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Inchiesta: il peso degli incidenti stradali sul ruolo della donna. OLTREPASSARE IL PONTE TIBETANO di Concetta Turchi. Anno 2010
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DIRITTO PUBBLICO di Valeria Amato. Anno 2010
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OLTREPASSARE IL PONTE TIBETANO
Concetta Turchi
“In fondo la crisi è una situazione di passaggio,
assolutamente fisiologica,
che impone la necessità di una scelta”.
assolutamente fisiologica,
che impone la necessità di una scelta”.
Si è tenuta a Roma il 19 ottobre dello scorso anno presso la Sala delle Colonne di Palazzo Marini la conferenza organizzata dall’Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna (O.N.Da) intitolata “Quando la strada ferma la corsa: il ruolo della donna”. Questa conferenza, cui sono stata invitata in qualità di relatrice, è parte di un ciclo di incontri annuali organizzati da O.N.Da in diverse città italiane con lo scopo di informare e sensibilizzare la popolazione sui principali aspetti che riguardano la salute delle donne.
Nel 2007 gli incidenti stradali hanno provocato quasi 1 milione di feriti e oltre 5.100 morti. Questa ricerca, curata da ricercatori dell’Università Bocconi di Milano e promossa in modo congiunto sia da O.N.Da che dalla Fondazione ANIA per la Sicurezza Stradale, documenta le ricadute della disabilità grave da incidente stradale sul mondo femminile in Italia. Nel 2007 i soggetti con invalidità permanente (IP) residua superiore a 9 punti, quindi grave, sono stati 150.676. Secondo la ripartizione ISTAT circa il 37% del totale è rappresentato da donne. Andando a scandagliare questo dato del 37%, si scopre come nella maggior parte dei casi le donne che riportano questa invalidità siano soggetti passivi in quanto o sono pedoni (54%) o trasportati (58,6%). Quindi, sebbene il numero dei conducenti uomini che, in seguito ad un incidente, riporta ferite gravi è pari a due volte quello delle donne, il numero delle donne ferite è superiore a quello degli uomini per quanto concerne i trasportati e i pedoni: il che evidenzia come le donne tendano a subire direttamente gli esiti negativi della guida altrui.
Oltre al danno diretto provocato da un incidente stradale, esiste anche un danno indiretto di cui la donna è purtroppo protagonista.
Se è vero infatti che ogni incidente genera almeno due vittime, il traumatizzato e la sua famiglia, le donne sono quelle che, se non sono implicate direttamente nell’incidente stradale, finiscono con l’esserlo comunque attraverso la funzione di “donatrice di cure”.
Dall’indagine svolta si riscontra come nel nucleo familiare il ruolo di accudimento (caregiver) venga svolto direttamente dalla donna che deve quindi riorganizzare la sua vita in funzione di questo compito assistenziale che ricade su di lei: più dell’80% di “donatori di cure” è donna (madre, moglie o figlia).
Questo significa che, quando un incidente grave si abbatte su una famiglia, l’onere maggiore grava sempre e comunque sulla donna che si sente spesso costretta a modificare lo stile di vita, spesso rinunciando al lavoro e sempre comunque rinunciando al tempo dedicato alla sua persona e al nutrimento della sua identità.
Questi aspetti diventano particolarmente invalidanti e fonte di squilibri psicopatologici e somatici se si considera che i livelli di disagio e di sofferenza hanno la tendenza a mantenersi pressoché inalterati con il passare degli anni. Quando tutto il sistema comincia a ruotare su un tempo immobile e immutabile, la qualità della vita viene gravemente compromessa. Questi costi intangibili non sono meno significativi di quelli tangibili: sia diretti (i costi per la cura e la prevenzione dei pazienti incidentati) che indiretti (i costi per il mancato introito a causa della perdita di produttività lavorativa).
Al centro del mio intervento alla Conferenza, in qualità di psichiatra e psicoterapeuta dinamico, ho posto proprio l’accento sulla importanza di questi aspetti… intangibili.
Partiamo dal dato incontrovertibile che il danno da incidente stradale comporta sempre una situazione di perdita: quanto era presente fino al momento dell’incidente, viene repentinamente a mancare.
Può essere la perdita permanente o temporanea dell’integrità del corpo; può trattarsi di un blocco funzionale determinato dalla condizione di grave stress; può trattarsi ancora di una perdita della integrità psichica che lascia emergere sintomi psichiatrici di varia entità come ansia, depressione, rituali ossessivi, fenomeni dispercettivi o quant’altro.
Leggendo alcune interviste, messe a disposizione dalla Ricerca Fondazione ANIA – O.N.Da, effettuate su donne incidentate, mi sono soffermata su alcune loro frasi:
“Una volta a casa ho dovuto riconquistare la consapevolezza del mio corpo in uno spazio che non era più familiare”… e ancora …“La mia casa non è più la mia casa eppure ricordo di avere scelto e montato ogni pezzo… Non è stata questa la mia fatica più grande, ho dovuto riconquistare il mio ruolo di mamma e di moglie dopo la lunga assenza”.
Il tema centrale di queste dichiarazioni è il non riconoscersi e il non riconoscere più. Dapprima il mancato riconoscimento è in relazione con gli spazi che, fino al momento dell’incidente, erano familiari: gli oggetti a portata di mano, i movimenti usuali che fanno la quotidianità del vivere. Ciò che viene a mancare è il vecchio modo di misurare lo spazio e di misurarsi nello spazio: lo schema corporeo, che si struttura in relazione con il mondo fisico che ci circonda, deve essere riaccordato con i vecchi luoghi di un tempo per acquisire una nuova familiarità.
Vi è poi la questione delle relazioni che cambiano e la difficoltà a ritrovare attraverso di esse la propria identità. Di fatto, ogni evento-perdita va a reclamare un cambiamento non solo dello schema corporeo ma anche e soprattutto della immagine corporea, cioè dell’immagine che in ogni momento ci costruiamo sul modo che ha la nostra persona nella sua interezza psichica e fisica, di ascoltare ed entrare in relazione con il mondo umano circostante. L’immagine corporea, “che si elabora in funzione dell’uso che l’uomo fa del suo corpo per il suo desiderio di comunicare” (A. Tomatis), non è qualcosa di definitivamente dato: diviene con il divenire della nostra storia.
Ogni storia personale è costellata di perdite, situazioni in cui lasciamo qualcosa, che sarebbe forse meglio cominciare a chiamare “passaggi di stato”, in cui ci separiamo da qualcosa che non è più. In realtà la qualità specificatamente umana che ci contraddistingue dipende proprio da come elaboriamo questi passaggi che costringono ad un continuo rimodellamento interiore: come se tali eventi divenissero l’occasione per scavare e trovare una dimensione creativa che ci costringe ad essere gli scultori di noi stessi. Perché si tratta proprio di scolpire una nuova immagine corporea e una nuova identità, a partire da quanto non è più e forse non potrà più essere sul piano materiale. È proprio questo lavoro interiore forgiato dalla creatività a differenziarci dagli animali i quali hanno uno schema corporeo ma non l’immagine corporea: d’altra parte è per questo motivo che gli umani piangono, danno la sepoltura ai loro morti e fanno arte, mentre gli animali non possono fare tutto questo.
Questo concetto dell’evento-perdita come una situazione di passaggio certamente si infrange con l’idea comune che una perdita sia un fatto negativo a priori, negativo perché senza una via di uscita intesa spesso come un ritorno allo stato precedente. Nessuno di noi può sfuggire alla realtà azzerando ciò che è stato e ciò che è. E se questo è vero sul piano della materialità di un evento, su un piano squisitamente psicologico le cose possono andare differentemente. Per quanto noi possiamo tentare di negare gli accadimenti dolorosi, un evento perdita ci scaraventa sempre in un passaggio stretto e difficile come è un canale del parto. L’elaborazione interiore di questo passaggio, che è poi la nascita di una nuova immagine, emerge dal silenzio e trova una soluzione alla perdita subìta nel nuovo ascolto di sé e dell’altro.
Sul piano di quello che accade dinamicamente nella nostra psiche, la lesione materiale attiva quella “fantasia di sparizione” (M. Fagioli) che, rivolta verso un mondo interiore che non è più, fa trovare la strada verso la nuova immagine. Ciò che viene definitivamente perduto in termini materiali, non lo è mai in termini psichici. Ed è questo salto interiore che siamo chiamati a fare per trovare una nuova identità e non identificarci passivamente su quanto la materialità ci impone. Si tratta quindi di un lavoro interiore di riparazione e di ricostruzione dopo il terremoto subìto e necessita di un tempo e di una presenza materiale ed affettiva - un po’ come accade nel bambino appena nato dopo il travaglio del parto. Questo tempo della elaborazione della crisi è anche il tempo delle paure: la paura di non riuscire più a ricongiungersi con sé stessi e con le proprie funzioni.
Questo è ciò che accade ad ogni essere umano di fronte ad un evento-perdita, sia esso uomo o donna. Ora andiamo a vedere come si complicano le cose quando chi subisce un evento perdita è donna.
Quali aspettative si attivano nei confronti di una donna quando è colpita in prima persona da un incidente? Che guarisca nel più breve tempo possibile. E quando è nella funzione di caregiver?
Che rimanga “al suo posto” ad oltranza senza quasi neppure fiatare. Ma perché è così automatica l’idea che la donna portatrice di cure sia “al suo posto”?
Innegabilmente le donne sono le prime portatrici di cure nella vita di ognuno di noi: nel suo ruolo di madre che il figlio neo-nato le regala è lei che pensa alle cure fisiche e affettive e, soprattutto grazie a queste ultime, il bambino sviluppa una base sicura su cui costruirà nel tempo la sua immagine corporea e la sua identità. Tuttavia il “dare le cure” non è qualcosa di statico e sempre uguale a sé stesso: non è un ruolo, ma una funzione al servizio dello sviluppo del bambino. Occorre soddisfare i bisogni del bambino (quelli legati all’accudimento fisico) fintantoché non è in grado di fare da solo, ma bisogna frustrare tali bisogni quando il bambino diventa in grado di fare da sé, in modo da soddisfare le sue esigenze di autonomia.
In poche parole, le modalità del “dare le cure” devono cambiare in funzione del divenire del bambino e anche per promuovere tale divenire: è la madre che per prima deve porsi in ascolto delle esigenze del suo bambino per comprendere quando arrivano le fasi di passaggio - il momento dello svezzamento oppure il tempo della esplorazione dell’ambiente, e così via - perché l’obiettivo è rendere il bambino sempre più autonomo e sicuro nelle sue autonomie. In questo progressivo divenire del bambino e divenire indipendente, la madre, pur rimanendo madre (e tale esperienza, impressa indelebilmente nel suo corpo, fa parte della sua immagine corporea e della sua identità) si riappropria del suo essere donna: una donna nuova in funzione di questo nuovo evento vissuto nel suo corpo interiorizzato.
Quando la donna passa dalla funzione di portatrice di cure al ruolo di caregiver, si identifica inconsapevolmente con il solo accudimento e nel fare questo si fossilizza in un tempo fermo e immutabile, un tempo che struttura e sostiene il solo livello assistenziale, a danno della propria e altrui identità. È evidente che in caso di danno da incidente si instaura fisiologicamente una regressione fisica e psicologica insieme del traumatizzato che richiede le “cure”, condizione da cui ripartire per superare il periodo di grave crisi. Ma che succede del traumatizzato se la donna accetta passivamente il ruolo di portatrice di cure (facendo leva sulla sola questione assistenziale) e non coglie l’importanza della funzione, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto di stimolo innovativo che è così strutturante per riavviare il tempo del cambiamento?
Come dire che la donna deve appropriarsi della coscienza della sua posizione nella società che non è sempre e solo quello di madre e per di più di madre assistenziale. Quanto la donna viene messa in condizione di acquisire o riacquisire tale consapevolezza? Quanto viene lasciata sola in questa identificazione senza identità che la paralizza in un ruolo?
Il primo atto di presenza di una donna, di fronte a sé stessa e di fronte al contesto familiare e sociale in cui vive, è dire “NO” a questo ruolo inteso come compito “dovuto” di soddisfare i bisogni assistenziali che la società ottusamente continua a pretendere da lei. Quegli stessi “NO” detti da una madre che la riconducono al suo essere donna, rappresentano l’occasione per il figlio di imparare a sua volta la via dei “NO”, in modo da interiorizzare nel tempo quei meccanismi salva-vita che lo renderanno naturalmente più attento e rispettoso nei confronti della sua vita e di quella altrui.
La consapevolezza della vita e della morte passa attraverso il corpo e da sempre la donna vive naturalmente tale forma di conoscenza, non fosse altro perché molti dei passaggi della sua vita sono profondamente segnati nel suo corpo. È questa forma di conoscenza, intesa come ascolto di sé che parte dal corpo, che occorre portare nella relazione con l’uomo, per costruire una nuova forma di pensiero in grado di tenere sempre in piena considerazione la mortalità del corpo da una parte e la potenzialità gravidica della psiche dall’altra. Questo è il lavoro che la donna deve fare sul piano soggettivo e sul piano relazionale perché davvero l’incidente stradale non sia l’ennesima occasione, purtroppo una delle tante, per fermare il suo percorso verso una identità sempre più ampia e libera.
A questo proposito, vorrei concludere con una immagine su cui stiamo lavorando da tempo con alcuni Colleghi*. In occasione di un grave incidente che interrompe il proprio percorso di vita, le vittime sono chiamate a costruire in prima istanza un ponte di fortuna: un ponte fatto di funi, instabile e minaccioso che si tende tra le sponde di una strada interrotta dove, al di sotto, si spalanca una voragine. L’immagine che vi propongo è quella del ponte tibetano. Nel mezzo del ponte, là dove le oscillazioni si fanno più pericolose, la mancanza della terraferma sotto i piedi attiva l’angoscia di cadere nel vuoto sottostante. In quel punto non si sa più dove andare, cosa scegliere; anzi neppure si pensa alla possibilità di scegliere. Il corpo vive la minaccia alla sua integrità e la tentazione di ritornare sulla sponda da cui si proviene è molto forte. Eppure, per riprendersi la propria sanità, occorre trovare il modo per oltrepassare il ponte e giungere dall’altra parte.
Questa crisi si configura come una situazione di passaggio che impone naturalmente la necessità di una scelta: a seconda del tipo di soluzione la persona potrà accedere ad un equilibrio creativo (fare della interruzione una occasione per creare una strada che ci porta dall’altra parte), uno pseudo equilibrio normativo (tornare indietro e aderire alle vecchie identificazioni, scivolando verso un immobilismo senza storia), oppure ad uno squilibrio in cui ammala in modo evidente nel corpo e/o nella mente.
Lasciare il vecchio mondo per il nuovo mondo: questa è la paura che assale ogni essere umano di fronte ad una situazione nuova. E in questo passaggio non sono consentiti molti bagagli: occorre portare nel luogo nuovo solo l’essenziale, la memoria di ciò che è stato e la fantasia di ciò che potrà essere. Questa crisi può diventare allora l’occasione per un nuovo tuffo nella vita, se gli attori di questa tragedia vengono sollecitati a trovare una strada e a percorrerla.
Aiutare nella navigazione per il mare delle alternative e delle scelte possibili: questo è il compito di chi interviene sulla crisi senza assopirla. Sto parlando dei medici e delle altre figure professionali che sono chiamati ad intervenire in situazioni traumatiche di questo tipo. Occorre potenziare la capacità di orientamento e di discriminazione per permettere alle vittime di incidenti stradali di non rimanere sul ponte o regressivamente tornare indietro dalla parte da cui si proveniva.
È possibile accogliere l’interruzione della strada come occasione di una riparazione interiore profonda, per scolpire quel nuovo sé che riporta alla vita e alla propria sanità.
* Con alcuni Colleghi (Cinzia Sersante, Shelly Bisirri, Giampietro Marcheggiani, Alexandra Iafolla, Silvia Stocchi) che fanno capo a discipline differenti nell’ambito dell’Audiopsicofonologia, della Psicologica e della Integrazione Psicocorporea, abbiamo elaborato una metodologia di intervento sulla crisi volta a valutare e ripristinare la capacità di orientamento e di discriminazione dell’individuo: direttamente collegate alla funzione d’ascolto, tali capacità vengono costantemente compromesse in ogni situazione di crisi. Porre al centro dell’intervento la funzione dell’ascolto vuol dire prendere in considerazione i correlati psicologici e corporei (posturali, muscolari e neurovegetativi) ad essa collegati e vuol dire anche non dare alla crisi una connotazione rigidamente patologica.
La diagnostica della crisi si avvale quindi di una valutazione psicologica individuale e/o di contesto, di un Bilancio Audiopsicofonologico che valuta la qualità dell’ascolto (e quindi se il soggetto desidera utilizzare o no il potenziale che ha a disposizione sul piano percettivo) e infine di una valutazione posturale funzionale. Alla fine di tutte queste valutazioni, nell’incontro di restituzione si prospetta una chiave di lettura del senso di quella crisi in quel momento della vita della persona e, dando delle indicazioni prognostiche rivolte alle risorse soggettive, si propongono degli interventi volti ad accompagnare la persona oltre il ponte. In fondo la crisi è una situazione di passaggio, assolutamente fisiologica, che impone la necessità di una scelta.
Nel 2007 gli incidenti stradali hanno provocato quasi 1 milione di feriti e oltre 5.100 morti. Questa ricerca, curata da ricercatori dell’Università Bocconi di Milano e promossa in modo congiunto sia da O.N.Da che dalla Fondazione ANIA per la Sicurezza Stradale, documenta le ricadute della disabilità grave da incidente stradale sul mondo femminile in Italia. Nel 2007 i soggetti con invalidità permanente (IP) residua superiore a 9 punti, quindi grave, sono stati 150.676. Secondo la ripartizione ISTAT circa il 37% del totale è rappresentato da donne. Andando a scandagliare questo dato del 37%, si scopre come nella maggior parte dei casi le donne che riportano questa invalidità siano soggetti passivi in quanto o sono pedoni (54%) o trasportati (58,6%). Quindi, sebbene il numero dei conducenti uomini che, in seguito ad un incidente, riporta ferite gravi è pari a due volte quello delle donne, il numero delle donne ferite è superiore a quello degli uomini per quanto concerne i trasportati e i pedoni: il che evidenzia come le donne tendano a subire direttamente gli esiti negativi della guida altrui.
Oltre al danno diretto provocato da un incidente stradale, esiste anche un danno indiretto di cui la donna è purtroppo protagonista.
Se è vero infatti che ogni incidente genera almeno due vittime, il traumatizzato e la sua famiglia, le donne sono quelle che, se non sono implicate direttamente nell’incidente stradale, finiscono con l’esserlo comunque attraverso la funzione di “donatrice di cure”.
Dall’indagine svolta si riscontra come nel nucleo familiare il ruolo di accudimento (caregiver) venga svolto direttamente dalla donna che deve quindi riorganizzare la sua vita in funzione di questo compito assistenziale che ricade su di lei: più dell’80% di “donatori di cure” è donna (madre, moglie o figlia).
Questo significa che, quando un incidente grave si abbatte su una famiglia, l’onere maggiore grava sempre e comunque sulla donna che si sente spesso costretta a modificare lo stile di vita, spesso rinunciando al lavoro e sempre comunque rinunciando al tempo dedicato alla sua persona e al nutrimento della sua identità.
Questi aspetti diventano particolarmente invalidanti e fonte di squilibri psicopatologici e somatici se si considera che i livelli di disagio e di sofferenza hanno la tendenza a mantenersi pressoché inalterati con il passare degli anni. Quando tutto il sistema comincia a ruotare su un tempo immobile e immutabile, la qualità della vita viene gravemente compromessa. Questi costi intangibili non sono meno significativi di quelli tangibili: sia diretti (i costi per la cura e la prevenzione dei pazienti incidentati) che indiretti (i costi per il mancato introito a causa della perdita di produttività lavorativa).
Al centro del mio intervento alla Conferenza, in qualità di psichiatra e psicoterapeuta dinamico, ho posto proprio l’accento sulla importanza di questi aspetti… intangibili.
Partiamo dal dato incontrovertibile che il danno da incidente stradale comporta sempre una situazione di perdita: quanto era presente fino al momento dell’incidente, viene repentinamente a mancare.
Può essere la perdita permanente o temporanea dell’integrità del corpo; può trattarsi di un blocco funzionale determinato dalla condizione di grave stress; può trattarsi ancora di una perdita della integrità psichica che lascia emergere sintomi psichiatrici di varia entità come ansia, depressione, rituali ossessivi, fenomeni dispercettivi o quant’altro.
Leggendo alcune interviste, messe a disposizione dalla Ricerca Fondazione ANIA – O.N.Da, effettuate su donne incidentate, mi sono soffermata su alcune loro frasi:
“Una volta a casa ho dovuto riconquistare la consapevolezza del mio corpo in uno spazio che non era più familiare”… e ancora …“La mia casa non è più la mia casa eppure ricordo di avere scelto e montato ogni pezzo… Non è stata questa la mia fatica più grande, ho dovuto riconquistare il mio ruolo di mamma e di moglie dopo la lunga assenza”.
Il tema centrale di queste dichiarazioni è il non riconoscersi e il non riconoscere più. Dapprima il mancato riconoscimento è in relazione con gli spazi che, fino al momento dell’incidente, erano familiari: gli oggetti a portata di mano, i movimenti usuali che fanno la quotidianità del vivere. Ciò che viene a mancare è il vecchio modo di misurare lo spazio e di misurarsi nello spazio: lo schema corporeo, che si struttura in relazione con il mondo fisico che ci circonda, deve essere riaccordato con i vecchi luoghi di un tempo per acquisire una nuova familiarità.
Vi è poi la questione delle relazioni che cambiano e la difficoltà a ritrovare attraverso di esse la propria identità. Di fatto, ogni evento-perdita va a reclamare un cambiamento non solo dello schema corporeo ma anche e soprattutto della immagine corporea, cioè dell’immagine che in ogni momento ci costruiamo sul modo che ha la nostra persona nella sua interezza psichica e fisica, di ascoltare ed entrare in relazione con il mondo umano circostante. L’immagine corporea, “che si elabora in funzione dell’uso che l’uomo fa del suo corpo per il suo desiderio di comunicare” (A. Tomatis), non è qualcosa di definitivamente dato: diviene con il divenire della nostra storia.
Ogni storia personale è costellata di perdite, situazioni in cui lasciamo qualcosa, che sarebbe forse meglio cominciare a chiamare “passaggi di stato”, in cui ci separiamo da qualcosa che non è più. In realtà la qualità specificatamente umana che ci contraddistingue dipende proprio da come elaboriamo questi passaggi che costringono ad un continuo rimodellamento interiore: come se tali eventi divenissero l’occasione per scavare e trovare una dimensione creativa che ci costringe ad essere gli scultori di noi stessi. Perché si tratta proprio di scolpire una nuova immagine corporea e una nuova identità, a partire da quanto non è più e forse non potrà più essere sul piano materiale. È proprio questo lavoro interiore forgiato dalla creatività a differenziarci dagli animali i quali hanno uno schema corporeo ma non l’immagine corporea: d’altra parte è per questo motivo che gli umani piangono, danno la sepoltura ai loro morti e fanno arte, mentre gli animali non possono fare tutto questo.
Questo concetto dell’evento-perdita come una situazione di passaggio certamente si infrange con l’idea comune che una perdita sia un fatto negativo a priori, negativo perché senza una via di uscita intesa spesso come un ritorno allo stato precedente. Nessuno di noi può sfuggire alla realtà azzerando ciò che è stato e ciò che è. E se questo è vero sul piano della materialità di un evento, su un piano squisitamente psicologico le cose possono andare differentemente. Per quanto noi possiamo tentare di negare gli accadimenti dolorosi, un evento perdita ci scaraventa sempre in un passaggio stretto e difficile come è un canale del parto. L’elaborazione interiore di questo passaggio, che è poi la nascita di una nuova immagine, emerge dal silenzio e trova una soluzione alla perdita subìta nel nuovo ascolto di sé e dell’altro.
Sul piano di quello che accade dinamicamente nella nostra psiche, la lesione materiale attiva quella “fantasia di sparizione” (M. Fagioli) che, rivolta verso un mondo interiore che non è più, fa trovare la strada verso la nuova immagine. Ciò che viene definitivamente perduto in termini materiali, non lo è mai in termini psichici. Ed è questo salto interiore che siamo chiamati a fare per trovare una nuova identità e non identificarci passivamente su quanto la materialità ci impone. Si tratta quindi di un lavoro interiore di riparazione e di ricostruzione dopo il terremoto subìto e necessita di un tempo e di una presenza materiale ed affettiva - un po’ come accade nel bambino appena nato dopo il travaglio del parto. Questo tempo della elaborazione della crisi è anche il tempo delle paure: la paura di non riuscire più a ricongiungersi con sé stessi e con le proprie funzioni.
Questo è ciò che accade ad ogni essere umano di fronte ad un evento-perdita, sia esso uomo o donna. Ora andiamo a vedere come si complicano le cose quando chi subisce un evento perdita è donna.
Quali aspettative si attivano nei confronti di una donna quando è colpita in prima persona da un incidente? Che guarisca nel più breve tempo possibile. E quando è nella funzione di caregiver?
Che rimanga “al suo posto” ad oltranza senza quasi neppure fiatare. Ma perché è così automatica l’idea che la donna portatrice di cure sia “al suo posto”?
Innegabilmente le donne sono le prime portatrici di cure nella vita di ognuno di noi: nel suo ruolo di madre che il figlio neo-nato le regala è lei che pensa alle cure fisiche e affettive e, soprattutto grazie a queste ultime, il bambino sviluppa una base sicura su cui costruirà nel tempo la sua immagine corporea e la sua identità. Tuttavia il “dare le cure” non è qualcosa di statico e sempre uguale a sé stesso: non è un ruolo, ma una funzione al servizio dello sviluppo del bambino. Occorre soddisfare i bisogni del bambino (quelli legati all’accudimento fisico) fintantoché non è in grado di fare da solo, ma bisogna frustrare tali bisogni quando il bambino diventa in grado di fare da sé, in modo da soddisfare le sue esigenze di autonomia.
In poche parole, le modalità del “dare le cure” devono cambiare in funzione del divenire del bambino e anche per promuovere tale divenire: è la madre che per prima deve porsi in ascolto delle esigenze del suo bambino per comprendere quando arrivano le fasi di passaggio - il momento dello svezzamento oppure il tempo della esplorazione dell’ambiente, e così via - perché l’obiettivo è rendere il bambino sempre più autonomo e sicuro nelle sue autonomie. In questo progressivo divenire del bambino e divenire indipendente, la madre, pur rimanendo madre (e tale esperienza, impressa indelebilmente nel suo corpo, fa parte della sua immagine corporea e della sua identità) si riappropria del suo essere donna: una donna nuova in funzione di questo nuovo evento vissuto nel suo corpo interiorizzato.
Quando la donna passa dalla funzione di portatrice di cure al ruolo di caregiver, si identifica inconsapevolmente con il solo accudimento e nel fare questo si fossilizza in un tempo fermo e immutabile, un tempo che struttura e sostiene il solo livello assistenziale, a danno della propria e altrui identità. È evidente che in caso di danno da incidente si instaura fisiologicamente una regressione fisica e psicologica insieme del traumatizzato che richiede le “cure”, condizione da cui ripartire per superare il periodo di grave crisi. Ma che succede del traumatizzato se la donna accetta passivamente il ruolo di portatrice di cure (facendo leva sulla sola questione assistenziale) e non coglie l’importanza della funzione, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto di stimolo innovativo che è così strutturante per riavviare il tempo del cambiamento?
Come dire che la donna deve appropriarsi della coscienza della sua posizione nella società che non è sempre e solo quello di madre e per di più di madre assistenziale. Quanto la donna viene messa in condizione di acquisire o riacquisire tale consapevolezza? Quanto viene lasciata sola in questa identificazione senza identità che la paralizza in un ruolo?
Il primo atto di presenza di una donna, di fronte a sé stessa e di fronte al contesto familiare e sociale in cui vive, è dire “NO” a questo ruolo inteso come compito “dovuto” di soddisfare i bisogni assistenziali che la società ottusamente continua a pretendere da lei. Quegli stessi “NO” detti da una madre che la riconducono al suo essere donna, rappresentano l’occasione per il figlio di imparare a sua volta la via dei “NO”, in modo da interiorizzare nel tempo quei meccanismi salva-vita che lo renderanno naturalmente più attento e rispettoso nei confronti della sua vita e di quella altrui.
La consapevolezza della vita e della morte passa attraverso il corpo e da sempre la donna vive naturalmente tale forma di conoscenza, non fosse altro perché molti dei passaggi della sua vita sono profondamente segnati nel suo corpo. È questa forma di conoscenza, intesa come ascolto di sé che parte dal corpo, che occorre portare nella relazione con l’uomo, per costruire una nuova forma di pensiero in grado di tenere sempre in piena considerazione la mortalità del corpo da una parte e la potenzialità gravidica della psiche dall’altra. Questo è il lavoro che la donna deve fare sul piano soggettivo e sul piano relazionale perché davvero l’incidente stradale non sia l’ennesima occasione, purtroppo una delle tante, per fermare il suo percorso verso una identità sempre più ampia e libera.
A questo proposito, vorrei concludere con una immagine su cui stiamo lavorando da tempo con alcuni Colleghi*. In occasione di un grave incidente che interrompe il proprio percorso di vita, le vittime sono chiamate a costruire in prima istanza un ponte di fortuna: un ponte fatto di funi, instabile e minaccioso che si tende tra le sponde di una strada interrotta dove, al di sotto, si spalanca una voragine. L’immagine che vi propongo è quella del ponte tibetano. Nel mezzo del ponte, là dove le oscillazioni si fanno più pericolose, la mancanza della terraferma sotto i piedi attiva l’angoscia di cadere nel vuoto sottostante. In quel punto non si sa più dove andare, cosa scegliere; anzi neppure si pensa alla possibilità di scegliere. Il corpo vive la minaccia alla sua integrità e la tentazione di ritornare sulla sponda da cui si proviene è molto forte. Eppure, per riprendersi la propria sanità, occorre trovare il modo per oltrepassare il ponte e giungere dall’altra parte.
Questa crisi si configura come una situazione di passaggio che impone naturalmente la necessità di una scelta: a seconda del tipo di soluzione la persona potrà accedere ad un equilibrio creativo (fare della interruzione una occasione per creare una strada che ci porta dall’altra parte), uno pseudo equilibrio normativo (tornare indietro e aderire alle vecchie identificazioni, scivolando verso un immobilismo senza storia), oppure ad uno squilibrio in cui ammala in modo evidente nel corpo e/o nella mente.
Lasciare il vecchio mondo per il nuovo mondo: questa è la paura che assale ogni essere umano di fronte ad una situazione nuova. E in questo passaggio non sono consentiti molti bagagli: occorre portare nel luogo nuovo solo l’essenziale, la memoria di ciò che è stato e la fantasia di ciò che potrà essere. Questa crisi può diventare allora l’occasione per un nuovo tuffo nella vita, se gli attori di questa tragedia vengono sollecitati a trovare una strada e a percorrerla.
Aiutare nella navigazione per il mare delle alternative e delle scelte possibili: questo è il compito di chi interviene sulla crisi senza assopirla. Sto parlando dei medici e delle altre figure professionali che sono chiamati ad intervenire in situazioni traumatiche di questo tipo. Occorre potenziare la capacità di orientamento e di discriminazione per permettere alle vittime di incidenti stradali di non rimanere sul ponte o regressivamente tornare indietro dalla parte da cui si proveniva.
È possibile accogliere l’interruzione della strada come occasione di una riparazione interiore profonda, per scolpire quel nuovo sé che riporta alla vita e alla propria sanità.
* Con alcuni Colleghi (Cinzia Sersante, Shelly Bisirri, Giampietro Marcheggiani, Alexandra Iafolla, Silvia Stocchi) che fanno capo a discipline differenti nell’ambito dell’Audiopsicofonologia, della Psicologica e della Integrazione Psicocorporea, abbiamo elaborato una metodologia di intervento sulla crisi volta a valutare e ripristinare la capacità di orientamento e di discriminazione dell’individuo: direttamente collegate alla funzione d’ascolto, tali capacità vengono costantemente compromesse in ogni situazione di crisi. Porre al centro dell’intervento la funzione dell’ascolto vuol dire prendere in considerazione i correlati psicologici e corporei (posturali, muscolari e neurovegetativi) ad essa collegati e vuol dire anche non dare alla crisi una connotazione rigidamente patologica.
La diagnostica della crisi si avvale quindi di una valutazione psicologica individuale e/o di contesto, di un Bilancio Audiopsicofonologico che valuta la qualità dell’ascolto (e quindi se il soggetto desidera utilizzare o no il potenziale che ha a disposizione sul piano percettivo) e infine di una valutazione posturale funzionale. Alla fine di tutte queste valutazioni, nell’incontro di restituzione si prospetta una chiave di lettura del senso di quella crisi in quel momento della vita della persona e, dando delle indicazioni prognostiche rivolte alle risorse soggettive, si propongono degli interventi volti ad accompagnare la persona oltre il ponte. In fondo la crisi è una situazione di passaggio, assolutamente fisiologica, che impone la necessità di una scelta.
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Valeria Amato
Vera...di Valeria Amato
Se volgiamo lo sguardo ad una vetrina di settore - giustizia - i codici non mancano mai. Di tutti i tipi (da tavolo, per esami, per concorsi, tascabili), commentati con dottrina e giurisprudenza, conditi di Costituzione e trattati internazionali, farciti con leggi speciali e complementari, i codici non li legge più nessuno.Da che rappresentavano i diritti fondamentali dell’uomo, oltre all’emancipazione di una colonna vertebrale chiamata in origine Comunità poi Stato, sono passati dapprima nella cartella di uno studente come accompagnamento ad un manuale, poi nel breviario di un Don Abbondio avventuratosi per caso nell’aula di un tribunale. Se ne vedono di avvocati su e giù per il Palazzaccio (termine popolare del vecchio Palazzo di Giustizia di Roma) col pesante fardello di un libro di leggi pregevole ma ingombrante, ideale per quell’udienza sottomano nata per/contro un apparato farraginoso - per esser buoni - che giudicherà per vincere! Ma guardando alla solita definizione e manutenzione di significato della parola codice, possiamo - con le preziose note, bibliografie, saggi, discussioni con la gente per strada - non solo andare oltre errori ed imprecisioni di lingua ma anche integrare o forse riscrivere i passaggi più fragili e direi anche dimenticati che hanno segnato la nostra Storia di esseri umani e di cittadini.
Se chiediamo ad un giurista cos’è il diritto, immediatamente ci imbattiamo in un libro di diritto privato, costituzionale, comparato, che ci spiega lo strumento con cui la vita sociale si organizza al livello più embrionale come a quello più elevato. Con quali conseguenze!? Che la semplice parola pretesa - significato originario della parola diritto - funge come sanzione alla scomunica, fuoco che brucia vivi i vivi per averla soltanto pensata. Ma lasciando alla Chiesa il diritto di famiglia e allo Stato quello della forza pubblica, abbandoniamo la via dell’espiazione per discolparci da una libertà priva di garanzie giuridiche, rischiamo la condanna per eresia e andiamo a vedere tra le righe della Storia, un passo più in là dalla coercizione fisica e il rispetto per il reato.
L'Art.2 della Costituzione della Repubblica Italiana - “Principi fondamentali” - così recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità […]”. Articolo in cui si dichiara che la Repubblica, dunque non solo lo Stato ma anche tutti gli enti pubblici territoriali che collaborano con esso, riconosce e garantisce qualcosa che viaggia con la nascita dell'uomo, diritti che appartengono a lui inteso come essere libero, che non sono creati da un potere supremo ma che esistono indipendentemente da esso: diritto naturale alla vita, al rispetto della persona fisica e della sua dignità, sui quali lo Stato non può per alcun motivo agire o negare.
Ma cosa si intende per diritti inviolabili dell'uomo, considerato che il riconoscimento della dignità di ogni essere umano e dei loro diritti costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della vita sociale e politica di un Paese?
Era il 4 luglio del 1776 quando nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America comparve la prima dichiarazione non ufficiale dei diritti dell’uomo, composta dalla “Commissione dei Cinque”: “Che tutti gli uomini sono creati uguali tra loro, che essi sono dotati dal loro creatore di alcuni inalienabili diritti tra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Affermazione riconosciuta e approvata formalmente nel 1789 - solo tredici anni più tardi - quando all'indomani della Rivoluzione Francese, in un clima incandescente la monarchia assoluta fu travolta da una rivoluzione parlamentare e da una sommossa popolare. Gli Stati Generali (il Parlamento) fino a quel momento composti da nobiltà e clero si videro sorpassare dal volante di quel terzo stato (borghesia) che nello stesso anno si autoproclamò l'unico vero(!) rappresentante della Francia e che, assumendo il nome di Assemblea Nazionale, si assegnò il compito di dare una nuova Costituzione al Paese. Ancora una volta, cinque membri di una Commissione Speciale stilarono la Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen, accettata da re Luigi XVI ed inserita successivamente nella Costituzione del 1791. Dichiarazione che - sebbene sancisse come scopo fondamentale dello Stato quello di conservare i diritti naturali dell'uomo, l'eguaglianza di fronte alla legge che poneva fine agli antichi privilegi nobiliari e la limitazione del potere tramite il principio della divisione degli scettri - non portò altro che al passaggio da una monarchia assoluta (Ancien Régime) ad un'altra, seppur sotto falso nome, costituzionale. Elementi tutti, utili per l'affermarsi di un ordine politico nuovo ma non rivoluzionario, perciò programmatico e coerente con gli interessi e le esigenze di una classe borghese, non di un intero popolo.
L'impatto con i primi diciassette articoli (libertà, proprietà, sicurezza, resistenza all'oppressione) se da una parte si fece preambolo innovatore quanto a diritti naturali ed imprescrittibili dell'uomo, dall'altra portò alla restaurazione del direttorio, due dittature napoleoniche, sommosse proletarie, dodici costituzioni, svariati assetti politico-istituzionali, corollario tutti della definizione di oppressione e diritto-dovere alla rivoluzione. E mentre il principio di legalità si faceva strada in materia penale come corona ancora una volta sulla testa di un solo uomo, ecco accorgersi che la Dichiarazione tanto acclamata gridava sì egalité, escludendo però le donne dal diritto di voto. Dite che a quei tempi la parità dei sessi era un concetto sconosciuto, fin troppo, e che perciò la dizione dell'art.1 “gli uomini” venne interpretata giustamente!?
Sono dovuti trascorrere più di centocinquanta anni prima di arrivare ad un altro preambolo che, considerando il riconoscimento della dignità umana quale fondamento di libertà e giustizia comune a tutti - per sola nascita - e confidando nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, fu stilato e adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948. Il documento prodotto dagli alleati sull’onda dell’indignazione per le atrocità commesse nella Seconda Guerra Mondiale, quale testimonianza storica e codice internazionale imprescrittibile, segnò il punto di arrivo di un dibattito filosofico sull’etica e i diritti umani che nelle varie epoche aveva visto impegnati politici, filosofi, storici di vario genere e provenienza. Dichiarazione frutto di un'elaborazione umana centenaria che, partendo dai principi classici europei, passò prima per il Bill of Rights del 1689 (leggi sui diritti - stilato dal parlamento britannico e considerato uno dei cardini del sistema costituzionale del Regno Unito), poi per la Dichiarazione d’Indipendenza Statunitense (1776), e ancora per la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino tentata durante la Rivoluzione Francese (1789), per giungere ai pilastri delle quattro libertà enunciati nella Carta Atlantica del 1941. Sottoscritta dal Presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt e il Primo Ministro britannico Winston Churchill a bordo della nave da battaglia Prince of Wales, la Carta Atlantica prevedeva l’enunciazione di alcuni principi per il futuro ordine mondiale: divieto di espansioni territoriali, autodeterminazione, democrazia, pace intesa come libertà dal timore e dal bisogno, rinuncia all’uso della forza, sistema di sicurezza generale che permettesse il disarmo. Affermata la libertà di commercio, di navigazione e il diritto dei popoli a vivere liberi, nacque la Dichiarazione Universale dei diritti Umani a cui seguirono il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, e quello sui diritti civili e politici adottati dall’ONU il 16 settembre del 1966.
La Dichiarazione, con lo scopo di impegnare tutti gli Stati che vi hanno aderito a far valere nei loro ordinamenti giuridici diritti individuali, civili, politici, economici, sociali, culturali di ogni essere umano, consta di un preludio e 30 articoli che riportano più volte le parole libertà (di movimento, pensiero, opinione, espressione), dignità (come persona e cittadino), diritto (alla vita, al riposo, allo svago, alla felicità), opinione politica, ricerca del godimento. Voci ed espressioni non più di concezione divina o nozione generica, rivolte tutte - per questo - ai popoli del mondo intero, a salvaguardia di quel godimento naturale che sciolto il lazzo di una moderna élite di filosofi si fa acqua per uomini e donne, sapienti. Donne che da sempre si distinguono da questo o quel canone - sia esso statale che cristiano - attraverso la loro natura universale, laica, sovversiva. Lo sa il Tempo da quanto viviamo tra Stato assolutista e Società Civile dove diritti e libertà non solo vengono distinti e separati in modo impreciso, ma soprattutto classificati a seconda dell'aspetto positivo dei primi, negativo delle seconde. E che i diritti, quali quelle sempre legittime pretese erga omnes di nascere e mantenere tale stato, si accompagnassero alla libertà intesa come integrità fisica – e mentale – innata e necessaria per realizzare la pretesa del non essere costretto, è storia vissuta e scritta, mito nel tempo di un apparato pubblico attento più nel migliorare il sistema economico che a quello sanitario o pensionistico. Eppure mi pare che per definizione diritti e libertà prescindano da questa scelta, o forse non esistono tali che la loro garanzia dipenda dall'intervento degli apparati pubblici?! Le orecchie lottano per non sanguinare al cospetto di cattedratici che parlano di diritto d'asilo, diplomatico, divieto di estradizione dello straniero per reati politici (tra i quali non sono però compresi i reati di genocidio), di espulsione quale atto con cui lo Stato allontana dal proprio territorio l’invasore,inviandolo verso quello di appartenenza o di provenienza, ma permettetemi: perché sottintendere, nel senso di tacere, quel diritto originario che appartiene a uomini, donne, bambini, cittadini e forestieri?
Quella pretesa dell’intollerabile umano che parla un linguaggio innato, temibile invisibile che il più delle volte, reclamando il diritto alla salute si vede arrivare il trattamento sanitario obbligatorio? Pillole rosa, rosse, gialle, verdi, a seconda del sintomo, dei comportamenti, arrivano prevedibili attivando l'esercizio di precisi e puntuali poteri attraverso provvedimenti ablatori quali l'espropriazione o il divieto.
E mi vengono in mente come pillole, tutte quelle disposizioni costituzionali - sui diritti in particolare - che impiegano termini tecnici necessitando sempre di una definizione. Non vi è un concetto naturale che dica con certezza che cosa sia la libertà personale, il domicilio, la corrispondenza, la comunicazione, la riunione, l'associazione, l'incontro. Ogni termine, letto o consultato, si presenta sovente come un problema, fatto, arbitrio di legislatori o giudici impegnati in una disputa tra tecnici. Ma questo non vuol dire affatto che le nozioni che essi evocano debbano essere ancorate agli usi propri degli specialisti!
Ogni uomo ha il dovere di respingere l'idea che tali nozioni siano ferme, ossia intese nel senso in cui venivano e vengono impiegate da una lingua lesta quale quella dei giuristi, molesta come la Guerra Fredda. Ogni uomo deve far in modo che concetti e precetti - dichiarati prima ancora della nostra Costituzione - evolvano così come evolve un insieme di uomini diversi in rapporto tra loro, o così come dovrebbero evolvere legislazione ordinaria e giurisprudenza di merito. Uomini e non giudici che, trasformando termini da condizione statica a sviluppo dinamico, risultano l'unico arbitro sollecitato continuamente nel suo divenire. E badate bene che nel termine uomini sono comprese anche le donne, proprio quelle che a tutt’oggi vengono definite femmine.
Ne approfitto per ricordare a chi l’avesse dimenticato e a chi non era ancora venuto al mondo, un caso paradossale che non posso esimermi dall'intitolare: “Dov'è finito l'angelo del focolare?”. Nel 1961 (sentenza n.64) la Corte Costituzionale dichiarò infondata la questione di legittimità dell'art. 559 cod. pen. che puniva penalmente l'adulterio della donna ma non quello del marito.
La Corte ritenne che non fosse criticabile la scelta del legislatore, perché interpretava fedelmente la maggior gravità che l'adulterio femminile suscitava nella coscienza sociale rispetto a quello compiuto dall'uomo. La sentenza, incentrata sull’art.29 che esalta il ruolo della famiglia “come società naturale fondata sul matrimonio” e stabilisce l'eguaglianza dei coniugi “nei limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare”, indicò il diverso e maggior pericolo per l'unità della stessa che discendeva dall'adulterio della donna rispetto a quello dell'uomo che si sa, per natura è cacciatore! Ma sette anni dopo (sent. 126/1968) la Corte cambia giurisprudenza e dichiara illegittima la norma. Cosa è cambiato!?
“Da allora molto è cambiato nella vita sociale: la donna ha acquisito pienezza di diritti e la sua partecipazione alla vita economica e sociale della famiglia e dell'intera collettività è diventata molto più intensa, fino a raggiungere piena parità con l'uomo”.
Parità, direi io pur essendo classe 1976, riconosciuta un tantino in ritardo (millenni) rispetto alla nascita dell’uomo, sia esso maschio o femmina, liberi. Status originario, caso strano, talmente appariscente da scomodare una corte – dei miracoli? – a giudicare quella “adultera” come affare sociale del tempo, ma non abbastanza punibile la stessa per aver indossato in udienza un vertiginoso bikini, tutt’oggi punibile come atto contrario al comune senso del pudore.
Ancora una volta la Storia incontra le righe di un pensiero che corre sottile quasi a voler incontrare quei filosofi greci che ne sapevano una più del diavolo e che attraverso i loro appunti stilati in notturno, e resi pubblici dal British Museum, tuttora narrano di Ciro re di Babilonia che restituì al suo popolo templi e immagini dall'altro lato del Tigri; di Asöka re di Maurya (oggi India) che nel III sec. a.C. trattò i suoi sudditi come uguali a prescindere dalla loro casta o attività politica.
E proseguendo, stavolta insieme col tempo che non indietreggia ma ricorda, udiamo la voce del sovrano del Mali che nel 1222 proclamò oralmente la Carta Mandem così rivolgendosi ai “quattro angoli del mondo”: “Ogni vita è una vita, ribellatevi alla servitù, perché chiunque è libero di dire, di fare, di vedere”. Fino alla conquista spagnola delle Americhe che, seppur portò alle deportazioni di individui di pelle nera dall'Africa verso il Nuovo Mondo, segnò la fine del concetto medievale di diritto e, tempo dopo, anche la messa in libertà degli schiavi. Esistenza, validità e contenuti dei Diritti Umani continuano a tutt'oggi - 2010 d.C. - ad essere disputa sia in filosofia che in scienze politiche dove, in entrambe, quelle pretese erga omnes a volte vengono autenticate da convenzioni e leggi internazionali, altre violate da ordinamenti giuridici di Nazioni che si dicono ‘repubblicane’, e ancora - sempre bene che vada - tralasciate nei libri di storia che come i codici nessuno consulta più.
Ma la dottrina dei Diritti Umani, dopo secoli di storia, è riuscita ad andare al di là delle singole leggi?
Forma per davvero le basi morali fondamentali per regolare l'ordine geo-politico?
E come mai, sebbene l'ONU abbia riconosciuto i così detti Diritti Umani inderogabili, allo stesso tempo li pone sotto limitazione se e in caso di situazioni di emergenza nazionale?
Mi torna nuovamente alla mano quell'Art.2 della nostra Costituzione, del quale avevo volontariamente omesso: “[…] e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
… E immediatamente sorrido al pensiero di tutti quegli anni trascorsi tra i banchi di un’aula ad imparare a memoria secoli dalla pietra e dalla carta, prima ancora che dalla memoria. Sorrido ma non dimentico, ringrazio coloro che hanno lavorato per conoscere prima, e tutelare poi, quella condizione umana che ora so appartenere soltanto al tempo e all'uomo nel tempo. Quella clessidra magica che non nemica, non colma di difficoltà, non urgente, insomma sincrona, può ora lasciarsi rotolare e sovvertire, per scriverne una diversa di Storia: che siamo uomini, nati liberi, con la pretesa di vivere, col dovere di proteggere il nostro a-venire, qualunque esso sia e in qualunque modo - legittimo, universale, inalienabile - possa essere. Sovversivi, ci chiameranno!? A ispezione, perquisizione, sequestro, ci sottoporranno!? Che importa, abbiamo sempre la libertà di corrispondenza e comunicazione, su carta e telematica, pur sempre che governo e autorità giudiziaria non facciano un… ‘68.
BIBLIOGRAFIA
R. BIN, G. PETRUZZELLA, Diritto Pubblico, Giappichelli Editore, Torino 2009.
G. IUDICA, Codice Civile, Egea Editore, Milano 2009.
Se chiediamo ad un giurista cos’è il diritto, immediatamente ci imbattiamo in un libro di diritto privato, costituzionale, comparato, che ci spiega lo strumento con cui la vita sociale si organizza al livello più embrionale come a quello più elevato. Con quali conseguenze!? Che la semplice parola pretesa - significato originario della parola diritto - funge come sanzione alla scomunica, fuoco che brucia vivi i vivi per averla soltanto pensata. Ma lasciando alla Chiesa il diritto di famiglia e allo Stato quello della forza pubblica, abbandoniamo la via dell’espiazione per discolparci da una libertà priva di garanzie giuridiche, rischiamo la condanna per eresia e andiamo a vedere tra le righe della Storia, un passo più in là dalla coercizione fisica e il rispetto per il reato.
L'Art.2 della Costituzione della Repubblica Italiana - “Principi fondamentali” - così recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità […]”. Articolo in cui si dichiara che la Repubblica, dunque non solo lo Stato ma anche tutti gli enti pubblici territoriali che collaborano con esso, riconosce e garantisce qualcosa che viaggia con la nascita dell'uomo, diritti che appartengono a lui inteso come essere libero, che non sono creati da un potere supremo ma che esistono indipendentemente da esso: diritto naturale alla vita, al rispetto della persona fisica e della sua dignità, sui quali lo Stato non può per alcun motivo agire o negare.
Ma cosa si intende per diritti inviolabili dell'uomo, considerato che il riconoscimento della dignità di ogni essere umano e dei loro diritti costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della vita sociale e politica di un Paese?
Era il 4 luglio del 1776 quando nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America comparve la prima dichiarazione non ufficiale dei diritti dell’uomo, composta dalla “Commissione dei Cinque”: “Che tutti gli uomini sono creati uguali tra loro, che essi sono dotati dal loro creatore di alcuni inalienabili diritti tra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Affermazione riconosciuta e approvata formalmente nel 1789 - solo tredici anni più tardi - quando all'indomani della Rivoluzione Francese, in un clima incandescente la monarchia assoluta fu travolta da una rivoluzione parlamentare e da una sommossa popolare. Gli Stati Generali (il Parlamento) fino a quel momento composti da nobiltà e clero si videro sorpassare dal volante di quel terzo stato (borghesia) che nello stesso anno si autoproclamò l'unico vero(!) rappresentante della Francia e che, assumendo il nome di Assemblea Nazionale, si assegnò il compito di dare una nuova Costituzione al Paese. Ancora una volta, cinque membri di una Commissione Speciale stilarono la Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen, accettata da re Luigi XVI ed inserita successivamente nella Costituzione del 1791. Dichiarazione che - sebbene sancisse come scopo fondamentale dello Stato quello di conservare i diritti naturali dell'uomo, l'eguaglianza di fronte alla legge che poneva fine agli antichi privilegi nobiliari e la limitazione del potere tramite il principio della divisione degli scettri - non portò altro che al passaggio da una monarchia assoluta (Ancien Régime) ad un'altra, seppur sotto falso nome, costituzionale. Elementi tutti, utili per l'affermarsi di un ordine politico nuovo ma non rivoluzionario, perciò programmatico e coerente con gli interessi e le esigenze di una classe borghese, non di un intero popolo.
L'impatto con i primi diciassette articoli (libertà, proprietà, sicurezza, resistenza all'oppressione) se da una parte si fece preambolo innovatore quanto a diritti naturali ed imprescrittibili dell'uomo, dall'altra portò alla restaurazione del direttorio, due dittature napoleoniche, sommosse proletarie, dodici costituzioni, svariati assetti politico-istituzionali, corollario tutti della definizione di oppressione e diritto-dovere alla rivoluzione. E mentre il principio di legalità si faceva strada in materia penale come corona ancora una volta sulla testa di un solo uomo, ecco accorgersi che la Dichiarazione tanto acclamata gridava sì egalité, escludendo però le donne dal diritto di voto. Dite che a quei tempi la parità dei sessi era un concetto sconosciuto, fin troppo, e che perciò la dizione dell'art.1 “gli uomini” venne interpretata giustamente!?
Sono dovuti trascorrere più di centocinquanta anni prima di arrivare ad un altro preambolo che, considerando il riconoscimento della dignità umana quale fondamento di libertà e giustizia comune a tutti - per sola nascita - e confidando nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, fu stilato e adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948. Il documento prodotto dagli alleati sull’onda dell’indignazione per le atrocità commesse nella Seconda Guerra Mondiale, quale testimonianza storica e codice internazionale imprescrittibile, segnò il punto di arrivo di un dibattito filosofico sull’etica e i diritti umani che nelle varie epoche aveva visto impegnati politici, filosofi, storici di vario genere e provenienza. Dichiarazione frutto di un'elaborazione umana centenaria che, partendo dai principi classici europei, passò prima per il Bill of Rights del 1689 (leggi sui diritti - stilato dal parlamento britannico e considerato uno dei cardini del sistema costituzionale del Regno Unito), poi per la Dichiarazione d’Indipendenza Statunitense (1776), e ancora per la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino tentata durante la Rivoluzione Francese (1789), per giungere ai pilastri delle quattro libertà enunciati nella Carta Atlantica del 1941. Sottoscritta dal Presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt e il Primo Ministro britannico Winston Churchill a bordo della nave da battaglia Prince of Wales, la Carta Atlantica prevedeva l’enunciazione di alcuni principi per il futuro ordine mondiale: divieto di espansioni territoriali, autodeterminazione, democrazia, pace intesa come libertà dal timore e dal bisogno, rinuncia all’uso della forza, sistema di sicurezza generale che permettesse il disarmo. Affermata la libertà di commercio, di navigazione e il diritto dei popoli a vivere liberi, nacque la Dichiarazione Universale dei diritti Umani a cui seguirono il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, e quello sui diritti civili e politici adottati dall’ONU il 16 settembre del 1966.
La Dichiarazione, con lo scopo di impegnare tutti gli Stati che vi hanno aderito a far valere nei loro ordinamenti giuridici diritti individuali, civili, politici, economici, sociali, culturali di ogni essere umano, consta di un preludio e 30 articoli che riportano più volte le parole libertà (di movimento, pensiero, opinione, espressione), dignità (come persona e cittadino), diritto (alla vita, al riposo, allo svago, alla felicità), opinione politica, ricerca del godimento. Voci ed espressioni non più di concezione divina o nozione generica, rivolte tutte - per questo - ai popoli del mondo intero, a salvaguardia di quel godimento naturale che sciolto il lazzo di una moderna élite di filosofi si fa acqua per uomini e donne, sapienti. Donne che da sempre si distinguono da questo o quel canone - sia esso statale che cristiano - attraverso la loro natura universale, laica, sovversiva. Lo sa il Tempo da quanto viviamo tra Stato assolutista e Società Civile dove diritti e libertà non solo vengono distinti e separati in modo impreciso, ma soprattutto classificati a seconda dell'aspetto positivo dei primi, negativo delle seconde. E che i diritti, quali quelle sempre legittime pretese erga omnes di nascere e mantenere tale stato, si accompagnassero alla libertà intesa come integrità fisica – e mentale – innata e necessaria per realizzare la pretesa del non essere costretto, è storia vissuta e scritta, mito nel tempo di un apparato pubblico attento più nel migliorare il sistema economico che a quello sanitario o pensionistico. Eppure mi pare che per definizione diritti e libertà prescindano da questa scelta, o forse non esistono tali che la loro garanzia dipenda dall'intervento degli apparati pubblici?! Le orecchie lottano per non sanguinare al cospetto di cattedratici che parlano di diritto d'asilo, diplomatico, divieto di estradizione dello straniero per reati politici (tra i quali non sono però compresi i reati di genocidio), di espulsione quale atto con cui lo Stato allontana dal proprio territorio l’invasore,inviandolo verso quello di appartenenza o di provenienza, ma permettetemi: perché sottintendere, nel senso di tacere, quel diritto originario che appartiene a uomini, donne, bambini, cittadini e forestieri?
Quella pretesa dell’intollerabile umano che parla un linguaggio innato, temibile invisibile che il più delle volte, reclamando il diritto alla salute si vede arrivare il trattamento sanitario obbligatorio? Pillole rosa, rosse, gialle, verdi, a seconda del sintomo, dei comportamenti, arrivano prevedibili attivando l'esercizio di precisi e puntuali poteri attraverso provvedimenti ablatori quali l'espropriazione o il divieto.
E mi vengono in mente come pillole, tutte quelle disposizioni costituzionali - sui diritti in particolare - che impiegano termini tecnici necessitando sempre di una definizione. Non vi è un concetto naturale che dica con certezza che cosa sia la libertà personale, il domicilio, la corrispondenza, la comunicazione, la riunione, l'associazione, l'incontro. Ogni termine, letto o consultato, si presenta sovente come un problema, fatto, arbitrio di legislatori o giudici impegnati in una disputa tra tecnici. Ma questo non vuol dire affatto che le nozioni che essi evocano debbano essere ancorate agli usi propri degli specialisti!
Ogni uomo ha il dovere di respingere l'idea che tali nozioni siano ferme, ossia intese nel senso in cui venivano e vengono impiegate da una lingua lesta quale quella dei giuristi, molesta come la Guerra Fredda. Ogni uomo deve far in modo che concetti e precetti - dichiarati prima ancora della nostra Costituzione - evolvano così come evolve un insieme di uomini diversi in rapporto tra loro, o così come dovrebbero evolvere legislazione ordinaria e giurisprudenza di merito. Uomini e non giudici che, trasformando termini da condizione statica a sviluppo dinamico, risultano l'unico arbitro sollecitato continuamente nel suo divenire. E badate bene che nel termine uomini sono comprese anche le donne, proprio quelle che a tutt’oggi vengono definite femmine.
Ne approfitto per ricordare a chi l’avesse dimenticato e a chi non era ancora venuto al mondo, un caso paradossale che non posso esimermi dall'intitolare: “Dov'è finito l'angelo del focolare?”. Nel 1961 (sentenza n.64) la Corte Costituzionale dichiarò infondata la questione di legittimità dell'art. 559 cod. pen. che puniva penalmente l'adulterio della donna ma non quello del marito.
La Corte ritenne che non fosse criticabile la scelta del legislatore, perché interpretava fedelmente la maggior gravità che l'adulterio femminile suscitava nella coscienza sociale rispetto a quello compiuto dall'uomo. La sentenza, incentrata sull’art.29 che esalta il ruolo della famiglia “come società naturale fondata sul matrimonio” e stabilisce l'eguaglianza dei coniugi “nei limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare”, indicò il diverso e maggior pericolo per l'unità della stessa che discendeva dall'adulterio della donna rispetto a quello dell'uomo che si sa, per natura è cacciatore! Ma sette anni dopo (sent. 126/1968) la Corte cambia giurisprudenza e dichiara illegittima la norma. Cosa è cambiato!?
“Da allora molto è cambiato nella vita sociale: la donna ha acquisito pienezza di diritti e la sua partecipazione alla vita economica e sociale della famiglia e dell'intera collettività è diventata molto più intensa, fino a raggiungere piena parità con l'uomo”.
Parità, direi io pur essendo classe 1976, riconosciuta un tantino in ritardo (millenni) rispetto alla nascita dell’uomo, sia esso maschio o femmina, liberi. Status originario, caso strano, talmente appariscente da scomodare una corte – dei miracoli? – a giudicare quella “adultera” come affare sociale del tempo, ma non abbastanza punibile la stessa per aver indossato in udienza un vertiginoso bikini, tutt’oggi punibile come atto contrario al comune senso del pudore.
Ancora una volta la Storia incontra le righe di un pensiero che corre sottile quasi a voler incontrare quei filosofi greci che ne sapevano una più del diavolo e che attraverso i loro appunti stilati in notturno, e resi pubblici dal British Museum, tuttora narrano di Ciro re di Babilonia che restituì al suo popolo templi e immagini dall'altro lato del Tigri; di Asöka re di Maurya (oggi India) che nel III sec. a.C. trattò i suoi sudditi come uguali a prescindere dalla loro casta o attività politica.
E proseguendo, stavolta insieme col tempo che non indietreggia ma ricorda, udiamo la voce del sovrano del Mali che nel 1222 proclamò oralmente la Carta Mandem così rivolgendosi ai “quattro angoli del mondo”: “Ogni vita è una vita, ribellatevi alla servitù, perché chiunque è libero di dire, di fare, di vedere”. Fino alla conquista spagnola delle Americhe che, seppur portò alle deportazioni di individui di pelle nera dall'Africa verso il Nuovo Mondo, segnò la fine del concetto medievale di diritto e, tempo dopo, anche la messa in libertà degli schiavi. Esistenza, validità e contenuti dei Diritti Umani continuano a tutt'oggi - 2010 d.C. - ad essere disputa sia in filosofia che in scienze politiche dove, in entrambe, quelle pretese erga omnes a volte vengono autenticate da convenzioni e leggi internazionali, altre violate da ordinamenti giuridici di Nazioni che si dicono ‘repubblicane’, e ancora - sempre bene che vada - tralasciate nei libri di storia che come i codici nessuno consulta più.
Ma la dottrina dei Diritti Umani, dopo secoli di storia, è riuscita ad andare al di là delle singole leggi?
Forma per davvero le basi morali fondamentali per regolare l'ordine geo-politico?
E come mai, sebbene l'ONU abbia riconosciuto i così detti Diritti Umani inderogabili, allo stesso tempo li pone sotto limitazione se e in caso di situazioni di emergenza nazionale?
Mi torna nuovamente alla mano quell'Art.2 della nostra Costituzione, del quale avevo volontariamente omesso: “[…] e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
… E immediatamente sorrido al pensiero di tutti quegli anni trascorsi tra i banchi di un’aula ad imparare a memoria secoli dalla pietra e dalla carta, prima ancora che dalla memoria. Sorrido ma non dimentico, ringrazio coloro che hanno lavorato per conoscere prima, e tutelare poi, quella condizione umana che ora so appartenere soltanto al tempo e all'uomo nel tempo. Quella clessidra magica che non nemica, non colma di difficoltà, non urgente, insomma sincrona, può ora lasciarsi rotolare e sovvertire, per scriverne una diversa di Storia: che siamo uomini, nati liberi, con la pretesa di vivere, col dovere di proteggere il nostro a-venire, qualunque esso sia e in qualunque modo - legittimo, universale, inalienabile - possa essere. Sovversivi, ci chiameranno!? A ispezione, perquisizione, sequestro, ci sottoporranno!? Che importa, abbiamo sempre la libertà di corrispondenza e comunicazione, su carta e telematica, pur sempre che governo e autorità giudiziaria non facciano un… ‘68.
BIBLIOGRAFIA
R. BIN, G. PETRUZZELLA, Diritto Pubblico, Giappichelli Editore, Torino 2009.
G. IUDICA, Codice Civile, Egea Editore, Milano 2009.
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