma sociale, aderendo a quella strisciante violenza espressa attraverso l'ottusità e l'indifferenza. La norma ci vuole tutti uguali, indistinguibili l'uno dall'altro, privi di identità. Ciò che viene spacciato per identità è proprio l'aderenza agli stereotipi materiali proposti, che non lasciano spazio alla realtà psichica dell'individuo. Forse questo ha ancora una volta a che fare con il tentativo di uccidere l'evoluzione interiore delle donne, da sempre portatrici della sapienza del corpo e dell'elemento perturbante irrazionale?
Ancora oggi, come al tempo di Semmelweis, chi propone un livello di ricerca ed identità deve essere disposto a scontrarsi con chi è portatore di un pensiero che annulla le differenze e quindi ogni identità possibile. L'ideologia a cui si aderisce passivamente è centrata sull'impossibilità di una reale trasformazione interiore dell'uomo, l'unica in grado di operare anche una trasformazione del contesto sociale.
In questo tempo, chi stabilisce d'autorità quello che deve essere ritenuto possibile? Quante volte nella vita ognuno di noi si sarà sentito rispondere: “Ma è impossibile!?”. Quante volte ci abbiamo creduto e nel chinare il capo in silenzio, sentivamo spengersi qualcosa dentro.
E invece no. Continuare a cercare una via di espressione della propria realtà umana è la strada.
Liberamente ispirato dal libro di L-F CÉLINE, Il dottor Semmelweis, Adelphi Ed., Milano 1975.
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MARIE CURIE E L’INVISIBILE DELLA MATERIA di Cinzia Sersante. Anno 2010


Una giovane donna poco più che trentenne, sul finire dell’Ottocento, iniziava la sua ricerca per la tesi di dottorato alla Sorbona di Parigi. Si era laureata in scienze fisiche e matematica ed era appassionata di chimica. I suoi studi la condussero sino ad aprire al mondo nuovi orizzonti nella conoscenza della struttura della materia. Maria Salomea Skłodowska, così si chiamava, era di origine polacca e amava definire l’oggetto dei suoi studi e delle sue scoperte come “la chimica dell’invisibile”. È conosciuta per essere stata la prima donna nella storia a ricevere il premio Nobel per la fisica, in un tempo in cui il campo delle scienze, più di ogni altro, era considerato esclusivo appannaggio dell'intelletto maschile, confortato dal positivismo che aveva speculato sulla presunta inferiorità intellettiva delle donne: il gentil sesso era relegato ai ruoli socialmente determinati di moglie e madre, mentre c'era il tentativo di inibire ogni altra forma di espressione dell’identità della persona, sia essa nella dimensione artistica che in quella scientifica. Nella letteratura le scrittrici, per avere la possibilità di affermarsi, si celavano dietro nomi maschili; ma anche quando le donne svolgevano attività lavorative più umili, venivano pagate un quarto dei colleghi uomini e la legge per di più imponeva loro di consegnare il compenso ai mariti o agli uomini di casa. Per rendersi conto dell’importanza dei risultati raggiunti da questa tenace donna in terra straniera, basti pensare che le donne non avevano ancora diritto al voto, e non lo avranno ancora per diversi anni. La conoscenza da sempre può diventare strumento di subordinazione, e di fatto la possibilità di accedere agli studi universitari per le donne è stato un traguardo difficile da raggiungere. La risposta femminista iniziava a dilagare ovunque, anche se non entrò mai nella vita di Maria nei termini in cui si stava diffondendo nel resto del mondo occidentale. Lei avrebbe varcato nuove soglie mai raggiunte da una donna prima, semplicemente seguendo la sua passione: la ricerca scientifica. La sua vita fu segnata sin dall’infanzia dalla resistenza proprio ad un sistema di potere, poco importa fosse un'ideologia maschilista a decidere l'impotenza della donna, o la mano armata dell'oppressore straniero quella di un popolo: sempre di dittatura si trattava.
Nacque nel 1867 a Varsavia, capitale della Polonia che, sul finire del XVIII secolo, era stata divisa e spartita tra i suoi conquistatori: Austria, Prussia e Russia. Una terra che, pur avendo visto la nascita della prima Costituzione in Europa (1791), subì un tale declino da diventare preda di potenze che la privarono del suo stesso nome facendola sparire dalle carte geografiche dell’epoca. Varsavia era sotto il dominio russo, protagonista della più rigida oppressione: tutto ciò che riguardava la cultura del popolo polacco doveva sparire, perfino la memoria. Si assistette ad una vera e propria epurazione in cui tutti i polacchi vennero rimossi dalle cariche pubbliche, così come sparirono le tradizioni, i balli e le feste nazionali. Non si poteva parlare la lingua autoctona in pubblico, solo il russo era accettato; le università furono declassate affinché non fosse concesso loro di ottenere il relativo titolo di studio; non meno rilevante il fatto che ad ogni livello di studi fosse vietato l’insegnamento della storia della nazione.
Tale tentativo di annullamento si scontrava con la tenace resistenza dei polacchi tutti, uomini e donne. Questi, infatti, potevano lavorare solo nelle scuole private, dove continuavano ad insegnare le materie vietate e lasciavano esprimere gli allievi in polacco cercando di prevenire le incursioni degli ispettori russi. Maria proveniva da una famiglia di insegnanti, a cui era rimasto solo il titolo nobiliare, oltre l’amore per la cultura, e attraverso quest’ultima contribuivano come molti a costruire la possibilità dell’emancipazione del loro popolo. Molti morirono o furono deportati in Siberia per aver tentato di liberare la loro terra prima che la conoscenza fosse riconosciuta come reale via d’uscita.
La madre, insegnante e musicista, morì di tubercolosi quando Maria aveva circa undici anni, dopo che per qualche anno era stata costretta a vivere lontana dai familiari per evitare il contagio. Il padre era insegnante di fisica, molto attento sia all’attività fisica dei figli che a stimolare il loro ingegno anche nel gioco. Maria era l’ultima di cinque figli, con una vivace intelligenza e personalità. Negli studi era sempre più piccola di qualche anno rispetto ai suoi compagni, e per la sua preparazione veniva spesso chiamata dall'insegnante a rispondere agli ispettori; dopo questi episodi piangeva a dirotto per l’umiliazione. Una volta conclusi gli studi di base, a sedici anni, Maria decise di continuare a studiare perché le sembrava di istupidire se non alimentava la sua sete di conoscenza. Alle donne era impedito l’accesso ad una qualsiasi forma di studio universitario. La discriminazione non era voluta dai polacchi, infatti questi arrivarono a costituire una università segreta a cui accedevano anche le donne: l’università volante. Il desiderio di Maria era di iscriversi alla Sorbona di Parigi, ma le difficoltà economiche in cui versava la famiglia non lasciavano speranza. Cominciò a lavorare come insegnante privata nella casa-pensionato del padre, per poi lavorare come istitutrice presso delle ricche famiglie. Lei che odiava la mediocrità, l’ignoranza e la superficialità in ogni forma di rapporto, fu costretta a piegare il suo carattere irruento alle necessità, impedendosi di esprimere apertamente le proprie idee con la sua caratteristica sfrontatezza. Nel tempo libero, però, non smetteva mai di studiare le materie scientifiche in cui voleva laurearsi, e nel contempo era impegnata nel rischioso compito di insegnare ai figli dei contadini polacchi. Per darsi una possibilità strinse un patto con la sorella Bronislawa che si recò per prima alla Sorbona mantenuta in parte da Maria, con l’impegno che appena laureata, la sorella, l'avrebbe sostenuta negli studi.
Quegli anni furono per lei molto difficili perché mettere a tacere sé stessi ed i propri desideri, logora ogni essere umano. Inoltre, viveva la dolorosa esperienza della fine del primo amore: Casimiro Zorawski appartenente alla ricca famiglia in cui faceva l’istitutrice, rinunciò al loro amore per obbedire ai pregiudizi familiari. Quando la sorella finalmente concluse gli studi in medicina e la invitò a raggiungerla a Parigi, Maria era sul punto di rinunciare ai suoi sogni. Grazie alle insistenze di Bronislawa, nel 1891 si iscrisse alla Sorbona e in due anni ottenne la laurea in scienze fisiche e successivamente, in matematica. Anche questi anni non furono semplici: visse in stanze gelide del sottotetto un tempo destinate al personale di servizio, confrontandosi con la fame ed il freddo.
Al termine degli studi si trovò di fronte ad una scelta: in base alle regole sociali avrebbe dovuto dedicarsi al padre vedovo per seguirlo nel suo impegno politico, ma lei anche grazie al corteggiamento di un inconsueto uomo di scienza, Pierre Curie, decise di seguire la prospettiva parigina. Il loro matrimonio avvenuto nel 1895, proprio nell'anno della scoperta rivoluzionaria dei raggi-X da parte di Wilhelm Conrad Rötgen, fu un intenso confronto che vide alla pari un uomo e una donna uniti dalla passione per la ricerca scientifica. Pierre, che aveva approfondito lo studio dei cristalli, non era minimamente interessato ai riconoscimenti ufficiali e a lavorare presso istituzioni riconosciute perché le considerava limitanti nel lavoro di ricerca.
Gli scienziati in quegli anni erano principalmente concentrati sullo studio dei raggi-X per le loro potenziali applicazioni, ma Maria si interessò di più agli sconosciuti raggi uranici di A. H. Bacquerel. Non poteva certo immaginare che stava contribuendo a tracciare il percorso che avrebbe costruito la possibilità per gli scienziati di giungere un giorno alla scoperta e dimostrazione degli elementi costitutivi della materia: l’atomo e la sua struttura. Nel 1897 Maria, per la tesi di dottorato, cominciò a studiare nei laboratori della scuola, presso cui insegnava Pierre, la capacità dei raggi uranili di elettrificare l’aria. Insieme trovarono un “nuovo metodo di analisi chimica”: costruirono con delle cassette di legno la camera di ionizzazione, al cui interno erano poste due piastre metalliche l’una sull’altra ad una distanza di tre centimetri; la sostanza da studiare era sistemata sulla piastra inferiore che poi veniva caricata elettricamente. Il tempo necessario affinché la piastra superiore divenisse carica, esprimeva la capacità della sostanza di elettrificare l’aria. La precisione delle misurazioni ottenute da Maria era in parte dovuta alle sue abilità ed in parte agli strumenti che aveva messo a punto Pierre, come l’elettrometro ed il quarzo piezoelettrico (utilizzato per neutralizzare la carica elettrica prodotta all’interno della camera di ionizzazione). Nel febbraio del 1898 Maria sottopose ad esame un prodotto di scarto industriale dovuto all’estrazione dell’uranio, la pechblenda. Trovò che questo composto, contenente uranio appunto, emetteva una carica elettrica molto più forte dell’uranio stesso, perciò attribuibile ad un elemento sconosciuto. Anche con l’eschinite, che contiene torio, ottenne un risultato simile. Concluse quindi, che i raggi uranici erano la “manifestazione di un fenomeno più generale”. Si riferiva a quella che per la prima volta, nella relazione preparata per l’Accademia della Scienza, Maria e Pierre definirono “radio-attività”. Di fatto, il marito, visti gli imprevisti risultati ottenuti da Maria, mise da parte lo studio dei cristalli per partecipare alla sua ricerca.
Lo studio dei “Raggi emessi dai composti dell’uranio e del torio”, la aveva condotta a dedurre l’esistenza di sostanze nuove più attive dell’uranio, che attraverso la radioattività sarebbe stato possibile identificare. Nell’articolo successivo si legge: “Uno di noi ha dimostrato che la radioattività pare essere una proprietà atomica dell’elemento”. Con questa ultima affermazione i coniugi Curie si avvicinarono ai risultati ottenuti dai ricercatori inglesi, e a comprendere come la radioattività potesse essere implicata nella dimostrazione della esistenza dell'atomo e della sua divisibilità.
Grazie alle relazioni presentate all’Accademia delle Scienze, Maria ottenne un capannone per proseguire nella ricerca di nuovi elementi. Inizialmente lei, da sola, lavorava tonnellate di pechblenda, che veniva acquistata investendo le risorse economiche di famiglia. Anche i locali dell’improvvisato laboratorio non erano adatti alla sperimentazione, basti pensare che il capannone era privo di una cappa per l'eliminazione delle esalazioni gassose. Nonostante le condizioni di lavoro, i coniugi Curie furono in grado di identificare dal bismuto (derivato dalla pechblenda) un elemento 400 volte più attivo dell’uranio cui diedero il nome di “polonio”, in onore alla terra d’origine di Maria. Alla fine dell’anno individuarono un nuovo elemento a partire dal bario, 900 volte più attivo dell’uranio che chiamarono “radio”. Riuscirono ad ottenere attraverso lo spettrometro delle tracce che rendevano il radio e i suoi composti distinguibili dagli altri elementi.
Verificata l’ipotesi di partenza, ossia l’esistenza di nuovi elementi chimici, l’obiettivo di Maria divenne l’isolamento dell’elemento sconosciuto, mentre Pierre si dedicò allo studio della radioattività. Per stimolare la ricerca, inviarono ai colleghi delle altre nazioni i composti ottenuti e non brevettarono mai la procedura di estrazione del radio (che constava della cristallizzazione frazionata per separare i sali di radio dal bario). La radioattività sembrava costituire l’eccezione alla prima legge della termodinamica per cui l’energia non si crea né si distrugge ma si trasforma. Infatti, rimaneva da chiarire se la fonte dell’energia che portava alla produzione delle radiazioni a partire dal radio, fosse interna all’elemento o esterna. Il fatto anomalo che li portava a mettere in discussione la suddetta legge, era che le radiazioni si sviluppavano apparentemente senza produrre mutamenti nel radio, quindi nell’elemento originale; in realtà l’ordine del mutamento era talmente piccolo che non era ancora possibile osservarlo.
In uno scritto dell'epoca Maria precisa che le sostanze radioattive avevano un peso atomico alto e che la radioattività sembrava indipendente dallo stato chimico in cui tali sostanze si trovavano; ciò implicava che la radioattività fosse collegata in qualche modo alla loro struttura atomica. In questi passaggi sembrava, inoltre, implicitamente affermare l’esistenza di particelle subatomiche. Le ipotesi che Maria e Pierre presero in considerazione - distanti dalla direzione indicata da Thomson - erano due: o che la legge della conservazione dell’energia dovesse essere ulteriormente elaborata, oppure ritenevano possibile che “tutto lo spazio è attraversato da raggi che possono essere assorbiti solo da alcuni elementi dal peso atomico particolarmente alto…” e maggiormente instabili; in questa seconda ipotesi la fonte di energia doveva essere esterna. Altri studiosi si dedicarono alla sperimentazione per chiarire il fenomeno. Un allievo di Thomson, Ernest Rutherford, riteneva che la radioattività fosse imputabile a dei mutamenti che avvenivano a livello subatomico. A lui viene ricondotta la teoria della trasmutazione per cui la radioattività era data dalla “progressiva disintegrazione del nucleo atomico” in un processo detto “decadimento” in cui le sostanze radioattive trasmutano, ossia si trasformano. Anche Rutherford, come Pierre, si era formato al di fuori del sistema istituzionale ed era molto attento ai risultati ottenuti dai coniugi Curie. In realtà tra loro c’era uno scambio dialettico, a volte di contrasto, che alimentava il progresso della ricerca.
Nel 1902, dopo quattro anni di duro lavoro, Maria giunse ad isolare un decigrammo di sali di radio purificato, misurandone il peso atomico. Il radio era contenuto in bassissima concentrazione nella pechblenda per cui la sua estrazione risultava anche fisicamente faticosa e laboriosa. L'anno successivo fu quello del premio Nobel per la fisica assegnato ai coniugi Curie e ad A. H. Becquerel. L’invito a ritirare il premio a Stoccolma arrivò solo a Pierre, ma lui pretese il riconoscimento del lavoro della moglie; evidentemente la reazione generale all'assegnazione del prestigioso riconoscimento internazionale ad una donna, fu di disconoscimento dello scienziato. Non si recarono comunque a ritirare il premio per lo stato di salute di Maria. Alcuni autori suggeriscono che la condizione di Maria fosse dovuta all'aborto spontaneo avuto nell'estate precedente a seguito di un viaggio in bicicletta con Pierre a cui non aveva saputo rinunciare, ed anche alla successiva morte del padre.
In quegli anni, grazie alla ricerca di Maria e al metodo messo a punto con Pierre che portò alla scoperta della radioattività e grazie anche alle ricerche del filone inglese di cui Rutherford e Soddy erano gli esponenti, non solo ci si era avvicinati a dimostrare l’esistenza degli atomi, ma anche al riconoscimento dell’esistenza di particelle subatomiche che davano ragione della trasformazione degli elementi. Si era giunti nei primi del ‘900 ad aprire le porte alla fisica atomica e nucleare, nonostante continuassero a permanere posizioni differenti ed opposte tra gli scienziati del campo. Maria, pur riconoscendo il valore delle ricerche degli studiosi inglesi e la loro incredibile vicinanza con alcune sue dichiarazioni, contrastò a lungo la teoria della trasmutazione che valse a Rutherford il premio Nobel nel 1908, per aver dimostrato che la radioattività era prodotta dalla disintegrazione dell’atomo.
Colpisce la posizione rigorosamente contraria assunta da Maria, dopo che lei stessa affidandosi solo alla propria intuizione aveva dato spazio all’invisibile: in realtà lei sarebbe potuta arrivare alla dimostrazione della struttura atomica, ma sembrava come imprigionata dall’approccio descrittivo del lavoro sperimentale basato sulle più precise misurazioni, che costituiscono l’aspetto visibile dell’invisibile. Ci si può chiedere come mai una donna che con le sue scelte aveva infranto così tanti dogmi della società di fine ‘800, non riuscisse ad accettare la possibilità della trasformazione della materia. Di fatto soprattutto Pierre si opponeva tenacemente all’ipotesi di Rutherford fino a quando nel 1904, ripetendo gli esperimenti di quest'ultimo, fu costretto ad ammetterne la veridicità. Evidentemente il rapporto tra Pierre e Maria era molto stretto il che è confermato dalla crisi depressiva avuta da Maria dopo la morte di Pierre nel 1906 per incidente stradale: in diari e lettere si coglie la grande difficoltà di essere affettivamente presente nel rapporto con le figlie.
Trascorsero circa quattro anni prima che Maria riuscisse a riprendersi e a vivere una nuova anche se breve, storia d’amore con Paul Langevin, allievo di Pierre e uomo sposato, che le valse l’accanito attacco da parte della società tutta. La stampa in generale e quella di destra in particolare che alimentava le paure della società francese fomentando l’antisemitismo, la additavano come l’indecente straniera ebrea, a prescindere dalla sua scelta religiosa. Poche persone le rimasero vicine, tutte del campo della scienza, e nonostante ciò lei non smise mai di lavorare. In quel periodo alcuni scienziati fecero affermazioni che miravano ad invalidare le scoperte dei coniugi Curie, ma l’unica risposta di Maria fu di impegnarsi nella ricerca non più dei sali di radio, ma del metallo stesso trovandone perfino il punto di fusione: questo le valse il secondo Nobel, per la chimica questa volta, nel 1911. Lo scandalo la costrinse però a passare un periodo lontano da Parigi, peregrinando e nascondendosi presso gli amici, o utilizzando il cognome da nubile. Addirittura da Stoccolma le fecero sapere che sarebbe stato più opportuno non si recasse a ritirare il premio, ma lei non si fece intimidire: sfidò l’ottusità sociale e nel discorso alla premiazione, si prese i suoi meriti nella ricerca che l’aveva condotta ai due Nobel. Affermò che l’ipotesi di ricerca era sua, come il lavoro chimico per isolare il radio, e la stessa denominazione di radioattività, dedicando al contempo il premio al marito.
Lo scandalo venne dimenticato solo con l’inizio della Prima Guerra Mondiale, nel 1914. Nonostante la Francia si fosse mostrata la nazione più avara di riconoscimenti nei confronti di Maria, lei non esitò a mettere la sua scienza al servizio della cura dei feriti: nel novembre dello stesso anno costruì la prima unità mobile radiologica (detta Petit Curie), che consentiva interventi più precisi e pronti. Dopo la guerra impiegò le sue forze nella ricerca e nella raccolta di fondi, nonostante l’aggravarsi del suo stato di salute. Maria morì nel 1934 per una anemia perniciosa e sicuramente tale condizione patologica sarebbe stata definita nei nostri giorni come malattia professionale. Oggi che conosciamo le conseguenze delle esposizioni alle radiazioni possiamo intuire quale fosse la causa dei frequenti malori dei coniugi Curie. Pur riscontrando abrasioni e bruciature sull’epidermide dovute al radio, sia loro che il mondo scientifico dell’epoca, non riuscivano ad attribuire alle radiazioni un effetto negativo poiché era considerato lo strumento di cura per la patologia tumorale.
La coerenza ed il coraggio di Maria hanno sfidato molti dei dogmi sociali ed ideologici che imprigionavano le donne dell’epoca. Lei è stata donna, scienziata, moglie, madre e amante in un mondo dove era luogo comune considerare le donne che svolgevano attività per cui gli uomini erano intellettualmente dotati, come cattive imitazioni di questi, e nello stesso tempo perdessero ogni traccia di sessualità (cosa per cui le donne si ritenevano essere nate). Per questo tipo di pensiero non veniva perdonato a Maria di aver infranto i divieti imposti dalla società. Purtroppo questa è una questione aperta ancora ai nostri giorni: le donne si tengono la creatività materiale (il fare figli) delegando la creatività interiore all'uomo, che controlla e gestisce ogni dimensione creativa attraverso il potere. Questo è ciò che ha vissuto Maria e l'ancoraggio a quel sistema di pensiero le ha impedito di cogliere la possibilità di essere l’agente diretto della trasformazione delle conoscenze sino allora acquisite, nonostante i risultati eccellenti che le valsero ben due premi Nobel.
Si potrebbe pensare che Maria avesse avuto delle facilitazioni nella vita per arrivare a tanto, sulla scia di quel pensiero depressivo che domina il nostro tempo e la nostra cultura per cui senza una spinta non si può realizzare nulla. Come se la realizzazione non dipendesse dalla identità della persona, ma fosse subordinata ad un agente esterno! Solo quando le persone annichiliscono la loro dimensione più profonda, il vissuto d'impotenza si aggancia a questioni esterne che descrivono esattamente i confini della loro prigionia.
BIBLIOGRAFIA
F. GIROUD, Marie Curie, Rizzoli Editore, Milano 1982.
B. GOLDSMITH, Genio Ossessivo: il mondo interiore di Marie Curie, Codice Edizioni, Torino 2006.
S. QUINN, Marie Curie. Una vita, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1998.
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François Jullien. IL SEGRETO DELLE TRASFORMAZIONI SILENZIOSE, recensione di Concetta Turchi. Anno 2010


Davvero interessante questo libro uscito di recente in Italia, soprattutto per chi, indipendentemente dal settore in cui opera, è alla ricerca di quel qualcosa in grado di aprire ad una nuova forma di pensiero, quel quid che per il nostro filosofo coincide con la capacità di cogliere le trasformazioni silenziose.
Ma cosa sono queste trasformazioni silenziose? Sono quelle che accadono ogni momento sotto i nostri occhi, così continue e globali da risultare invisibili: dall'erba che cresce ad un amore che si esaurisce, dall'invecchiamento che ci coglie poco alla volta alle grandi modificazioni sociali. In realtà noi ci accorgiamo di tali trasformazioni solo quando sono già accadute e l'esito è una modificazione che raggiunge l'evidenza. Sostiene Jullien che la nostra cultura, ancora fin troppo radicata nella filosofia greca del logos (V secolo a.C.), non è fatta per cogliere tali trasformazioni silenziose che, per loro natura, nuotano nella indeterminatezza. Il logos infatti, essendo per prima cosa definizione, spazza via tutto ciò che è sfumato e indeterminato: Platone non riteneva forse impossibile cogliere il passaggio dal non-Essere all'Essere per l’impossibilità di poter partecipare contemporaneamente all'uno e all'altro? E come non ricordare Aristotele il quale non dava alcuna dignità individuale al colore grigio (colore legato evidentemente ad un passaggio) in quanto “esso è nero in rapporto al bianco e bianco in rapporto al nero”? Questo significa che sfugge al nostro pensiero, così concepito, quel qualcosa che per approssimazione linguistica possiamo chiamare transizione: “La transizione apre letteralmente un buco nel pensiero europeo riducendolo al silenzio”, afferma Jullien.
Il problema è che il corpo filosofico occidentale si è strutturato in modo tutto sommato acritico sulle posizioni a dir poco paradossali di Platone e Aristotele… e questo è piuttosto curioso. Come se il pensiero si fosse fermato davanti al... pensiero. Perché? La risposta del nostro Autore è di grande interesse: non potrebbe essere che questi illustri filosofi si siano spaventati “davanti a ciò che sarebbe, nell'indistinto della transizione, la scomparsa della forma-essenza, l'eidos, che è anche il suo logos, discorso-ragione, e da cui soltanto, ai loro occhi, il reale trae la sua consistenza?”. Insomma, il concetto di transizione (l'indeterminabile per eccellenza) attacca alle fondamenta sia l'idea (come forma universale, statica ed eterna) sia la ragione che la genera, fondamentalmente incapace di cogliere e quindi esprimere quel passaggio dinamico insito nella transizione: il processo insito nella vita biologica e psicologica di ogni essere umano. Ed è proprio la dinamicità propria di ogni passaggio a non trovare movimento nella parola transizione, come se la rigidità originaria di questo pensiero avesse impedito anche una evoluzione linguistica. Il nesso tra forma del pensiero e forma del linguaggio, proposto con una inusitata limpidezza, è davvero interessante e apre a questioni di grande interesse, filosofico e scientifico. A questo punto Jullien apre la porta d’Oriente.
Il pensiero cinese (e quindi anche la lingua cinese), per esprimere il senso profondo di ogni passaggio, propone non un termine, ma due, intimamente correlati: modificazione-continuazione (bian-tong). Due termini in opposizione convivono in un binomio per raccontare come la modificazione, pur rompendo la continuità, finisce con il rinforzarla facendola uscire dall'inevitabile deperimento. E l’approfondimento linguistico correlato al pensiero continua: la lingua cinese è concepita per eludere il predicativo (tanto è vero che si abbozza un senso solo per distruggerlo immediatamente dopo), mentre la costruzione sintattica delle lingue occidentali è fatta secondo un sistema predicativo (è il soggetto a determinare l'attribuzione)... “Da uno scarto della lingua deriva un modo completamente diverso di poter concepire la vita e di articolare il suo destino”, dice Jullien. Sono proprio gli scarti tra le culture a delineare quelle traiettorie che aprono a nuove prospettive in grado di allontanare il pensiero dalle trappole delle evidenze: la ragione si avvale degli occhi per vedere le evidenze mentre la psiche si avvale di tutti i sensi per cogliere i processi nel loro divenire. Ascoltare… sentire, senza chiaramente intendere, per cogliere ciò che è vago e indeterminato nel processo delle cose umane. E se il tempo fisico produce la durata, il divenire è collegato a quello che scorre all'interno di questa durata. Ѐ la freccia del tempo a permettere la comprensione degli eventi come affioramenti nel campo del visibile delle trasformazioni silenziose: “L'evento si distacca rispetto a quel rinnovamento continuo da cui nasce la durata”.
E arriviamo alla fatidica domanda: era proprio necessario inventare il Tempo, cioè un tempo astratto isolato dalla durata dei processi? In Omero e in Esiodo il tempo non è mai soggetto di un verbo, ma è quello che intercorre nel compimento dell'azione: quindi il Tempo come soggetto compare in Occidente nel passaggio culturale dal mythos al logos, ritrovandosi immediatamente nella trappola dell’Eterno. Nella cultura cinese il Tempo come soggetto non esiste e, con esso, il concetto di Eternità; esiste piuttosto il “senza fine” nel senso di inesauribile. Non è certamente per un caso - sempre seguendo una comparazione linguistica - che nelle lingue occidentali vengano coniugati separatamente passato, presente e futuro, cosa che non accade nella lingua cinese. Ed ecco l'altra domanda insidiosa del nostro Autore: “Non è dunque che abbiamo eretto il tempo a soggetto totale, che è facile definire e di conseguenza comodo da chiamare in causa, perché, non avendo accordato uno statuto sufficiente alle trasformazioni silenziose, dovevamo chiamare in causa un grande Agente che rendesse conto sia dell'emergere delle cose nel visibile sia del loro invisibile riassorbirsi?”.
Da tutto questo si evince come la cultura occidentale, fondata su una ragione che cerca le evidenze, sia diventata una cultura degli eventi. Ma quanto un evento è il risultato di un sorgere brusco, di una rottura, e non di una maturazione che cattura l’evidenza? Anche certi eventi della nostra Storia sono il risultato della nostra forma di pensiero, sostiene Jullien: un esempio è il cristianesimo che ha avuto un effetto dirompente in Occidente, ma non in Oriente, proprio per il diverso assetto di pensiero delle due culture nei confronti delle rotture. In virtù di tutto questo l’Autore propone di oltrepassare la (nostra) cultura delle differenze sempre pronta a rivendicare una identità (più spesso una identificazione, mi verrebbe da dire) per passare alla considerazione di una pluralità di variabili che entrano in gioco contemporaneamente in ogni processo. Perché se è vero che la determinazione produce quel “vero” con cui si costruiscono i mattoni della scienza, esse corrono il rischio di diventare la nostra prigione. E anche se l'evento struttura la narrazione e la drammatizza nella misura in cui produce una rottura, la sapienza dei nostri sensi ci dice che si tratta comunque di una emergenza (ben distinta dalla urgenza) in cui la ricerca va impostata non secondo il principio di causalità che risponde sempre e soltanto alle evidenze.
Forse è per questo che la prevenzione nella nostra cultura è così difficile da mettere in atto; di fatto la ricerca va spostata su quel divenire silenzioso che ad un certo punto produce l'irreversibilità dell'evento stesso, anzi proprio sullo stadio iniziale di tale modificazione quando è ancora suscettibile alle possibilità “altre”. Qui non è in ballo il sistema percettivo ma come quest'ultimo arrivi ad una determinazione come specchio rigido con cui pretendiamo di interpretare le percezioni delle cose; ma se lo specchio si fa acqua è possibile ritrovare quella liquidità, propria delle percezioni, che ci permette di cogliere senza fermare e inaridire. Insomma, è come se dovessimo liberare il nostro pensiero dall'incubo della percezione delirante che fa la pochezza di questa nostra cultura, incapace di considerare il latente, e quindi in perenne ostaggio dell'urgenza. Da qui la considerazione che, di fatto, spesso le parole esistono, ma vengono male utilizzate perché la ragione, incapace di comprendere le sfumature, le utilizza alla cieca. Certamente il confronto con altre forme di pensiero è fondamentale - e ringraziamo Jullien per questo -, ma perché non considerare il lungo cammino della cura delle malattie mentali che ha portato a recuperare il senso delle trasformazioni silenziose attraverso la scoperta dell'inconscio? Anche se continuamente questo aspetto viene negato, se non addirittura annullato, e relegato nell'ambito delle credenze, questo libro ci racconta tra le righe il perché di questo trattamento. D'altra parte anche la psicoanalisi classica, con il suo determinismo razionalistico, ha le sue carenze: è necessaria una nuova forma di psicoanalisi, quella della nascita, in grado di accettare e dare risalto alla visione nebulosa dei primi mesi di vita, per potere restituire alla cultura e alle scienze una nuova possibile visione data da quella sensibilità globale e diffusa che apre ad una sapienza del divenire.
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Fibonacci, Lie, Lisi. CAVALCANDO IL COCCODRILLO di Alessandro Bellodi. Anno 2010


Sono trascorsi diversi anni da quella domenica ovattata in cui mi riconobbi solo e straniero a visitare una mostra d’arte a Roma. Una morbida domenica calda, ondeggiando tra le stanze della mostra, mi concessi l’oblio e l’esser smarrito nella ricerca vigile e sorniona della vertigine, preludio d’estasi. La vertigine, sintesi di spazio e di tempo, gli istanti prima dell’orgasmo, frazioni del tutto e unità con l’altro; la provai cavalcando al contrario un coccodrillo dalla testa alla coda che con un guizzo mi fece imboccare uno scivolo a spirale fatto di numeri luminosi.
Era il “Coccodrillo del Niger”, un’installazione artistica di Mario Merz (Milano 1925 - Torino 2003).
La riproduzione di un coccodrillo del Niger seguita dai numeri al neon della successione di Fibonacci dall’1 al 55. Rimasi colpito dalla potenza simbolica che faceva vibrare in me suoni ancestrali e preistorici come se fossi di fronte ad un enorme ed enigmatico monolito nero: squame primitive, forme crude e spigolose forgiate dalla sopravvivenza, scolpite dall’origine e dal nucleo primo.
La sequenza di numeri di Fibonacci, in cui ogni numero è la somma dei due precedenti, è l’emblema della dinamica di crescita della natura. I numeri della sequenza descrivono la conoscenza e l’evoluzione come risultato della memoria. La conoscenza è proiezione imprevedibile ma riscontrabile della memoria. Conoscenza e memoria condividono un tempo paradossalmente asintotico e asincrono, ma in continuo rapporto: una vertigine, l’ebbrezza del custode delle manovre prima che pensiero e azione si congiungano.
Quel giorno fu il mio numero 1 della serie e dopo aver cavalcato un coccodrillo e scivolato in una spirale, di cui solo oggi ho compreso l’armonica, sono arrivato a scrivere di una teoria semplice, sensuale e affascinante che è in relazione con la serie di Fibonacci e le particelle elementari.
Garrett Lisi, fisico-teorico e surfista di 43 anni, pubblica la sua teoria il 6 novembre 2007, con la quale costruisce un caleidoscopio che, con semplici ma imprescindibili lenti ottiche, proietta triangoli, quadrati e cerchi colorati che a ogni rotazione descrivono e ordinano l’invisibile e le sue forze.
Queste particolari lenti matematiche, utilizzate da Lisi, sono state forgiate da Sophus Lie (Nordfjordeid 1842 - Oslo 1899) il quale con l’invenzione della sua algebra crea le simmetrie che ci permettono di semplificare delle entità matematiche chiamate “gruppi di trasformazione continui”, diventati in seguito “Gruppi di Lie”. Questi gruppi spiegano il modo con il quale oggetti simmetrici possono ruotare mostrandosi all'osservatore sempre allo stesso modo. Il risultato è una geometria di echi e di risonanze che alla frequenza particolare di 8 creano uno spazio geometrico di 248 dimensioni che prende il nome di E8.
Si è riusciti a mappare questa entità matematica super-simmetrica solo pochi anni fa, esattamente il 20 marzo 2007. La mappatura ha impegnato, per quattro anni, 18 matematici sparsi nel mondo e la sua elaborazione ha arroventato i chip di un complesso computer dell'Università di Washington per 77 ore.
Lisi, con la sua teoria, colloca matematicamente ai vertici di questa entità geometrica le particelle atomiche e subatomiche (elettroni, neutrini, bosoni, quark e particelle di Higgs) rappresentandole con triangoli, cerchi e quadrati colorati.




Rappresentazioni grafiche dell’E8 - fig.1 


Schema della teoria di Garrett Lisi - fig.2
Ora, è sufficiente ruotare con frequenza 8 il nostro caleidoscopio per scoprire con sorpresa che è possibile verificare tutte le leggi in grado di descrivere gravità, elettromagnetismo e forza nucleare, e di legare le particelle come se fossimo dentro un gigantesco mandala. Le particelle si sovrapporranno o si allontaneranno come in un labirinto di specchi diventando frazioni o unendosi per formare elementi complessi.
Ci accorgiamo però, che in una rotazione particolare, la simmetria di questo disegno non è completa: rimangono infatti libere 20 posizioni. Si apre così l’ipotesi che ai modelli di studio della fisica manchino 20 particelle che ancora non sono state scoperte e studiate.
Questa semplice e sorprendente teoria potrà essere verificata al CERN di Ginevra, un complesso impianto per la ricerca e lo studio delle particelle entrato in funzione nel 2008. Questo sito di ricerca ha come struttura principale un anello con un diametro di 8,6 km e una circonferenza di 27 km, posto a 100 metri sotto terra e tenuto a -271,25°C. All’interno di quest’anello vengono fatti viaggiare in senso contrario due fasci di protoni a una velocità prossima a quella della luce; l’esperimento consiste nel far scontrare e disintegrare questi due fasci fotografando le particelle subatomiche risultanti dallo scontro.
All’inizio mi è sembrato difficile cavalcare un coccodrillo che trascina una lunga coda fatta di numeri divertiti; è lui che conduce il gioco e decide la traiettoria del viaggio. Un girovagare, apparentemente senza senso e tempo, mi ha portato dopo 1, 2, 3, 5 o addirittura 8 anni, fin nella sua fredda tana a cento metri sotto terra per mostrarmi il suo tesoro. Un anello senza tempo percorso dall’invisibile.
Il viaggio sulle ruvide squame può sorprendere in qualunque momento e in un millisecondo portare lontano, magari dentro un caleidoscopio del tempo simile a quello del film 2001. Odissea nello spazio, per affascinarti di luci, colori ed echi che si trasformano continuamente per descrivere l’invisibile che è materia del tutto.
Spesso mi son dimenticato di essere a cavallo del coccodrillo, ma con la puntualità degli smemorati, con un sussulto e una scossa che assomigliano più a quelle di un peloso drago bianco, il rettile squamoso mi ha ricordato di essere lì con me. In quei momenti era difficile sincronizzare i movimenti, ma dopo un po’ sono riuscito ad andare a tempo col ritmo ondeggiante che risalta tutta la spina dorsale del coccodrillo e che, partendo dalla testa, fa inarcare le zampe per terminare con un sibilo della coda.
Scoperta la chiave del ritmo, tutto ha trovato il suo suono, come se avessi scoperto il diapason dell’universo. Un diapason che suona tutto alla frequenza di 1,618, il numero della “sezione aurea”. Questo numero, alla base delle armonie e delle armoniche della natura e dell’arte dell’uomo, dialoga direttamente con la serie di Fibonacci con cui ha in comune la “spirale aurea”.
Anche la geometria di Lie è in intima corrispondenza con la serie di Fibonacci. La dimensione dell’E8 (248) si avvicina moltissimo al numero di Fibonacci corrispondente (233). Se questa differenza vi sembra rilevante, arriva immediatamente un colpo di coda del coccodrillo che ci catapulta a Berlino l’8 gennaio 2010 all’interno del centro di ricerche Helmholtz-Zentrum Berlin sui materiali e le energie.
Il prof. Alan Tennant e la sua equipe hanno portato il niobato di cobalto, un materiale magnetico, a temperature prossime allo zero assoluto (-273°C) e sottoposto a un forte campo elettro-magnetico. Facendo ciò, hanno portato il materiale e i suoi elettroni a uno stato critico quantistico di indecisione; infatti, in questa condizione avrebbero potuto ruotare sia in un senso sia nell’altro. Gli elettroni, invece di disporsi casualmente, si sono organizzati in strutture spontanee simmetriche che richiamavano l’E8 ed era la prima volta che la si osservava direttamente su di un materiale.
Ma non è tutto: la catena degli atomi del niobato di cobalto si comportava come la corda di un violino e le interazioni tra gli elettroni indecisi la faceva vibrare e risuonare secondo una scala di note con frequenza di 1,618!!!
La chiave di violino e di volta è fuggente e volubile, d’un tratto fa risuonare percorsi nascosti tra le foreste pluviali più intricate, svela intrighi segreti tra gli sconosciuti, dipana le futilità e colora vivacemente le impervie stradine di un grande borgo a forma di mandala di cui siamo contemporaneamente attori e palcoscenico. Una chiave incredibilmente semplice come l’equazione che descrive i frattali, invenzioni matematiche di Benoît Mandelbrot (Varsavia 1924 - Cambridge 14 ottobre 2010) partorite nel 1975. Funzioni che ripetono la loro struttura su scale diverse e hanno l’arroganza di descrivere le forme più imprevedibili e caotiche e si compiacciono nel riuscire a farlo.


I frattali spesso si avvolgono su loro stessi come la coda di un coccodrillo che vuole custodire un segreto. Una coda che con i suoi movimenti inconsulti e inaspettati impone virate improvvise a un’improbabile cavalcata, come fosse braccio e bacchetta di un direttore d’orchestra che ci ridesta col tempo e la precisione del suo movimento.
Esattamente come ha fatto Garrett Lisi il 25 gennaio 2010. Lisi ha pubblicato una nuova teoria in cui propone il raccordo tra la fisica quantistica moderna e la teoria di Einstein attraverso il suo modello geometrico E8. Un ulteriore colpo di coda che potrebbe permetterci di leggere la relazione intima tra le forze della natura (gravità, elettromagnetismo e forza nucleare) e i fermioni, quindi la materia nella sua parte più piccola... almeno per il momento.
Link di approfondimento
Teoria di Garrett Lisi (inglese - linguaggio matematico - pdf)
http://arxiv.org/PS_cache/arxiv/pdf/0711/0711.0770v1.pdf
Garrett Lisi illustra in modo semplice e divertente la sua teoria (sottotitoli in italiano)
http://www.ted.com/talks/garrett_lisi_on_his_theory_of_everything.html
Giocare con la teoria di Lisi
http://deferentialgeometry.org/epe/EPE3.html
Articolo della “Repubblica” del 20 marzo 2007 sulla mappatura dell’E8 (italiano)
http://www.repubblica.it/2007/03/sezioni/scienza_e_tecnologia/calcolo-complesso/calcolo-complesso/calcolo-complesso.html
Articolo del “Gruppo Erasotene” del 20 novembre 2010 sulla relazione tra la sequenza di numeri di Fibonacci e i Gruppo di Lie (italiano)
http://www.gruppoeratostene.com/articoli/Gruppi%20di%20Lie%20e%20Fibonacci.pdf
Articolo di “Le Scienze” dell’8 gennaio 2010 sull’esperimento del niobato di cobalto (italiano)
http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/Il_rapporto_aureo_governa_la__musica__quantistica/1341648
Articolo di Federica Sgorbissa dell’8 gennaio 2010 sul rapporto tra E8 e sezione aurea e l’esperimento sul niobato di cobalto (italiano)
http://www.gruppoeratostene.com/articoli/E8-sez-aurea.pdf
Benoît Mandelbrot ci racconta l’avventura dei frattali (sottotitoli In italiano) http://www.ted.com/talks/benoit_mandelbrot_fractals_the_art_of_roughness.html
La nuova teoria di Lisi sulla relazione tra il Modello Standard della fisica e la teoria di Einstein (inglese - linguaggio matematico – pdf)
http://arxiv.org/PS_cache/arxiv/pdf/1006/1006.4908v1.pdf
Articolo di “Le Scienze” del 25 gennaio 2011 sulla nuova teoria di Lisi (italiano)
http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/Una_teoria_geometrica_del_tutto/1346425
Un ringraziamento particolare al “Gruppo Erastotene”. www.gruppoeratostene.com
Collaboratori del “Gruppo Erastotene” http://www.gruppoeratostene.com/membri/membri.htm
Articoli del “Gruppo Erastotene” http://www.gruppoeratostene.com/articoli/articoli.htm
Immagini
“Coccodrillo del Niger”– Photobuket.com – FunkadelicNoise’s Profile
http://s290.photobucket.com/albums/ll271/FunkadelicNoise/?action=view¤t=31727aaaaab.jpg&newest=1
Figura 1a http://whatisthee8liegroup.blogspot.com
1b Creative Commons – Wikipedia - http://en.wikipedia.org/wiki/File:E8Petrie.svg
Figura 2 Estrapolazioni dalla Teoria di Garrett Lisi - pdf - http://arxiv.org/PS_cache/arxiv/pdf/0711/0711.0770v1.pdf
Figura 3 Composizioni immagini da internet
Figura 4a tratta da http://guzman-tierno.blogspot.com/2009/07/frattali.html
4b tratta da http://infonews.altervista.org/noris/modules/lykos_reviews/
4c tratta da http://www.informaticapratica.com/apophysis-generare-tramite-funzioni-matematiche-immagini-e-frattali
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LE AFFINITÀ (S)ELETTIVE
Concetta Turchi
“La bellezza delle cose esiste
nella mente di chi le contempla”.
Paul Klee
nella mente di chi le contempla”.
Paul Klee

Autoritratto di Concetta Turchi

L’attenzione struttura una particolare forma di conoscenza che, rispecchiandosi nella bellezza, trova

quella verità in grado di donare alla giustizia un valore etico.














Il colore nello sguardo di Concetta Turchi
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Corrispondenze in terapia psicodinamica. LA NEMICA PIÙ PREZIOSA di Valeria Amato. Anno 2012
SOLO A TE di Concetta Turchi. Anno 2012

LA NEMICA PIÙ PREZIOSA
Valeria Amato
“Inoperoso lettore, ben mi potrai tu credere, senza che te lo giuri,
che questo libro, perché figlio del mio intelletto,
vorrei che fosse il più bello, il più giocondo e il più assennato che potesse immaginarsi. (…)
Può accadere che un padre abbia un figlio brutto e senz’alcuna grazia,
ma l’amore che gli porta gli mette una benda agli occhi, perché non veda i suoi difetti;
anzi, li giudica per attrattive e leggiadrie e ne parla agli amici come di finezze e di vezzi.
Ma io che, per quanto sembri tessere le veci di Don Chisciotte,
non voglio supplicarti quasi con le lagrime agli occhi, come altri fanno, o lettore carissimo,
che tu scusi o finga di non vedere i difetti che scorgerai in questo mio figlio,
perché non sei né suo parente né suo amico,
ma sei affatto padrone di te e libero di pensarla a modo tuo, al pari di qualunque altro.
Cose tutte che ti esentano e ti sciolgono da ogni rispetto e obbligo;
così che tu puoi, di questa storia, dir quello che ti parrà
senza timore che t’abbiano a incolpare a torto per il male o a premiarti per il bene che ne dirai”.
che questo libro, perché figlio del mio intelletto,
vorrei che fosse il più bello, il più giocondo e il più assennato che potesse immaginarsi. (…)
Può accadere che un padre abbia un figlio brutto e senz’alcuna grazia,
ma l’amore che gli porta gli mette una benda agli occhi, perché non veda i suoi difetti;
anzi, li giudica per attrattive e leggiadrie e ne parla agli amici come di finezze e di vezzi.
Ma io che, per quanto sembri tessere le veci di Don Chisciotte,
non voglio supplicarti quasi con le lagrime agli occhi, come altri fanno, o lettore carissimo,
che tu scusi o finga di non vedere i difetti che scorgerai in questo mio figlio,
perché non sei né suo parente né suo amico,
ma sei affatto padrone di te e libero di pensarla a modo tuo, al pari di qualunque altro.
Cose tutte che ti esentano e ti sciolgono da ogni rispetto e obbligo;
così che tu puoi, di questa storia, dir quello che ti parrà
senza timore che t’abbiano a incolpare a torto per il male o a premiarti per il bene che ne dirai”.

Risonanze di Valeria Amato






ATTO I - Il sogno bohèmienne
















ATTO II - La lotta contro i mulini a vento


Col senno ormai bell’e spacciato, gli venne in mente pertanto il pensiero più bislacco che mai venisse a pazzo del mondo; e fu che gli parve opportuno e necessario farsi cavaliere errante, ed andarsene a cavallo, per tutto il mondo in cerca delle avventure e a provarsi in tutto quello che aveva letto essersi provati i cavalieri erranti, spazzando via ogni specie di sopruso. Quattro giorni trascorse a pensare che nome gli dovesse mettere al suo cavallo: Ronzinante! E nel qual pensiero durò altri otto giorni, finché riuscì a chiamarsi Don Chisciotte.
Ripulite, dunque, le armi, battezzato il ronzino e cresimato sé stesso, si dette a credere che altro non gli mancava se non cercare una dama di cui innamorarsi, giacché il cavaliere errante senza innamoramento era come albero senza foglie né frutto, corpo senz’anima. Avvenne, a quanto si crede, che in un paesetto presso al suo, ci fosse una giovane contadina di bellissima presenza, della quale egli era stato, un tempo, innamorato: ma, a quanto si dice, lei non lo seppe mai né ci fece mai caso. Gli parve bene pertanto proclamar costei signora dei suoi pensieri, e cercandole un nome che non contrastasse molto col suo e che tendesse e s’approssimasse a quello di principessa e gran signora, finì col chiamarla Dulcinea del Toboso”.











ATTO III - Di fronte alla morte




Un conto era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri: era stato il piccolo Vanja, con la mamma, il papà, Mitja e Volodja, i giocattoli, il cocchiere, la governante, e poi Katen’ka, e tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza.
Aveva mai sentito Caio l’odore del pallone di cuoio che il piccolo Vanja amava tanto? Aveva mai baciato la mano alla mamma, Caio, e aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai strepitato tanto per avere i pasticcini quando andava a scuola? E Caio era mai stato innamorato? E Caio sapeva forse presiedere un’udienza in tribunale?
Caio è mortale, certo, è giusto che muoia. Ma per me, per me, piccolo Vanja, per me, Ivan Il’ìc, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, per me è tutta un’altra cosa. Non può essere che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile. Questi erano i suoi sentimenti.‘ Se dovessi morire anch’io, come Caio, lo saprei da me stesso, qualche voce interna me lo avrebbe detto, ma non ho mai sentito niente di simile in me; io e tutti i miei amici abbiamo sempre inteso che non doveva succedere a noi come a Caio. E adesso guarda un po’!’, diceva a se stesso. ‘Non può essere. Non può essere, e invece è così. Come mai? Cosa vuol dire?’ ”.








ATTO IV - Tradimenti



Alla vigilia dell’ottava somministrazione chemioterapica la voce di Limpida tornò ‘spietata’ a ricordarmi chi ero e da dove venivo per cercare un modo per trovare dentro di me quella possibile scelta di salvezza, seppure provvisoria. Un unico sguardo, una sola parola, un’inconfondibile posizione del suo corpo, mi tesero quella mano, piccola ma tanto forte, che afferrai al volo quel tanto che bastò per trovare il coraggio, il giorno dopo, di presentarmi in ospedale e - con la dignità appena ritrovata - dire ‘basta’. Mi è sempre piaciuto che qualcuno mi ‘rimettesse a posto’ in modo diretto, senza fronzoli, caldo e deciso. E ancora una volta a farlo fu Lei. Quella nostra storia metteva a dura prova la mia sovrastruttura compiacente e finalmente il paradosso si affacciava sorridendomi: proprio io, la frettolosa per eccellenza, sempre combattuta fra la tenerezza ed il distacco, stavolta non avevo fretta. E Lei neppure. Mi diressi verso la cattedrale per sancire con la mia firma, e sotto la mia responsabilità, la fine di quel percorso chimico che avevo fatto mio. E fu proprio quella mattina piovosa e fredda di metà gennaio che feci uno di quegli incontri brevi, apparentemente insignificanti, che ci fanno capire, all’improvviso, quanto la vita sia fragile e come sia unico e prezioso il filo con gli altri mortali, nostri simili. Un episodio che a un osservatore potrebbe sembrare irrilevante, ma…









ATTO V - Dalla mia storia











ATTO VI - Oltre il padre









IN CORSA…









BIBLIOGRAFIA
M. DE CERVANTES SAAVEDRA, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha,RCS Ed., Milano 2007.
L.N. TOLSTOJ, La morte di Ivan Il’iç, trad. di G. Buttafava, Garzanti Ed, Milano 2007.
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SOLO A TE

Bella sconosciuta di Concetta Turchi























Concetta Turchi
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“Agora” di Alejandro Amenábar.
Ipazia. LA DONNA DELLE STELLE, recensione di Concetta Turchi. Anno 2010

Concetta Turchi
“Nessuna religione, nessun dio è riuscito a colmare la mia sete di verità.”

Polvere di stelle di Concetta Turchi







































Ma può davvero la malevolenza cancellare al contempo Ipazia, la Polis, la Scienza e la Conoscenza come patrimonio dell'umanità? Si può davvero concludere che si arrivò ad accusare Ipazia dell'inimicizia tra Oreste e Cirillo perché, essendo Oreste cristiano e lei “pagana”, Ipazia fu considerata la sobillatrice delle decisioni di Oreste? Di fatto lei disturbava, con la sua indipendenza, l’antagonismo fra i poteri, imperiale ed ecclesiastico, rappresentato dai due uomini. Fu questo? Fu la questione politica legata al potere del garante civico? O la questione non meno importante di sottomettere la scienza al nuovo credo religioso? Non ci è dato di sapere con certezza. Possiamo ipotizzare che Ipazia sia andata a sancire, attraverso il suo martirio umano e politico, la scellerata alleanza tra due poteri, quello della Chiesa armata da sempre contro la Scienza e quello dell’Impero armato sottilmente contro la Coscienza intesa come Etica della conoscenza.


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PERCHÉ SEMMELWEIS di Cinzia Sersante. Anno 2010

PERCHÉ SEMMELWEIS
Cinzia Sersante

Notte scatenata (Ponte delle catene a Budapest) di Filippo Paoli






Semmelweis, cosi impetuoso e immediato, non seppe difendersi e fu condotto alla pazzia. Nel tentativo estremo di far aprire gli occhi ai suoi contemporanei giunse delirante all'università durante un'autopsia, afferrò il bisturi e colpì una salma con violenza fino a ferirsi. Morì nello stesso modo delle donne che aveva cercato di difendere.

Ancora oggi, come al tempo di Semmelweis, chi propone un livello di ricerca ed identità deve essere disposto a scontrarsi con chi è portatore di un pensiero che annulla le differenze e quindi ogni identità possibile. L'ideologia a cui si aderisce passivamente è centrata sull'impossibilità di una reale trasformazione interiore dell'uomo, l'unica in grado di operare anche una trasformazione del contesto sociale.
In questo tempo, chi stabilisce d'autorità quello che deve essere ritenuto possibile? Quante volte nella vita ognuno di noi si sarà sentito rispondere: “Ma è impossibile!?”. Quante volte ci abbiamo creduto e nel chinare il capo in silenzio, sentivamo spengersi qualcosa dentro.


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MARIE CURIE E L’INVISIBILE DELLA MATERIA di Cinzia Sersante. Anno 2010

MARIE CURIE E L’INVISIBILE DELLA MATERIA
Cinzia Sersante

Esperimenti di Shelly Bisirri


















BIBLIOGRAFIA
F. GIROUD, Marie Curie, Rizzoli Editore, Milano 1982.
B. GOLDSMITH, Genio Ossessivo: il mondo interiore di Marie Curie, Codice Edizioni, Torino 2006.
S. QUINN, Marie Curie. Una vita, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1998.
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François Jullien. IL SEGRETO DELLE TRASFORMAZIONI SILENZIOSE, recensione di Concetta Turchi. Anno 2010

IL SEGRETO DELLE TRASFORMAZIONI SILENZIOSE
Concetta Turchi
Da LE TRASFORMAZIONI SILENZIOSE di François Jullien
Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.
Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.

Passaggio ad ovest di Concetta Turchi



Il pensiero cinese (e quindi anche la lingua cinese), per esprimere il senso profondo di ogni passaggio, propone non un termine, ma due, intimamente correlati: modificazione-continuazione (bian-tong). Due termini in opposizione convivono in un binomio per raccontare come la modificazione, pur rompendo la continuità, finisce con il rinforzarla facendola uscire dall'inevitabile deperimento. E l’approfondimento linguistico correlato al pensiero continua: la lingua cinese è concepita per eludere il predicativo (tanto è vero che si abbozza un senso solo per distruggerlo immediatamente dopo), mentre la costruzione sintattica delle lingue occidentali è fatta secondo un sistema predicativo (è il soggetto a determinare l'attribuzione)... “Da uno scarto della lingua deriva un modo completamente diverso di poter concepire la vita e di articolare il suo destino”, dice Jullien. Sono proprio gli scarti tra le culture a delineare quelle traiettorie che aprono a nuove prospettive in grado di allontanare il pensiero dalle trappole delle evidenze: la ragione si avvale degli occhi per vedere le evidenze mentre la psiche si avvale di tutti i sensi per cogliere i processi nel loro divenire. Ascoltare… sentire, senza chiaramente intendere, per cogliere ciò che è vago e indeterminato nel processo delle cose umane. E se il tempo fisico produce la durata, il divenire è collegato a quello che scorre all'interno di questa durata. Ѐ la freccia del tempo a permettere la comprensione degli eventi come affioramenti nel campo del visibile delle trasformazioni silenziose: “L'evento si distacca rispetto a quel rinnovamento continuo da cui nasce la durata”.



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Fibonacci, Lie, Lisi. CAVALCANDO IL COCCODRILLO di Alessandro Bellodi. Anno 2010

CAVALCANDO IL COCCODRILLO
Un coccodrillo, Fibonacci, Lie, Lisi e una spolverata di cobalto
Un coccodrillo, Fibonacci, Lie, Lisi e una spolverata di cobalto
Alessandro Bellodi

Installazione artistica “Coccodrillo del Niger” del 1989 - Mario Merz


La riproduzione di un coccodrillo del Niger seguita dai numeri al neon della successione di Fibonacci dall’1 al 55. Rimasi colpito dalla potenza simbolica che faceva vibrare in me suoni ancestrali e preistorici come se fossi di fronte ad un enorme ed enigmatico monolito nero: squame primitive, forme crude e spigolose forgiate dalla sopravvivenza, scolpite dall’origine e dal nucleo primo.

Quel giorno fu il mio numero 1 della serie e dopo aver cavalcato un coccodrillo e scivolato in una spirale, di cui solo oggi ho compreso l’armonica, sono arrivato a scrivere di una teoria semplice, sensuale e affascinante che è in relazione con la serie di Fibonacci e le particelle elementari.

Queste particolari lenti matematiche, utilizzate da Lisi, sono state forgiate da Sophus Lie (Nordfjordeid 1842 - Oslo 1899) il quale con l’invenzione della sua algebra crea le simmetrie che ci permettono di semplificare delle entità matematiche chiamate “gruppi di trasformazione continui”, diventati in seguito “Gruppi di Lie”. Questi gruppi spiegano il modo con il quale oggetti simmetrici possono ruotare mostrandosi all'osservatore sempre allo stesso modo. Il risultato è una geometria di echi e di risonanze che alla frequenza particolare di 8 creano uno spazio geometrico di 248 dimensioni che prende il nome di E8.
Si è riusciti a mappare questa entità matematica super-simmetrica solo pochi anni fa, esattamente il 20 marzo 2007. La mappatura ha impegnato, per quattro anni, 18 matematici sparsi nel mondo e la sua elaborazione ha arroventato i chip di un complesso computer dell'Università di Washington per 77 ore.











Ci accorgiamo però, che in una rotazione particolare, la simmetria di questo disegno non è completa: rimangono infatti libere 20 posizioni. Si apre così l’ipotesi che ai modelli di studio della fisica manchino 20 particelle che ancora non sono state scoperte e studiate.
Questa semplice e sorprendente teoria potrà essere verificata al CERN di Ginevra, un complesso impianto per la ricerca e lo studio delle particelle entrato in funzione nel 2008. Questo sito di ricerca ha come struttura principale un anello con un diametro di 8,6 km e una circonferenza di 27 km, posto a 100 metri sotto terra e tenuto a -271,25°C. All’interno di quest’anello vengono fatti viaggiare in senso contrario due fasci di protoni a una velocità prossima a quella della luce; l’esperimento consiste nel far scontrare e disintegrare questi due fasci fotografando le particelle subatomiche risultanti dallo scontro.

Il viaggio sulle ruvide squame può sorprendere in qualunque momento e in un millisecondo portare lontano, magari dentro un caleidoscopio del tempo simile a quello del film 2001. Odissea nello spazio, per affascinarti di luci, colori ed echi che si trasformano continuamente per descrivere l’invisibile che è materia del tutto.
Spesso mi son dimenticato di essere a cavallo del coccodrillo, ma con la puntualità degli smemorati, con un sussulto e una scossa che assomigliano più a quelle di un peloso drago bianco, il rettile squamoso mi ha ricordato di essere lì con me. In quei momenti era difficile sincronizzare i movimenti, ma dopo un po’ sono riuscito ad andare a tempo col ritmo ondeggiante che risalta tutta la spina dorsale del coccodrillo e che, partendo dalla testa, fa inarcare le zampe per terminare con un sibilo della coda.
Scoperta la chiave del ritmo, tutto ha trovato il suo suono, come se avessi scoperto il diapason dell’universo. Un diapason che suona tutto alla frequenza di 1,618, il numero della “sezione aurea”. Questo numero, alla base delle armonie e delle armoniche della natura e dell’arte dell’uomo, dialoga direttamente con la serie di Fibonacci con cui ha in comune la “spirale aurea”.

Il prof. Alan Tennant e la sua equipe hanno portato il niobato di cobalto, un materiale magnetico, a temperature prossime allo zero assoluto (-273°C) e sottoposto a un forte campo elettro-magnetico. Facendo ciò, hanno portato il materiale e i suoi elettroni a uno stato critico quantistico di indecisione; infatti, in questa condizione avrebbero potuto ruotare sia in un senso sia nell’altro. Gli elettroni, invece di disporsi casualmente, si sono organizzati in strutture spontanee simmetriche che richiamavano l’E8 ed era la prima volta che la si osservava direttamente su di un materiale.
Ma non è tutto: la catena degli atomi del niobato di cobalto si comportava come la corda di un violino e le interazioni tra gli elettroni indecisi la faceva vibrare e risuonare secondo una scala di note con frequenza di 1,618!!!


Spirale aurea creata con i numeri della sequenza di Fibonacci e forme simili in natura - fig.3

Esempi grafici di frattali - fig.4

Esattamente come ha fatto Garrett Lisi il 25 gennaio 2010. Lisi ha pubblicato una nuova teoria in cui propone il raccordo tra la fisica quantistica moderna e la teoria di Einstein attraverso il suo modello geometrico E8. Un ulteriore colpo di coda che potrebbe permetterci di leggere la relazione intima tra le forze della natura (gravità, elettromagnetismo e forza nucleare) e i fermioni, quindi la materia nella sua parte più piccola... almeno per il momento.
Link di approfondimento
Teoria di Garrett Lisi (inglese - linguaggio matematico - pdf)
http://arxiv.org/PS_cache/arxiv/pdf/0711/0711.0770v1.pdf
Garrett Lisi illustra in modo semplice e divertente la sua teoria (sottotitoli in italiano)
http://www.ted.com/talks/garrett_lisi_on_his_theory_of_everything.html
Giocare con la teoria di Lisi
http://deferentialgeometry.org/epe/EPE3.html
Articolo della “Repubblica” del 20 marzo 2007 sulla mappatura dell’E8 (italiano)
http://www.repubblica.it/2007/03/sezioni/scienza_e_tecnologia/calcolo-complesso/calcolo-complesso/calcolo-complesso.html
Articolo del “Gruppo Erasotene” del 20 novembre 2010 sulla relazione tra la sequenza di numeri di Fibonacci e i Gruppo di Lie (italiano)
http://www.gruppoeratostene.com/articoli/Gruppi%20di%20Lie%20e%20Fibonacci.pdf
Articolo di “Le Scienze” dell’8 gennaio 2010 sull’esperimento del niobato di cobalto (italiano)
http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/Il_rapporto_aureo_governa_la__musica__quantistica/1341648
Articolo di Federica Sgorbissa dell’8 gennaio 2010 sul rapporto tra E8 e sezione aurea e l’esperimento sul niobato di cobalto (italiano)
http://www.gruppoeratostene.com/articoli/E8-sez-aurea.pdf
Benoît Mandelbrot ci racconta l’avventura dei frattali (sottotitoli In italiano) http://www.ted.com/talks/benoit_mandelbrot_fractals_the_art_of_roughness.html
La nuova teoria di Lisi sulla relazione tra il Modello Standard della fisica e la teoria di Einstein (inglese - linguaggio matematico – pdf)
http://arxiv.org/PS_cache/arxiv/pdf/1006/1006.4908v1.pdf
Articolo di “Le Scienze” del 25 gennaio 2011 sulla nuova teoria di Lisi (italiano)
http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/Una_teoria_geometrica_del_tutto/1346425
Un ringraziamento particolare al “Gruppo Erastotene”. www.gruppoeratostene.com
Collaboratori del “Gruppo Erastotene” http://www.gruppoeratostene.com/membri/membri.htm
Articoli del “Gruppo Erastotene” http://www.gruppoeratostene.com/articoli/articoli.htm
Immagini
“Coccodrillo del Niger”– Photobuket.com – FunkadelicNoise’s Profile
http://s290.photobucket.com/albums/ll271/FunkadelicNoise/?action=view¤t=31727aaaaab.jpg&newest=1
Figura 1a http://whatisthee8liegroup.blogspot.com
1b Creative Commons – Wikipedia - http://en.wikipedia.org/wiki/File:E8Petrie.svg
Figura 2 Estrapolazioni dalla Teoria di Garrett Lisi - pdf - http://arxiv.org/PS_cache/arxiv/pdf/0711/0711.0770v1.pdf
Figura 3 Composizioni immagini da internet
Figura 4a tratta da http://guzman-tierno.blogspot.com/2009/07/frattali.html


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